Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post

sabato 22 gennaio 2011

Ermanno Visintainer, Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako, Vox Populi, Pergine Valsugana 2010

Cupola of the Yassawi Mausoleum in Türkistan (Turkestan). The mausoleum has been built between 1397 and ca. 1600 and still looks unfinished. However, the minor cupola presents fine tilework.

                                                                                        

Nato verso il 1100 a Sayrâm (odierno Xinjiang), Ahmed ibn Ibrâhîm ibn ‘Alî è noto con l'appellativo di Yesevî (Yassawi) dal nome della città di Yesî (odierno Kazakistan), dove fece i suoi primi studi. La sua istruzione proseguì a Bukhara, dove fu discepolo di Yûsuf Hamadânî (441/1049-535/1140); tornato a Yesî, vi morì nel 562/1166-1167. In seguito Yesî fu chiamata Türkistan, donde il titolo di Hadrat-i Turkestân attribuito ad Ahmed. Sulla sua tomba e sulla vicina moschea, lungo la riva del Sîr-Darya, nell'VIII secolo dell'Egira Tamerlano fece erigere un mausoleo a doppia cupola, che, completato nell'801/1398, divenne meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente di Uzbechi e Kazaki.
Infatti la Yeseviyye, l'ordine iniziatico fondato da Ahmed Yesevî, attraverso le sue varie diramazioni svolse un ruolo fondamentale nell'islamizzazione delle tribù turche e nell'adattamento dell'Islam all'ambiente delle steppe. Nelle pratiche del sufismo vennero integrati diversi elementi tipici della cultura centroasiatica: la partecipazione promiscua di uomini e donne alle assemblee rituali, il sacrificio di vittime animali e la consumazione del banchetto (shilen) presso i sepolcri dei santi, l'uso del turco nelle recitazioni di testi diversi dall'orazione canonica. Ibn Battuta, il quale visitò l'accampamento invernale di ‘Alâ' ad-dîn Tarmâshirîn (1326-1334), sultano della Transoxiana, riferisce (III, 36) che dopo l'orazione mattutina quest'ultimo recitava il dhikr in lingua turca.
La Yeseviyye fu una confraternita di nomadi che si diffuse su una vasta porzione dello spazio eurasiatico: dal Turkestan cinese alla regione della Volga, dalle Steppe dei Kirghisi al Khorasan, all'Azerbaigian, all'Anatolia, dove produsse uomini come Yûnus Emre (m. 1320?), il più grande santo e poeta dell'età selgiuchide.
Poeta, oltre che santo, fu d'altronde lo stesso Ahmed Yesevî, sotto il nome del quale ci è pervenuto un Dîvân-i Hikmet ("Canzoniere della Saggezza"). Composto probabilmente in una lingua vicina a quella del Qutadgu Bilik (la prima opera letteraria della cultura musulmana d'epoca qarakhanide, sec. XI), il Canzoniere ci si presenta oggi in una lingua ciagatai alquanto tarda. Undici hikmet di questo Canzoniere (componimenti articolati in quartine di versi in metrica sillabica) sono stati riportati nel testo originale, con traduzione italiana a fronte, nella monografia che Ermanno Visintainer ha intitolata a Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako. Questo saggio del turcologo trentino (preceduto da una Presentazione dell'ambasciatore della Repubblica del Kazakhstan presso la Repubblica Italiana e da una Prefazione dello scrittore Pietrangelo Buttafuoco) inquadra la "vita leggendaria" di Ahmed Yesevî in un contesto culturale, quello centroasiatico, di cui viene messa in luce la caratteristica varietà di forme tradizionali: dal monoteismo uranico precursore di quello islamico al taoismo venuto dalla Cina, dall'arcaico sciamanesimo autoctono allo zoroastrismo irradiatosi dall'Iran, dal buddhismo al cristianesimo nestoriano e manicheo.
Illustrando l'eredità spirituale di Ahmed Yesevî attraverso una rassegna delle pratiche e degli insegnamenti che furono trasmessi alle successive generazioni di discepoli, l'Autore si sofferma in particolare sulla "khalvet, la solitudine ascetica". In effetti Ahmed Yesevî attribuì grande importanza al ritiro spirituale, sicché è possibile considerare la Khalvetiyye, che si sviluppò nella regione caucasica e si diffuse in Anatolia, come un'appendice occidentale della Yeseviyye. Per quanto concerne filiazioni di questo genere e, in particolare, la questione della derivazione della Naqshbendiyye e della Bektashiyye, le due confraternite più diffuse nel mondo turco e poi irradiatesi in gran parte del continente eurasiatico, l'Autore mantiene un atteggiamento di corretta cautela: sia riguardo al rapporto tra Ahmed Yesevî e Hâjjî Bektâsh, sia riguardo alla nascita della Naqshbendiyye, che, se fosse ricollegabile alla Yeseviyye, rappresenterebbe "l'eredità spirituale del Maestro verso Oriente in senso lato, dal subcontinente indiano all'Indonesia, ma anche ad Occidente, verso il mondo anatolico" (p. 135).

Hajji BektashVeli



Inserita il 17/01/2011 alle 11:47:18                                          
Recensione scritta da Claudio Mutti
                                          *************

