Il barone baltico (ma nato a Graz, in Austria, il 22 gennaio 1886) Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg è uno di quei personaggi che sembrano usciti dalla fantapolitica o da un fumetto di Hugo Pratt (cosa, quest’ultima, realmente avvenuta), nel senso che, in essi, la realtà storica pare abbia superato la fantasia di un romanziere.
Buddista, nemico giurato del bolscevico, nel caos della guerra civile russa si mise a capo di un esercito mongolo con l’obiettivo di ricacciare i Rossi non solo da Urga (oggi Ulan Bator), ma, possibilmente, dall’intero Estremo Oriente, se non da tutta la Siberia; e finì tragicamente, sconfitto e fucilato, il 15 settembre del 1921, al termine di una epopea travolgente e rapidissima che pare uscita dalle saghe degli antichi Mongoli di Gengis Khan.
Se sono relativamente pochi i lettori comuni che hanno letto le imprese di von Ungern-Sterbnerg sui libri di storia, visto che la sua vicenda riguarda un episodio tutto sommato marginale di una vicenda pochissimo conosciuta in Occidente, in compenso non sono pochi i cultori di esoterismo che si sono imbattuti nel suo nome leggendo il classico libro di Ferdinand Ossendovskij «Bestie, uomini, déi», nel quale il “Barone Nero” - così veniva significativamente chiamato - compare in veste di risoluto capo militare investito di una missione religiosa e quasi mistica: spazzare via il bolscevismo dall’Asia e restaurare la gloria e la potenza perdute dell’Impero mongolo.
Personaggio assolutamente impresentabile nel salotto buono della cultura politicamente corretta, il barone von Ungern-Sternberg. Figuriamoci: perfino gli storici di parte borghese lo hanno sempre trattato da sadico pazzo; si può solo immaginare come lo abbiano descritto quelli di sinistra e specialmente quelli della parrocchia marxista.
Se poi si aggiunge che Ungern-Sternberg carezzò, ad un certo punto, il progetto di restaurare la dinastia Quing sul trono del Celeste impero cinese e che, per soprammercato, era un convinto antisemita e pensava, pare seriamente, ad una «soluzione finale» “ante litteram” del problema ebraico in Estremo Oriente e in tutta l’Asia, si avrà un quadro abbastanza terrificante dell’effetto che fa pronunciare anche solo il suo nome tra studiosi “perbene”.
Sadico e pazzo? Può darsi. Ma, in quanto al sadismo, non si dimentichi che, nella guerra civile russa, si videro altri capi di eserciti, e non solamente “bianchi” ma anche “rossi”, macchiarsi di ogni sorta di atrocità: dall’impalamento dei prigionieri al “passatempo” di gettarli, ancor vivi, nelle caldaie accese delle locomotive. E, in quanto alla pazzia, era proprio sano di mente (e, se sì, peggio ancora) l’ebreo Grigorij Zinoviev, braccio destro di Lenin, allorché calcolava doversi eliminare fisicamente un dieci per cento della popolazione russa, vale a dire una decina di milioni di persone, prima di poter stabilire in quel Paese il Paradiso marxista?
Ma la storia, si sa, la scrivono i vincitori; e: «Vae victis!», «Guai ai vinti!», ammonivano già gli antichi Romani, che di queste cose se ne intendevano parecchio. I Bianchi sono stati sconfitti e con loro i Kolčak, i Semënov e gli Ungern-Sternberg: dunque, perché mai non gettare sulle loro spalle tutta intera la responsabilità della guerra civile del 1918-21 e anche di tutte le belluine atrocità che, nel corso di essa, vennero perpetrate da ogni parte?
