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lunedì 13 giugno 2011

4 elicotteri degli aggressori NATO abbattuti, mentre la Libia rinforza la No Fly Zone.

4 elicotteri degli aggressori NATO abbattuti, mentre la Libia rinforza la No Fly Zone.
pubblicata da INFORMAZIONE SCORRETTA il giorno domenica 12 giugno 2011 alle ore 9.23.11 giugno 2001

Da: Mathaba http://www.mathaba.net/news/?x=627084          

La No Fly Zone è stata usato come uno stratagemma dall’alleanza NATO FR-UK-USA per distruggere le infrastrutture libiche, rovesciare il governo democratico e assassinare Muammar Gheddafi. Ora la Libia ha deciso di interpretare giuridicamente la Risoluzione ONU e applicare una No-Fly Zone sulla Libia contro questo massacro di civili.
Le Forze Armate del popolo libico hanno abbattuto il quarto elicottero della NATO quest’ oggi, nei pressi di Dafniya che è vicino a Misurata, una fonte affidabile militare ha confermato.
Questo è il quarto elicottero ad essere abbattuto da quando la NATO ha cominciato a usarli.
La NATO ha schierato gli elicotteri d'attacco per la prima volta in Libia all'inizio di questo mese dopo aver fallito nella sua missione di preparare la strada ad occupare la Libia, al fine di avere una porta d’accesso per afferrare le risorse dell'Africa, in un nuovo tentativo di colonizzazione.
La NATO ha prevedibilmente negato le affermazioni, ma ha anche messo fuori false dichiarazioni fin dall'inizio del suo bombardamento della Libia, sostenendo che si tratta di bombardare il paese, al fine di proteggere i suoi civili da Muammar Gheddafi, un vecchio che scrisse un trattato sulla democrazia e che ha consegnato il potere alle persone dopo averlo strappato a un re corrotto.
Gli stati fallimentari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America hanno ordito un complotto per afferrare l'immensa ricchezza dello stato più ricco dell'Africa, la Libia, e hanno rubato oltre 100 miliardi di dollari dal fondo sovrano libico, 32 miliardi dei quali erano il contributo della Libia al Fondo Monetario Africano di 42 miliardi di dollari.
Le immagini dei satelliti russi dallo spazio, (http://www.youtube.com/watch?v=XYesnOD6_gQ) hanno confermato che i proclami della NATO che sostenevano che la forza aerea libica aveva effettuato bombardamenti contro le città libiche, era una bugia usata dalla NATO e dai ribelli di Al-Qaeda con sede nella zona orientale del paese, così come dei funzionari governativi corrotti che disertarono e che mal informarono l’agenzia di intelligence francese DSGE.
Gli elicotteri d'attacco consentono maggiore flessibilità alla NATO nelle proprie operazioni, così come attacchi più precisi, ma sono stati accolti favorevolmente dai combattenti africani per la libertà che hanno sempre voluto la possibilità di avvicinarsi agli aggressori.


pubblicata da INFORMAZIONE SCORRETTA il giorno domenica 12 giugno 2011 alle ore 9.23.11 giugno 2001





giovedì 31 marzo 2011

Libia: campo di battaglia tra Occidente e Eurasia



Libia :::: Alessandro Lattanzio :::: 29 marzo, 2011 ::::

1. Le operazioni clandestine sul terreno

A fine Marzo è oramai chiaro che la ‘rivolta popolare’ o meglio, la rivoluzione colorata con cui si è tentato di rivestire il golpe con cui abbattere la Jamahiriya, è fallita. Il piano era in preparazione almeno dal 20 ottobre 2010, quando il governo francese aveva invitato a Tunisi Nouri Mesmari, capo del protocollo del governo Libico, e il giorno successivo giungeva a Parigi, dove in pratica resta in esilio ad organizzare il golpe.

“Sicuramente ai primi di novembre sono visti entrare all’Hotel Concorde Lafayette di Parigi, dove Mesmari soggiorna, alcuni stretti collaboratori del presidente francese Sarkozy. Il 16 novembre c’e’ una fila di auto blu fuori dall’hotel. Nella suite di Mesmari si svolge una lunga e fitta riunione. Due giorni dopo parte per Bengasi una strana e fitta delegazione commerciale francese. Ci sono funzionari del ministero dell’Agricoltura, dirigenti della France Export Cereales e della France Agrimer e manager della Soufflet, della Louis Dreyfus, della Glencore, della Cani Cereales, della Cargill e della Conagra.” Una missione commerciale che serve a coprire un gruppo di militari e di agenti dell’intelligence che a Bengasi incontrarono il colonnello dell’aeronautica libica Abdallah Gehani, disposto a disertare e che aveva contatti con dei dissidenti tunisini.

Il 28 novembre, a seguito delle indagini del controspionaggio libico, Tripoli emette un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mesmari, che viene trasmesso anche alla Francia. Gli uomini di Sarkozy inscenano un finto arresto, che si tramuta in una confortevole permanenza parigina per il complottatore bengasino. Mesmari, dopo aver chiesto ufficialmente alla Francia asilo politico svela i segreti della difesa militare e delle alleanze diplomatiche e finanziarie della Libia, descrivendo il quadro dei possibili dissidenti disposti a passare con le forze nemiche di Tripoli. Dopo aver respinto i successivi tentativi di contatto del governo libico, Mesmari, il 23 dicembre 2010 incontra i transfughi politici Farj Charrant, Fathi Boukhris e Alì Ounes Mansouri, che diverranno i dirigenti della presunta rivolta popolare di Bengasi. I tre sono accompagnati da funzionari dell’Eliseo e da dirigenti del servizio segreto francese (DGSE).

A Gennaio 2011 la Francia è pronta ad avviare il golpe contro il governo Libico. Il 22 gennaio il comandante del controspionaggio in Cirenaica, il Generale Aoudh Saaiti, fa arrestare il colonnello dell’aeronautica Gehani, collegamento occulto dei servizi francesi con la rete dei prossimi rivoltosi. Rivolta che esplode egualmente il 17 febbraio a Bengasi. Da subito, gli Israeliani indicano la presenza di elementi esterni e stranieri dietro la ‘rivolta popolare’. Decine, e poi centinaia, di ‘consiglieri‘ militari ed agenti dei servizi segreti statunitensi, britannici e francesi, sono sbarcati a Bengasi e a Tobruk almeno fin dal 2 febbraio 2011, per creare e alimentare la rivolta. Lo scopo della loro missione era triplice: aiutare i comitati rivoluzionari a stabilire infrastrutture governative; organizzare i rivoltosi in unità paramilitari, addestrandoli all’uso delle armi; preparare l’arrivo di altre unità militari straniere, forse egiziane e saudite, oltre a reparti di ex-guerriglieri in Afghanistan, gli ‘afgansy’, collegati con l’universo islamista egiziano e saudita.

Di fatti erano giunti a Bengasi cannoni anticarro da 106 millimetri di provenienza NATO, con munizionamento inglese, e armi antiaeree, il tutto camuffato da aiuti umanitari alla popolazione civile; da ciò si può ben comprendere quale sia, in realtà, il vero delle ONG umanitarie che reclamano fin dall’inizio delle ostilità, l’istituzione di ‘corridoi umanitari’ per la popolazione civile (nome in codice per indicare i mercenari e la guerriglia anti-Jamahiriya). Camuffate da aiuti umanitari le armi, camuffati da volontari umanitari i gli istruttori militari occidentali che, appena sbarcati, iniziano l’addestramento dei rivoltosi; mentre commandos di incursori iniziavano a compiere operazioni clandestine di sabotaggi e provocazione. Tutto ciò, secondo le fonti interne francesi, avviene da ben prima della risoluzione 1973, adottata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 17 marzo, che chiede “un immediato cessate il fuoco” e autorizza la comunità internazionale ad istituire una no-fly zone in Libia e a utilizzare tutti i mezzi necessari per proteggere i civili. Lo stesso ministro degli interni francese, Claude Guéant, aveva parlato di «una crociata» riferendosi all’operato di Sarkozy.

L’insieme delle operazioni clandestine anglo-francesi rientra dell’ambito dell’operazione South Mistral. La cui versione ufficiale, ovvero le operazioni di bombardamento sotto mandato ONU; sono denominate Harmattan, in francese, o Ellamy, in inglese, che a loro volta rientrano nell’operazione Odissey Dawn, voluta dal salotto dirittumanitarista di sinistra di Washington, che ha le sue massime espressioni nella segretaria di stato USA Hillary Rodham Clinton, nell’ambasciatrice USA all’ONU Susan Rice e nell’intellettuale-gangster Samantha Power, notoria cantrice dell’interventismo armato umanitario internazionale degli USA.*

Gli screzi non sono mancati, comunque, all’interno del disomogeneo fronte anti-Jamahiriya, che è stato formato rappattumando svariati gruppi e clan spinti alla rivolta con motivazioni e per interessi differenti. Ai primi di marzo, due agenti dell’MI6 e sei incursori delle SAS inglesi, mentre stavano scortando un diplomatico britannico, appena scesi dall’elicottero che li aveva trasportati nella loro zona operativa, a Bengasi, furono catturati dai guardiani di una fattoria e consegnati alla fazione in ribelle gestita dai francesi o dagli egiziani, e non dagli inglesi. Interrogati, non avevano svelato nulla ed erano stati poi esfiltrati e fatti rientrare con la fregata HMS Cumberland. Secondo The Times, la presenza inaspettata di questa unità “avrebbe irritato gli esponenti dell’opposizione libica, che hanno trasferito i soldati in una base militare“. In effetti, questi elementi sono aggregati ai circa 200 militari dello Scottish Royal Regiment, reparto inglese rientrato dall’Afghanistan nel 2009, che partecipa alle operazioni militari coperte da azioni umanitarie e sgombero. Il ministro della Difesa britannico aveva ammesso che questi militari operano nel bengasino da almeno tre settimane: ufficialmente per assistere piloti abbattuti.

Lo scopo di questo tipo di operazioni, di questo dispiegamento sul campo di reparti speciali, era anche quello di approfittare del caos a Tunisi e Cairo, per consentire l’ingresso dai due paesi confinanti con la Libia, di mercenari, volontari islamisti e almeno un centinaio di membri dell’Unità , le forze speciali egiziane, tutti inviati per fornire sostegno tecnico, nuovi armamenti e appoggio tattico alla presunta spontanea ‘rivolta popolare libica‘.

* Il jetset cosmopolita che l’intellettualità di sinistra italiana, soggetta a un perpetuo senso di inferiorità, ama frequentare e celebrare con assiduità. Si ricordi, tal riguardo, dei non casuali articoli panegirici della direttrice dell’Unità Concita Degregorio verso questo bel mondo cosmopolita.



2. Il ruolo dell’islamismo radical-coloniale e della sinistra brezinskiana occidentale

Quella che si sta svolgendo nel mondo arabo, in questi mesi, è senza dubbio frutto di una lunga e ben pianificata campagna di disgregazione del processo di formazione del Continentalblock Eurasiatico. Il culmine, al momento, di questa operazione, è senza dubbio l’aggressione armata alla Libia da parte della NATO.

L’operazione sembra essere, e probabilmente è, un parto degli strateghi brzezinskiani. Non va dimenticato che Brzezinsky è il mentore ideologico-culturale di Barack Hussein Obama. E probabilmente l’elezione di Obama stesso rientra in questa operazione; Obama forse non è neanche cittadino statunitense, su ciò aleggiano più che fondati sospetti, e forse è collegato a quell’ambito ideologico-religioso arabo mobilitato, in questi mesi, per avviare i cosiddetti processi di ‘democratizzazione’ nel Mondo Arabo. Ma tutto ciò non ha impedito la sua elezione alla presidenza USA. Una figura liberale, come lui appare, era necessaria per attirare i voti della popolazione statunitense delusa dalla politica criminale della fazione neocon-ultrasionista della banda Cheney-Rumsfeld-Perle. Il liberalismo di sinistra ed ecologico, propagandato da Obama, serviva anche a raccogliere intorno alla futura, e oggi attuata, nuova politica interventista armata statunitense, il consenso della ‘sinistra’ occidentale, pro-occidentale e occidentalizzante: socialdemocratici ed ecologisti europei, progressisti nordamericani, asiatici ed arabi, e financo folkloristici residui ‘comunistoidi’, sono la nuova base popolare, di massa, che Washington ha ammassato e sui cui ha posto l’artiglieria massmediatica guerrafondaia (ma camuffata dai soliti infingimenti umanitari) col cui rombo coprire quello dei cacciabombardieri e dei Tomahwak che straziano al Libia oggi. Già dal golpe orchestrato contro l’Honduras, e quello fallito contro l’Ecuador, dimostrano che Obama e il suo entourage non ha altro scopo che portare avanti, con accenti rinnovati, la stessa vecchia politica di dominio ed espansione imperialista degli USA.