Hajji Bektash Veli «Der heilige Hadschi Baktāsch»; türkische Schreibweise: Hacı Bektaş Veli war ein muslimischer Mystiker (Sufi) aus Khorasan, der in der zweiten Hälfte des 13. Jahrhunderts in Anatolien lebte und wirkte. Nach ihm ist die Bektaschi-Tariqa (Bektaschi-Derwisch-Orden) benannt, die aber aller Wahrscheinlichkeit nach nicht von ihm selbst gegründet wurde. Über sein Leben ist nicht viel bekannt. Es gilt zwar als gesichert, dass eine Person mit diesem Namen existiert hat und bedeutenden Einfluss auf die Bevölkerung Anatoliens hatte. Alles weitere fällt jedoch größtenteils in den Bereich der Legende.Die Hauptquelle für das Leben Hajji Bektash Velis ist die Walāyat-Nāma aus dem späten 15. Jahrhundert. Hadschi Baktāsch wurde in Nischapur im Westen Khorasans (heute Iran) geboren. Nach der Walāyat-Nāma war er der Sohn eines gewissen SayyidImam Mūsā al-Kāẓim, des 7. Imams der Imamiten. Jedoch ist das ein ganz offensichtlicher Fehler des Autors, denn seine Angabe ist, zeitlich betrachtet, unmöglich. Ebenfalls ist es durch andere Quellen nicht nachweisbar, ob er tatsächlich aus Nischapur stammte. Die Bezeichnung "Khorasan erenleri""die Heiligen Khorasans") war bei den turkmenischen Nomaden Anatoliens ein allgemeiner Ehrentitel für viele Mystiker und religiöse Gelehrten, denn das ostpersische Khorasan war zu jener Zeit ein Zentrum der islamischen Blütezeit. Anders betrachtet ist die Bezeichnung aber auch gleichzeitig ein Indiz dafür, dass Hadschi Baktāsch wohl tatsächlich aus Khorasan stammte und mit hoher Wahrscheinlichkeit persischer, denn zur Lebzeit Hadschi Baktāschs hatte sich das Reich der Rum-Seldschuken zu einer Fluchtstätte für persische Gelehrten und Heilige entwickelt, die aus ihrer Heimat aufgrund der mongolischen Invasion fliehen mussten - das ist wohl der Kern der türkischen Redewendung. (siehe auch: Rumi, Attar) Muhammad bin Musā und, so wird behauptet, ein Urenkel des (türk. Abstammung war
Der Legende nach war er zum Zeitpunkt seiner Flucht nach Anatolien ein vierzigjähriger Derwisch der Yesevi-Tariqa und der khalifa (Stellvertreter) Ahmad Yasawis, des Begründers des Ordens. Aber auch diese Behauptung ist zeitlich betrachtet unmöglich und ist eher als eine spätere Innovation aufzufassen, welche die beiden Heiligen zusammenführen soll.
Glaubhafter ist hingegen die Annahme, dass Hajji Bektash Veli zu den Qalandari-Sufis Bābā Rassul-Allāh Eliyās Khorāsānīs (1240 hingerichtet) gehört hat. Diese Annahme wird durch frühe Chronographen der Mevlevi-Derwische indirekt bestätigt, die ihn als einen anti-orthodoxen Mystiker mit "gnostischer Illumination" beschrieben, welcher "die Scharia vollkommen ablehnte" - Eigenschaften, die für ostpersische Qalandari-Mystiker jener Zeit sehr typisch waren.
Hajji Bektash Veli ließ sich in Sulucakarahöyük (heute Hacıbektaş, Provinz Nevşehir) nieder, möglicherweise aus dem Grund, weil es dort zur damaligen Zeit wenig Tekkes gab. Sulucakarahöyük war ein entlegener Ort, weit entfernt von den Zentren Anatoliens, wo das politische Geschehen und ein reger Handel stattfanden.
Aggiunto da Janua Coeli il 21.01.2011




mercoledì 19 gennaio 2011

Il veicolo linguistico dell'egemonia atlantica



“Non vi lasciate sedurre da quell’anglomania che regna da qualche anno in qua in alcuna parte d’Italia”. (Metastasio, Lettera al Rovatti del 18 gennaio 1775)


La lingua del sì                                                             

Come le analoghe denominazioni relative agli Arabi, ai Turchi, agli Austriaci, ai Russi e ad altri popoli costruttori d'imperi, così anche Romanus è uno di quegli aggettivi e sostantivi che, dopo aver indicato l'appartenenza ad una comunità nazionale o tribale o ad un luogo particolare, persero quasi del tutto l'originario valore etnico per rivestire un'accezione giuridica e politica. Fu così che tra il IV e il V sec. d. C. l'africano Agostino poté scrivere che nell'Impero romano "omnes Romani facti sunt et omnes Romani dicuntur" (1) e un alto funzionario imperiale d'origine gallica, Claudio Rutilio Namaziano, componeva l'ultimo inno in onore di Roma celebrandone la missione: "Fecisti patriam diversis gentibus unam, (...) urbem fecisti quod prius orbis erat" (2).
Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un'unica patria per le diversae gentes comprese tra l'Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un'unica lingua comune, poiché nella parte orientale, sia prima sia dopo la divisione ufficiale tra Arcadio ed Onorio, non giunse mai a termine il processo di romanizzazione linguistica. "E' noto che il Latino trovò sempre molta difficoltà a imporsi in quei territori in cui si trovò in concorrenza col Greco, lingua che aveva, presso gli stessi Romani colti, un maggiore prestigio storico e culturale" (3). Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell'esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell'ecumene imperiale non potevano adempiere.
Con la fine dell'Impero d'Occidente, ebbe luogo quella frantumazione della latinità che favorì il processo di formazione delle parlate romanze, sicché sul principio del sec. XIV l'Europa appariva agli occhi di Dante articolata in tre aree linguistiche: quella corrispondente alle parlate germaniche e slave nonché all'ungherese, quella greca e quella neolatina, all'interno della quale egli poteva ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d'oc), francese (lingua d'oil) e italiano (lingua del sì). Ma Dante era ben lungi dall'usare l'argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, solo la restaurazione dell'unità imperiale avrebbe potuto far sì che l'Italia, "il bel paese là dove il sì suona" (4), tornasse ad essere "il giardin dello 'mperio" (5). E l'impero aveva la sua lingua, il latino, poiché, come diceva lo stesso Dante, "lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile" (6).
Se nella visione di Dante l'identità linguistica e quella nazionale rimanevano all'interno dell'ideale cornice dell'Impero, con la fine del Medio Evo venne in primo piano il nesso di lingua, nazione e Stato nazionale. Tale nesso "si rafforzò poi per il sorgere d'una politica linguistica degli stati, si ravvivò nelle polemiche letterarie e in quelle religiose, acquistò colore e vivacità nelle fantasie popolaresche o semidotte sui caratteri delle lingue e nazioni europee, e assunse, infine, la dignità d'una idea centrale nelle meditazioni di Francesco Bacone e di Locke, di Vico e di Leibnitz sulla storia linguistica e civile dei popoli" (7).
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, quando in alcune parti d'Europa venne proclamato il principio dell'autonomia politica delle nazionalità, la lingua diventò bandiera di lotta politica. "Se chiamiamo popolo gli uomini che subiscono le medesime influenze esterne sui loro organi vocali e che, vivendo insieme, sviluppano continuamente la propria lingua comunicando sempre tra loro; dovremo dire che la lingua di questo popolo deve essere di necessità quella che è e non può essere diversa. (...) Tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da lui parlata" (8). Così, attraverso queste parole di Fichte, si esprime il nazionalismo romantico agl'inizi dell'Ottocento, mentre si manifesta l'esigenza che ad ogni unità statale corrisponda una parallela unità linguistica. "Ogni sistema linguistico, in quanto condizione di reciproca comprensione e affratellamento, è una spinta verso un disegno politico di indipendenza, di unità" (9). Dove l'aspirazione all'autonomia era ostacolata dalla dispersione della nazione in una serie di entità politiche subnazionali, il richiamo all'unità linguistica diventava fattore di unità; ma se il progetto d'autonomia doveva confrontarsi con una formazione statale sopranazionale, allora l'enfatizzazione dell'identità linguistica veniva a costituire un fattore di ulteriore disgregazione dello spazio politico europeo.
Per quanto riguarda in particolare il Risorgimento italiano, se esso da una parte contribuì alla disgregazione dello spazio politico europeo sottraendo all'impero absburgico i territori italiani direttamente o indirettamente soggetti all'Austria, dall'altra si trattò pur sempre di un processo unitario, perché il potere dei Savoia si estese su tutta una Penisola che era precedentemente frazionata in sette entità politiche. Fu così che nel Regno d'Italia la scuola, la burocrazia e l'esercito modificarono le condizioni linguistiche e contribuirono alla diffusione della lingua comune; all'azione degli organi del nuovo Stato unitario si aggiunse quella svolta dalla stampa (quotidiana, periodica e non periodica) e dagli spettacoli, poi dal cinema sonoro e dalla radio.
Con la Grande Guerra, che favorì la temporanea convivenza di soldati originari di ogni parte del territorio nazionale, il lessico italiano si arricchì di unità lessicali provenienti da vari dialetti. Ma le sorti della lingua italiana furono decise dagli esiti della successiva guerra mondiale: l'invasione e l'occupazione dell'Italia e il suo inserimento nell'area geopolitica egemonizzata dalle Potenze atlantiche segnarono l'inizio di un processo linguistico che ha condotto alla nascita dell'attuale itanglese. Giacomo Devoto ha registrato l'avvio di tale processo usando la terminologia anodina e fredda del glottologo: "Una impronta interessante anglo-americana lasciarono, irradiando da Napoli, i ragazzi detti sciuscià (dall'inglese "shoeshine"), in quanto si offrivano come "lustratori di scarpe". Anche segnorina, riferita al significato restrittivo di "passeggiatrice", è sì l'italiano "signorina", ma la pronuncia E della vocale protonica vi è rimasta come traccia della pronuncia normale sulla bocca dei militari anglo-americani a Napoli, e cioè del filone che le ha assicurato la fortuna" (10).


