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giovedì 23 giugno 2011

L'Uno è tutte le cose (dalle Enneadi di Plotino)



PLOTINO
                                                              


I. L'Uno è "tutte le cose" e al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non è "tutte le cose" in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si troveranno.
...E tutto torna ad Allah! Come possono allora derivare dalla semplicità dell'Uno, mentre in una pura identità non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna piegatura, quale che sia, assolutamente? Orbene, proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per questo, dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi, affinché l'essere sia, per questo Egli non è "essere", ma solo il genitore dell'essere; e questa che vorrei chiamare "genitura" è primordiale.Il Corano,Sura CXII. La Sura del culto sincero: Nel Nome di Allah, Clemente e Misericordioso! Dì: "Egli.Dio, è Uno, Dio, l'Eterno, Non generò nè fu generato, e nessuno Gli è pari!" Questo concetto Plotino non riesce a chiarirlo usando un linguaggio equivoco. Mi spiego; perfetto com'è, giacché nulla ricerca, nulla possiede, di nulla ha bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e la sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l'essere così generato si rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento verso l'Uno crea l'Essere; la contemplazione che l'Essere volge a se stesso crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere. Così, dunque, l'Essere è un "secondo Lui" e perciò crea ciò che gli è simile, versando fuori la sua forza esuberante; ma, immagine, anche questa, dell'Essere corrisponde a Colui che già prima dell'Essere s'effuse. E questa forza operante che sgorga dall'Essere è "Anima" che diviene quello che è, mentre lo Spirito è fermo; poiché anche lo Spirito sorse mentre "Ciò che era prima di Lui" perseverava nell'immobilità. Questi ultimi concetti sono spiegati in modo eccelso,nelle sue Opere, da 'Ibn el Arabi.
L'Anima però non è immobile nel suo creare; tutt'al contrario, ella generava la sua immagine, allorché aveva già subito il movimento. Ora, finché ella guarda lassù donde nacque, si riempie di Spirito; ma se avanza su un'altra ed opposta direzione, genera - immagine di se stessa - la sensibilità e, nelle piante, la potenza vegetativa. Nulla, peraltro, è separato, nulla è scisso da ciò che precede. Sotto questo rispetto, sembra persino che l'anima umana s'inoltri, pur essa, sino alle piante: vi si inoltra, intendiamoci, in questo senso che la potenza vegetativa ch'è nelle piante appartiene all'Anima; certo, ella non è, tutta quanta, nelle piante, ma se è nelle piante è in questo senso ch'ella è procedura sino a tal punto, nel basso, da creare un essere novello in quel suo processo e in quella sua premura del "peggiore". Del resto, anche la sua parte superiore, quella sospesa allo Spirito, lascia che se ne stia quieto e fermo lo Spirito che è in essa.Questi concetti dovevano essere sicuramente chiariti oralmente!
II. ...Tutte queste gradazioni sono Lui e non sono Lui: sono Lui poiché da Lui derivano; ma non sono Lui, poiché Egli, fermo in se stesso, non ha fatto altro che dare. Concludendo, gli è come un corso lento di vita che si protenda in lunghezza: ognuno dei tratti successivi è "un diverso", ma il tutto è compatto in se stesso e se, per via di differenze, ogni cosa sorge perennemente nuova, l'antico però non si perde nel nuovo.Quest'ultimo concette si rispecchia chiaramente con la Dottrina della Shakti nel Vedanta Advaita Tantra.
Enneade V, 2 - I - II (Laterza - 1944)
I. Se c'è "qualcosa" ulteriormente al Primo, necessità vuole ch'esso o derivi da Lui, immediatamente, o si rifaccia a Lui per via di intermediari; esiste, così, un ordine di "cose di secondo grado" e un ordine di "cose di terzo grado": l'uno risale al Primo - è il secondo, s'intende -, il terzo poi risale al secondo.
Io intendo: deve esser di una semplicità anteriore a ogni altra, questo nostro Primo e, precisamente, Egli è diverso da tutto ch'è dopo di lui, esistente in sé, non mescolato con le cose da Lui derivanti e capace tuttavia di star dentro alla sua volta, in un modo tutto suo, nelle altre cose, uno che è veramente Uno (non come se questo "è" fosse una cosa diversa e poi gli si applicasse l'Uno) uno, insomma di cui già l'espressione "è Uno" suona falsa; uno di cui non si ha né concetto, né scienza; uno, in definitiva, di cui usa dire che "è al di là dell'essere".
Infatti, se non fosse semplice, scevro di ogni casualità e composizione e veramente e propriamente uno, Egli non sarebbe principio; e solo per il fatto che è semplice, ha sovrano indipendenza e primato su tutte le cose; poiché il "non - primo" ha bisogno di ciò che lo precede e il "non semplice" ha bisogno degli elementi semplici contenuti in lui, a che ne sia costituito.
Sì, ciò che è di tal natura non può esser altro che Uno; ché, se ve ne fosse un "altro" di simigliante natura, l'uno e l'altro coinciderebbero. Corano, Sura CXII: ....e nessuno Gli è pari! Qui, beninteso, noi non ci riferiamo a due corpi, né diciamo che l'Uno è il primo corpo! In verità, nulla che sia semplice può essere corpo; e il corpo, poi, è qualcosa che diviene, ma non può mai esser principio; il principio, per contro, è ingenerato. Se, dunque, quell' "altro" non è corporeo ma è realmente uno, esso coincide col Primo. E allora, se dopo il Primo, ha da esserci qualcosa di diverso, mai più questo sarà semplice; sarà, di conseguenza, "uno-molti".
Orbene, donde nasce questo "secondo"? Dal Primo. Certo non potrebbe nascere a caso, perché allora non sarebbe più "principio di tutte le cose" quel nostro Primo! Ma in qual maniera, allora, il secondo nasce dal Primo? Ecco, se il Primo è perfetto, anzi il più perfetto al mondo, se esso è la primordiale forza operante, urge, allora, che esso sia, tra gli esseri tutti, il più perfetto e che tutte le altre forze operanti, a tutto potere, imitino Lui.
Qualsiasi, tra le restanti cose, giunta che sia alla sua piena maturità, genera - noi lo vediamo - e non sopporta una immota solitudine, in se stessa; ma crean tutti un essere novello, non solo chi abbia una volontà consapevole, ma quelli ancora che, senza volontà consapevole, vegetano semplicemente, e persino gli esseri inanimati cedono altrui, di sé, tutto quello che possono: ad esempio, il fuoco riscalda e la neve raffredda e le medicine esercitano una efficacia corrispondente alla loro propria natura su di un essere diverso: tutte le cose, assolutamente, sono copie più o meno fedeli che si dispiegano in eternità e in bontà.

E allora come potrebbe starsene inerte in se stesso il perfettissimo e il primo Bene, quasi fosse avaro di se stesso ovvero impotente, Lui che è la potenza del tutto? E come potrebbe essere tuttora principio? Sì, "qualcosa" anche da Lui deve pur nascere, direttamente, se è vero peraltro che "qualcosa" deve esistere; e, del resto, tutte le altre cose traggono da lui l'esistenza: che la traggano da lui, voglio dire, è una necessità.
In verità, dev'essere sovranamente venerabile Colui che genera le cose seguaci; così, anche il frutto di tale generazione dev'essere venerabile al sommo, e, precisamente, in un grado ch'è secondo dopo di lui ma superiore a tutto il resto.
II. Ora, se il generante fosse lui stesso Spirito, il generato dovrebbe riuscire più manchevole dello Spirito, sempre però abbastanza vicino e somigliante allo Spirito. Poiché invece il generante è al di là dello Spirito, il generato dev'essere, necessariamente, Spirito.
E perché non è generante lo Spirito, quello Spirito il cui atto è pensiero? Ma il pensiero contempla l'oggetto dello Spirito ed è volto su di questo e da questo è come perfezionato e compiuto: tale pensiero è indefinito come il vedere, e viene definito solo dall'oggetto dello Spirito! Perciò poi fu anche detto: "dalla dualità indefinita" e dall'Uno escono le Idee e i numeri: vale a dire lo Spirito. Ecco perché lo Spirito non è semplice ma è "molte cose" e rivela già una composizione di natura spirituale, s'intende - e contempla oramai la pluralità. Certo, egli è anche, in se stesso, oggetto di pensiero e, nondimeno, altresì soggetto pensante: e quindi comporta già una dualità; ma vi è ancora dell'altro: la realtà spirituale che viene dopo di Lui.
Ma in qual modo questo nostro Spirito deriva dall'Uno, oggetto del suo pensiero? L'Uno, quale oggetto di pensiero, fermo in se stesso e immune dal bisogno cui è invece soggetto il Contemplante e il Pensante (bisognoso, però, io intendo il Pensante solo in rapporto dell'Uno) non è, per così dire, un Inconscio; no, ma tutto il suo contenuto non solo è in Lui ma è anche con Lui; Egli discerne perfettamente se stesso; c'è vita in Lui; c'è tutto, anzi, in Lui; e persino la sua contemplazione - ch'è Lui stesso - si accompagna a non so qual sentimento in una fissità eterna e in un'attività spirituale che non ha che fare col pensiero dello Spirito.