Nel caso delle presunte ‘rivoluzioni arabe’ di questi mesi, in effetti, sia sostenitori che soprattutto i critici di esse, si sono soffermati fin troppo sulle operazioni di propaganda e infiltrazione delle agenzie di destabilizzazione strategica anglo-statunitensi, e occidentali in generale, ritenendo e pensando che la leva rivoluzionaria araba fosse rappresentata dalla esigua società civile occidentalizzante dell’Arabia. Il fatto è che soprattutto i padroni e i manovratori di costoro, di questi elementi borghesi arabofoni, acquistati con donazioni e viaggi premio a Washington, non costituivano alcuna garanzia per la vittoria e le presa del controllo dei poteri nei paesi obiettivi delle sovversioni. Serviva e serve ben altro per poter contare su un solido controllo sugli stati e le società ‘liberate’ e liberalizzate del mondo arabo, dell’Arabia. Questa forza è da sempre collegata strettamente con due realtà politiche, geopolitiche e geoeconomiche determinate: il colonialismo francese e soprattutto inglese, cioè Londra, e il servile complice all’imperialismo e del colonialismo occidentale, l’entità statale basa sulla rendita petrolifera gestita dalla famiglia compradora dei Saud, e dall’apparato poliziesco-propagandistico parassitario che sempre tale famiglia controlla.

L’Arabia Saudita è un alleato fondamentale, grazie al controllo che essa esercita sulle e varie filiazioni islamiste che Riyad finanzia abbondatemente e addestra meticolosamente da decenni. Lo scontro inter-arabo e intra-arabo è un colossale regolamento di conti tra la parte feudale del mondo islamico, dei regimi islamici più arretrati, e l’eredità storico-politica del Nasserismo, del Baathismo, del Socialismo e del Marxismo che il Mondo Arabo ha avuto in lascito nel corso degli ultimi sessant’annni.

Ovviamente le realtà più oscurantiste e arretrate del mondo colonizzato, sono sempre state fedeli alleate dell’egemonismo politico-miliatre e tecnico-industriale dell’Occidente. Il wahhabismo, la fratellanza mussulmana e le altre realtà islamiste sunnite hanno sempre avuto la possibilità di pesare sulle società del mondo arabo, grazie ai loro pesanti legami con le centrali imperialiste metropolitane. Soprattutto con Londra, base operativa degli islamisti rimessi in sella a Tunisi e a Bengasi, per esempio. Oppure base operativa dei network tv come al-Arabya e al-Jazeera, dei micidiali centri di disinformazione strategica e di propaganda reazionaria, filo-islamoliberista e reazionaria. Stanno svolgendo a pieno le azioni operative ad esse assegnate, non svolgendo solo campagne mediatiche a favore delle ‘rivoluzioni colorate’, e non solo plasmando un ‘modus pensandi’ che favorisce e appoggia le azioni e le interferenze di Londra, Washington e Parigi nell’Arabia, ma operando effettivamente come vere e proprie agenzie d’intelligence e ricognizione integrate nelle operazioni belliche USA/NATO, come avviene in Libia in questi giorni. Lo Yemen ha compreso questo ruolo, e alla fine, dopo che Riyad ha deciso di abbandonare Sanaa, probabilmente in accordo con le potenze occidentali, il presidente yemenita abbia deciso di espellere dal paese al-Jazeera, agente attivo nelle rivolte antigovernative, dimostrando così, in modo indiretto, la connessione esistente tra la moderna e liberale agenzia televisiva panaraba e il regime oscurantista della famiglia dei Saud.

Ad esempio, il ruolo del TG3 è emblematico, non è un caso che queste vera e propria dependance, se non dell’ambasciata USA a Roma, del NED e del partito democratico USA* porta avanti, da almeno un paio di anni, una forsennata campagna di aggressione mediatica e di banditismo ideologico contro la Libia. Ua campagna bellica vera e propria, che è riuscita ad arruolare in pratica tutta l’amorfa e moribonda sinistra fu marxista italiana. Dal partito della sinistra apertamente ultramericana, PD, che acclama acriticamente le guerre condotte dalle amministrazioni democratiche, da Clinton a Obama, alle sinistre cripto-brezinskiani. Che si tratti di Vendola o di Ferrero, della maggioranza dei trotskisti o dei maoisti, o perfino dell’armata folkloristica degli antimperialisti pro-alQaida, nulla cambia per i decisori e gli strateghi dell’assalto finale, e disperato, al mondo arabo, o quella parte del mondo arabo, che aveva iniziato la marcia di avvicinamento all’asse economico-strategico Mosca-Beijing.

Non è un caso che si aggrediscano, con tali sommosse teleguidate, realtà che si oppongono od ostacolano l’egemonia regionale anglostatunitense: Libia, Siria, Sudan, Yemen (alleato con l’Eritrea). Oltre al processo di frantumazione nazionale, che a quanto pare non è ritenuto sufficiente dalle centrali strategiche occidentali, viene avviato un immenso processo di revanscismo islamista, protesa a creare il tento mitizzato emirato islamico, ideologia aggregante per le forze arabofone antinazionali più arretrate e oscurantiste, permettendone la mobilitazione anche in realtà statuali più consolidate, come la Siria. Tutto ciò amalgamato con il disegno dell’asse Washington-Londra-Parigi di affidare questo fantomatico emirato islamista alla decadente famiglia compradora dei Saud. Scopo ultimo, impedire lo sviluppo tecnico-sociale-economico regionale, grazie all’imposizione di un ordine parassitario e anti-sviluppista e anti-progressista (che tanto piace alle anime belle razziste d’occidente, afflitte da una sorta di orientalismo impegnato), che impedirebbe i piani strategici industriali ed economici di collaborazione con le potenze asiatiche ed eurasiatiche. Tale blocco e arretramento economico-industriale verrebbe volto a favore delle potenze occidentali, che potranno sottrarre le risorse energetiche e idriche regionali, che rimarrebbero inutilizzabili con l’inattuazione della modernizzazione tecnico-economcio-sociale degli stati arabi colpiti dalla sovversione islamo-colonialista camuffata da ‘rivolte democratiche civili’.

Inoltre, non solo tale sabotaggio strategico regionale colpirebbe lo sviluppo regionale, ma attenterebbe pesantemente al progetto eurasiatico basato sull’aggregazione e il riavvicinamento tra potenze come Russia, Cina, Turchia, Pakistan e Iran. E inoltre il fantomatico emirato islamocolonialista che verrebbe creato, fattualmente o ideologicamente che sia, diverrebbe una potente piattaforma per avviare la destabilizzazione della Federazione Russa, della Repubblica Popolare di Cina e l’Unione Indiana, nonché uno strumento sia per colpire in modo devastante l’Iran e la Turchia, che per distruggere realtà statali come il Pakistan e le repubbliche caucasiche e centrasiatiche.

La mano brezinskiana e il tocco tipicamente londinese del divide et impera colonialista, sono ben visibili per chiunque voglia guardare in faccia la realtà dei fatti internazionali che oggi si osservano.

Alla luce della mossa del cavallo all’ONU, attuata dall’asse atlantista e dalla cerchia brezinskiana-rhodesiana, Mosca e Beijing stanno iniziando a comprendere che non c’è più tempo da perdere, in danze diplomatiche e salamelecchi bipartizan, con entità che vogliono soltanto aggredirle e rovinarle.

* Alessandro Lattanzio è redattore di “Eurasia”

domenica 24 ottobre 2010

LA GERMANIA E L'ISLAM

La Germania e L’Islam
                                                                                    
                                                                                            
Scontro di civiltà o multi cultura.

Non che in Germania manchino gli istigatori, i predicatori dell’odio e gli eterni divulgatori del panico gratuito, anzi. Quello che però fa la differenza sono i toni più civili, la mancanza di show con urla e insulti, le soluzioni conseguenti.
Ad esempio Thilo Sarazzin, ex senatore delle finanze del comune di Berlino, ex Consigliere Direttivo della Deutsche Bank. Ex senatore perché più volte indagato per dubbi finanziamenti in progetti discutibili. Ex Consigliere Direttivo della Deutsche Bank perché è stato letteralmente cacciato dopo l’uscita del suo libro “La Germania si distrugge da sé”, nel quale, tra le altre banalità proprie del genere, ha scritto: «Non voglio che il paese dei miei nipoti e dei miei antenati diventi rapidamente musulmano, nel quale il turco e l’arabo sono parlati correntemente, dove le donne portano il velo e dove il ritmo della vita quotidiana dipende dalle chiamate del muezzin». Il Consiglio Direttivo all’unanimità ha chiesto al Presidente della Federazione, Christian Wulff, l’allontanamento di Sarazzin ottenendo l’approvazione e il consenso di governi e istituzioni internazionali.
L’istigazione, in Germania, non paga.
Il tre ottobre, giorno della riunione delle due Germanie, il Presidente Christian Wulff (cristiano democratico) ha pronunciato un discorso che ha fatto scalpore.
Dopo aver affermato che ormai est e ovest appartengono con pari dignità alla nuova società della Germania unita, ha affermato che, oltre all’ebraismo e al cristianesimo, ormai anche l’Islam (ca. quattro milioni di cittadini) appartiene alla cultura tedesca.
Numerose e stizzite le smentite, soprattutto nel partito cristiano sociale (CSU, partito tradizionalmente bavarese) e anche nello stesso partito democratico cristiano (CDU). La stessa cancelliera, Angela Merkel, si è affrettata a puntualizzare che “la società multiculturale è fallita”. Anche se a pappagallo la frase è riportata e fatta propria da tutti i media e politici improvvisamente elettisi difensori dell’Europa dai valori cristiani, nessuno sa cosa voglia dire.
La società italiana, fatta di tradizioni e culture montane dalla val d’Aosta al Friuli, tradizioni e culture contadine della pianura padana, dalle culture e tradizioni marinare di Venezia, Genova, Mazara del Vallo, non è già una società multiculturale? La presenza di popolazioni che parlano il francese, il tedesco, lo slavo, il sardo, idiomi e dialetti farciti di volta in volta da vocaboli arabi, fenici, greci, albanesi, turchi, non costituisce della società italiana, anche senza la presenza di immigrati, una società multiculturale? Gli spaghetti, il torrone, il caffè, il tabacco, le banali patate, la “padana” casoéla e la cotoletta alla “milanese”, non sono forse retaggio dell’incontro con altri popoli? In Germania la situazione, cambiati i fattori, è la stessa. Prussiani, bajuvari, francesi, sudeti, danesi, sorabi, frisoni, cattolici, protestanti, pagani, atei, contadini, montanari, pastori, marinai, … Una varietà di etnie, religioni, lingue, tradizioni da una regione all’altra, tanto da rendere necessaria una struttura federativa dello Stato con larghe autonomie legislative locali per soddisfare necessità particolari. Anche le festività nel calendario variano da Regione a Regione.
Allora, cosa vuol dire dichiarare il fallimento della società multiculturale?
La società, tutte le società, sono multiculturali. Non esiste una società monolitica, altrimenti si dovrebbe definire “moneitá”.
Christian Wulff ha quindi avuto il coraggio di definire le cose così come sono rompendo con l’ipocrisia della politica della divisione e della discriminazione.
La civiltà umana è una, le sue manifestazioni nell’arte, nella cultura, nella religione, nella lingua e nel colore della pelle, sono molteplici.
Voler stabilire una classifica è una follia.
Forse sarebbe il caso di ricordare ai predicatori dell’odio e della divisione la metafora del corpo umano, nel quale non esistono parti più o meno nobili, ma un’armonia e un’interazione che permettono la sopravvivenza di tutto l’organismo.
Il disegno di Dio, del Dio di tutte le Religioni, non mi sembra difficile da intuire.