L'influsso inglese sull'italiano

La lingua inglese, diventata egemone nel corso di quel "secolo americano" che ha visto la conquista statunitense dell'Europa, fino al XVIII secolo esercitò sull'italiano un influsso praticamente irrilevante. Nel Dugento troviamo attestato un unico anglicismo, sterlina; nel Trecento è documentata la presenza di poche voci del lessico commerciale; fra il Quattrocento e il Cinquecento abbiamo una quarantina di termini, peraltro scarsamente diffusi, attinenti alla vita politica e civile dell'Inghilterra; al Seicento, il secolo dei primi dizionari italiano-inglesi, risalgono milord e rum; nel Settecento, per lo più attraverso la mediazione del francese, entrano in italiano e vi attecchiscono numerosi anglicismi appartenenti soprattutto al lessico politico, a riconferma della conclusione tratta da Arturo Graf al termine di un suo celebre studio: "l'anglomania e l'influsso inglese furono nel Settecento uno dei fatti più notabili della storia nostra, produttivo di effetti molteplici" (11).
Ma è nel corso dell'Ottocento che si fanno più strette le relazioni culturali tra Italia e Inghilterra. Grande è in quel secolo la fortuna italiana di poeti quali Alexander Pope, John Milton e George Byron e di romanzieri quali Walter Scott, Fenimore Cooper e Charles Dickens, nonché la diffusione di opere storiche, giuridiche, scientifiche e tecniche tradotte dall'inglese in italiano. Gli anglicismi ottocenteschi si presentano spesso in forma adattata (abolizionista, assolutista, radicale, boicottare, ostruzionismo ecc.); ma a volte compaiono in forma non adattata, come nel caso di leader, meeting, premier, budget, o di self government e platform ("programma di partito" nell'inglese d'America), cui però subentrano successivamente i calchi autogoverno e piattaforma. Dato l'interesse per il sistema politico inglese, particolarmente vivo tra i liberali italiani del secolo decimonono, il numero degli anglicismi è elevatissimo nella terminologia politica; ma se ne diffondono parecchi anche nel settore della moda (dandy, jersey, plaid, smoking, tight ecc.), dei mezzi di comunicazione (ferry-boat, tandem, cab, tunnel ecc.), delle attività agonistiche (foot-ball, tennis, base-ball ecc.), del commercio (copyright, manager, stock ecc.), della gastronomia (sandwich, brandy, whisky ecc.) e in altri campi ancora (12).
Nella prima metà del Novecento, la lingua europea più conosciuta in Italia era il francese. Le prime cattedre universitarie di inglese vennero istituite nel 1918; a quel medesimo anno risale la nascita dell'Istituto Britannico fiorentino, che, "con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario" (13). La Grammatica ragionata della lingua inglese di V. Grasso, pubblicata a Palermo nel 1924, arriva all'ottava edizione nel 1965; il Corso di lingua inglese moderna di M. Hazon esce in ventitré edizioni fra il 1933 e il 1963; la Grammatica della lingua inglese per gli alunni degli istituti tecnici, ginnasi moderni e scuole commerciali di G. Orlandi conosce tre edizioni e tre ristampe fra il 1923 e il 1935. Nondimeno nella prima metà del secolo la conoscenza dell'inglese rimane piuttosto limitata, sicché "molte volte la pronunzia italiana delle parole inglesi rispecchia la forma grafica della parola, cioè si pronunziano le parole inglesi come se fossero italiane o si adottano soluzioni di compromesso; e questo prova come la maggior parte dei prestiti dall'inglese siano giunti per via scritta, a differenza di quanto era avvenuto precedentemente per i prestiti dal francese, giunti in gran parte per via orale" (14). Gli anglicismi che, in forma sia adattata sia non adattata, penetrano in italiano fino alla Seconda Guerra Mondiale riguardano le attività agonistiche (bob, corner, dribblare, goal, golf, rally ecc.), il campo degli affari (business, slogan, traveller's cheque, trust ecc.), il mondo dello spettacolo (cast, film, gag, girl, music-hall, recital, vamp ecc.), l'abbigliamento (golf, nylon, slip, trench ecc.), i rapporti sociali e politici (boss, fair play, gentlemen's agreement, isolazionismo, obiettore di coscienza ecc.) e ad altri campi semantici di vario genere (bar, camping, carta carbone, clacson, cow-boy, globe-trotter, hobby, jolly, pipeline, proibizionismo, sex appeal, stilografica ecc.).
Ma a determinare la definitiva prevalenza dell'inglese sul francese furono la sconfitta dell'Europa nella Seconda Guerra Mondiale e l'ampia diffusione della "cultura" anglo-americana nell'area egemonizzata dagli Stati Uniti d'America; in seguito all'assorbimento della Penisola nell'Occidente a guida statunitense, un numero enorme di anglicismi e di americanismi invade la lingua italiana e i suoi stessi dialetti (15). Una percentuale consistente riguarda il mondo della musica, dei balli e dello spettacolo: boogie-woogie, rock and roll, juke-box, night-club, strip-tease, show, happening, quiz ecc.; dei giochi: bowling, flipper, minigolf ecc.; dell'alimentazione: fast food, pop corn, drink ecc.; dell'abbigliamento: baby-doll, beauty-case, blue-jeans, montgomery, topless ecc.; dei trasporti: guardrail, jet, scooter, ski-lift, terminal ecc.; delle attività produttive e commerciali: full time e part time, leasing, marketing, self-service, supermarket, discount, duty free, franchising ecc.; delle professioni: hostess, steward, tour operator, baby-sitter, dog-sitter, call-girl, escort ecc.; dell'informatica: computer, bit, hardware, mouse, internet, web, link, e-mail, social network, bannare, chattare ecc.; della vita sociale: escalation, establishment, leadership, public relations, top secret, privacy ecc.; della delinquenza: kidnapping, killer, racket, pusher, new economy, hedge fund, subprime, broker ecc.; perfino degli stati d'animo: relax, stress, suspense ecc. Ma c'è di più: sono penetrati nell'uso italiano anche acronimi (NATO, VIP, AIDS ecc.), suffissi (come -ale in demenziale, dirigenziale ecc.), interiezioni e didascalie fumettistiche avvertite come tali (sigh, gulp, wow), perfino nomi personali (William, Rudy, Jessica ecc.). Oltre all’abominevole okay, addirittura l’avverbio della risposta affermativa: yes.
Non bisogna quindi meravigliarsi più di tanto, se da un convegno di Federlingue (Associazione italiana di servizi linguistici) tenuto nel 2010 è emerso che negli ultimi otto anni l'uso di anglicismi e americanismi nei testi italiani è aumentato del 773% (16).