Per esempio, il liberale Nathaniel Peffer, già docente alla Columbia University (in: «L’Estremo Oriente»; titolo originale: «The Far East», University of Michigan Press, 1958; traduzione italiana di Gianfranco Faina, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 281), così si esprime:
«L’alternativa [al dominio cinese sulla Mongolia Esterna] si presentò nella persona del barone von Ungern-Sternberg, un nobile russo bianco, letteralmente pazzo: una figura pazza e macabra, con tratti pronunciati di sadismo. Si considerava un moderno Gengis Khan, destinato alla sacra missione di estirpare il bolscevismo e, al tempo stesso, di stabilire un nuovo impero mongolo. Di Gengis Khan Ungern aveva il talento di massacratore e di torturatore, ma non il suo genio militare, la capacità amministrativa e l’intelligenza. Dopo un fortunato attacco contro i cinesi, il russo si impadronì di Urga dove stabilì la sua base, aiutato dai mongoli, che non conoscendo ancora Ungern, lo preferirono ai cinesi. Ungern iniziò il suo governo punteggiandolo di assassinii indiscriminati: finché venne catturato dalle forze bolsceviche e condannato a morte.»
Una presentazione, come si vede, quasi caricaturale, che ricorda più l’enfasi drammatica di un moralista come Tacito (o, in versione più moderna, di un Émil Cioran) che la pacata analisi politica di Erodoto o, in genere, di uno storico che voglia realmente comprendere i meccanismi profondi degli eventi e non si accontenti di tracciare sulla tela del proprio racconto qualche pennellata ad effetto, sempre gradita a quel consumatore di emozioni forti che si annida anche in fondo al più razionale appassionato di storia…
Bene; ma se questo è l’atteggiamento della cultura “comme il faut” nei confronti di Ungern-Sternberg, c’è qualcosa che ha il potere di mandare ancora più in bestia gli intellettuali politicamente corretti, specialmente quelli di casa nostra: abituati - per una lunghissima tradizione che risale almeno a Francesco Petrarca - a mangiare nella greppia dei potenti e a dire e scrivere solo ciò che fa loro piacere.
E questo qualcosa è che un serio cultore italiano di orientalistica, un eminente studioso di sanscrito e di culture dell’India antica, abbia levato addirittura un elogio alla figura e alle gesta del “barone pazzo”; e che, nella propria vita, abbia cercato, in certo qual senso, di farne rivivere lo spirito, arruolandosi volontario, con l’animo assolutamente “puro” di un crociato medievale, nelle SS hitleriane durante la seconda guerra mondiale.
Un personaggio così è tanto politicamente scorretto, che sembra quasi impossibile sia esistito veramente e che non sia, piuttosto, il parto di una surriscaldata fantasia dadaista o surrealista. Invece è esistito davvero ed è stato, lo ripetiamo - piaccia o non piaccia ai signori intellettuali, tutti rigorosamente progressisti e antifascisti - uno dei nostri maggiori indologi e storici delle religioni orientali: Pio Filippani-Ronconi.
Le sua foto giovanile, che lo ritrae in uniforme delle SS, con l’elmetto tedesco sopra lo sguardo ascetico, perso in chissà quali rarefatte, mistiche lontananze, è quanto di più politicamente imbarazzante si possa immaginare: roba da far saltare sulla sedia e da far venire i capelli bianchi a tutto il severo coro dei censori e moralisti di casa nostra. Anche e soprattutto per l’evidente idealismo dell’ancor giovanissimo personaggio: perché, se non era un pazzo criminale (come il suo idolo Ungern-Sternberg), allora vorrebbe dire che perfino tra le “Schutzstaffeln” non vi erano solo dei pazzi criminali, ma anche degli idealisti.
E ciò contrasta irrimediabilmente, insopportabilmente con la Vulgata culturale del Pensiero Unico, secondo la quale mai come nella seconda guerra mondiale si sono visti così nettamente separati i torti e le ragioni: con tutti i “buoni” da una parte (guarda caso, quella che ha vinto e che ancora oggi scrive i libri di storia) e tutti i “cattivi” dall’altra…
Se così non fosse, allora bisognerebbe rivedere non solo i fatti, ma anche tutte le categorie di giudizio finora riconosciute; bisognerebbe ammettere, niente di meno, che non tutti i “buoni” erano veramente buoni, e che forse non tutti i “cattivi” erano proprio così perfidamente cattivi: con buona pace della categoria marxista di ciò che si definisce come ”oggettivamente” progressista o reazionario, e che non ammette alcuno spazio per le intenzioni ideali dell’individuo, ma giudica ogni atto politico con il metro esclusivo e impersonale della lotta di classe e degli effetti evidenti “a posteriori”.