Tratto da il Derviscio - Pubblicato il 24 ottobre 2010 da Stefano





martedì 21 settembre 2010

QUAESTIONES SICILIANAE.


                                                              


Che cos’è la Sicilia? Un’appendice insulare della penisola italiana? L’ombelico del Mediterraneo?Un ponte naturale tra l' Europa e l’Africa? Fra queste ed altre possibili rappresentazioni, quale è che meglio corrisponde alla sua visione della Sicilia come luogo della geografia culturale?
Sicuramente è un ponte naturale, ma non solo tra l’Europa e l’Africa. Grazie alla propria identità “trialettica”, infatti, ovvero essere partecipe di tre distinti destini culturali – uno volgente al nord, l’altro al sud, l’arco ionico ad est – la Sicilia si salda anche con l’Oriente del quale eredita il patrimonio spirituale e, con questo, una precisa antropologia: quel richiamo del sangue che fa di ogni siciliano un enigma. È nella specificità del siciliano l’essere attento al mistero, alla segretezza e all’omertà, che non è una deriva mafiosa bensì l’arte di “diventare uomo”. In Sicilia l’universalità è un istinto. Il paradigma per eccellenza resta quello di Federico II, il tedesco che volle farsi arabo per vivere in Sicilia.
Quale, fra tutte le eredità storiche stratificatesi sul territorio della Sicilia, ha agito più profondamente nella formazione dell’identità siciliana? La greca? La romana? La bizantina? L’araba? La normanna?
Leonardo Sciascia sosteneva, e non a torto, che tra tutti gli innesti, più di tutti è quello arabo che ha determinato la carta d’identità della Sicilia e per carta possiamo aggiungere anche quella geografica. Una semplice traslitterazione della toponomastica, infatti, dall’alfabeto latino a quello greco, non comporterebbe alcun cambiamento nella enunciazione dei nomi di città, contrade e valloni. Allo stesso modo con i cognomi delle persone. Nella stragrande maggioranza sono di derivazione araba. Ciò non significa che anche le altre eredità siano state cancellate, anzi, la miscela più affascinante s’è data con la doppia radice genitoriale arabo-normanna; ma se c’è un marchio che si è impresso nella viva carne della Sicilia quello è il marchio dell’Islam. È stato il lievito che la Sicilia non ha mai cancellato nella propria memoria se è vero che perfino il cattolicesimo popolare, nel rammemorare il martirio di Cristo, ha mutuato da Ashurà i riti della Passione. E l’identità svela il proprio debito alla paideia mussulmana anche nella vita quotidiana, nella elaborata estetica siciliana e perfino nei codici sociali. Basti ricordare che il S a b b e n e d i c a, ovvero, “la Benedizione di Dio su di voi”, tipico saluto siciliano, è la traduzione del Salam Aleikum.

INTERVISTA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO*
di Claudio Mutti
Deve essere precisato che il testo da noi riportato è solo l'inizio di una intervista a Buttafuoco,il cui testo integrale si trova sul n.2/2010 di "Eurasia".

martedì 31 agosto 2010

Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo


La Libia, parte della Nazione Araba e del mondo islamico    

Per quanto la Libia faccia parte del Maghreb, ossia dell'”Occidente” arabo, assieme alla Tunisia, all'Algeria ed al Marocco, la sua posizione risulta tuttavia periferica rispetto ad esso; anzi, come si può leggere in una tesi di diploma in Scienze politiche presentata dieci anni fa all'Università di Toulouse (1), "la Libia è integrata nel Maghreb, tuttavia la frequenza e la continuità dei suoi rapporti politici con il Mashreq [l'”Oriente” arabo, quello che dalla Siria e dalla Mesopotamia si estende a tutta la penisola arabica] la portano ad essere parte attiva del Mashreq". E al Mashreq la Libia apparterrebbe anche per via del ruolo che essa riveste nell'intreccio delle relazioni interne al mondo arabo. Anche il geografo egiziano Gamâl Hamdân considera la Libia come un paese che solo sotto il profilo antropologico e culturale può esser detto maghrebino, mentre rientra nell'ambito del Mashreq per quanto concerne le caratteristiche naturali (geologia, rilievi,clima). "La Libia - scrive Hamdân - continua ad essere l'ingresso del Maghreb e la porta del Mashreq" (2). Secondo altri ancora, la Libia apparterrebbe, con l'Egitto e con il Sudan, alla "regione del centro" (al-iqlîm al-wasat), cioè alla regione della valle del Nilo, che risulta centrale in quanto situata tra il Maghreb propriamente detto e la parte di mondo arabo situata nel Vicino Oriente.
Insomma, in ogni caso la Libia occupa una posizione centrale tra i due insiemi subregionali arabi, il Maghreb e il Mashreq, ragion per cui essa si configura come un elemento di unione tra le due ali - occidentale e orientale - del mondo arabo.
La consapevolezza geopolitica di questa posizione, nonché dell'importanza geostrategica ad essa collegata, emerge in maniera chiarissima nei discorsi di Gheddafi, il quale parla della Libia, con le sue "mille miglia di litorale mediterraneo", come di una "testa di ponte" del mondo arabo e dichiara: "L'importanza strategica della Libia non è venuta meno in conseguenza del fatto che la rivoluzione ha smantellato le basi inglesi e americane, poiché la Libia continua ad essere di enorme importanza strategica per gli Stati occidentali in caso di conflitto internazionale e per il dominio del Mare Mediterraneo dallo stretto di Gibilterra al canale di Suez. (...) La posizione della Libia è fondamentale per chi intenda esercitare un controllo sul Mediterraneo e sul Nordafrica, di cui la Libia rappresenta l'antemurale" (3).
Paese centrale del mondo arabo, nei primi anni seguiti alla rivoluzione del 1° Settembre 1969 la Libia si è proposta come centro propulsore dell'unità araba. "La Nazione Araba è un'unica nazione", dichiara Gheddafi il 28 marzo 1972 alla prima conferenza nazionale generale dell'Unione Socialista Araba.
L'Unione Socialista Araba, per citare le parole pronunciate dallo stesso Gheddafi il 28 marzo 1972, si ispira a "una dottrina d'avanguardia (...) che è stata applicata prima dall'Egitto, poi dalla Repubblica Araba Libica e dalla Repubblica del Sudan". In tal modo la rivoluzione del 1° Settembre 1969 veniva esplicitamente ricondotta ad una matrice nasseriana; d'altronde nel giugno del 1970 il Raìs Gamâl ‘Abd en-Nâser si era recato in Libia e aveva detto, congedandosi dal popolo di Bengasi: "Sento che la Nazione Araba si riconosce in voi ed ha ritrovato la sua determinazione. Io vi lascio dicendo: 'Il mio fratello Mu‘ammar al-Qadhdhâfî è il depositario del nazionalismo arabo, della rivoluzione araba e dell'unità araba'. Cari fratelli, che Iddio vegli su di voi per il bene della Nazione Araba. Che possiate passare di vittoria in vittoria, poiché le vostre vittorie saranno la vittoria dell'intera Nazione Araba".
L'idea dell'unità della Nazione Araba, fondamento del programma panarabo che ‘Abd en-Nâser aveva lasciato in eredità a Gheddafi, viene proclamata in maniera esplicita nei discorsi pronunciati da Gheddafi nella fase iniziale della sua attività di capo politico e teorico di una "terza via" ugualmente distante dalla democrazia capitalista e dal socialismo marxista.
In una lunga intervista del 1974 (4) Gheddafi assegnava alla Nazione Araba la missione storica di "lanciare l'appello all'Islam". Riconoscendo come cosa ovvia che "il Corano non appartiene solamente alla Nazione Araba", Gheddafi affermava che era compito del nazionalismo panarabo rivitalizzare tutto quanto il mondo islamico, arabo e non arabo, a vantaggio del Terzo Mondo e dell'intero genere umano. "L'appello al nazionalismo arabo - diceva testualmente - si identifica con l'appello alla potenza dell'Islam".
In tal modo Gheddafi si contrapponeva a tutti quei modernisti del mondo musulmano che, a partire dai primi anni del Novecento, avevano affermato, in maniera più o meno velata, che l'Islam aveva addormentato il mondo arabo col fatalismo, rendendolo incapace di affrontare le sfide dei tempi nuovi e causandone la decadenza. Gheddafi sosteneva una veduta diametralmente opposta: il mondo arabo era decaduto, sprofondando nell'ignavia, nell'impotenza e nella divisione, proprio perché aveva abbandonato l'Islam. "L'Islam - dice Gheddafi - è la religione che procurò ai nostri antenati la gloria dei loro tempi. (...) Ciononostante, alcuni disprezzano tutto quanto è arabo e musulmano. (...) Noi dobbiamo ritornare alle nostre radici originarie, dobbiamo incamminarci di nuovo sul retto sentiero".
Nei discorsi degli anni Settanta, Gheddafi interviene più volte sull'importanza fondamentale della religione. "La religione - dice - è un fatto basilare nella vita umana e la stabilità dell'uomo riposa sulla religione". E ancora, in una conferenza stampa del 13 maggio 1973: "Non si può immaginare un uomo senza religione, poiché un uomo del genere sarebbe un idolatra. Noi abbiamo, grazie a Dio, una religione celeste e non adoriamo né un idolo, né un pupazzo di paglia, né un Dollaro, né una macchina".
Dell'Islam, in particolare, Gheddafi dice: "L'Islam prepara l'uomo a vivere sulla terra e dopo la morte fisica. Perciò i cittadini arabi devono aderire al concetto di giustizia, al fine di mantenersi sempre sul retto sentiero. L'Arabo deve restare fedele agl'insegnamenti dell'Islam, che sono idonei a guidare l'uomo sia su questa terra sia dopo la morte. Tali insegnamenti sono quelli che Dio ci ha trasmessi attraverso il Suo ultimo Messaggero, Muhammad (benedizione e pace su di lui)". Gheddafi ribadisce inoltre la validità perenne del Corano, quindi la sua attualità: "Non ha nessuna importanza - dice - che il Corano sia stato rivelato al Profeta Muhammad (benedizione e pace su di lui) quattordici secoli or sono, poiché il Corano non è una teoria umana, ma sta al di là dello spazio e del tempo".
Infine riafferma il concetto islamico del dîn wa dawla, cioè dell'unità inscindibile di religione e politica, respingendo il principio dello Stato laico. "Nell'Islam - dice - non c'è nessuna separazione fra religione e politica. La separazione fra Stato e religione è d'origine occidentale. L'Islam non conosce una tale separazione".
Da questa proclamata adesione alla tradizione islamica nasce la "rivoluzione culturale" libica, proclamata il 16 aprile 1973. Di "rivoluzione culturale", Gheddafi aveva già parlato il 19 dicembre 1971, nel discorso pronunciato nella moschea principale di Tripoli. "La rivoluzione culturale - aveva detto - non è affatto venuta dalla Cina. L'Islam la ha preconizzata da secoli. Noi dobbiamo orientarci verso una rivoluzione spirituale e culturale, una rivoluzione che avvenga all'interno di noi stessi, in modo che ciascuno di noi possa incamminarsi sul retto sentiero". Il 13 maggio 1973 definirà la rivoluzione culturale libica come "una depurazione dello spirito arabo".
L'obiettivo della rivoluzione culturale doveva consistere, secondo le parole dello stesso Gheddafi, nel respingere tutte le ideologie d'importazione, per recuperare l'identità culturale specifica della Nazione Araba, che è intimamente legata all'Islam. In una conferenza stampa tenuta il 13 maggio 1973, Gheddafi dice: "Noi non inventiamo nulla di nuovo, ma semplicemente ritorniamo alla nostra autenticità, alla nostra identità e alle nostra vera visione del mondo, operando in tal modo un ritorno alle origini".
Cito testualmente alcuni brani del discorso del 16 aprile 1973. "Dovrà prevalere la dottrina veridica, che è quella che emerge dal Sacro Corano. Dovrà esserci spazio soltanto per quelle idee in cui si manifestano il vero arabismo, il vero Islam, così come esso fu originariamente rivelato da Dio. Quanto alle concezioni travianti e sospette importate dall'Est e dall'Ovest, concezioni settarie e reazionarie, esse dovranno venire spazzate via, poiché sono contraddittorie nella loro essenza. Dovrà prevalere soltanto il pensiero che emerge dal Libro di Dio, autentica espressione di Islam, di arabismo, di umanità, di socialismo e di progresso. (...) Noi siamo contro il capitalismo e il comunismo; basta con la putrida ideologia del capitalismo, basta col marxismo ingannatore (...) Fra noi non c'è nessuno spazio per i settari che vogliono dominare il popolo attraverso il loro partito. (...) Mai più questo popolo dovrà avere bisogno di partiti o di un demagogo che sventoli ipocritamente la bandiera del Vangelo, del Corano o di credi e ideologie capitaliste, comuniste e simili. Il popolo è stanco delle teorie di destra e di sinistra; esso ha un bisogno spaventoso di infrangere le sue catene per dare via libera alla propria volontà. (...) La libertà non deve essere monopolizzata da una classe in nome del popolo. Nemico è chi reclama la libertà per se stesso, per la sua famiglia, per la sua cricca o per gli affiliati al suo partito: un tale nemico deve essere annientato. Non ci deve essere spazio, nella nostra società, per gli iscritti di alcun partito, né per corrotti capitalisti o reazionari (...) Non ci deve essere posto per l'ipocrita, l'opportunista, il regionalista, il separatista, il membro di un partito corrotto" (5).