La lingua dello yes

Il glottologo Paolo Zolli, che a metà degli anni Settanta elencava buona parte dei termini elencati più sopra per esemplificare "l'influsso prepotente dell'inglese sull'italiano in quest'ultimo dopoguerra" (17), osservava: "Il modello di vita americano, al quale l'occidente guarda, fa sì che si adoperino anglicismi in luogo di parole italiane che pure esistono, o potrebbero esistere" (18). Che esistano parole italiane corrispondenti sotto il profilo semantico agli anglicismi e americanismi attualmente in voga, lo ha cercato di dimostrare un volenteroso dilettante, compilando una sorta di Appendix Probi adeguata alla bisogna (19). Il fatto che iniziative di questo genere non vengano assunte dagl'italianisti universitari è emblematico della colpevole indifferenza con cui gl'intellettuali assistono a una situazione così grave. Particolarmente emblematico, nonché drammatico, è che i dizionari della lingua italiana, adottando non il criterio normativo, bensì quello "della massima indiscriminata apertura", registrino qualunque vocabolo dell'itanglese, da acker (sic) a zapping (20).
Perfino un autorevole cruscante, Giovanni Nencioni, ha affermato con noncuranza che "non conviene dar peso agli anglismi di moda, snobistici, destinati a tramontare (...) né a quelli che ammiccano intenzionalmente all'appartenenza al costume straniero, come fast food, che in bocca italiana ha la stessa intenzione connotativa di pizza o spaghetti in bocca americana". Il vero problema sarebbero invece gli anglicismi scientifici e soprattutto quelli tecnologici, a proposito dei quali Nencioni richiama un analogo precedente della storia linguistica italiana: "la penetrazione, nell'Italia settecentesca, della cultura illuministica per mezzo del principale suo strumento, la lingua francese, che inondò l'italiano di francesismi, provocando una sdegnata reazione puristica" (21).
Ma l'analogia storica proposta da Nencioni zoppica un po'; d'altronde è lui stesso a rilevare la differenza tra il francese del XVIII secolo e il tipo di inglese attualmente in uso: "Quel francese era la raffinata voce del più elevato strato etico e speculativo di una cultura nazionale non molto settorializzata e radicata in un profondo humus umanistico", mentre l'inglese globalizzato "ha assunto il compito di pragmatico interprete di relazioni internazionali e di diffusore dell'attività scientifica e tecnologica del mondo anglosassone (e del restante mondo che condivide quell'attività), con spirito, se non culturalmente neutrale, prevalentemente strumentale. Funge infatti da lingua settorialmente specificata (bancaria, commerciale, diplomatica, informatica ecc.) oppure circùita, nei suoi limiti di lingua naturale, quei risultati delle scienze pure ed applicate che negli aspetti più esoterici ed essenziali si servono di codici artificiali accessibili ai soli iniziati" (22).
Il confronto tra il ruolo svolto dal francese settecentesco e quello dell'inglese odierno costituisce un argomento che potrebbe essere approfondito richiamando le considerazioni svolte a suo tempo da Giacomo Leopardi circa i francesismi. "Certo è - leggiamo nello Zibaldone - che non ripugna alla natura né delle lingue, né degli uomini, né delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell'eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d'idee con parole e modi appresi e ricevuti da un'altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com'è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l'influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa" (23). I francesismi che penetravano nell'italiano fra il Settecento e l'Ottocento erano dunque degli europeismi, mentre gli anglicismi odierni sono in realtà degli occidentalismi, se mi è lecito far uso di tali termini. In secondo luogo, se Leopardi riteneva che l'influenza del francese sull'italiano non pregiudicasse i princìpi dell'eleganza e del bello, chi potrebbe seriamente sostenere la compatibilità di tali princìpi con la lingua dello yes?
Infatti la condizione sulla quale il Leopardi insiste è che il barbarismo, oltre a non essere l'inutile doppione di un vocabolo italiano, "non ripugni dirittamente, anzi punto, all'indole generale e all'essenza della lingua, né all'orecchio e all'uso de' nazionali" (24). Ora, parole come spot, flash, staff, team, soft, hard, freak, punk ecc. ripugnano per l'appunto "all'indole generale e all'essenza" dell'italiano a causa della diversità di struttura fonetica, mentre l'italiano sembra aver perso la sua tradizionale capacità di adattare al proprio sistema fono-morfologico la parola straniera (ad es. trasformando beef-steak in bistecca) o di realizzare calchi formali (ad es. riproducendo skyscraper nella forma grattacielo).
La posizione di Nencioni riferita più sopra sembra confermare quella di un brillante intellettuale non specialista, il quale, volendo servirsi dei risultati acquisiti dall'indagine etimologica per dedurne informazioni relative alla storia del popolo italiano e chiarirne in particolare i rapporti coi vicini europei e mediterranei, ha preso in esame i prestiti francesi, germanici, iberici ed arabi, ma ha escluso gli anglicismi, in quanto la caterva alluvionale di parole inglesi e americane si è riversata "sull'Italia, non sulla lingua italiana. (...) Restano inglesi, non diventano italiano" (25). Verissimo. In genere gli anglicismi, a differenza dei prestiti provenienti da altre lingue (completamente assimilati al sistema fono-morfologico dell'italiano), mantengono l'aspetto formale originario, anche se spesso vengono trascritti con una grafia imprecisa e pronunciati in maniera approssimativa. Rientrano dunque in quella categoria di parole di prestito che i glottologi tedeschi chiamano Fremdwo"rter, "parole straniere", e che dovrebbero essere, "dalla maggior parte dei parlanti colti, ritenuti come un corpo estraneo, come una moneta straniera" (26).
Così almeno teorizzava Carlo Tagliavini (1903-1982), il quale preferiva chiamare "prestiti di moda" quelli che lo svizzero Ernst Tappolet (1870-1939) aveva chiamati Luxuslehnwörter, "prestiti di lusso" (27). Ma l'attuale invasione linguistica angloamericana non è più riducibile a un fenomeno di moda e tanto meno di lusso, sicché tali definizioni andrebbero aggiornate e il fenomeno dovrebbe essere considerato alla luce di esplorazioni in ambiti extralinguistici. Ma la linguistica accademica non è solita occuparsi di fattori che essa ritiene estranei al proprio campo d'indagine, quali il collaborazionismo della classe politica, la complicità di un ceto intellettuale mercenario e il conformismo della plebe dei dominati. Il nesso tra questione linguistica e questione politico-sociale si trova invece esplicitamente indicato in una riflessione del già citato Zibaldone leopardiano: "Per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, - annotava il poeta in data 16 marzo 1821 - bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani" (28).