Orbene, se qualche cosa nasce mentre Egli persevera in se stesso, questa nasce da Lui proprio allora che l'Uno sia alla vetta suprema del suo essere; se Egli quindi perdura nel suo proprio modo di essere, il generato nasce, si, da Lui, ma nasce senza ch'Egli esca dalla sua immobilità. Pertanto, poiché Quello persevera come oggetto di pensiero, il divenire s'avvera come pensiero; ma, pensiero qual è e traendo il contenuto del suo pensiero da Colui donde sorse (ché non ha altro) diviene Spirito; così ha, vorrei dire, un nuovo oggetto di pensiero, che s'assomiglia quasi a quello di prima ed è una immagine e una figura di Lui.Qui nel tentativo di dare una spiegazione logica dello sprigionarsi dall'Uno,quella che noi oggi chiamiamo Creazione,il pensiero diviene più oscuro,nel brano che segue spiega a parole ciò che la raffigurazione artistica della Chakti abbracciata a Shiva illumina ogni Fedele: Shiva che è l'Uno dal quale procede ogni creazione a mezzo del movimento sinuoso della Chakti, la Sua Potenza! 
Ma come - Lui fermo si svolge il divenire? In virtù della forza operante. La quale è duplice: l'una è chiusa nell'essere; l'altra sgorga al di fuori dell'essere particolare di ciascuna cosa; e, precisamente, quella che appartiene all'essere è proprio quella singola cosa in atto; quella che sgorga fuori, da esso, e che deve necessariamente tener dietro ad ogni cosa, è diversa da quella singola cosa. Tant'è, per esempio, nel fuoco: vi è, da un canto, il calore che entra di pieno diritto nella sua essenza; e v'è, d'altro canto, il calore che nasce già come derivato dell'essenza, allora che il fuoco, in quel semplice perseverare come fuoco, esercita la forza operante chiusa nativamente nel suo essere.
Proprio così è anche nel mondo superno; lassù, anzi, a più forte ragione: mentre l'Uno persevera nel suo proprio modo di essere, la forza operante, nata com'è dalla perfezione e dalla congiunta forza operosa ch'è in Lui si ipostatizza appunto perché sorge da una potenza enorme - la suprema, certo, tra tutte - e giunge sino alla vetta dell'essere e dell'essenza; poiché l'Uno era al di là dell'essenza. Precisiamo: l'Uno è la potenza del Tutto; il generato, invece, è già il Tutto. Ma se questo è il Tutto, Quegli è al di là del Tutto; di conseguenza, al di là dell'essere. Inoltre, se lo Spirito è tutto, l'Uno invece è anteriore a tutto e non ha quindi una unità di misura comune con tutte le cose e così, anche per questa considerazione, Egli vuol essere al di là dell'essenza; tant'è dire al di là pure dello Spirito. Si conclude che al di là dello Spirito c'è "qualcosa". Francamente, l'essere non è un cadavere e neppure una "non-vita" e neppure "uno che non pensi". Così Spirito ed Essere coincidono. Mi spiego: tra le cose e lo Spirito non corre lo stesso rapporto che c'è tra la sensazione e i sensibili - i quali la precedono -; no, ma lo Spirito coincide con le cose, dal momento che le loro forme ideali non sono acquisite ma immanenti; poiché donde potrebbero acquistarsi? Qui solamente, tra questi oggetti dello Spirito, regna una vicendevole identità ed unità. Del resto, anche la scienza delle cose immateriali, presa nel suo complesso, si identifica col suo contenuto reale.
Enneade V, 4 - I - II - Ibid.

XI. Ma se uno di noi - mal riuscendo a vedere se stesso - ghermito dal dio superno, trasporta al di fuori la visione per poter vederla, egli allora trasporta al di fuori anche se stesso e guarda semplicemente una abbellita immagine di sé. Ma se lascia cadere tale immagine, per bella che sia, e giunge a unificarsi con se stesso senza spezzarsi più, egli è uno e tutto a un tempo, in compagnia di quel dio che è lì presente, nel silenzio, e allora egli se ne sta con Lui, sino al limite del suo potere e della sua brama. Se, per contro, egli si volge indietro e ricade nella dualità, fino a che resti puro, egli è sempre in immediata vicinanza con Lui, sì da rientrare ancora - in quel modo trascendente - proprio nel suo essere, purché solo si rivolga, di bel nuovo, a Lui; comunque, da quel suo volgersi indietro, egli ha tratto il seguente guadagno: al principio, egli acquista una percezione di se stesso, fino a che sia distinto da Lui; ma allora egli si affretta a entrare nel suo interno e riguadagna il tutto, tanto che, facendo getto della percezione, torna indietro, per paura di esser diverso da Lui, e ritorna così uno, lassù. Se però egli brama vederlo come un diverso, egli rende esteriore pure se stesso. Chi però fermo in una qualche traccia di Lui lo va scoprendo, deve anzitutto a furia di cercare, vagliarne la cognizione; ma, dopo avere così saggiato, con la prova dovuta, il valore della cosa in cui deve entrare - come, cioè, entri in una somma beatitudine - egli deve oramai abbandonarsi al suo intimo e tramutarsi alfine, risplendendo di pensieri, da "veggente" in "visione", la visione, voglio dire, di un altro Contemplante, com'è Colui che ci si fa incontro di lassù. Questo concetto viene splendidamente chiarito con il Mito di Narciso.
Ora, come può uno essere nel bello e tuttavia non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello come altro da sé, non è ancora nel bello costui; se invece è divenuto bello, allora soltanto, egli si trova, al più alto grado, nella bellezza. Se pertanto il vedere si riferisce a ciò che sta fuori, non vuol essere visione, questa, se non sia tale da identificarsi con la cosa vista: ma questa è, per così dire, intelligenza e coscienza di sé, e qui si deve fare attenzione a che non si corra il rischio di allontanarsi da se stesso, proprio mediante una più intensa coscienza! Occorre pure riflettere al fatto che le percezioni di cose cattive ci colpiscono più violentemente e indeboliscono la conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce; la sanità invece, benché tranquilla compagna, sa farsi avvertire di più poiché essa sta in noi, come a casa sua, al primo posto, anzi s'unifica con noi, mentre la malattia è un'estranea e non è appropriata al nostro essere ed è visibilissima proprio per questo che si manifesta violentemente diversa dal nostro essere.
Pure, su ciò che rientra nel nostro "io" e sullo stesso nostro "io", noi non rivolgiamo normalmente la nostra avvertenza; ma proprio così, più che mai, noi siamo consci di noi, in quanto abbiamo operato l'unità tra il nostro sapere e il nostro "io". Lassù pertanto, allorché il nostro sapere corrisponde nel grado più alto allo Spirito, abbiamo l'impressione di non saper nulla, poiché attendiamo l'impronta della coscienza, la quale dice di non aver visto nulla; in realtà essa non ha visto nulla né potrebbe mai vedere cose siffatte. Così, la fonte del dubbio è la coscienza: tutt'altro, invece, è Colui che vede; o, se dubitasse lui pure, non dovrebbe neppure credere a se stesso. Mai e poi mai, in verità, lo Spirito potrebbe trasferire se stesso al di fuori e guardarsi con occhi corporei come se fosse un oggetto sensibile.