Del resto, non è stato in questo modo che il Partito Comunista ed i suoi volonterosi intellettuali, tipo Concetto Marchesi, hanno sempre sostenuto la perfetta liceità dell’assassinio politico di un vecchio filosofo inerme, che tanto si era adoperato per salvare Ebrei e partigiani arrestati dai nazifascisti: quel Giovanni Gentile che, nella livida Firenze del 1944, si ostinava a parlare di riconciliazione nazionale e chiamava gli Italiani a raccolta, al di là delle barriere ideologiche, per fronteggiare tutti insieme l’immensa sciagura della doppia invasione straniera e della catastrofica sconfitta, e per cercare le strade della ricostruzione morale e materiale?
Ed ecco il ritratto di von Ungern-Sternberg delineato da Filippani-Ronconi; lo proponiamo anche perché il lettore possa stabilire un confronto con il precedente e per trarne da sé le proprie conclusioni (ne riportiamo la sola parte iniziale, tratta dal sito di Arianna Editrice, in data 03/01/2007):
«Sessantasei anni fa, all’alba del 17 settembre 1921, cadeva fucilato a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo, il comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Roman Fiodorovic Ungern-Sternberg, ultimo difensore della Mongolia “esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la morte del “Barone pazzo” nulla più si opponeva al dilagare dell’esercito sovietico di Blücher nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della Rivoluzione si concludeva.
L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione non ebbero, in fondo, un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della Guerra Civile, specialmente dopo il crollo dell’esercito bianco di Kolcak che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente cessato di esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito, formato da Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari Tibetani e Guardie Bianche di ogni provenienza,era soprattutto di natura spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una corrente tantrica facente capo allo Hutuktu di Ta-kuré e suo braccio militare durante l’anno in cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio, cioè sin dalla Conferenza pan-mongola di Cita del 25 febbraio 1919, dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore dell’Asia, “affinché da lì partisse la vasta liberazione del mondo”. La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile. Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente, oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsing-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si sarebbe attuata la rigenerazione del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”). Shambhala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba- Bzan-po e i suoi 24 successivi eredi perpetuavano il segreto insegnamento del Kalacakra, la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500 anni fa.
2500 anni fa è esattamente la metà del ciclo di 5000 che, secondo la tradizione, separa l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre, Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo Maitreya, figura probabilmente mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore” (difatti l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe “seduto al modo barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso Hutuktu di Urga, che Ungern liberandolo dai Cinesi, aveva ristabilito sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato quale proiezione fisica (sprul-sku) di Maitreya, prefigurazione, quindi, del Buddha venturo. Ungern, consapevole nonostante questa vittoria della sua fine imminente, si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale”del divenire della storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino in basso. Pertanto, nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio all’11 luglio 1921) cercò di tramutare questo istante in un “periodo senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera spirituale, liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la Cina dei “Signori della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva inarrestabile dal Nord, dalla Siberia…»
Ecco una lettura “diversa” da quella banalmente politico-militare, cui fanno riferimento pressoché tutti gli storici, di destra e di sinistra, che si sono occupati, in genere assai distrattamente, della vicenda di Ungern-Sternberg, vista come una semplice appendice della più vasta guerra civile tra Bianchi e Rossi nell’ex Impero zarista.