                                                                           *******************


1. Sant'Agostino, Ad Psalmos, LVIII, 1.
2. Rutilio Namaziano, De reditu, I, 63-66.
3. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 174.
4. Dante, Inf. XXXIII, 80.
5. Dante, Purg. VI, 105.
6. Dante, Convivio, I, 5.
7. T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, Bari 1965, p. 10.
8. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 58 e 69.
9. G. Devoto, Il linguaggio d'Italia, Rizzoli, Milano 1974, p. 295.
10. G. Devoto, op. cit., pp. 327-328.
11. A. Graf, L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Loescher, Torino 1911, p. 426.
12. A. Benedetti, Le traduzioni italiane da Walter Scott e i loro anglicismi, Olschki, Firenze 1974; A. L. Messeri, Voci inglesi della moda accolte in italiano nel XIX secolo, "Lingua nostra", XV, 1954, pp. 47-50; A. L. Messeri, Anglicismi ottocenteschi riferiti ai mezzi di comunicazione, "Lingua nostra", XVI, 1955, pp. 5-10; A. L. Messeri, Anglicismi nel linguaggio politico italiano nel '700 e nell''800, "Lingua nostra", XVIII, 1957, pp. 100-108.
13. I. Baldelli in: B. Migliorini e I. Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.
14. P. Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 60.
15. Per gli anglicismi del secondo dopoguerra, cfr. I. Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze 1972; I. Klajn, Su alcuni anglicismi nella recente terminologia linguistica, "Lingua nostra", XXXV, 1974, pp. 86-87; G. Rando, Anglicismi nel "Dizionario moderno" dalla quarta alla decima edizione, "Lingua nostra", XXX, 1969, pp. 107-112; G. Rando, Influssi inglesi nel lessico italiano contemporaneo, "Lingua nostra", XXXIV, 1973, pp. 111-120. Per gli anglicismi nei dialetti italiani, cfr. A. Menarini, Sull'"italo-americano" degli Stati Uniti, in Ai margini della lingua, Sansoni, Firenze 1947, pp. 145-208; O. Parlangeli, Anglo-americanismi salentini, "Lingua nostra", IX, 1948, pp. 83-86; G. Tropea, Americanismi in Sicilia, "Lingua nostra", XVIII, 1957, pp. 82-85; G. Tropea, Ancora sugli americanismi del siciliano, "Archivio glottologico italiano", XLIV, 1959, pp. 38-56, XLVIII, 1963, pp. 170-175, LVIII, 1973, pp. 165-182; G. Rando, Alcuni anglicismi nel dialetto di Filicudi Pecorini, "Lingua nostra", XXVIII, 1967, pp. 31-32.
16. Il nostro uso di parole inglesi è cresciuto del 773% in otto anni, "Corriere della Sera", 10 marzo 2010.
17. P. Zolli, op. cit., pp. 67-68.
18. P. Zolli, op. cit., p. 67.
19. A. Mezzano, L'antibarbaro. Vocabolario dell'italianità, Jivis Editore (mancano le indicazioni del luogo e della data d'edizione).
20. G. Devoto - G. C. Oli, Nuovo dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1987.
21. G. Nencioni, Il destino della lingua italiana, Accademia della Crusca, Firenze 1995, p. 3.
22. G. Nencioni, op. cit., pp. 5-6. L'evocazione di concetti quali "esoterismo" e "iniziazione", in relazione all'attuale funzione dell'inglese, mi induce qui ad una digressione che cercherò di contenere entro limiti accettabili. Più d'una volta sono stato tentato di riconoscere nell'inglese odierno le caratteristiche di una "lingua sacra", ma, ovviamente, in quel senso invertito del termine che si rapporta all'idea di "controiniziazione", intesa nel senso precisato da René Guénon. Infatti, come la fase attuale della Zivilisation occidentale è caratterizzata da una parodia della spiritualità (il fenomeno New Age), del diritto sacro (i "diritti umani"), del culto dei martiri (la Shoah), del messianismo escatologico (la vaticinata fine della storia all'insegna dell'universal trionfo liberalcapitalista), della musica liturgica (il jazz, il rock ecc.), dei luoghi di pellegrinaggio (Auschwitz, lo Yad Vashem, New York), così l'Occidente ha pure una sua parodistica "lingua sacra": l'inglese per l'appunto. Nella sua funzione di lingua mondialista, l'inglese si presenta dunque come una parodia caricaturale di quelle lingue, propriamente sacre o anche solo liturgiche, che hanno svolto o ancora svolgono una funzione spirituale di universalità rispetto ad una corrispondente ecumene tradizionale: tali sono, per esempio, lingue quali il cinese, il sanscrito, il latino, l'arabo.
23. G. Leopardi, Zibaldone, 2501-2502.
24. G. Leopardi, op. cit., 2503.
25. R. Sermonti, Il linguaggio della lingua, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2008, p. 87.
26. C. Tagliavini, op. cit., p. 171.
27. "Quando (...) la parola mutuata corrisponde perfettamente o quasi ad una voce già esistente nel lessico indigeno, ci troviamo dinanzi ad uno di quei prestiti che il Tappolet chiama 'di lusso' (Luxuslehnwörter) e che forse meglio si potrebbero chiamare 'di moda'" (C. Tagliavini, op. cit., p. 273).
28. G. Leopardi, Zibaldone, 799.