Enneade V, 8 - XI - Ibid.
XII. [...] Ma almeno ciò, che è in senso assoluto quello che è - Essere in sé - e non è distinto dalla sua essenza, in questa situazione è proprio quello che è, vale a dire padrone di sé e privo di ogni ulteriore orientamento su altrui, in quanto è e in quanto è essenza. A lui, d'altronde, fu dato esser padrone di sé su la via ov'Egli è "Colui che è il Primo". Su la via che conduce all'Essere. Ora, Quegli che rende libera l'essenza, Quegli che ha insita, con piena evidenza, nella propria natura, l'opera della liberazione sino ad essere detto "creatore di libertà", a chi mai dovrebbe far da servo? Purché non sia già sacrilegio esprimersi così persino in una maniera generale! Forse alla sua propria essenza? Intanto, anche questa è libera solo in grazia di Lui ed è posteriore a Lui; e poi non ha essenza, Lui! Chi vede la Creazione dal punto di vista di Shiva!
Così, se c'è in Lui qualcosa sul tipo dell'atto e noi vogliamo far consistere Lui in tale atto, neppure per questa via Egli riuscirebbe diverso da sé, e non sarebbe padrone di sé Colui donde l'atto scaturisce, poiché non sono cose diverse l'atto e Lui stesso. Ma se non vogliamo proprio ammettere che ci sia un atto, in Lui; se dobbiamo, per contro, riconoscere che solo le altre cose si attuano intorno a Lui e conquistano così l'esistenza, a maggior ragione ancora non dobbiamo ammettere lì, nell'Uno, né un elemento che domina né un elemento dominato; a rigore, anzi, non gli concederemo neppure l'attributo "padrone di sè" non perché un altro sia padrone di Lui ma perché noi assegnammo il dominio di sé all'Essere e collocammo invece Lui in un grado più alto di quel che corrisponde a questo auto-dominio.
Ora, che significa questa espressione "in un grado più alto di quel che è padrone di sé"? Ecco: lì, in seno all'Essere, essenza ed atto sono, in un certo senso, dualità - dall'atto stesso ognuno poté trarre l'idea dell' "esser padrone" (quest'atto, beninteso, è identico all'essenza) -; proprio per questo fatto fu preso separatamente "l'esser padrone", e, l'Essere fu detto "padrone di sé". Allorché, invece, non c'è una dualità in valore di unità ma proprio l'unità in se stessa - cioè o esclusivamente atto o qualcosa che non è neppure atto - anche l'espressione "padrone di sé" non è giustificata.
XIII. Frattanto, se è necessario introdurre queste espressioni che si applicano in modo inesatto all'oggetto della nostra ricerca, si ribadisca ancora una volta che ben a ragione si afferma l'esigenza di non renderlo dualità neppure per successiva astrazione mentale; per il momento, però, solo per destare la persuasione, c'indurremo persino ad uscire dal retto cammino della logica, nel nostro discorso....

Enneade VI, 8 - XII - XIII – Ibid.
Da: http://www.montesion.it/_montesion/Montesion.html


LE  NOTE  IN   ROSSO SONO DI JANUA COELI

sabato 18 dicembre 2010

PANTA REI




Panta  Rei
Pubblicato il 17 dicembre 2010 da Stefano su Il Derviscio                 

L’identità territoriale e il viaggio a Ixtlan

Quando ero bambino,
alla fine dell’anno scolastico si andava dal calzolaio a comprare un paio di zoccoli con i colori della squadra di calcio del cuore che avremmo portato per tutta l’estate. Le giornate erano scandite dai sapori di avventure incredibili per i campi, lungo le rogge e nei boschetti fuori dal paese. Non solo non c’erano PC, iPod, WiFi e simili, ma anche la TV dei ragazzi spariva dal nostro programma quotidiano per lasciare il posto alla scoperta di mondi e impressioni fantastiche.
La geografia del paese, nonostante le vie e le piazze avessero già nomi altisonanti come Roma, Garibaldi, Verdi e Cavour, per noi si divideva in Contrada del Guasto, Angolo Pizzi, i cortiletti, la corte grande. Sul piazzale della Chiesa vecchia ormai sconsacrata c’erano tre osterie che la domenica si riempivano di uomini adulti che discutevano molto rumorosamente della loro settimana passata al lavoro nei campi. Gli operai erano una rarità e godevano di un rispetto quasi reverenziale, per le donne e i bambini, l’osteria era un tabù.
Poi, una delle osterie chiuse e al suo posto si stabilì una pizzeria. La presenza di questo corpo estraneo alla tradizione e alla storia del paese fu per mesi tema di accese discussioni e frequentare la pizzeria divenne sinonimo di ribellione e di appartenenza a un mondo oscuro misto di malaffare e di comportamenti immorali.
Sono passati gli anni.
La vecchia chiesa e il campanile sono stati abbattuti per fare posto a una banca e una gelateria, i cortiletti sono stati trasformati in ricercati appartamenti moderni, le osterie e anche la pizzeria sono sparite, la piazza e tutto il centro sono diventati una grande isola pedonale, le vecchie case e i cortili una volta popolati da famiglie di contadini, hanno lasciato il posto a boutique dove un paio di scarpe costa quanto un’utilitaria ai tempi del boom economico. Sono tornato a trovare un paio di amici e, seduto ai tavolini della gelateria, ho osservato il via vai sulla piazza riconoscendo a mala pena una decina di persone delle centinaia intente a commentare la prima pagina dei giornali prima di far ritorno a casa in tempo per il pranzo domenicale.
È questo il paese che ho lasciato più di trent’anni fa per iniziare la mia odissea di Sinbad alla scoperta di mondi nuovi?
Certamente no. Nemmeno le poche persone che credevo di conoscere sono rimaste le stesse. Panta rei, tutto scorre, tutto cambia.
Non solo le piazze, le strade, le osterie, anche le donne e gli uomini che sono rimasti non sono più gli stessi e credere a un’eredità culturale legata al territorio o alle tradizioni, è un’illusione. Anche ripetere cerimonie, liturgie, gesti come abbiamo fatto ogni anno il giorno di Sant’Antonio o di San Giuseppe, non riporta in vita situazioni e sentimenti passati, niente è più uguale. Non lo sono i protagonisti, non lo sono le circostanze, non lo sono le conseguenze.
Carlos Castaneda nel suo libro “Viaggio a Ixtlan” riporta un discorso di don Juan Matu, uno sciamano dell’America centrale che racconta della sua nascita a Ixtlan e dell’impossibilità di farci ritorno poiché tutto ciò che crediamo possa riportarci in luoghi o circostanze nelle quali siamo già stati, altro non è che illusione, o, come dice don Juan, fantasmi.
Alcuni degli amici o dei conoscenti che ho rincontrato hanno passato ore a raccontarmi di come tutto sia cambiato “per colpa” dei nuovi arrivati. I nuovi arrivati sono, secondo i miei interlocutori, “gli albanesi, i rumeni, i negri, i musulmani, i cinesi” a secondo del contesto.
Ai miei tempi la fonte di tutti mali era la pizzeria. Panta rei.
Noi che torniamo a intervalli più o meno lunghi sui luoghi nei quali abbiamo passato parte della nostra vita ci rendiamo conto che non “loro” hanno cambiato qualcosa ma che il cambiamento è nella natura stessa delle cose e che quella della continuità di usi e tradizioni è un’illusione alimentata da poche circostanze esteriori quali una processione alla festa del Santo, una manifestazione il giorno della liberazione, il matrimonio in Chiesa e il percorso mesto sul viale del cimitero ogni volta che un nostro caro ci lascia.
Eraclito scriveva che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume e aveva ragione perché in questo momento l’acqua che mi passa davanti non è più quella di un secondo fa e tutto quello che mi circonda, non è più allo stesso posto di prima. Il vento ha cambiato la posizione di ogni singola foglia, gli uccelli non si sono fermati nel cielo ma hanno continuato il loro volo, i pesci nell’acqua continuano a lottare contro la corrente che nonostante una parvenza di costanza nel suo agire, è solo approssimativamente definibile nella sua forza, velocità e direzione. Panta rei.
Che significato hanno allora parole come “padroni a casa nostra”, “noi”, “loro”?
In realtà nessuno.
Casa nostra non esiste, siamo nati casualmente in un luogo geografico definibile in parole e cifre e una maggioranza relativa di persone non si allontanerà mai molto da lí, ma ciò non lo fa diventare “nostro” anche perché “quel” luogo dove siamo nati non esiste più. Non esiste più l’attimo in cui abbiamo visto la luce di questo mondo e quel momento non sarà più ripetibile come non lo è qualunque altro momento della nostra vita. Panta rei.
È il Panta rei o il viaggio a Ixtlan, ogni altro racconto è illusione.
Ognuno faccia di questo quello che vuole, il mio sforzo personale è quello di avvicinarmi a una Verità che contenga tutto ciò che ho descritto fin qui, tutto ciò che ho fin qui vissuto e sperimentato e che non so descrivere e a tutto ciò che non potrò descrivere mai.
Per fare questo ho bisogno di un punto d’appoggio o di riferimento perché il tempo a nostra disposizione è poco e la possibilità di percorrere strade fallaci è grande quanto è grande l’angolo d’azione della nostra mente.
Il Sublime Buddha Gautama disse che la probabilità di incontrare un Maestro è simile a quella di una tartaruga nell’oceano che, venuta a galla per respirare, infila la testa nella ciambella di salvataggio perduta da una nave.
Ecco, nel mio girovagare alla ricerca di nuovi mondi, ho infilato per caso la testa in una ciambella di salvataggio che mi permette di lasciarmi trascinare dalla corrente del fiume senza paure, senza farmi prendere dal panico se a ogni istante il paesaggio dietro la sponda è diverso, senza lasciarmi prendere dalla voglia di afferrare una radice o un ciuffo d’erba sulla riva alla ricerca di una sicurezza falsa e menzognera.
In tutto questo non c’è merito alcuno, non ho fatto qualcosa di eccezionale o di particolarmente buono, non sono mai stato né un santo né un devoto, è semplicemente accaduto.
Se dovessi descrivere in poche parole la sostanza di questo percorso di vita che non posso dire di aver scelto, dovrei dire che Allah è pietoso e misericordioso verso le sue creature.
Ogni altro tentativo di descrizione sarebbe arroganza


giovedì 4 novembre 2010

Sufismo e Taoismo

04/11/10 Sufismo e Taoismo di Toshihiko Izutsu

edizioni Mimesis 2010, pp 535 € 38,00                                             
di Claudio Lanzi