Dal panarabismo al panafricanismo
Consapevole del fatto che un paese con le dimensioni territoriali e demografiche della Libia può garantire stabilmente la propria libertà dal dominio straniero solamente integrandosi in una più vasta unità geopolitica, Gheddafi ha perseguito con ammirevole perseveranza il disegno dell'unificazione politica con altri paesi che condividono con la Libia l'identità araba e islamica. Nel 1972 il governo di Tripoli stipulò con quelli del Cairo e di Damasco un accordo che avrebbe dovuto realizzare una Federazione delle Repubbliche Arabe comprendente Libia, Egitto e Siria. In particolare, la Libia avviò con l'Egitto una serie di negoziati intesi ad accelerare l'unione politica tra i due paesi. Nei quindici anni successivi furono intrapresi analoghi tentativi nei confronti della Tunisia, del Ciad, del Marocco, dell'Algeria e del Sudan, ma nessuno di essi approdò a buon fine. Nel 1989, un trattato siglato da Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania dava vita all'Unione del Maghreb; ma dopo qualche anno anche questo tentativo finì in un vicolo cieco.
Dai fallimenti con cui si sono puntualmente conclusi tutti questi tentativi e dall'inettitudine delle classi politiche arabe a dare risposte chiare sulla Palestina e sull'Iraq, Gheddafi ha tratto conclusioni molto pessimistiche per quanto riguarda le istituzioni del mondo arabo. In un'intervista rilasciata nel 2002 alla televisione di Abu Dhabi, disse testualmente: "La Lega Araba non è altro che un giochetto per bambini, ed è bene ricordare che la Libia ha definitivamente rotto ogni legame con gli Arabi".
Gheddafi era ormai "Gheddafi l'Africano". " 'Gheddafi l'Africano' nasce ufficialmente nel 1999 a Sirte, con la firma del Patto istitutivo dell'Unione Africana, confermato due anni dopo nella stessa città; l'Unione Africana, passando per la comunità degli Stati sahel-sahariani, è praticamente farina del sacco di Gheddafi, passata al setaccio mentre s'infrangeva l'assedio ai suoi danni. Dalla Sirte al Capo, uno spazio sterminato in cui muoversi con maggior disinvoltura che in un mondo arabo infido e saturo di primedonne, proponendosi così come mediatore nei conflitti interafricani. Se non si tratta di una strategia estemporanea del colonnello, l'idea di unire il Continente Nero apre delle prospettive interessanti anche per l'Europa. E' qui il caso di accennare all'Eurafrica, una visione geopolitica frutto delle riflessioni coloniali italiane degli anni Trenta che, spogliata degli elementi più anacronistici, potrebbe essere aggiornata nell'interesse delle popolazioni dei due continenti, con la Libia di nuovo al centro della scena. Il vertice Africa-Europa tenutosi al Cairo il 3-4 aprile 2000 e quello dei capi di governo euro-africani che la Grecia [ha ospitato] nel 2003 sono un segnale che qualcosa in questa direzione si sta muovendo. Un fatto è innegabile: l'Africa ha restituito le luci della ribalta a Gheddafi" (6).
Tra il giugno e il luglio del 2007, nel corso di una visita ufficiale in alcune capitali africane, Gheddafi ha avanzato ripetutamente la proposta di intraprendere passi decisivi per gettare le basi di un'integrazione politica continentale. "Dobbiamo costruire un solo, potente governo africano, un esercito con due milioni di soldati, una moneta, un'identità africana, un passaporto africano. (...) L'Organizzazione dell'Unità Africana [organismo che ha preceduto l'Unione Africana] ha fallito, il consiglio dei ministri africani ha fallito, il parlamento africano è un parlamento inutile. (...) In Africa non siamo stati capaci di creare un governo unitario, né alcuno strumento che possa realizzare i nostri obiettivi. (...) Le masse popolari vogliono strade, ponti, sanità, istruzione, agricoltura, acqua ed elettricità. Come realizzare tutto ciò? Creando una vasta unione, ampi spazi, grandi mercati; anche l'Europa può assicurare la propria sopravvivenza solo grazie all'unione". Sul fenomeno migratorio: "Io vedo davanti a me dei giovani che vogliono andare in Europa transitando per la Libia. Perché volete andare in Europa? Dobbiamo decidere di vivere e morire nei nostri paesi. Tutto ciò deve finire, grazie alla creazione degli Stati Uniti d'Africa".
Nella politica africana della Libia, un ruolo particolare è stato assegnato al Portogallo, che viene considerato come il pilastro europeo per il dialogo con l'Unione Africana. Non a caso, Lisbona è una delle capitali europee in cui Gheddafi si è recato in visita ufficiale, circa un anno fa. La Libia non solo intende intensificare i suoi investimenti nel settore turistico e immobiliare portoghese; non solo si è accordata col Portogallo per dar vita a progetti congiunti nel settore petrolifero e petrolchimico. Una cosa particolarmente interessante è che la Libia intende utilizzare l'esperienza acquisita dai Portoghesi in Africa nel periodo coloniale, e ciò al fine di avviare progetti congiunti libico-portoghesi nel Continente Nero, soprattutto nei settori d'interesse comune (istruzione, sanità, infrastrutture, energia, turismo). Un ruolo analogo, a quanto pare, la Libia vorrebbe riservare alla Spagna.

Il Mediterraneo
Nel X secolo, il geografo arabo Ibn Hawkal, nell'opera Kitâb al-masâlik wa 'l-mamâlik (Il libro degli itinerari e dei regni) chiama il Mediterraneo Bahr ar-Rûm ("Mare dei Romani", cioè dei Bizantini e dei popoli dell'Europa cristiana); fino al XIX secolo, gli Arabi hanno indicato il Mediterraneo come Bahr ar-Rum, oppure come Bahr ash-Shâm ("Mare della Siria", vale a dire "della Siria e del Libano"). Nel 1848, in un'opera dello scrittore egiziano Refâ'at at-Tahtawî, Takhlîs al-ibrîz fi talkhîs Bârîs, (Raffinazione dell'oro puro nel resoconto da Parigi), compare una nuova definizione: al-Bahr al-Abyad al-Mutawassit, "Mare Bianco Intermedio". Questa denominazione araba vuole esprimere la medesima idea di centralità e di appartenenza comune che sta all'origine dell'aggettivo latino mediterraneus, -a, -um. Ci troviamo così di fronte ad un importante mutamento di prospettiva nella visione araba del Mediterraneo, che nell'Ottocento comincia ad essere considerato come un mare "che sta in mezzo" a due sponde e a due civiltà.
È stato detto che nella teoria e nella prassi politica degli Stati arabi la prospettiva mediterranea è assente e che solo paesi filoccidentali come la Tunisia di Burghiba e l'Egitto di Sadat hanno manifestato, in una certa misura, una visione mediterranea. Per spiegare questa renitenza araba a concepire una dimensione geopolitica mediterranea, sono state addotte due spiegazioni. Si è detto che i paesi arabi, essendo stati oggetto di una colonizzazione esercitata in parte da potenze mediterranee (Spagna, Francia, Italia) o comunque arrivate da nord attraverso il Mediterraneo (Inghilterra), hanno girato le spalle al Mediterraneo per riconfermare un'appartenenza continentale e un'identità culturale che li distinguessero dall'Europa. Insomma, pensarsi come mediterranei avrebbe significato, per gli Arabi, condividere una rappresentazione legata al passato coloniale. Non a caso i colonizzatori francesi dell'Algeria dicevano che "il Mediterraneo attraversa la Francia come la Senna attraversa Parigi"; e gl'Italiani, analogamente, che "la Libia è separata dall'Italia soltanto dal Mediterraneo, così come le due parti di Roma sono separate dal Tevere".
Gheddafi esprime una visione molto diversa, allorché dichiara testualmente: "La terra libica araba non è mai stata la quarta sponda dell'Italia, così come non sarà mai una parte dell'Europa" (7). Ma Gheddafi non si ferma qui. L'idea di una contrapposizione tra l'Europa e il mondo arabo viene superata dall'idea di un condominio euro-arabo del Mediterraneo, un condominio che deve essere esercitato soltanto dall'Europa e dai paesi arabi rivieraschi. "Il Mediterraneo - diceva Gheddafi una ventina d'anni fa - è un mare condiviso tra Arabi ed Europei. Quanto agli intrusi, questi lo devono abbandonare. (...) I sionisti sono degli intrusi e devono abbandonare questa regione, come pure sono degli intrusi gli americani, che devono andarsene dal Mediterraneo" (8). E ancora: "La Libia si è associata ai paesi che esigono che il Mediterraneo sia libero dalla presenza di flotte straniere, in modo che esso ridiventi un mare di pace al servizio di tutti i popoli rivieraschi" (9).