Inserita il 20/12/2010 alle 11:09:02
Scritto da Claudio Mutti

venerdì 12 novembre 2010

Archivio storico di Metapolitica

                                                                                       
11/11/10Il primo volume dell'Archivio storico della rivista "Metapolitica" recensito da Carlo Gambescia

Il libro della settimana: Archivio storico della rivista di studi universali “Metapolitica”. Volume I (1976), Nota Introduttiva di Aldo La Fata, Metapolitica Nuovi Cieli Nuova Terra, Roma 2010, pp. 164 - aldolafata@metapolitica.net

Il principale merito di “Metapolitica”, rivista nata nel 1976 e tuttora viva e vegeta, è aver preso sul serio un “ramo alto” del sapere filosofico e religioso. Senza mai piegarlo a esigenze strettamente politiche, ossia di conquista machiavellica del potere. Perciò, già il solo sfogliarla, consente di spiccare il volo verso i cieli di una metapolitica cristianamente ispirata ma al tempo stesso capace di indagare tra le dure pieghe della realtà terrena.
Si tratta di un progetto che viene da lontano. Silvano Panunzio, tra l'altro scomparso quest'anno, pur imprimendo alla rivista caratteristiche proprie, raccolse l’eredità del padre Sergio, sociologo delle istituzioni giuridiche, ma consapevole, già nel lontano 1940, della necessità di un sapere metapolitico, come “passaggio spontaneo” dal fatto alla norma E in che modo? Mostrando di essere capace di attingere alla “norma” cristiana, senza per questo trascurare il rapporto fattuale tra l’ uomo e la storia. Diciamo che la metapolitica panunziana, ricca tra l’altro di richiami simbolici agli altri monoteismi, si muove elegantemente, per dirla con il lessico del suo artefice, fra i tre livelli della metapolitica (la solarità della norma), della politica pura e semplice (la complessità del fatto politico) e della criptopolitica (lo studio delle forze, spesso malefiche, nascoste dietro i fatti politici).
Naturalmente abbiamo semplificato, forse scontentando gli agguerriti e intelligenti cultori del pensiero panunziano. Per chi voglia saperne di più una ghiotta occasione è rappresentata dalla lettura dei primi quattro fascicoli della rivista, usciti insieme come primo volume (altri seguiranno, con cadenza semestrale, fino a raccolta completa) dell’ “Archivio storico della rivista di studi universali “Metapolitica” . Annata 1976 (Metapolitica. Nuovi Cieli e Nuova Terra, Roma 2010, pp. 164 – redazione@metapolitica.net).
Il volume, curato da Aldo La Fata, oltre a un’interessante Nota Introduttiva, dove sono chiaramente delineati moventi ideali e protagonisti dei primi passi della rivista, offre in appendice l’utile profilo biografico-metapolitico di alcuni interlocutori, anche ideali della rivista, nonché di sinceri estimatori come Raimundo Panikkar. Solo per fare qualche nome: all’inizio in redazione si ritrovarono pronti a partire lancia in resta Silvano Panunzio, Mario Pucci, Giovanni d’Aloe, Primo Siena e Gianfranco Legittimo. Anche se, come nota La Fata, nel primo anno di vita la rivista “poté contare solo su tre collaboratori" fissi: Panunzio, Pucci e Giovanni d’Aloe.
Che aggiungere? Meglio pochi ma buoni. Un antico adagio che non tradisce mai. Soprattutto alla luce della vitalità della rivista e della perspicacia e onestà intellettuale con cui i “magnifici tre” fin dall'inizio affrontarono le più varie le questioni. Come, ad esempio si legge, a proposito della vicenda di Monsignor Lefebvre, in una pungente nota firmata Artù (pseudonimo panunziano):
.“ Come è priva di significato logico l’espressione ‘Cultura di Destra’ … così è priva di senso etimologico e teologale l’espressione ‘Cattolici tradizionalisti’… Per l’esattezza, il termine greco cath-olikòs traduce un’espressione ebraico-biblica - antico-testamentaria - che indica l’integralità. ‘Cattolico’ è un ulteriore rafforzamento del concetto e significa alla lettera non tanto ‘universale’ (meglio espresso con ‘ecumenico’) quanto ‘totale’… Ora che cosa si può aggiungere al tutto? Il tutto più uno o due? E’ privo di senso anche matematico. Se cattolico significa ‘totale’, il ‘tradizionalista’ aggiuntivo è un pleonasma. Ma anche teologicamente e spiritualmente, se si aggiunge il ‘tradizionalista’ al ‘cattolico’ si insinua che il Cattolicesimo non sia una Tradizione… Qualsiasi aggiunta, sia ‘progressista’ sia ‘tradizionalista’, o altro ancora, non fa che togliere qualcosa all’intero: e per tanto esprime posizione non ‘cattolica’ ed eretica nel senso squisitamente etimologico . Infatti, airèomai significa ‘scelgo una parte’, raschio qualcosa all’interno” (p. 62).
Niente male. E questa non è che una perla, tra le tante, altrettanto preziose, che si possono “pescare” nella raccolta. Perciò buona "pesca" a tutti.