                                                                          *************

Questo è forse uno dei testi più importanti di Izutsu, uno dei massimi studiosi delle due grandiose correnti meta-filosofiche d’oriente e d’occidente.
Il testo è brillantemente curato da Alberto de Luca e si avvale di una prefazione di Giangiorgio Pasqualotto che inquadra il pensiero e la originale figura di Izutsu in poche pagine di rara efficacia.
In effetti, per lo meno in Italia, Izutsu, uno dei massimi esponenti della storia della filosofia e della religione a livello mondiale scomparso nel 1993, è assai poco conosciuto. Si tratta di uno di quei “fenomeni” culturali che potremmo paragonare forse al nostro Filippani Ronconi, conoscitori di una spropositata quantità di lingue, tra le quali l’arabo, il sanscrito, il greco antico, oltre ovviamente al cinese, al giapponese e ad una ventina di lingue moderne, fra occidentali e orientali. Tale conoscenza ha consentito a questo accanito e profondo studioso delle forme antiche di pensiero, l’accesso “diretto” ad una immensa quantità di testi, senza la mediazione di traduzioni che spesso snaturano o interpretano gli originali. Ma la figura di Izutsu si distingue fortemente da quella di tanti altri studiosi, soprattutto per il suo approccio “metastorico”, e metafilosofico, come correttamente lui stesso si impegna a spiegare.
Izutsu non si è fatto assolutamente condizionare da quella posizione laica e moderna che tenta di inscatolare costantemente anche il pensiero filosofico nei confini della razionalità, come quello “zen” o quello taoista o quello sufi, in un approccio “neutrale” e positivista, ma non ha mai temuto di affrontare l’”oltre”, spiegando nei termini filosofici consentiti dal linguaggio, ciò che dei colossi come Lao Tzu o Ibn Arabi hanno spesso mediato “sotto il velame delli versi strani”
Izutsu delinea i contorni di una “metafilosofia”, definendone la semantica per rendere possibile una comparazione tra filosofie con differenti origini storiche. In tale coraggiosa avventura partecipa, più o meno volontariamente, a “sdoganare” il pensiero di Guénon, di Corbin o di tutti coloro che hanno parlato di una “Philosofia perennis” o di una “Religio perennis”, da quell’ostracismo (e provincialismo) accademico, che ha sempre avuto grandi difficoltà nel digerire una “mistica” all’interno di una filosofia (o se vogliamo un “sovrarazionale” al di la di un “razionale”).
In questo testo (540 pagine) Isutzu esamina il pensiero taoista di Lao Tzu e di ChuangTzu, confrontandolo con i principi ontologici di Ibn’ Arabi (l’opera principale di riferimento sarà “I Castoni della Saggezza”, ovvero i Fusùs al Hikam) e con i commenti di al Qashani.
I due assunti principali messi a confronto sono: l’Assoluto (o la Verità, o la Realtà, in Ibn ‘Arabi detto al-haqq) messo a confronto con il Tao; e l’Uomo Perfetto (per Ibn ‘Arabi detto al.insàn al kàmil) confrontato con l’Uomo Sacro o Santo (shèng jèn per il Taoismo).
In tale opera di confronto Isutzu mette in evidenza una incredibile quantità di similitudini rispetto alla concezione dell’”essere”.
Vogliamo estrapolare due citazioni di Isutzu. La prima tratta appunto dai “Castoni” :
“Gli uomini sono addormentati (in questo mondo); solo al momento della morte si svegliano”…
“Il mondo è illusione, esso non ha esistenza reale e questo è quello che s’intende per “immaginazione” (khayàl). Perciò tu immagini che esso (il mondo) sia una realtà autonoma, del tutto diversa e indipendente dalla realtà assoluta, mentre in verità, non è nulla di tutto ciò: Sappi che perfino tu stesso altro non sei che immaginazione. Tutto ciò che percepisci e che discrimini con le parole “quello è altro da me” è anch’esso immaginazione. L’intero mondo dell’esistenza è quindi immaginazione nell’immaginazione”
A questo punto scatta ovviamente il problema di “come svegliarsi” e se sia possibile che questo accada e dove vada cercata quella “Realtà” assoluta nascosta nel Sogno.
Passando a Chuang Tzù, Isutzu cita questa straordinaria “storia”:
“Un uomo beve vino, in sogno e, piange e al mattino (al suo risveglio) geme. Un uomo piange in un (triste) sogno ma al mattino si leva e va a caccia gioiosamente. Mentre sta dormendo egli non è conscio di star sognando; egli prova anche (nel sonno) ad interpretare il suo sogno. Solo allorché si desta dal sonno egli realizza di aver sognato. Analogamente, solo quando sperimenta un Grande Risveglio, si realizza che tutto questo non è altro che un grande sogno. Ma gli sciocchi immaginano di essere effettivamente svegli. Illusi dalla loro meschina intelligenza, costoro si considerano sufficientemente capaci di valutare ciò che è nobile da ciò che è ignobile. Quanto profonda ed irrimediabile la loro stupidità.
In realtà, invece, tu ed io siamo sogni. Si, il fatto stesso che io ti stia dicendo che tu stai sognando è anch’esso un sogno!
Questo genere di affermazione rischia di essere classificato come bizzarro sofisma (ma così appare propriamente perché rivela la verità), ed un grande saggio, in grado di penetrarne il mistero, possiamo aspettarci in questo mondo ogni diecimila anni.”
Abbiamo estratto queste due citazioni dal libro di Isutzu, non perché siano assolutamente esaustive della vastità dei temi trattati ma perché, a nostro avviso, costituiscono il punto di partenza di quella che, mediando dal buddismo, ci permettiamo di definire “dottrina del risveglio”.
Sia nel Sufismo come nel taoismo per raggiungere il “centro” di se è necessario fermare l’attitudine “centrifuga” della mente e portarla a sprofondare, ad implodere in se stessa. Ovviamente sia in una dottrina che nell’altra viene proposta una “metodologia”. Metodologia che non va confusa con il conseguimento stesso. Proprio per questo è interessante il confronto che Isutzu propone fra i tre “stadi” di “purificazione” proposti sia da Chuang Tzù che da Ibn’Arabi, che pervengono ad una illuminazione in cui tutti i livelli di realtà “relativa” vengono riunificati nell’unità della non coscienza. L’Uno metafisico, per l’Uomo Perfetto del Taoismo e del Sufismo, testimonia e riflette nella mente pacificata, il mondo fenomenico policromo (o i Nomi della Realtà) senza mai esserne turbato.
Il “Mistero dei Misteri”, sia nel sufismo che nel Taoismo appare quale fondamento dell’Esistenza. E’ qualcosa che, per Ibn ‘Arabi, trascende ogni qualificazione concepibile. E’ trascendente e perciò inconoscibile. Per tale ragione la definizione di tale stadio di Esistenza, soprattutto nel taoismo è in negativo (in modo analogo a quanto svolto dall’apofatismo vedantino o anche dalla mistica cristiana, soprattutto renana).
L’Esistenza, in tale ottica, appare quale frutto del lavoro incessante della “Via”, che “soffia” costantemente la sua necessità di “portare all’esistenza il mondo”. Tale atto, rileva Izutsu sembra, totalmente privo di misericordia nella visione taoista mentre sembra animato da una “benevola elargizione” da parte del Sufismo. Izutsu fa invece notare come trattarsi, in entrambi i casi, di una Misericordia ontologica assolutamente gratuita, coincidente con la incessante attività creativa dell’esistenza, assolutamente svincolata dal raggiungimento di uno scopo umanamente ed emozionalmente comprensibile. L’emozione umana risulterebbe un limite ala imparzialità divina. L’assoluta imparzialità divina si estende perciò ad una dimensione al di la della conoscenza del bene e del male. Cioè ad una condizione che, in una metafisica cristiana, potremmo definire “pre-edenica”.