Non si può negare che Gheddafi sia stato coerente rispetto a queste dichiarazioni di oltre trent'anni fa. Nel 1995 ha rifiutato il partenariato euro-mediterraneo della Conferenza di Barcellona, perché vi era stato chiamato a partecipare lo "Stato d'Israele" e aderirvi avrebbe significato riconoscere l'occupazione della Palestina. Ancora nel luglio di quest'anno, si è pronunciato in maniera molto recisa contro la cosiddetta "Unione per il Mediterraneo" lanciata da Sarkozy. Il quale, come è noto, vorrebbe procedere all'istituzione di un partenariato euro-mediterraneo che coinvolgesse i 27 Stati membri dell'Unione Europea, quelli che aspirano ad entrarvi (Albania, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro), il Principato di Monaco, la Turchia, i Paesi arabi della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, fino alla Mauritania, nonché lo "Stato d'Israele". Ma l'Unione per il Mediterraneo, ideata da un presidente francese che ha seppellito il gollismo riportando la Francia nella NATO e la NATO in Francia, nascerebbe innervata dalle istituzioni e dalle infrastrutture militari di un'alleanza militare controllata dagli Stati Uniti.
Ebbene Gheddafi, nonostante il riavvicinamento della Libia agli Stati Uniti e nonostante l'accordo di cooperazione militare-industriale, culturale, scientifica e tecnica siglato un anno fa con la Francia (accordo che tra l'altro dovrebbe fornire alla Libia un reattore nucleare per trasformare l'acqua marina in acqua potabile), è stato molto duro nei confronti dell'iniziativa francese, individuando in essa un cavallo di Troia statunitense, con l'Europa ridotta, more solito, a un ruolo subalterno. Tra l'altro, la Libia condanna l'esclusione dell'Unione del Maghreb Arabo dal progetto di Unione del Mediterraneo e vorrebbe che fosse questo organismo unitario a rappresentare ufficialmente tutti i paesi del Maghreb nelle sedi internazionali. Una esplicita freddezza, d'altronde, e probabilmente per motivi analoghi, è stata manifestata anche dall'Algeria, nonché da un altro paese mediterraneo che si va lentamente e cautamente svincolando dalla tutela statunitense, cioè la Turchia.
Questa aspirazione alla libertà del Mediterraneo dall'intrusione straniera, con le acute tensioni che hanno contrapposto la Libia agli Stati Uniti, può contribuire a spiegare alcune passate dichiarazioni di Gheddafi che sono state intese come rivendicazioni territoriali su alcune isole dell'Italia o come tentativi di attizzarvi tendenze separatiste. "Io - diceva Gheddafi nel 1987 - sono un amico del popolo italiano e delle popolazioni di Lampedusa, della Sicilia e di Pantelleria, e mi auguro che queste isole siano indipendenti, a meno che lo Stato italiano non voglia offrire la Sicilia all'inferno americano. (...) Quanto a noi, auguriamo la pace al popolo della Sicilia, un popolo che per la sua sicurezza deve smantellare le basi americane sull'isola. Abbiamo bombardato Lampedusa con dei missili e abbiamo distrutto la stazione di telecomunicazioni appartenente alla Sesta Flotta americana perché Lampedusa è stata usata come base contro di noi". In effetti, gli USA bombardarono la Libia utilizzando Lampedusa: il coordinamento tra la Sesta Flotta e gli aerei dell'USAF decollati dall'Inghilterra venne effettuato per mezzo del sistema Beacon della base statunitense installata sull'isola.
Insomma, quelle che a volte sono sembrate rivendicazioni territoriali su alcune italiane, in realtà sono state il prodotto del rapporto conflittuale fra Libia e Stati Uniti. Come è stato fatto osservare qualche anno fa da un analista particolarmente informato, "leggendo al-Sigil al-qawmî notiamo che Gheddafi, ogni qualvolta parla dell'Italia o delle isole italiane, stabilisce un collegamento con la presenza americana o NATO sul territorio italiano. Considera insomma quelle isole come soggette all'occupazione 'atlantica' NATO" (10).
Si capisce perciò come la politica della Libia nei confronti dell'Italia non abbia potuto prescindere dalla presenza militare statunitense nella Penisola, presenza che a Tripoli viene percepita come una minaccia costante per la sicurezza libica. Come risposta a questa minaccia, Gheddafi ha dichiarato che, nel caso di un futuro scontro militare fra Libia e USA, la Libia non esiterà a bombardare le isole dell'Italia. "Il popolo della Sicilia, fratello ed amico, - disse testualmente nel 1986 - deve far smantellare le basi americane di cui l'isola è piena, basi che noi attaccheremo in caso di aggressione. (...) Agli abitanti di Lampedusa diciamo che distruggeremo totalmente l'isola in caso di aggressione americana contro di noi. Oppure siano loro, gli abitanti di Lampedusa, a costringere gli americani ad andarsene".
Al di là dei discorsi di questo tenore, lo scopo sostanziale di Gheddafi è di far in modo che il governo di Roma attenui la sua subordinazione nei confronti degli USA. Rientra in questa strategia anche la recente divulgazione, fatta da Gheddafi, del contenuto dell'articolo 4 del "Trattato di Amicizia, partenariato e cooperazione" siglato fra Italia e Libia. L'articolo 4 stabilisce che "Nel rispetto dei princìpi di legalità internazionale, l'Italia non userà o non consentirà l'uso dei propri territori nell'eventualità di un'aggressione contro la Libia" e che la Libia si impegna a fare altrettanto nei confronti dell'Italia. Gheddafi ha anche precisato che Tripoli ha chiesto all'Italia l'assicurazione che "né gli Stati Uniti né la NATO usino i territori italiani contro la Libia".
I contenuti del Trattato sono noti. L'Italia riconosce formalmente le sofferenze derivate alla popolazione libica dall'occupazione coloniale iniziata con l'impresa giolittiana del 1911 e proseguita fino al 1943 e si impegna a risarcire la Libia versandole 5 miliardi di dollari nei prossimi 25 anni. È quindi prevista una serie di investimenti italiani, grazie ai quali saranno portati a termine diversi progetti: la costruzione di una grande autostrada litoranea che ricalcherà la vecchia Via Balbia (la prima grande strada italiana in Africa, che unì la Tripolitania e la Cirenaica), la costruzione di numerose infrastrutture lungo il tragitto, la costruzione di due grandi ospedali, la predisposizione di un piano di miglioramento scolastico con borse di studio per studenti libici in Italia. Dietro tutto ciò vi sono ovviamente le grandi imprese edili ed energetiche; proprio l'anno scorso l'ENI ha ottenuto il rinnovo per 25 anni delle concessioni per l'estrazione di gas e petrolio. Altri lavori coinvolgeranno l'Impregilo e la Finmeccanica e perfino l'Università di Palermo, che ha instaurato rapporti con quella di Bengasi. Un passo avanti è stato fatto anche per la restituzione dei visti ai 20.000 coloni italiani espulsi dalla Libia. Infine, la guerra ai "mercanti di schiavi", da effettuare attraverso pattugliamenti congiunti italo-libici nel canale di Sicilia e l'intensificazione dei controlli, anche a mezzo radar, ai confini col Ciad, il Niger e il Sudan.
Non ci sarebbe nulla di cui scandalizzarsi per la clausola relativa ad un patto di non aggressione tra due Stati, anzi. E invece, da parte dell'opposizione parlamentare sono giunte richieste di chiarimenti ed esortazioni a non dimenticare che l'Italia è un paese membro dell'Alleanza Atlantica e della NATO. Alle perplessità espresse in Italia dal Partito Democratico hanno fatto immediatamente seguito alcuni avvertimenti mafiosi arrivati dall'altra sponda dell'Atlantico. Daniel Pipes, famigerato "falco" neocon e filosionista, ha subito messo in guardia il governo italiano a non indebolire il fronte occidentale. "Come Putin cerca di indurre i Paesi europei che più dipendono da petrolio e gas russi a prendere le distanze da noi [cioè dagli USA], così Gheddafi cerca di indurvi a stare dalla sua parte nel caso di un nuovo scontro con l'America. Avete firmato un accordo non solo commerciale ma politico".
Insomma, sembra di capire che i trattati sottoscritti dall'Italia nel 1949 e nel 1954 impediscano ai governi italiani di garantire che il territorio nazionale non venga utilizzato - dagli alleati della NATO o da uno di essi - per operazioni militari dirette contro la Libia. Tuttavia non mancano precedenti interessanti: nel 1986, quando gli USA, dopo le loro provocazioni nel Golfo della Sirte e l'abbattimento di due aerei libici, bombardarono Tripoli e Bengasi per vendicare un attentato attribuito ai Libici e causarono decine di vittime tra la popolazione civile libica, aerei FB-111 dell'USAF decollati dall'Inghilterra dovettero raddoppiare il percorso e la durata dei voli, perché la Francia e la Spagna, che pure aderivano al Patto Atlantico, avevano negato agli aerei statunitensi l'uso del loro spazio aereo. Non è escluso che Gheddafi, facendo cenno al contenuto dell'articolo 4 del recente Trattato, si riferisse al comportamento autonomo tenuto ventidue anni fa da Parigi e Madrid.
In maniera che potrà apparire paradossale e contraddittoria a chi attribuisca un valore sostanziale alle classificazioni basate sulle categorie parlamentari di "destra" e di "sinistra", firmando il Trattato con la Libia il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi ha preso un indirizzo che, fatte le dovute proporzioni, ricorda la politica mediterranea di alcuni uomini dei governi di centrosinistra: Moro, Andreotti, Craxi. In realtà, al di là di etichette che significano poco o nulla, il governo attuale ha ripreso una linea politica corrispondente alla posizione geografica di un Paese che, come il nostro, si trova letteralmente immerso nel Mediterraneo. D'altra parte, esiste per l'Italia la necessità di assicurarsi fonti di approvvigionamento energetico, per cui la politica italiana non dovrebbe prescindere da un oggettivo dato geografico: l'immediata vicinanza di due potenze energetiche quali l'Algeria per quanto riguarda il gas e la Libia per quanto riguarda il petrolio.
                                                               *************

1. A. Benantar, De l'existence d'un sous-système arabe, Université de Toulouse, 1998.
2. J. Hamdân, Al-jumhûrîyya al-'arabîyya al-lîbîyya: dirâsa fî 'l-jughrâfîyya al-siyâsîyya, (La Repubblica Araba Libica: studio di geografia politica), ‘Alam al-kutub, Il Cairo 1973, p. 104.
3. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu‘ammar al-Qadhdhâfî, (Registro
Nazionale, Dichiarazioni, discorsi e interviste del colonnello Muammar Gheddafi), volume annuo, n. 17, 1985- 1986, Centre Mondial des Études et Recherches du Livre Vert, Tripoli 1986, p. 961).
4. Kadhafi messager du désert, Biographie et entretiens par Mirella Bianco, Stock 1974; ed. it.
Mursia 1977.
5. Per i brani dei discorsi di Gheddafi, cfr. Gheddafi templare di Allah. La Rivoluzione Libica nei
Discorsi di Mo’ammar El-Gheddafi, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, Padova 1975.
6. Enrico Galoppini, Tripoli bel suol d'affari, "Limes", X, 5 (2002), p. 132.
7. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu'ammar al-Qadhdhâfî, cit., p. 949.
8. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu'ammar al-Qadhdhâfî, cit., p. 948.
9. Kadhafi, messager du désert, Biographie et entretiens par Mirella Bianco, cit.
10. Africanus, Geopolitica di Gheddafi: realismo travestito da stravaganza, "Limes", 2/1994, p.
114).

Articolo di Claudio Mutti, tratto da http://www.claudiomutti.com/  31 Agosto 2010.

                                                               

venerdì 30 aprile 2010

LA MANO DI FATIMA

                                                                      

Ha cenato al Ristorante in Fiera, ha dormito a Palazzo Sant´Elena, ha passato il pomeriggio fra il Lanza e la Taverna del Gufo: Ildefonso Falcones, avvocato di Barcellona, uno dei più famosi scrittori del mondo ('La cattedrale del mare´ ha venduto quattro milioni di copie) é stato ospite di Foggia la scorsa settimana.
Falcones é venuto a presentare il suo secondo romanzo, 'La mano di Fatima´ (Longanesi). Un affresco storico sul mosaico di razze e di fedi della Spagna del XVI secolo. Un romanzo storico che narra della cacciata dei musulmani dalla Spagna da parte dei re cristiani e delle autorità cattoliche nel 1568. Un racconto duro e affascinante che punta i riflettori sulle vessazioni e le violenze subite da un popolo, quello dei moriscos, di cui poco si conosce.
Tra i rivoltosi musulmani stanchi di ingiustizie e umiliazioni, spicca il personaggio di Hernando, il ragazzo che si batterà per la sua gente affrontando la guerra, l´amore, eterne passioni, vendette e avventure, conducendo il lettore in un emozionante viaggio nel tempo.
Spagna, 1568. L´Alpujarra é una porzione di terra andalusa, montuosa, che racchiude le province di Granada e di Almeria ed è popolata da una folta colonia di musulmani da tempo costretti alla conversione al cattolicesimo da parte della Corona degli Asburgo. I moriscos (così li chiamavano) sono un popolo fiero, legato alla propria identità, che inevitabilmente passa per il loro credo religioso: sono pronti a dare battaglia contro i cristiani e ad evitare così una sottomissione sempre più invasiva e radicale
È in questo periodo che Ildefonso Falcones ha ambientato il suo secondo romanzo. L´autore non abbandona la trattazione storica, ripercorrendo nelle sua fluviale narrativa la tragedia dei moriscos che stimola la riflessione sull´intolleranza e il fanatismo di cristiani e musulmani che, pur nelle differenze di fede religiosa, diventano sorprendentemente simili quando, negli altalenanti esiti della storia, assurgono al ruolo ora di vincitore, ora di vinto.
La narrazione degli eventi della Cordova del XVI secolo, peró, non fa che da sfondo, da scenario accattivante al fiume narrativo della vicenda. Come per la piú classica delle fiction di ambientazione storica, infatti, il romanzo dello spagnolo stacca dal fondo della veridicità storica la vicenda del giovane Hernando e la pone al centro della narrazione, in un crescendo di avvenimenti filtrati dal racconto, mai noioso, della vita di un uomo che fa i conti con le eterne passioni di odio, amore, speranza e disillusione, continuando a lottare per il proprio destino e per quello del suo popolo.Un romanzo storico modello Promessi Sposi, pertanto, aggiornato ai tempi della telenovela storica, ritagliato su una vicenda che ha tutti gli ingredienti del triangolo amoroso complicato da intrighi, tradimenti e amori contrastati, in cui la storia come istoria, indagine e ricerca di fatti, recupera il suo significato primigenio di visione, rappresentazione di fatti narrati perché visti.
Così, la lettera che l´ambasciatore spagnolo a Parigi indirizza al re Filippo II per riferire circa le continue proteste delle donne musulmane costrette a subire violenze e soprusi di ogni genere dal parroco cristiano del villaggio, non é che il pretesto storico da cui l´autore prende le mosse per raccontare la storia letteraria della vita di Hernando, stigmatizzato da quegli occhi azzurri che ne testimoniano l´imbarazzante senso di ambiguità da cui per tutta la vita tenterà di emanciparsi. In questo tempo di “preparazione” alla pulizia etnica della Padania alla quale assistiamo in bilico tra indifferenza e sgomento, siamo di fronte ad una opportunità per le Due Sicilie: portare quell’energia, quell’iniziativa, quella vitalità “morisca” che la Padania stolta rifiuta, qui nelle Due Sicilie, quale contributo “storico” alla sua rinascita!