Pubblicato su http://wwwjanuacoeli.blogspot.com/  il 12.11.2010


lunedì 8 novembre 2010

IL MONDO FATTO A PEZZI

François Thual, Il mondo fatto a pezzi, pp. 130, € 15,00

Edito presso le Edizioni All'Insegna del Veltro
L’ultimo lavoro di François Thual, Il mondo fatto a pezzi, riveste a mio avviso una notevole rilevanza per chiunque abbia un qualche interesse nell’ambito della geopolitica. Questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché delinea con estrema chiarezza e fondatezza di argomenti gli scenari geopolitici attuali nel panorama internazionale. In secondo luogo perché conferma ancora una volta, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, la validità del metodo geopolitico come chiave di lettura dei conflitti attuali, passati e futuri, come ben dimostra il colloquio finale tra l’Autore e Tiberio Graziani, che impreziosisce un lavoro già di per sé notevole: una dottrina, quella geopolitica, che è anche – o forse soprattutto – prassi, poiché “codifica le possibilità che gli Stati hanno di dispiegarsi sulla scena internazionale” (pagg. 116 – 117), e che conferma “l’irreversibile divisione del mondo contemporaneo in due blocchi contrapposti, quello dei dominanti e quello dei dominati” (pag.112).
Il tema principale di cui si occupa l’Autore consiste nella considerevole proliferazione di Stati sulla scena internazionale che si è avuta in particolare nel XX secolo: una fase che ha preso il posto di quella precedente, caratterizzata dai processi di colonizzazione – decolonizzazione. La drammaticità di tale situazione ci è chiara fin dalla copertina di questo libro, che mostra quanto oggi l’Europa sia frammentata in tutta una serie di Stati e staterelli, somiglianti più ad un puzzle che ad un entità geopolitica che si pretenda autonoma in campo militare economico e politico, in una parola, sovrana.
La situazione attuale, più che rispondente ad un disegno geopolitico ben preciso e studiato a tavolino, risulta figlia di una serie di scelte strategiche concrete attuate dalle grandi potenze. Tali potenze sono denominate dall’Autore “La Triade”: America del Nord, Europa Occidentale e Giappone. Le scelte attuate da tali potenze sullo scacchier?e internazionale hanno contribuito a creare l’attuale scenario, che non è immobile e stabile, quanto suscettibile di numerosi ed il più delle volte drammatici cambiamenti. Un panorama in continua evoluzione quindi, anche in virtù del fatto che non sempre i movimenti di tali grandi potenze sono stati univoci: pur perseguendo il medesimo disegno, ossia quello di trarre il massimo profitto, le potenze della Triade hanno talvolta cercato di disgregare entità geopolitiche omogenee al fine di indebolirle, talvolta invece hanno favorito la nascita di aggregazioni statuali disomogenee con l’intento di attirarle nell’orbita della propria influenza. In che modo e in quale lasso di tempo il lettore avrà modo di scoprirlo addentrandosi nella lettura di questo breve ma ficcante volumetto.
Notevoli sono anche i passaggi dedicati alla parte orientale del continente eurasiatico, in particolare Russia e Cina. Si ha così modo di scoprire che, pur essendo – o essendo stati – entrambi i paesi sotto il controllo del Partito Comunista, questi due grandi imperi hanno attuato strategie geopolitiche diverse. Nel caso della Russia, inoltre, il suo dissolvimento ha dato inevitabilmente il la alla nascita di una miriade di entità statuali.
Nell’evidenziare i processi disgregatori che hanno dato luogo alla nascita di decine di Stati – una cinquantina nell’ultimo dopoguerra, ben 195 oggi! – l’Autore conferisce a tali entità un differente grado di dignità (pag.15): esistono veri e propri Stati, corrispondenti a sentimenti identitari ben configurati e preesistenti alla nascita dello Stato stesso; vi sono invece altri Stati in cui un particolarismo di qualche tipo ha preceduto la costruzione di consolidamenti identitari, essendo in molti casi prodotto artificiale di costruzioni create a tavolino. Per non parlare di quelle microparticelle che l’Autore chiama, a ragione, nano – Stati: minuscoli arcipelaghi divenuti paradisi fiscali o microscopiche entità amministrative gelose delle proprie esigue risorse.?
La tendenza che abbiamo potuto osservare negli ultimi decenni è quindi di tipo prevalentemente disgregatrice – anche se, come accennato, esistono delle eccezioni – , come dimostra – ultima in ordine di tempo – la nascita del narco – stato fantoccio del Cossovo. Questa “libido sovranista” (pag. 107) da parte di entità troppo deboli per sostenere un onere gravoso come la sovranità, non ha fatto altro che creare una miriade di Stati – clienti a sovranità limitata (“consumatori consenzienti di sovranità”, pag. 27), soggetti ai capricci delle potenze che li controllano. “La frammentazione del mondo” infatti “rafforza i paesi forti e indebolisce i paesi deboli”, essendo oltretutto evidente che rappresenta “un mezzo di dominio e di controllo più efficace di quello costituito dai vecchi imperi coloniali” (pagg. 24 – 25). Si tratta insomma del sempre valido principio del divide et impera. Nelle sue conclusioni, il Nostro, stilato un bilancio più che esaustivo della situazione attuale, delinea quelli che saranno secondo lui gli sviluppi che si potranno aprire in un prossimo futuro, individuando contesti “a bassa sismicità geopolitica” e “ad alta sismicità geopolitica” (pag.85). Un affresco condivisibilmente pessimista, considerato che difficilmente tali cambiamenti potranno avvenire in maniera indolore.
Volendo addivenire ad una conclusione al termine di questo breve viaggio attraverso le macerie dei grandi imperi della Storia, si può intravedere nei processi che hanno portato allo scenario geopolitico attuale – e credo che il dimostrarlo sia stato uno degli intenti dell’Autore – un unico fil rouge, una tendenza di fondo che aiuta a capire come tali accadimenti non siano quasi mai frutto del caso, quanto siano un miscuglio imponderabile di necessità, egoismo ed interesse.
Un’annotazione aggiuntiva va fatta, a parer mio, anche sul linguaggio utilizzato: grazie ad una serie di abili metafore mutuate in particolar modo dall’ambito medico, si ha l’opportun?ità di leggere quello che con ogni probabilità costituisce un unicum, dal punto di vista del linguaggio, nel panorama degli studi geopolitici.