                                                                                                           
Riportiamo l’efficace considerazione con cui si chiude il testo di Izutsu:
E’ degno di nota che, né nel Sufismo né nel Taoismo, la discesa ontologica dal Mistero dei Misteri allo stadio delle cose fenomeniche, è posta a rappresentare il compimento finale dell’attività dell’esistenza. La discesa è seguita dal suo opposto, cioè l’ascesa. I “diecimila esseri” fioriscono rigogliosamente all’ultimo stadio del corso discendente, per prendere quindi un corso ascendente verso la loro fonte primigenia, fino a scomparire nell’originale oscurità, trovando il loro luogo di pace nella tranquillità cosmica pre-fenomenica. L’intero processo della creazione forma dunque un immenso cerchio ontologico, in cui non è dato in realtà un punto iniziale e finale. Il movimento da uno stadio all’altro, considerato in sé, è certamente fenomeno temporale ma l’intero cerchio, non avendo punto iniziale né finale, costituisce un fenomeno trans-temporale o atemporale: è, in altre parole, un processo metafisico. Ogni cosa è attuale in un eterno presente.”


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Pubblicato su Janua Coeli il 4 Novembre 2010

giovedì 2 settembre 2010

Ernst Jünger cacciatore sottile - di Luigi Ranzani






ARTEMIDE CACCIATRICE


«Temo che gli animali vedano nell'uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale -vedano cioè in lui l'animale delirante, l'animale che ride, l'animale che piange, l'animale infelice».
F. Nietzsche, La gaia scienza.
                                                                        *************

La caccia, il cacciare prima ancora che un'azione, una passione è innanzitutto un luogo, di più: è l'esperienza del limite.
Artemide presso i Greci abitava, oltre a monti e boschi, ogni territorio agròs : le terre incolte che segnano, al di là dei campi coltivati, i confini del territorio civilizzato della pòlis. Alla frontiera di questi due mondi Artemide presiede alla caccia accogliendo il cacciatore che, oltrepassando questa frontiera, rischia l'inselvatichirsi, la bestializzazione.
Ma Artemide è anche Limnatis perché abita quei paesaggi eterici, indefinibili, non asciutti né completamenti acquosi che si estendono tra terra e acqua: paludi, acque stagnanti, litorali, argini. Per la mossa promiscuità dei confini che presiede Artemide partecipa di uno statuto ambiguo: mette in causa, sottolineandone l'estrema fragilità anzi rendendo la fragilità stessa permeabile, il limite tra l'ordine della civiltà e il regno del caos abbandonato alla violenza pura e spontanea di una fecondità continua; ma insieme consacra l'intangibilità del limite rendendolo distinguibile e riconoscibile. Lacerando la chiusura del limite accoglie il cacciatore nel territorio dell'Altro, acconsente all'oscillazione tra umano e non umano così come al rischio dell'oltrepassamento verso l'indistinguibiltà dell'informe. Ma proprio sul limite, al culmine della crisi come cancellazione del limite, attraverso una 'manifestazione soprannaturale' Artemide salva il cacciatore guidandolo al riconoscimento, facendogli fare l'esperienza, il sacrificio, del limite.
Nel primo caso cancella, confonde le frontiere della natura o nella mente; nell'altro, proprio quando le frontiere sono confuse, ne permette la distinzione: «Artemide opera sempre come divinità dei margini, con il duplice potere di mantenere, tra selvatichezza e civiltà, i necessari passaggi e di conservarne i rigorosamente i confini al momento stesso in cui questi si trovano superati».
L'esperienza della caccia raccoglie i molti nomi del rapporto, idiosincraticamente mediato, che Ernst Jünger intrattiene con il proprio 'altro'.
L'apertura di Cacce sottili (testo uscito in Germania nel 1980 e tradotto in Italia da Alessandra Iadicicco presso Guanda nel 1997) testimonia, infatti, della passione giovanile dell'autore per la raccolta e la collezione di insetti: passione che lo accompagnerà lungo tutta la sua lunga vita, impegnandolo in un atletismo contemplativo in continuo slittamento tra l'individuativa esplorazione analitica dell'occhio 'scientifico' e l'abbandono allo sguardo più pudico del puer oltre che, ovviamente, nella pratica restitutiva dello stile.
Il giovane Jünger si accosta all'osservazione del mondo naturale attraverso l'emulazione del padre che, prima botanico poi farmacista di professione, riforniva la biblioteca di famiglia di cataloghi illustrati, suscitando la curiosità dei figli. In realtà la disposizione verso l'ammirazione e lo studio della natura, cui fu decisiva la venerazione materna per Goethe, è parte importante di una formazione culturale (Bildung) tramandata generazionalmente e garantita dalla ripetizione delle due azioni costitutive della scientia amabilis: contemplazione e descrizione: «La vera conoscenza della natura, la cura attenta dell'osservazione, il confronto, la classificazione e la descrizione degli oggetti aveva stregato gli spiriti per più di cent'anni in un modo che noi possiamo appena immaginarci».
Alla dedicazione per le cacce sottili Jünger perviene attraverso l'abbandono del gioco degli scacchi.
Ma significativa è l'argomentazione che motiva la scelta: «Quanto alla perdita di tempo era la stessa cosa che per il gioco degli scacchi, solo che l'attrazione era più forte perché la partita non si esauriva in pure combinazioni, ma dischiudeva alla contemplazione un campo inesauribile».
Sospettando che l'idealismo proairetico dello scacchista nasconda "l'uomo della rinuncia", Jünger inclina per un adesione attiva, strategicamente partecipe dell'esistente e dei suoi inciampi materiali, riconoscendo nella sorpresa e nell'arrischio della caccia lo specchiarsi di Eros e Pòlemos : Jünger caccia perché già vinto dall'inquietante aspetto gianico con cui «la forma archetipica del grande gioco del catturare e nascondere» si fa mondo.
Il momento entusiastico, maniacale che muove il cacciatore non si esaurisce però in mera oziosità, magari patinata da nostalgie aristocratiche, né in quel dilettantismo estemporaneo, mimetico e abbastanza comune condiviso da molti appassionati e che ne motiva forse la volubile scostanza.
In realtà il cacciatore, partecipando al gioco eracliteo dell'eterno divenire che governa, invisibile, il cosmo, si orizzonta in dimensioni spaziali più complesse che la linearità bidirezionale tracciata dal banale rincorrersi di inseguitore ed inseguito.
Lo spazio d'azione del cacciatore, e tanto più se sottile, sembrerebbe infatti non concedere l'illusione di una assoluta padronanza e determinazione dei gesti in quanto compromesso con la dimensione microcologica dell'esistenza entomica, la più prossima all'effetto dissimulante della superficie e al suo inquietante riso proteiforme.
Lo scintillio improvviso, immotivato nell'apparente immediatezza, di improbabili 'gioielli della terra' sembra impedire la semantica dell'azione fondata sul dualismo soggetto-oggetto: l'imprevedibilità ne disarma l'intenzionalità così come la 'paurosa' gratuità ne rallenta il dispositivo di cattura, l'istante auratico dell'apparire dissolve la sostanzialità dell'ego alterandone l'autocoscienza spaziale e spinge a considerare la possibilità dell'incontro al di là di un fatto anticipabile dalla volontà di partecipazione, verso l'incondizionatezza aleatoria di un puro evento.
Si tratta di una forza invisibile che non muove oggetti ma lega affetti, non condizionata da un preventivo assenso della coscienza e che provoca il pensiero all'immagine di uno spazio composto da luci discordanti e coimplicati, pieni e vuoti connessi dall'anonima forza armonizzatrice immanente agli infiniti fili di una tessitura cosmica: «La forza di una terra agisce a grandi profondità e determina non solo l'armonia reciproca tra gli esseri viventi, ma anche quella della natura inanimata. Le cose più lontane si accordano tra loro attraverso la rima. Il mondo si compone e si fa poesia».
Possiamo già qui notare come l'occasione autobiografica venga distillata dei suoi aspetti aleatori e soggettivistici per ricomporsi stilisticamente secondo prospettive schiettamente speculative. Questa oscillazione del piano scritturale la incontreremo, intensificata nel movimento, ogni volta che la bellezza sensibile si presenterà quale ineludibile domanda circa il senso della destinazione terrestre dell'uomo poiché, heideggerianamente, è proprio del Dasein il trascendersi nel domandare dell'essere dell'ente.
La figura mitica del cacciatore, alla luce del suo approfondimento fenomenologico, scolora delle tinte più immediatamente vitalistiche velandosi di una cortina serenamente malinconica che opacizza, senza annullarla, la compostezza algida della vis contemplativa.
La qualità malinconica però non inclina mai alla tristitia che un inevitabile confronto con la caducità delle forme trasmette -anzi in Jünger la delimitazione si conferma come necessità della perfezione stessa- quanto piuttosto, e in senso non pietisico, com-muove: letteralmente il bello agita il pensiero che, al contatto con l'alterità si trasforma intensionalmente: co-agitatio, avvertendo l'inquietante che lo abita.
In questa accezione potremmo leggere la malinconia jüngeriana accostandola a ciò che Benjamin commentava ne "Le affinita elettive" riferendosi al 'tocco' crudele della bellezza: «Salvare quel che vi è in essa di essenziale è lo sforzo di Goethe. In questo sforzo lo splendore di questa bellezza si turba sempre più, come la trasparenza di un liquido nella scossa in cui si consolida. Poiché non nella piccola commozione che si assapora, ma nella grande commozione della scossa, l'apparenza della conciliazione supera le belle apparenze e da ultimo anche se stessa».
L'eroismo del cacciatore acquista così dei tratti che lo avvicinano più alla pazienza del martire che all'impeto bellicoso del guerriero: egli patisce l'esposizione allo scavo denudante, dissolvente di una meraviglia ingiustificata ed anzi ne accondiscende l'urto (Stoss) spaesante con cui, una piccola porzione di materia colorata, nell'innocenza del suo terribile apparire, si annuncia come il pericolo estremo della morte, dell'annullamento di ogni individuazione: «La bellezza vuole rapirci ciò che ci appartiene; se diventa troppo forte, finirà col sottrarci anche il tempo».
La precipitazione impassibile con cui il predatore conduce la sfida, l'attacco e la cattura -dalla rilassatezza vegetale della concentrazione alla risoluta determinatezza dell'azione- se osservati da distanze allargate oltre il prospettivismo copernicano, si rivelano come dei modesti raggrinzamenti nella tramatura cosmica in cui per altro il cacciatore, se consapevole dell'impossibile definitività del proprio annodarsi, accede ad un'essenziale profondità del domandare: «Chi caccia è a sua volta cacciato e chi osserva è a sua volta tenuto d'occhio. Quanto più strana, bizzarra è la preda, tanto più urgentemente si impone la domanda sul senso dell'inseguimento. Si tratta sempre, comunque, di una finzione, ad ogni contatto con la terra, si tratti di insetti o di gioielli. Che cosa mi incatenava, che cosa mi rendeva allo stesso tempo cieco e veggente? Dove si cela il senso del gioco, e dove è appostato colui che mi scruta? Me lo domando spesso, e me lo chiesi anche allora, quando mi fui riscosso dallo stupore suscitato dall'antaeus».
Il paradigma venatorio si tinge di una serietà disciplinata alla correzione di quelle proiezioni antropomorfiche indirizzate alla fagocitazione sentimentale e compiaciuta di un'alterità non umana e non storica.
Infatti l'occasione venatoria, nell'intreccio delle reciproche esposizioni, stimola quella facoltà mimetica indispensabile per «poter godere della multiformità dei fenomeni» attivando la possibilità umana di sperimentare, attraverso il gioco analogico della somiglianza e della differenza, dell'avvicinamento microcosmico e dell'allontanamento segiziale, un'espansione dinamica e metamorfica della forza immaginativa: impraticabile passaggio che, attraverso straniamento e avvicinamento, oltrepassi la chiusura umanistica sull'identico ed insieme prepari il transito verso dimensioni interstiziali capaci di riorientarne la topologia: «Lo spazio per i movimenti liberi va assottigliandosi, sia per la colonizzazione sempre più fitta, sia per traffico sempre più rapido. Un modo per sfuggire alla sensazione di restringimento che ci opprime è la contemplazione accurata delle piccole cose; il mondo si riversa allora in particelle di piccole dimensioni. Le oasi fioriscono a ridosso delle strade militari, di cui gli esperti seguono solo a grandi linee il sistema; si muovono verso punti di riferimento e aree di sosta più nascoste, diverse dai porti e dalle stazioni [...]. I punti di riferimento sono le concrezioni magiche di un paesaggio, [...]quasi perdute nell'indistinto e, per questo tratteggiate con estrema chiarezza. La vista di una pietra preziosa può rendere accessibile una montagna».
VASO  DELLA  BEOZIA
                                                                        