E Allah, che tiene fra due dita il destino dell’uomo e dell’umanità intera, ne sa di più.

Pubblicato da Mustafa a 08.26

martedì 9 marzo 2010

L' EUROPA MUSULMANA







A Dio appartengono l'Oriente e l'Occidente;
in qualunque direzione vi volgiate, ivi è il Volto di Dio;
in verità Iddio tutto abbraccia e tutto sa.
Corano, II, 115
                                                                                                   


Gottes ist der Orient!
Gottes ist der Okzident!
Nord- und südliches Gelände
Ruht im Frieden seiner Hände.
J. W. Goethe





Europa cristiana ed Europa musulmana

"Erano tempi belli, splendidi, quelli dell'Europa cristiana, quando un'unica cristianità abitava questo continente di forma umana, e un grande e comune disegno univa le più lontane province di questo ampio regno spirituale". Così esordisce quel celebre frammento che Novalis scrisse nel 1799 e intitolò Die Christenheit oder Europa, enunciando una sinonimia che già allora appariva poco fondata.
Nella realtà, l'"unica cristianità" idealizzata dal poeta romantico non è mai esistita; tanto meno è esistita una cristianità coincidente con l'umanità europea. Nel cristianesimo, infatti, gli scismi sono stati numerosi, fin dai tempi apostolici: già San Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi, lamentava le divisioni della Chiesa. Ma il primo grande scisma, lo scisma d'Oriente, avvenne nel 1054, quando Leone IX scomunicò il Patriarca Michele Cerulario e tutta la Chiesa d'Oriente: questa rottura fu il risultato di oltre mezzo millennio di attriti, di gelosie e divisioni che avevano scavato un fossato tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente. Compito della Chiesa greca era stato di formulare i dogmi relativi a Dio e al Cristo, mentre la Chiesa romana aveva definito la dottrina concernente la natura e i bisogni dell'uomo. La prima, erede della filosofia e della retorica dei Greci, aveva esteso la sua giurisdizione agli Slavi e ai Latini d'Oriente; la seconda, erede della sapienza giuridica romana, era diventata la religione dei popoli latini d'Occidente e dei popoli germanici. I motivi immediati dello scisma furono alcune innovazioni occidentali, come l'aggiunta del "filioque" al testo del Credo e le norme sul celibato del clero.
Lo scisma d'Occidente ebbe luogo nel 1378, in seguito all'elezione di due diversi papi: Urbano VI e Clemente VII. Quest'ultimo, che venne riconosciuto da una parte degli Stati cattolici, si stabilì ad Avignone e usò le armi per tentare di togliere al rivale lo Stato pontificio. Tale divisione turbò la Chiesa occidentale, finché l'unità venne ricomposta nel 1447 sotto Nicolò V.
Nel secolo successivo, però, la Riforma protestante provocò il distacco della maggior parte delle popolazioni germaniche - e non solo germaniche - dalla Chiesa di Roma, nonché la nascita di tutta una serie di chiese nazionali.
In questo panorama europeo, caratterizzato dalla frantumazione della cristianità e dalla presenza di due, poi di tre grandi confessioni cristiane ostili e in lotta fra loro, si era inserito, fin dall'VIII secolo d. C., l'Islam. Accanto all'Europa ortodossa, a quella cattolica e a quella protestante prese dunque forma, su un'area territoriale più ridotta, un'Europa musulmana.

La Spagna musulmana

L'Islam europeo si manifestò inizialmente nella penisola iberica. Su un preesistente fondo germanico (visigotico) e romanzo (ibero-latino) ebbe luogo l'"unico trapianto in grande stile della civiltà arabo-musulmana su suolo europeo" (1). Si trattò di un trapianto più culturale che etnico, perché "i musulmani di Spagna, se discendenti di convertiti alla religione dei conquistatori, erano Spagnoli puri; altrimenti, per via dei frequenti incroci, prevaleva nelle loro vene l'antico sangue ispanico" (2).
Veicoli dell'Islam in Spagna furono inizialmente i Berberi, i quali, dopo che gli Arabi di Mu'awiya ebbero fallito nel tentativo di forzare la porta orientale dell'Europa, riuscirono ad entrarvi dal versante opposto. Nel 711 un luogotenente del governatore dell'Ifriqiyya immortalò il proprio nome, Târiq, nella montagna che da lui prese il nome: Gibilterra (Gebel Târiq = "Monte di Târiq"). La spedizione contro il regno dei Visigoti, che in Ispagna avevano preso stanza nel V secolo, nel giro di sei anni diede luogo a un'occupazione stabile del territorio. Al-Andalus - questo il nuovo nome del paese - nel 756 si sottrasse alla sovranità del califfo omayyade di Damasco e diventò indipendente.
Nel 752 truppe arabe e berbere, che si erano concentrate a Pamplona per varcare i Pirenei attraverso il passo di Roncisvalle, furono bloccate tra Poitiers e Tours. Gli storici occidentali hanno spesso attribuito un'importanza eccessiva a questa battaglia e hanno voluto vedere in essa l'evento decisivo da cui dipese nei secoli avvenire la civiltà cristiana. Per i cronisti musulmani, si trattò semplicemente di un episodio sfortunato, che però non impedì ulteriori incursioni in territorio cristiano. Fatto sta che nel giro di pochi anni Carlo Martello e Pipino il breve riuscirono a strappare ai musulmani la Settimania, sicché l'Europa musulmana dovette fissare i propri confini settentrionali in corrispondenza dei Pirenei.
Sotto la dinastia degli Omayyadi (755-1031) la Spagna conobbe un periodo di grande splendore: il sovrano più importante fu l'emiro 'Abd ar-Rahmân III (912-961), che consolidò il suo potere e assume il titolo di califfo (929); ma dopo al-Mansûr (Ibn Abî Amir, 977-1002), che ristabilì la signoria araba su tutta la Spagna, scoppiò una serie di contese dinastiche (1008-1031), sicché l'Andalusia si frazionò in piccoli regni autonomi (i reinos de taifas, 1031-1086). Contro Alfonso VII di Castiglia, che riprese l'offensiva cristiana, vennero chiamati in Spagna gli Almoravidi berberi (1086-1147), ai quali succedettero gli Almohadi (1150-1250). L'emirato di Granada (1246-1492), ultimo baluardo dell'Islam nell'Europa occidentale, cadde con la conquista della città da parte di Ferdinando e Isabella di Castiglia.
Per un bilancio della presenza dell'Islam in Spagna, possono valere queste poche parole di Sigrid Hunke: "L'esempio della Spagna mostra che duecento anni di sovranità musulmana furono sufficienti perché un paese impoverito, desolato e asservito venisse a trovarsi alla testa dell'Europa e del mondo occidentale, e ciò grazie ad una cultura diffusa in tutti i ceti della popolazione e grazie al fiorire delle scienze e delle arti. Questo primato, la Spagna lo conservò per cinque secoli, finché l'Islam non venne estromesso" (3).

L'Italia musulmana

L'Italia cominciò ad attrarre l'interesse dei Saraceni (si trattava soprattutto di Berberi) verso la metà del VII secolo, cioè in un periodo in cui la penisola era politicamente divisa tra i Longobardi, i Bizantini e il Papa. La prima incursione ebbe luogo in Sicilia nel 652, durante il califfato di 'Othmân, che ne affidò l'esecuzione a Mu'awiya ibn Hudaig. La Sardegna e la Corsica furono assalite nel primo decennio dell'VIII secolo, nel contesto di quella grande ondata espansiva che, a cavallo dei secoli VII e VIII, sottomise all'impero omayyade l'Egitto, il Nordafrica e la penisola iberica. Anche se non ci è dato di sapere con precisione quando le due isole siano cadute in potere dei musulmani, pare che questi si siano impadroniti totalmente della Corsica verso la metà del secolo IX e della Sardegna cinquant'anni più tardi. In seguito, all'inizio del secolo XI, un condottiero di nome Mujâhid (Mugetto per le cronache italiane), proveniente dalla Spagna o dalle Baleari, sbarcò in Sardegna e riconquistò Cagliari, che i Saraceni avevano perduta. Ripresa la Sardegna e aspirando a più ampie conquiste, Mujâhid occupò la Lunigiana, restaurò Luni e vi si insediò. Perduta e quindi ripresa la Sardegna, i musulmani dovettero abbandonarla definitivamente nel 1050, dopo averla occupata, tutta o in parte, per più di tre secoli. Quanto alla Corsica, su di essa avrebbero regnato sei sovrani mori, finché il patrizio romano Ugo Colonna la conquistò verso l'anno 800 per conto del Papa.
Più lunga fu la presenza dell'Islam in Sicilia, e più gloriosa: "non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò" (4), scriveva nell'Ottocento Michele Amari, insuperato storico della Sicilia musulmana. La conquista dell'isola, cui parteciparono Arabi, Berberi e Andalusi guidati dal settantenne Asad ibn al-Furât, fu iniziata nell'827 da quella dinastia aghlabide che, insediatasi nell'Ifriqiya e acquisito il controllo del Mediterraneo centro-orientale, nell'813 aveva organizzato una scorreria in Calabria e aveva sbarcato un contingente di armati a Civitavecchia. Nell'831 fu espugnata Palermo, che diventò la capitale della nuova provincia aghlabide; nell'843 fu la volta di Messina; poi toccò a Castrogiovanni e a Siracusa, finché nel 902 la presa di Taormina completò la conquista dell'isola, che diventò la base per ulteriori spedizioni, sia verso le coste calabresi sia verso quelle adriatiche. Rimasta legata agli Aghlabidi fino al tramonto della loro fortuna politica, nel 910 la Sicilia passò nell'orbita dei Fatimidi sciiti, che si erano insediati nel Nordafrica. Su mandato fatimide i Kalbidi assunsero il governo dell'isola, che sotto di loro conobbe un periodo di grande prosperità. "L'agricoltura e il commercio ridiventarono fiorenti; le conversioni si moltiplicarono, non per costrizione, ma per il desiderio spontaneo suscitato dagli uomini pii e per l'ammirazione destata dal superiore livello di civiltà degli occupanti. La prosperità e le raffinatezze dell'Oriente, la vita culturale di Baghdad, di Cordova e del Cairo si riflettevano anche a Palermo" (5). Tra autoctoni, berberi e persiani (numerosi questi ultimi nell'esercito e nella burocrazia), la popolazione palermitana superava i 300.000 abitanti; col suo mezzo migliaio di moschee, nella più grande delle quali venivano custoditi i presunti resti mortali di Aristotele, la metropoli siciliana poteva benissimo reggere il confronto con Cordova.
I musulmani di Sicilia si inserirono ben presto nella politica italiana, stringendo frequenti alleanze coi signori longobardi. Nell'835 la repubblica di Napoli fece ricorso all'aiuto dei Saraceni contro i Beneventani; nell'842 i Napoletani restituirono il favore aiutando i musulmani che attaccavano Messina. Nell'agosto dell'846 un gruppo di Berberi, forse proveniente da una base sarda, sbarcò ad Ostia e arrivò a Roma, dove penetrò in San Pietro e ne saccheggiò i tesori. Nel secolo IX il basso Tirreno era così entrato nella sfera d'azione dei musulmani, che nell'848 occuparono anche Cuma; rimasta in loro possesso per un paio di secoli, questa città fu un importante scalo commerciale che godette della protezione delle vicine repubbliche di Napoli, Amalfi e Gaeta.
Quanto al litorale adriatico, nell'847 il berbero Khalfûn conquistò Bari. Sei anni più tardi il suo successore chiese al califfo di Bagdad di legittimare il suo potere, ma l'investitura arrivò solo a Sawdân, che fu titolare dell'emirato di Bari fino all'871 (6). Non solo Bari, ma anche Taranto si trovò in quel periodo sotto il dominio musulmano e diventò anch'essa un fiorente centro commerciale; d'altronde, "le vie di comunicazione fra il Mediterraneo occidentale e quello orientale sia pure controllate dai musulmani non furono mai interrotte completamente, almeno per quello che interessava le città costiere italiane" (7).
Con la caduta dei Kalbidi, la controversia tra i due signorotti rivali di Catania e di Girgenti favorì l'ingresso dei Normanni in Sicilia, sicché alla fine del secolo XI l'egemonia musulmana sull'isola era terminata. Nel regno normanno i musulmani non assommavano a più di 100.000 persone, alle quali fu concessa la possibilità di autogovernarsi; tuttavia l'esodo verso l'Africa ridusse ulteriormente il loro numero. In ogni caso, l'impronta culturale che l'Islam aveva impressa alla Sicilia caratterizzò anche l'epoca normanna: "i Ruggeri e i Guglielmi, a differenza degli Asburgo in Spagna, seppero raccogliere ogni positivo elemento dell'eredità musulmana, e incorporarla alla composita cultura del loro Stato: onde proprio quell'età normanna ci ha serbato i più vivi ricordi della presenza degli Arabi in Sicilia, in istituzioni, titoli, documenti, iscrizioni, monete, opere di scienza come la Geografia di Edrisi, e versi di poeti di corte" (8). Parafrasando il poeta latino, si potrebbe dire: Sicilia capta ferum victorem cepit.
Ma l'impronta islamica non scomparve nemmeno nel periodo successivo; anzi, fu proprio nel periodo svevo che essa acquisì un ulteriore risalto.
Con Federico II di Svevia il baricentro del Sacro Romano Impero si spostò nel Mediterraneo; nel 1229, in seguito all'intesa col Sultano, l'Imperatore estese la sua autorità a Gerusalemme e ad altri luoghi della Palestina, sicché l'impero federiciano sembrò recuperare, anche se in misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed eurasiatica che aveva caratterizzato le grandi sintesi imperiali a partire dal tentativo di Alessandro Magno (al quale d'altronde Federico II venne paragonato dai musulmani; e si tenga presente l'importanza che ha per l'Islam Alessandro Magno, il "Bicorne" di cui parla la coranica Sura della Caverna). In quanto sovrano dei regni di Sicilia e di Gerusalemme, in un'epoca in cui l'impero bizantino era crollato sotto i colpi della IV Crociata e i poli geopolitici del Mediterraneo erano il Califfato di Bagdad e il Sultanato d'Egitto, il grande Svevo fu costruttore di una politica di pace e di convivenza, mediatore fra culture e fedi religiose diverse. Se il panorama germanico era un'immagine dell'imperium ideale, in quanto comprendeva una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell'impero federiciano presentava un quadro di differenze molto più profonde. Per quanto concerne l'aspetto etnico, nell'Italia meridionale e insulare troviamo infatti popolazioni di origine latina, greca, longobarda, araba e berbera, normanna, sveva, ebraica. La situazione linguistica è ben rappresentata non solo dal trilinguismo della cancelleria imperiale, coi suoi notarii greci, saraceni, latini, ma anche dal poliglottismo di Federico II, il quale, oltre a parlare latino, tedesco, greco, arabo e provenzale, scrisse poesie nel volgare siciliano, recando un contributo anche personale alla nascita della letteratura italiana. Dal punto di vista religioso, nell'impero federiciano convivevano cattolici, ortodossi, musulmani e anche ebrei. Federico II volle che i musulmani vivessero in maniera conforme alla loro tradizione, in comunità cittadine governate da organismi autonomi: a Lucera, Aderenza, Girifalco ed altrove.