Si potrà dissentire fin che si vuole; si potrà obiettare che Filippani-Ronconi idealizza e sopravvaluta il suo beniamino; si potrà osservare che non tiene in alcun conto i fattori economici e sociali della lotta e che si abbandona a delle fumisterie mistico-esoteriche. Sta di fatto, però, che, nella sua lettura del “fenomeno” Ungern-Sternberg, si tenta, almeno, uno sforzo di comprensione profonda del personaggio e del suo movimento, oltrepassando la semplice descrizione esteriore, meramente psicologica e, al limite, psichiatrica, di cui abbiamo fornito un esempio nel brano di prosa di Nathaniel Peffer sopra riportato.
Il minimo che si possa dire, infatti, di un approccio puramente politico-militare alla vicenda di Ungern-Sternberg, è che esso pecca di povertà interpretativa e di schematizzazione ideologica. Che cosa significa, ad esempio, affermare - come ha fatto Peffer - che «… Dopo un fortunato attacco contro i cinesi, il russo si impadronì di Urga dove stabilì la sua base, aiutato dai mongoli, che non conoscendo ancora Ungern, lo preferirono ai cinesi»? Possibile che i Mongoli lo abbiano accolto come un liberatore e che lo abbiano sostenuto, semplicemente perché «ancora non lo conoscevano», cioè non conoscevano la sua follia e il suo sadismo? Via, questo non è un ragionare da storico, ma un fraseggiare da romanziere.
Il fatto è che la visione materialistica e razionalistica della storia si preclude da se stessa l’intima comprensione della dimensione spirituale di essa; e, così come riduce la storia delle religioni a mera psicopatologia delle folle e a mistificazione deliberata dei preti, parimenti non riesce a vedere, in figure religiosamente ispirate come quella di Ungern-Sternberg, che l’aspetto esteriore, magari sconcertante o grottesco, sicché le sfuggono le intime motivazioni e le profonde dinamiche della connessione tra storia politica e storia dello spirito.
Vogliamo piuttosto avere l’onestà intellettuale di dire che, a molti di noi, non piace quel tipo di religiosità, perché difforme dai comodi schemi occidentali che, ormai da tanto tempo, ci siamo costruiti in proposito, sempre nella pretesa di spiegare tutto e razionalizzare tutto?
E vogliamo avere l’onestà intellettuale di dire che, davanti a uno studioso come Pio Filippani-Ronconi, molti di noi proprio non riescono a digerire l’idea che nel 1943, per un giovane poco più che ventenne, l’arruolamento volontario nelle SS hitleriane possa essere scaturito da un sincero, per quanto discutibilissimo, atto di fede spirituale?
Solo così si spiega la bigotta gazzarra che alcuni lettori de «Il Corriere della Sera» scatenarono nel gennaio 2001, quando uno di loro scoprì che Filippani-Ronconi, chiamato a collaborare con un paio di articoli a quella testata, aveva militato nelle SS tedesche quasi sessant’anni prima. Nulla da dire, peraltro, sulle onorate firme di decine di ex scribacchini fascisti che nel 1945, con il “salto della quaglia”, passarono senza batter ciglio nella stampa e nell’editoria democratiche e progressiste, il più delle volte all’ombra dello staliniano Partito Comunista d’Italia.
A ben guardare, la vicenda politica di Ungern-Strernberg e quella intellettuale di Filippani-Ronconi hanno una cosa in comune: la ribellione contro la modernità e la ricerca, nelle profondità dello spazio euroasiatico (simboleggiato dal mito dei Shambhala, sede del guénoniano “Re del Mondo”), di una alternativa spirituale al suo dilagare.
È una chiave interpretativa che può non piacere, ma che ha una sua plausibilità e, soprattutto, una sua dignità intellettuale e spirituale.
In fondo, come diceva Julius Evola, non si tratta forse, in questo scorcio oscuro della modernità, di “cavalcare la tigre”, ovvero di lottare nel cavo fra due onde della storia, allo scopo di isolare un istante fuori del tempo su cui fare perno per ridestare le assopite, ma sempre intatte, energie spirituali, che giacciono in corrispondenza dell’Axis Mundi?
Francesco Lamendola
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