Cacciare nei territori del nulla.
In questo restringimento che ci opprime, altrove nominato 'inquietudine anteica', la consapevolezza epocale, fattasi decrittura fisiognomica, legge lucidamente la trama che unisce la forza costruttiva e organizzatrice del nichilismo -il suo aspetto salutare- alla progressiva, calcolata distruzione della natura.
Questo nesso irresistibilmente occultato dal discorsivo è invece ricondotto alla arbitraria separazione metafisica tra soggetto e oggetto, in forza della quale ogni movimento interattivo tra umano e non-umano è univocamente dettato da atti intenzionanti della coscienza, o dalla messa in forma concettuale dell'immaginazione, e insieme, da una pretesa, accondiscendente disponibilità dell'ente ad essere raggiunto, trasformato, consumato, annientato.
Lo sguardo appassionato e partecipante alla bellezza non si sottrae dunque all'orizzonte epocale. La solitaria passione entomologica, così come la frequentazione della letteratura scientifica, è anche l'osservatorio non casuale per penetrare nella logica del movimento disgregativo del nichilismo: «Il crescente malessere è solo un sintomo della svolta dei tempi che si percepisce in un piccolo ambito lontano, dove trova il suo diletto lo spirito venerante». Nichilismo che, nel contatto incidentale o progettato con l'altro inumano, esercita inesorabile la potenza dello sguardo di Medusa pervicacemente impegnato nell'imbiancamento del carattere espressivo, multiforme, numinoso che si sprigiona quale elemento musico delle forme.
Jünger individua la condizione necessaria di questo esito dissolvente nel pregiudizio scientifico, cioè nella fede assolutamente moderna nella deducibilità veritativa del reale ricondotto alla misura concettuale della ragione umana. La progressiva estraneazione dal sentimento di coappartenenza ad un medesimo astro, accresce nell'uomo la necessità di una elementarizzazione dell'esuberanza qualitativa -nient'affatto naturale- della natura nell'ordinamento sistematico della conoscenza. Il vantaggio ricavato dalla riduzione logica (die Rationalisierung) dell'ignoto nell'abituale, è l'assicurazione dagli effetti esproprianti con cui l'irroconoscibile si annuncia come incatturabile dalla comprensione. La natura disincantata accresce la sicurezza disponente e progettante dell'uomo, contemporaneamente alla neutralizzazione dell'apparire ontologico registrato ora come casuale epifenomeno.
Bisogna però notare come l'oggettiva registrazione della destinalità epocale non sia mai ordinata con criteri degenerativi ma sempre sciolta da pose inquisitorie e paludamenti moraleggianti. Nota infatti Alessandra Iadicicco: «Jünger non respinge affatto il sapere degli scienziati [...]. Se riconosce a quelle ricerche il carattere dell'esattezza è appunto l'esattezza che egli rifiuta di accogliere come criterio di giudizio. Un gesto decisivo in questo confronto con il sapere scientifico è quello di consegnarlo radicalmente al suo limite storico, alla sua provenienza indisponibile, alla sua radice finita».
Infatti nello sfogliare le espressioni simboliche epocali Jünger intesse un'esegesi attenta alle molteplici configurazioni di senso sedimentate sul volto della Terra, rune preziose che testimoniano le risposte incise dall'abitare umano: Cacce sottili è, sotto questo riguardo, una preziosa mappatura geofilosofica delle rivoluzioni planetarie.
Nell'epoca in cui il grande Ordine del Discorso sistematizza l'esistente secondo la successione continua delle rappresentazioni, la forma è accolta e misurata secondo la bidimensionalità dell'effetto duplicativo prodotto dall'atto riflessivo: il visibile è ricondotto alla stabilità constatata nella ricorsività della forma.
Linnè, protagonista del dispiegamento sistematico dello spirito sulla natura incarna nondimeno le movenze premurose di un 'giardiniere appassionato' e dal tono benedicente che, nominando, chiama all'essere le cose: «Occorre vedere in questo personaggio qualcosa di più profondo che semplicemente un gigante della terra. In lui vi è una funzione sacerdotale nel senso più alto della parola [...]. Ciò che è senza nome acquista un significato che si estende fin dove riesce a spingersi lo sguardo e fin dove la parola si pone a tracciare un confine. La natura è resa abitabile e familiare in un modo nuovo. Si moltiplicano le sale dei trofei create dallo spirito».
Una svolta radicale è segnata dall'evoluzionismo darwiniano. Se la classificazione linneiana era metafisicamente sorretta dalla fede in un atto creatore univoco ed esterno alla libertà d'espressione delle forme, delimitate dalla irrevocabilità dell'impronta ricevuta, Darwin teorizza una forza anonima ed immanente all'organismo che si temporalizza nelle reazioni adattive alla contingenza di variabili ambientali.
Il Barocco invece, secolo attraversato dall'angoscia per un universo infinito e disertato da Dio, partecipa allucinato alla caducità metamorfica delle forme, sviluppando una sensibilità attenta al meraviglioso, all'abbondanza e allo straordinario, colto però nell'inappariscenza dei dettagli: «Anche la natura comincia a parlare in modo nuovo; conquista una forza grande ed autonoma. Non solo le sue forze sono viste in modo nuovo, ma con e attraverso esse, si vede il miracolo che la multiformità illimitata contribuisce a rappresentare. E' come una bacchetta magica che opera inaudite trasformazioni. Un bel giorno, un pesce dorato lungo una spanna incanta i nostri occhi e viene fondata una nuova cappella; ne seguirà un culto secolare, coltivato oltre misura».
Di passaggio, ma è un tema serpeggiante nella opera jüngeriana, si riconosce nelle possibilità estetiche racchiuse in questo sguardo, un prezioso viatico per l'attraversamento del muro del tempo e, forse, per l'avvicinamento di ciò che con questo passaggio potrà darsi a vedere.
Quando invece il continuum fluido delle forme, il loro darsi animosamente come increspature della superficie, viene irretito e consolidato dal concetto, allora la natura diventa universalmente manipolabile. Risolvere la natura in meccanica significa ricondurre le percezioni qualitative a parametri quantitativi e invariabili; riportare la realtà dell'immagine patita ad una rappresentazione numerica e misurabile, cioè al mero movimento di punti-massa in uno spazio isotopo ed omogeneo in un tempo continuo ed irreversibile, vuol dire porre l'energia e il movimento come fondamento esaustivo dell'esistente. La riconduzione della natura alla superficialità di un sistema di nessi finalistici mossi dal principio di utilità provoca l'irreversibile processo di legnificazione e mineralizzazione del vivente. L'accoglienza che una tale 'ipotesi di lavoro' riscuote a livello della conoscenza è anche perfettamente corrispondente alle richieste di immediata disponibilità di materia uniformata avanzata dall'Operaio: «Se il mondo fosse davvero costituito in modo così semplice, dovremmo rivelare in esso, secondo il modello del paesaggio d'industria, la presenza di pochi tipi fondamentali utilizzabili nel modo più funzionale. D'altronde, una delle tendenze della nostra epoca è appunto orientata verso la creazione di tali paesaggi. La scomparsa delle specie è un sintomo di questo processo. Il catalogo degli animali che ancora i nostri padri videro con i loro occhi e che conosciamo solo attraverso le descrizioni e le illustrazioni, cresce in maniera inquietante».        
Tarda civiltà di Cucuteni
                                                                              