Augusto Marsigliante

L'Autore
François Thual (1944), ex funzionario civile del ministero francese della Difesa, insegna al Collège Interarmes de Défense e all’École Pratique des Hautes Études. Autore di una trentina di opere dedicate al metodo geopolitico ed alla sua applicazione in diverse zone del mondo, si è occupato in particolare di geopolitica delle religioni (Ortodossia, Islam sciita, Buddhismo).
http://www.insegnadelveltro.it/catalogo/metropoli/Il%20mondo%20fatto%20a%20pezzi.htm




sabato 28 agosto 2010

Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale, Plus – Pisa University Press, Pisa 2009


Come è noto, la Rivelazione coranica afferma (Corano, XIV, 4; XV, 10; XXII, 35; XXII, 66) che ogni comunità umana ha ricevuto un insegnamento divino per il tramite di uno o più profeti inviati da Dio. Su tale asserzione si fondò l’idea, diffusa presso l’élite intellettuale islamica, che anche l’antica sapienza ellenica provenisse dalla ‘Nicchia delle luci della profezia’ e che fosse possibile riconoscere lo statuto di profeti o comunque di sapienti divinamente ispirati anche agli theioi andres della Grecia antica e classica: da Pitagora, Empedocle, Socrate, Platone, Plotino fino a Gemisto Pletone (del quale Mehmed il Conquistatore farà tradurre in arabo i frammenti dei Nomoi scampati al bruciamento decretato dal patriarca cristiano).
Fu così che Gialal al-Din Rumi, al quale Aflaki attribuisce la frequentazione dei saggi del “convento di Platone”, poté parlare dei Greci in termini di ammirazione e di solidarietà spirituale: “I Greci sono come i sufi: senza ripetizione e libri e apprendimento essi hanno lustrato i loro cuori, ripulendoli da avidità e cupidigia, da avarizia e da malizia, rifuggendo da profumo e colore. In ogni istante, subito, vedono la bellezza” (p. 37).
Di questo “atteggiamento di straordinaria ammirazione per la cultura greca classica ed ellenistica” (p. 41) si occupa un recente lavoro di Marco Di Branco, docente di Storia bizantina e di Archeologia bizantina, che viene ad aggiungersi ai numerosi studi sulla sopravvivenza del pensiero filosofico e scientifico greco all’interno della civiltà islamica. Il lavoro in oggetto affronta il tema della storia greca e romana (nel periodo compreso tra l’età classica e il principato di Costantino) “quale essa è percepita, narrata e rappresentata nella storiografia arabo-islamica medievale fra VIII e XIV secolo d.C.” (p. 10), cioè dalla più antica storia universale di matrice islamica, quella di Ya’qubi, fino alla celebre cronaca di Ibn Khaldun.
Personaggio centrale della storia greca vista dall’Islam è Alessandro Magno, per lo più identificato col Bicorne (Dhu’l-qarnayn) della Sura della Caverna. Il capitolo relativo ad Alessandro è preceduto da una significativa citazione: i versi (verosimilmente estratti dall’Iskandarnameh) con cui il persiano Nezami di Ganje rende omaggio alla cultura greca: “Per la civiltà di quel Re amator di sapienza – la fama della Grecia s’è levata alta al cielo – ed ora che quelle contrade han richiuso il loro quaderno – l’effimero Tempo non ha loro strappato la fama eterna di Scienza”. Nella poesia, nella letteratura, nell’arte e nella stessa storiografia del mondo islamico il Macedone viene presentato non solo come alchimista e filosofo allievo di Aristotele, ma anche come “un profeta che annuncia il Dio unico ed è pronto a sostenerne la causa con le armi in pugno, [mentre] la campagna persiana si muta in un vero e proprio gihad contro gli infedeli” (p. 73).
Per quanto riguarda i Romani, il primo storico musulmano in grado di distinguere al-Yunaniyyun (i Greci) da al-Rum (i Romani) è Ya’qubi, che inizia il capitolo della storia romana a partire da Cesare e da Augusto. Il periodo monarchico e repubblicano di Roma, che occupa uno spazio alquanto ridotto anche nelle successive opere di Tabari e di Mas’udi (il primo a menzionare la leggenda di Romolo e Remo), è d’altronde trascurato dalle cronache bizantine stesse, che costituiscono la fonte degli storici arabi e persiani del Vicino Oriente. In compenso, le storie universali di Miskawayh e di Tha’alibi rivolgono una maggiore attenzione al rapporto fra Persiani e Romani: dall’epoca mitica dei primi re della terra (in cui il sovrano iranico Faridun avrebbe concesso a suo figlio Salm il potere sul paese dei Rum) fino alle vicende romano-persiane d’età costantiniana e postcostantiniana.
Che il regno di Costantino inauguri una nuova fase nella storia dei Rum è nozione condivisa da quasi tutti gli storici musulmani del periodo preso in esame dall’Autore. L’interesse di Ya’qubi per la figura di Costantino è sostanzialmente connesso all’attività religiosa di questo imperatore, il primo che “si allontanò dalle dottrine greche per quelle cristiane (…); e fu per questo che egli mosse guerra contro dei consanguinei e vide in sogno come se dei giavellotti scendessero dal cielo con su di essi delle croci” (p. 136). Tabari invece ritiene degna di nota, oltre alla conversione di Costantino, la fondazione della nuova capitale dell’Impero, la cacciata degli ebrei dalla Palestina e l’inventio crucis. Da parte sua, Mas’udi conclude il bilancio dell’attività costantiniana con una “durissima requisitoria contro la religione cristiana, responsabile della distruzione dell’antica scienza dei Greci” (p. 138).
Il disinteresse della storiografia musulmana orientale per quella parte di storia greca e romana su cui avevano taciuto le fonti bizantine viene compensato dagli storici del Maghreb e dell’Andalusia. Questo filone occidentale, che sfocia nel Kitab al-’ibar del tunisino Ibn Khaldun, ha alle proprie origini il Kitab Hurushiyush, una traduzione delle Historiae di Paolo Orosio rimaneggiata ed arricchita da notizie provenienti da altre fonti. “Non è senza emozione – scrive Di Branco – che si leggono, per la prima volta in lingua araba, i fatti della guerra di Troia e la vicenda del cavallo (…), le gesta dei difensori dell’Ellade contro i Persiani (…), il nome di Pericle (…), il racconto della Guerra del Peloponneso (…), le grandi imprese della Repubblica romana” (p. 160).
L’Autore fa notare che nell’opera di Ibn Khaldun (dove le prime due città di cui si faccia menzione sono Alessandria e Roma) le vicende dei Greci e dei Romani rappresentano “uno degli exempla storici più importanti su cui riflettere” (p. 190), in quanto danno modo di meditare sulle dinamiche politiche e costituiscono “un banco di prova per la celebre teoria halduniana dell’‘asabiyyah, lo ‘spirito di corpo’, la forza fondamentale che muove la storia umana” (p. 193). La Grecia, in particolare, viene esaltata da Ibn Khaldun come il centro da cui il sapere si è irradiato nel dar al-islam. “Dove sono le scienze dei Persiani? – egli si chiede – Dove quelle dei Caldei, degli Assiri, dei Babilonesi? Dove sono le loro opere e i loro risultati? Dove sono, prima di esse, le scienze degli Egizi? Le scienze che sono giunte fino a noi provengono da una sola nazione, la Grecia (…) Non conosciamo nulla della scienza delle altre nazioni” (p. 191).

Tratto da "Recensioni" di Claudio Mutti: http://www.claudiomutti.com/   13.08.2010
                                                         


Powered By Blogger