L'Islam nei Balcani

Nel 1492, quando Granada cadde nelle mani dei Re cattolicissimi, il numero dei musulmani spagnoli si aggirava intorno ai due milioni. Centoventi anni più tardi, Filippo III espulse dalla Spagna gli ultimi moriscos, mezzo milione all'incirca. I loro discendenti abitano oggi nel Maghreb e talvolta recano cognomi che rivelano l'origine spagnola: Ibn Qûtî ("Figlio della Visigota"), Ibn Qûtiyyah ("Figlio della Visigota") ecc.
Ma il medesimo secolo che vedeva tramontare la stella dell'Islam all'estremità occidentale dell'Europa, assisteva al sorgere della Mezzaluna sull'Est europeo.
Nell'Europa balcanica, l'Impero ottomano ereditò i territori che erano stati precedentemente soggetti a Roma e a Bisanzio. Il limes danubiano, che aveva separato i territori dell'Impero romano dallo spazio abitato dai barbari, costituì per tutto il XV secolo la linea di demarcazione tra il dâr al-islâm e il dâr al-kufr. Poi, come Traiano si era spinto a nord del Danubio e aveva acquisito all'Impero di Roma la Dacia, così Solimano I conquistò la regione danubiana tra Belgrado e Buda, rinsaldando l'influenza della Sublime Porta su Valacchia, Moldavia e Transilvania. Come ai tempi di Roma, così pure allora rientravano in un unico spazio imperiale, oltre alla regione balcanico-danubiana, anche il Mar Nero e le sponde circostanti, l'Armenia e la Mesopotamia, l'Anatolia, la Siria e la Palestina, l'Egitto e tutto il Nordafrica fino ai confini del Marocco. Conquistata Rodi nel 1522, Cipro nel 1571 e Creta fra il 1645 e il 1669, l'egemonia della Porta si estendeva sulla metà orientale del Mar Mediterraneo; nell'altra metà, le acque a sud della Sicilia e di Malta, della Sardegna e delle Baleari erano anch'esse sotto il controllo ottomano.
La sconfitta subita a Lepanto nel 1571 non fu quell'evento epocale che ancor oggi molti tendono a vedervi, tant'è vero gli Ottomani, oltre a conservare Cipro, passarono al contrattacco e tre anni più tardi riconquistarono Tunisi. Più che non Lepanto, fu la sconfitta subita nel 1683 dal gran visir Qara Mustafa a Kahlenberg, nei pressi di Vienna, il fatto d'armi decisivo che segnò l'espansione massima della potenza ottomana. In seguito, la perdita di Buda nel 1686 e la sconfitta subita a Zenta nel 1697 determinarono la situazione che venne sancita nel 1699 con la pace di Karlowitz: la regione del Temes, compresa tra la Transilvania, il Maros, il Tibisco e il Danubio, rimaneva sotto la sovranità ottomana, come pure la parte meridionale del Sirmio, tra Belgrado e il fiume Bosut, ma la Porta doveva rinunciare ai territori ungheresi conquistati da Solimano un secolo e mezzo prima. Ciononostante l'Impero ottomano sarà un fattore di stabilità nell'Europa balcanico-danubiana anche nel secolo XVIII.
Nicolae Iorga, autore di una monumentale Geschichte des osmanischen Reiches, ha visto nell'Impero ottomano la "Roma musulmana dei Turchi" (9), ovvero "l'ultima ipostasi di Roma" (10), in quanto "il dominio ottomano non significava altro che una nuova Bisanzio, con un altro carattere religioso per la dinastia e per l'esercito" (11); analogamente, Arnold Toynbee ha parlato di "Impero Romano turco-musulmano" (12), mentre Franz Babinger ha potuto scrivere: "Pareva veramente che al tempo del Conquistatore fosse tornata la sicurezza bizantina del glorioso passato, la pax Romana, e che tutti potessero goderne" (13). D'altronde lo storico tedesco ha fatto notare come nell'Impero ottomano fossero presenti istituzioni molto simili ad analoghe realtà della Roma antica (14).


L'Islam in Russia

Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, gli eredi si divisero il compito di proseguire l'espansione dell'impero mongolo. La conquista dell'occidente toccò a Batu, il quale, varcato l'Ural e abbattuto il regno dei Bulgari bianchi della Volga (islamizzati fin dal sec. X), attaccò i principati della Rus' nordorientale. Prese e distrutte numerose città, nel 1240 Batu espugnò la capitale stessa, Kiev. Quindi i Tartari (così venivano chiamati i conquistatori, ché tatara era la truppa agli ordini dei Mongoli) investirono la Polonia meridionale, la Germania e l'Ungheria: l'impero dell'Orda d'Oro venne così ad estendersi dall'Irtysh al Danubio e dal nord della Rus' al Caucaso. Al di qua degli Urali, i Tartari si insediarono nella regione della media Volga e della Kama, nella penisola di Crimea e nella soprastante steppa dei Qipciaq, compresa tra l'Ural e il Dnestr. Successivamente l'Orda d'Oro si sarebbe divisa a causa dei contrasti interni e nel XV secolo avrebbe dato nascita a nuovi canati: quello di Kazan', quello di Astrakan e quello di Crimea. Su quest'ultimo regnò la famiglia gengiskhanide dei Ghiray, la quale, per quanto nominalmente vassalla della Sublime Porta, agì spesso in maniera autonoma, volgendosi verso la Polonia o verso Mosca. Nel 1571 Mosca fu saccheggiata e Ivan il Terribile fu costretto a versare un tributo che sarebbe rimasto in vigore fino a Pietro il Grande. Nel 1577 i Tartari assediarono Tallinn, che allora era svedese come tutta l'Estonia: risale a quel periodo la presenza di gruppi tartari in Scandinavia e in Finlandia (15), oltre che in Polonia. Ma i rapporti fra i Tartari e il nord dell'Europa non furono improntati esclusivamente all'ostilità. Una volta costituito il loro stato, i Tartari avevano imposto il vassallaggio ad alcuni principi cristiani e quindi avevano permesso alla Chiesa ortodossa di mantenere la cultura locale tra le popolazioni slave a loro assoggettate. In relazione alla dinastia dei Ghiray, va detto a questo proposito che il suo fondatore era nato in Lituania e che a Vilna furono educati molti esponenti dell'aristocrazia tartara. Nel XVIII secolo i Tartari di Crimea si allearono coi Polacchi e coi Cosacchi del Dnepr, finché nel 1783 diventarono sudditi di Caterina II. Deportati in Kazachistan e in Usbechistan dopo la seconda guerra mondiale, oggi i Tartari di Crimea ritornano a casa.
Attualmente i Tartari (circa tre milioni) sono il più numeroso dei popoli di lingua turco-tatara insediati tra la Volga, la Kama e la Belaja; dopo di loro vengono i Ciuvasci, che però sono quasi tutti cristiani ortodossi, e i Baschiri (un milione e quattrocentomila). Anche se l'etnogenesi dei Baschiri costituisce tuttora un problema, pare certo che si tratti di un popolo ugrico rimasto nell'area originaria, mentre nel IX secolo un popolo a loro affine, i Magiari, si spostava verso occidente. Nel XIII secolo i Baschiri erano comunque già turchizzati e nel XVIII secolo erano ormai praticamente islamizzati.
L'altra grande area di diffusione dell'Islam russo al di qua degli Urali è quella caucasica. In tale area, la prima regione che abbracciò l'Islam fu quella sudorientale, corrispondente all'Azerbaigian persiano: essa venne conquistata dagli Arabi nel 643 assieme al resto della Transcaucasia, dove però Armeni e Georgiani rimasero cristiani. Nel sec. XI l'Azerbaigian fu turchizzato dai Selgiuchidi; nel sec. XVI optò per l'Islam sciita. Nel 651 gli Arabi introdussero l'Islam anche nella parte meridionale del Daghestan, mentre la parte settentrionale si convertì verso il XIII secolo. In Cecenia, l'Islam si diffuse a partire dal XVII secolo, ma l'islamizzazione del paese fu portata a termine nell'Ottocento, da alcune confraternite sufiche. La parte occidentale della Cecenia, che assunse il nome di Inguscezia, aderì all'Islam intorno al 1870, sempre per effetto dell'azione delle confraternite. Nel settore nordoccidentale del Caucaso (Caraciaia-Circassia e Ossezia) l'Islam cominciò a diffondersi verso la fine del XVI secolo, per influenza del canato di Crimea; oggi però la maggioranza degli Osseti, anche nell'Ossezia meridionale, si dichiara atea. Armenia e Georgia, come si è detto, sono rimaste cristiane, con minoranze musulmane di Azeri e di Curdi; invece l'Agiaria (ex Gurelia) diventò musulmana nel XVI secolo e l'Abcasia a partire dal XVII. In totale, nel Caucaso del nord e nella Transcaucasia vivono attualmente oltre nove milioni di musulmani. Il gruppo maggioritario è quello turco e sciita degli Azeri, che assomma a cinque milioni e mezzo di anime; seguono tre milioni di sunniti appartenenti a vari gruppi della famiglia ibero-caucasica (Daghestani, Ceceni, Cabardi, Ingusci, Abcasi ecc.), un mezzo milione di sunniti appartenenti a varie etnie turche, qualche centinaio di migliaia di iranici sia sunniti (Osseti e Curdi) sia sciiti (Talisci e Tati).
L'URSS, coi suoi cinquanta milioni di cittadini musulmani, era la quinta potenza musulmana del mondo, dopo l'Indonesia, il Pakistan, il Bangladesh e l'India. C'erano più musulmani nell'Unione Sovietica che in Egitto o in tutta la penisola arabica. Gli osservatori più attenti avevano cominciato ad avvertire il peso politico dell'Islam "sovietico" già una decina d'anni prima del crollo dell'URSS, quando Hélène Carrère d'Encausse dava alle stampe L'empire éclaté (10) e scriveva su "Le Monde" che la rinascita islamica nel Caucaso e nell'Asia centrale avrebbe determinato in maniera decisiva le scelte del Cremlino (16). Nello stesso periodo, di fronte alle fortune politiche di Aliev, Kunaev e Rashidov, sembrava lecito ai corrispondenti da Mosca domandarsi se l'elemento musulmano, così fortemente rappresentato fra le massime gerarchie sovietiche, sarebbe riuscito un giorno "ad affermarsi al vertice, come riuscì in passato un'altra minoranza, quella georgiana" (17), con Stalin. Non è inverosimile che il progetto di distruzione dell'URSS abbia tratto origine anche dalla volontà politica di impedire che si realizzasse una eventualità di questo genere: lo scenario di un impero eurasiatico imperniato su quasi settanta milioni di musulmani (tanti ne prevedevano le indagini demografiche per l'inizio del XXI secolo) avrebbe impresso una ben diversa direzione alla storia del mondo. Non sono fantasie: fu un personaggio come Sergej Kurginian (consigliere dell'ex premier Pavlov e dell'ex segretario moscovita del PCUS Prokofiev) a dichiarare esplicitamente che l'obiettivo di Eltsin era "la liquidazione di questo Stato russo-turco (…) in cui ben presto i popoli di stirpe turca cominceranno a prevalere" (18).
L'eventualità temuta da Eltsin è stata scongiurata. Tuttavia l'Islam continua ad essere una componente fondamentale della realtà socioculturale russa. "I musulmani censiti nel 2003 sono 14 milioni e mezzo, ma stime ufficiose, talvolta echeggiate dallo stesso presidente Vladimir Putin, optano per un totale di 20 milioni. Alla fine del 2000, nella Federazione Russa si contavano 4.658 moschee. (Si intendono qui solo gli edifici di culto registrati. In effetti, le moschee in Russia sono alcune centinaia di più. N.d.A.). Il sistema di istruzione religiosa musulmana è basato su oltre cento tra istituti e madrase. Solidi contatti sono stati stabiliti con i correligionari degli altri paesi, e nella coscienza dei musulmani russi la componente religiosa si è ormai notevolmente rafforzata" (19).
Anche se la Federazione Russa non è più la quinta potenza musulmana del mondo, è pur sempre uno Stato in cui i cittadini di appartenenza islamica superano per numero quelli della Tunisia, della Libia, della Giordania o della Siria. Era quindi logico che la Russia chiedesse di aderire alla Conferenza Islamica.