Nell'imminenza della catastrofe planetaria si ripropone, inevitabile, la domanda sul senso della parabola umana e sull'effemerità del suo tracciato.
Jünger annota icastico: «Le cose stanno effettivamente così».

L'infinità del processo di innovazione in cui è massicciamente impiegata ogni forma di vita conserva, come propria condizione di inveramento, la necessaria nientificazione della Terra. L'ultimo uomo procedendo nel progetto innovativo deve dar spazio alla infinità della potenza del suo pensare-agire la progettazione stessa. Ma la radice finita a cui pur appartiene la facoltà immaginativa della ragione e su i cui schemi lavora sinteticamente la presa concettuale, è costituita dalla quella medesima Terra che, offerta all'immaginazione del senso, verrà incontrata ancora e sempre lungo il percorso di autoaffermazione del soggetto fino a porsi quale ultimo ostacolo da nientificare.
Bisognerà, con Jünger, pensare uno scenario in cui lo spirito autodispiegato regni su di una Terra desertificata e in selvaggia solitudine, e certo anche avviandosi alla propria calcificazione, esistenziale od ontologica poco importa.
Constatando la progressiva diminuzione di specie animali, scrive: «Non solo le rondini, anche le mosce sono tra gli animali in via di estinzione, e l'uomo, persecutore e a sua volta perseguitato, contribuisce a questa scomparsa. Egli è rimasto intrappolato nel processo che risucchia ed annienta le specie: di qui la sua cosmica angoscia e il suo timore di non poter arrestare il corso del destino. Tale situazione va colta nel suo insieme: con l'epoca dei cavalli è scomparsa anche quella dei cavalieri. Ma l'alba continua a risplendere sulle cime che i flutti non hanno raggiunto».
Questa chiusa fortemente contraddittoria non può certamente essere interpretata in senso consolatorio, né come spregiudicatamente mossa dall'ebbrezza che accompagna ogni distruzione: essa va piuttosto approfondita nella sua contraddittorietà.
Ma pensare la contraddizione ingiunge l'abbandono della posa prospettica considerando anche come l'assunto antropocentrico del discorso tecnico acceleri la catastrofe.
Sollecitando una visione d'insieme, Jünger accenna all'ineffettualità dello scavo storico fondato sulle metodologie delle scienze dello spirito. Torna utile qui riprendere un passo dell'Operaio illuminante della questione già allora: «Una forma è, e nessuna evoluzione l'accresce o la diminuisce. Perciò la storia dell'evoluzione non è la storia della forma, ma tutt'al più il suo commento dinamico [...]. Da ciò dipende il fatto che il problema del valore non è quello decisivo. La forma, come va ricercata al di là della volontà e al di là dell'evoluzione, così si trova anche al di là dei valori: essa non possiede alcuna qualità».
E' infatti consustanziale al prospettivismo moderno l'attribuzione di significati fondati sulla capacità estensiva del giudizio, sulla sua efficacia valutativa (il valore come positum della volontà di potenza).
Come pensare allora lo sguardo d'insieme che Jünger suggerisce senza fraintenderlo come l'estrema, tardiva riappropriazione di ciò che il soggetto ha ormai da tempo dimenticato di abitare?
Si può tentare di chiarire la domanda, se non proprio di assicurarci la risposta, ricorrendo ad un passo conclusivo delle Cacce sottili: «La scomparsa degli animali è uno spettacolo che si ripete [...]. L'universo acquista nuove figure e smarrisce quelle antiche, ma non esaurisce mai la forza inesauribile che genera ed annienta. Quando guardo le rondini, mi assale la tristezza; non però quando sposto un poco lo sguardo e lo rivolgo al crinoide appeso al davanzale della finestra. Fu scavato fuori, con uno scalpello, dallo scisto nel quale era rinchiuso da centinaia di milioni di anni. Un'eco di vita proviene dall'insperato, dall'insospettato. Il destino della rondine è intrecciato con il nostro, non quello dell'archeopterix. Nel primo caso è il dolore ad a commuoverci, nel secondo, la pienezza della vita».
Qui lo sguardo sinottico procede palesemente dalla rimozione di ogni inclinazione umanistica e verso una sospensione della facile celebrazione del vivente in cui inevitabilmente si finisce per riconoscere la propria proiezione.
La sinossi dell'antinomia si rifiuta così ad ogni accondiscendenza vitalistica attendendo appunto ciò che si sottrae all'espressività della forma: l'inaspettato, l'inespresso inteso come l'offrirsi della memoria arcaica della Terra.
Appare ovvio come questa possibilità inedita esuli da ogni iniziativa rappresentativa del singolo, anche se proprio al singolo viene demandato l'oltrepassamento del nichilismo. Jünger confida infatti sulla trasformazione artistica dello sguardo, l'unica via che, niccianamente, restituisca alle cose innocenza, cioè quella leggerezza luminosa della parvenza, redimendole dagli schemi di scopo con cui la volontà di verità le attraversa fino all'annientamento. Solo nell'esercizio minimo della distanza è dato poter cogliere l'attimo che sospenda l'adesione ingenua alla natura ricollocandola nell'intatta estraneità di un evento ingiustificabile, nella salvaguardia della venerazione.
A questo motivo fondamentale penso si riferisca Jünger descrivendo la topologia transcosciente del ritorno: «Un'immagine vuole spezzare i confini che il concetto aveva tracciato per restringerla e definirla. Lo spirito, che lo voglia o no, deve prenderne atto, se non vuole capitolare di fronte ai fenomeni. Estendendo i confini può di nuovo comprendervi quell'immagine. L'errore non stava nel mondo, ma nel nostro occhio, nel nostro intimo. E' un salto che ci riporta indietro, verso l'origine».
Oltre a sollecitare una elaborazione simbolica dell'immagine, il ritorno può anche essere inteso non tanto come la riproposizione dell'identico all'interno di una temporalizzazione ciclica del divenire, quanto invece come il riconoscimento dell'inconoscibile dell'origine in ogni cosa che è. L'antico Thauma, e il carattere di urto con cui viene alla presenza, tende piuttosto a spezzare l'antropomorfismo del dato, sospendendo il processo ermeneutico e legandosi impercettibimente all'oblio.