La mezzaluna euroislamica

Nella storia europea, l'Islam si è manifestato secondo tre modalità diverse, alle quali corrispondono tre diverse tipologie geopolitiche.
Tra i secoli VII e IX prese forma quello che potrebbe essere definito un "Islam del mare", un Islam che interessò isole e penisole dell'Europa mediterranea: soprattutto la Spagna e la Francia meridionale, le Baleari, la Corsica, la Sardegna, la Sicilia, alcune zone della penisola italiana, ma anche Creta (che per circa un secolo e mezzo fu sede di un emirato), l'Attica e l'Eubea. La sostanza etnica di questo Islam fu germanica, latina, greca, berbera, araba e anche persiana. Le sue lingue, accanto alla lingua di cultura rappresentata dall'arabo, furono i volgari latini regionali che si avviavano a dare origine alle rispettive parlate romanze. Sarà lo spagnolo, in particolare, a ereditare dall'arabo quella grande quantità di prestiti linguistici che esso ha integrato nel proprio vocabolario.
Fu invece un "Islam della terra" quello che, sorto nel XIII secolo sui territori della Russia compresi tra gli Urali, il Caucaso e il Mar Nero, si sviluppò nei secoli successivi e completò la sua formazione addirittura nel corso del XIX secolo. Sotto il profilo etnico, l'Islam delle pianure russe e delle montagne caucasiche ha presentato una certa varietà. Nei territori del canato di Crimea e nella zona compresa tra la Volga, la Kama e la Belaja, l'Islam animò una sostanza etnica di matrice turanica (popolazioni turche, tartare, ugriche); nel Caucaso, i musulmani (iranici, caucasici, turchi ecc.) composero un mosaico razziale e linguistico corrispondente alla grande diversificazione antropologica caratteristica di tutta quanta la regione.
A una sintesi imperiale di terra e di mare corrispose invece l'Islam ottomano, che ebbe il suo epicentro nella capitale dell'antico Impero Romano d'Oriente. Qui l'Islam impresse la sua forma a popolazioni d'origine illirica e greca, slava e turca. La lingua ufficiale dell'Islam ottomano fu ovviamente il turco; ma furono anche usate, come lingue di cultura, il persiano, l'arabo e il greco, mentre i popoli dell'Impero parlavano parecchi altri idiomi, tra i quali spiccavano il serbo, l'albanese, il bulgaro.
Dopo la scomparsa dell'"Islam del mare" e dopo il crollo dell'edificio imperiale ottomano, l'Europa musulmana si presenta geograficamente secondo una forma emblematica: quella di una mezzaluna che attraversa regioni popolate da genti slave, turche, caucasiche e tatare, inarcandosi tra Sarajevo e Ufa e passando per il Bosforo, il Caucaso e l'Ural. All'estremità occidentale di questa mezzaluna, in corrispondenza di Sarajevo, abbiamo un punto cruciale, verso il quale convergono tre grandi aree culturali: quella cattolica, quella ortodossa e quella musulmana; sul Bosforo si incontrano il nord slavo e il sud mediterraneo, i Balcani e l'Anatolia; nel Caucaso vengono a contatto l'Iran e il Turan; a Ufa, presso l'estremità orientale della mezzaluna, l'Europa si tocca con l'Asia.
La mezzaluna euroislamica (21) ci presenta dunque l'Islam europeo come un contrafforte meridionale dell'Europa, un elemento di continuità culturale che attraversa l'Europa saldando in una fascia ininterrotta una serie di regioni comprese tra la penisola balcanica e gli Urali. Vi è poi un'ulteriore continuità geografica ed etnico-linguistica, che lega indissolubilmente l'Islam delle zone al di qua degli Urali con l'Islam del Bassopiano Turanico e delle steppe transuraliche. Considerata in tale prospettiva, la mezzaluna euroislamica non è che la porzione europea di un Islam eurasiatico che si estende fino all'Indonesia.





NOTE
1. Francesco Gabrieli, Gli Arabi, Sansoni, Firenze 1963, p. 142.
2. Claudio Sánchez-Albornoz, La España musulmana según los autores islamitas y cristianos medievales, Espasa-Calpe, Madrid 1978, p. 82. Per esemplificare questo fatto, lo studioso spagnolo riporta un brano dall'opera Iftitâh al-Andalus (La conquista della Spagna) di Ibn al-Qûtiyyah, uno storico cordovano discendente del penultimo re visigoto, Vitiza. Da un'antenata di Ibn al-Qûtiyyah ebbero origine alcune delle più cospicue famiglie dell'aristocrazia ispano-musulmana; ma, prosegue Sánchez-Albornoz, "non diverso fu il caso dei più illustri magnati della Spagna islamica. Gli antenati di sesso maschile erano arabi o siriani, le antenate erano spagnole" (ibidem).
3. Sigrid Hunke, Allah Sonne über dem Abendland, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1960, p. 348.
4. Michele Amari, I Musulmani in Sicilia, Bompiani, Milano 1942, p. 136. Il bilancio positivo dell'Amari è stato confermato dagli studiosi successivi. Valga per tutti Francesco Gabrieli, che giudica il governo islamico in Sicilia "positivo e benefico per il rinsanguamento che operò sulla depressa compagine etnica della Sicilia bizantina, e soprattutto per i mutamenti introdotti nelle condizioni economiche e sociali dell'isola, dove spezzò il latifondo, promosse la piccola proprietà rurale, rinnovò e arricchì di nuove tecniche e culture l'agricoltura siciliana" (F. Gabrieli, Gli Arabi nel Mediterraneo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1970, p. 15.
5. Gabriele Crespi, L'Europe musulmane, Zodiaque, Saint-Dié 1982, pp. 76-77.
6. Giosuè Musca, L'emirato di Bari 847-871, Dedalo Libri, Bari 1978.
7. Maria Giovanna Stasolla, Gli Arabi nella penisola italiana, in: AA. VV., Testimonianze degli Arabi in Italia, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1988, p. 87.
8. Francesco Gabrieli, op. cit., p. 145.
9. Nicholas Iorga, The Background of Romanian History, Cleveland, 17 febbraio 1930; cit. in: Ioan Buga, Calea Regelui, Sfântul Gheorghe-Vechi, Bucarest 1998, p. 38.
10. Ibidem.
11. Nicolae Iorga, Byzance après Byzance, Balland, Paris 1992, p. 48.
12. Arnold Toynbee, A Study of History, 2a ed., London - New York - Toronto 1948, vol. XII, p. 158.
13. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1967, p. 470.
14. Franz Babinger, op. cit., p. 478.
15. Giorgio Pieretto, Islàm in Finlandia: i Tatari, "Islàm. Storia e civiltà", 21, a. VI, n. 4, ottobre-dicembre 1987, pp. 247-251.
16. Hélène Carrère d'Encausse, Esplosione di un impero?, Edizioni e/o, Roma, s. d. (ma:1980).
17. Hélène Carrère d'Encausse, Le renouveau de l'Islam en URSS, "Le Monde", 4 gennaio 1980. Dalla successiva bibliografia concernente l'Islam "sovietico" citiamo: Alexandre Bennigsen e Chantal Lemercier Quelquejay, L'Islam parallelo, Marietti, Genova 1990, Sergio Salvi, La mezzaluna con la stella rossa, Marietti, Genova 1993, Gejdar Džemal', Tawhid. Prospettive dell'Islam nell'ex URSS, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1993.
18. Fabio Galvano, L'Islam alla conquista delle Russie, "La Stampa", 19 dicembre 1982.
19. Marcello Villari, Mosca-Tokyo-Berlino, l'asse del Duemila?, "Micromega", 3, 1992.
20. Aleksej Malašenko, La Russia terra di conquista, "Limes", 1, 2004, p. 229.
21. Nel XIX secolo, Russia e Gran Bretagna elaborarono il concetto geopolitico della "Mezzaluna islamica", indicando con tale termine quella fascia territoriale che dall'Asia centrale arriva fino al Caucaso. La cosiddetta "Mezzaluna islamica" era in sostanza una zona cuscinetto, suddivisa in due aree: un'area settentrionale sottoposta all'influenza russa (e successivamente sovietica) e un'area meridionale egemonizzata dagl'Inglesi (e poi dagli USA). A disintegrare questa "Mezzaluna" furono la Rivoluzione islamica iraniana e l'intervento sovietico in Afghanistan.

Inserita il 09/10/2005 alle 02:43:01 in Claudio Mutti.com

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