Concludendo

Riflettendo sul senso generale della propria passione entomologica, Jünger scrive: «Già che cosa è che fa la gioia in queste scene di caccia? Perché acquistare migliaia di ideogrammi e innumerevoli rune? Non è per la bellezza, perché molti di questi animali non hanno un bel aspetto; non è nemmeno per la gioia di vedere e conoscere ciò che gli altri a malapena conoscono e sanno guardare. Si dimentica tutto questo negli istanti in cui risplende l'armonia. Dietro alla molteplicità, di qualsiasi specie essa sia, si nasconde un mistero. Ma la stessa composizione fa cenno verso qualcosa di completamente diverso. Quando il lettore lo ha compreso, interrompe la lettura per abbandonarsi alla gioia di un'intesa muta».
Jünger è consapevole che salvare la potenza simbolica dell'immagine -la forza legante, espansiva della forma- è l'ultima possibilità per riportare l'uomo al cospetto di dimensione cosmiche.
Lungo le Cacce sottili compare spesso il riferimento allo Schwärmen (l'andare in estasi): il prodigio erotico della natura che si risveglia, e attraverso la compartecipazione di animali, piante, colori, profumi, testimonia dell'inapparenza donativa ripiegata e vibrante negli strati dell'esistente: «Se le piante da fiore, manifestandosi nella loro inesauribile multiformità, fanno l'effetto di una violenta eruzione dell'Eros cosmogonico, in questo attrarsi e fondersi insieme di organi animali e vegetali, dischiude un tratto insondabile, indecifrabile di Madre Natura [...]. L'unione di esseri così lontani attratti l'uno verso l'altro è il segno di un desiderio nuziale, di una scintilla che si accende in tutti gli oggetti all'inizio di una perpetua festa d'amore». Vedere l'invisibile festa non è dato ovviamente dall'occasionalità di uno sguardo ben intenzionato che confidi nell'immediatezza dell'esperienza: è, ancora una volta, la necessità del cammino alla forma che impone un esodo da se stessi, una conversione senza tinteggiature 'catechistiche' ma metaforicamente pragmatica: una con-versio dell'occhio cieco della mente è l'azione contemplativa jüngeriana, molto vicina, in questo al rovesciamento prospettico del pittore d'icone: le forme non defluiscono dal centro luminoso dell'occhio ma irraggiano dalle proprie regioni ontologiche come punti-eventi in sé illuminanti, costruiti di luce e non illuminati dall'esterno. Il pittore d'icone deve muoversi nelle forme, trasportarsi all'interno della forma ripercorrendone le linee germinative ma insieme, coglierne sinteticamente l'integrità.
La straordinarietà di questo atteggiamento stilistico si avverte nella estrema capacità di disvelamento della realtà. Essa riesce, attraverso il controllo e la calibratura dell'immagine, in uno spazio limitato, a restituire il movimento istantaneo di molteplici accadimenti singolari. Tuttavia ogni singola forma pur se rappresentata nella precisione dei suoi contorni non si esaurisce nell'accidentalità di un puro epifenomeno. La concentrazione sulla particolarità costruttiva riesce ad estenderne non la forma ma il raggio di influenza di quest'ultima -le linee di sviluppo potenziali- sul resto della rappresentazione, ottenendo compositivamente una totalità in sé conchiusa. Ma questo grado di realismo non è assolutamente avvicinabile al semplice artificio di una decalcomania con cui l'ideologia di realtà pretende di risolvere il problema della rappresentazione. La rilevanza va invece sottolineata nella posa assolutamente non mimetica dell'osservatore: l'uomo al centro senza farsi esso stesso centro.
Se ci viene restituito così tangibilmente il senso dell'immagine tanto da avvertirne l'apertura ontologica, lo dobbiamo allo spostamento all'interno della scena dell'osservatore. Jünger mostra perfettamente come la sospensione di ogni interferenza psicologica nella composizione della sensazione, non limiti le possibilità rappresentative dell'ulteriorità sensibile a condizione però di un'attenzione costante alle modalità entro cui la sensazione si dà, che presuppone a sua volta, a parte subiecti, il mantenersi esposto all'evento nella lacerazione del confine dello spazio proprio. Difatti nell'immagine restituita non possiamo individuare un criterio gerarchico di organizzazione delle forme, ottenibile unicamente con la messa in prospettiva del campo visivo. Ma altrettanto poco ci troviamo di fronte ad una pittura impressionistica, atomizzata. Allora ciò vuol dire che la rappresentazione ha raggiunto il suo scopo: è riuscita a testimoniare il senso invisibile imminente nell'immagine in un blocco di puro affetto che promuove la comunicazione di quell'incomunicabile che resta la sensazione di dono del reale, il miracolo per cui ogni cosa che è, è anzitutto un accadere, un darsi.
Da qui l'insistenza con cui Jünger denuncia l'impoverimento formale del moderno. E' una polemica irriducibile al registro sociologico o estetizzante: le forme simboliche sono luoghi da interpretare, soglie dell'invisibile che mostrano il cammino dell'arrischio che è il soggiorno umano sulla terra.
L'esperienza entomologica testimonia della serenità di uno sguardo non pregiudiziale sulla natura e che, sull'orlo della sua distruzione, illuminata dalla luce del tramonto, ci viene restituita nella sua incontaminata purezza. E' quella particolare ilaritas che presiede al pittore di beati giardini paradisiaci dove si danno corpi semplici, perfetti nell'assenza di ogni espressività.
Penso che approfondire l'eredità di questa meditazione sia innanzitutto mantenere la duplicità dell'interrogazione, o meglio, sopportare la tremenda domanda muta che, all'interno della catastrofe, la Terra ci rivolge in un'intatta perfezione.
In un passo dei 'Diari' della II Guerra Mondiale Jünger parla di un fenomeno fitologico secondo il quale alcune specie di fiori (Nyctagenariae) acquistano uno splendore incomparabile in concomitanza della luce crepuscolare. Jünger aggiungeva come questo fosse da tempo elemento di inquietudine.
Noi sappiamo in generale che l'inquietudine accompagna l'attesa dell'ignoto.
Potrebbe invece essere plausibile che l'ignoto più inquietante, in quanto figli della Terra, ci sia già da sempre consegnato in tutto ciò che passando anche è.

Luigi    Ranzani                        
                                              
Tratto da EST-OVEST






mercoledì 30 giugno 2010

La cura della dimora

Prima parte di un trittico sull'argomento.
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Il rito e l’identità nelle forme culturali dell’abitare                               
Eduardo Zarelli

Tutte le etiche si fondano su un tipo di premessa: l’individuo è un membro di una comunità costituita da parti interdipendenti. L’etica della terra semplicemente dilata i confini della comunità per includere il suolo, le acque, le piante e gli animali: la Terra.
Aldo Leopold                                                                                     

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Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e “spirito” a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità.
I Greci ed i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius Loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna.
Vi erano vari tipi di Genius Loci. Le Ninfe vivevano nelle fontane, nei ruscelli e nel mare: non erano immortali, ma in genere avevano una lunga vita. Le Naiadi, ninfe delle sorgenti e dei laghi, apportavano fecondità.
Le Driadi erano spiriti degli alberi, dei boschi e delle foreste; secondo antichissimi miti, ogni Driade nasceva con un albero da custodire e viveva nell’albero stesso o nelle vicinanze. Poiché, quando il suo albero crollava, anche la driade moriva, gli dei punivano chi ne aveva causato la distruzione. Perché una città o fortezza rimanesse integra, il nume doveva continuare ad abitarvi.
I corvi rappresentano il Genius Loci della Torre di Londra. Una leggenda racconta che la fortezza sarebbe rimasta inespugnata fino a quando avessero continuato ad abitarvi.
Le oche sono collegate al Genius Loci del Campidoglio. Quando Roma, nel 390 a.C. fu invasa dai barbari provenienti dalla Gallia, le oche, starnazzando, svegliarono il console Mànlio Marco Capitolìno, che li mise in fuga. Omero, nell’Odissea, (XII. 205-6), descrive come le Ninfe tessevano di continuo insieme elementi diversi. Racconta Omero che, nella grotta dove trova rifugio Odisseo, sbarcando ad Itaca, “vi sono telai sublimi di roccia, dove le Ninfe / tessono drappi dai bagliori marini...”.
La classicità suggerisce, dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius Loci. I luoghi si guadagnano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati.
Tutte le culture tradizionali e sapienzali erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo. Carlos Castaneda, riportando le parole dell’uomo di medicina della tribù amerindia degli Hopi, Don Juan, parlava dell’esistenza di “luoghi di potere”, dove è possibile esercitare la “seconda attenzione”, o percezione sottile, il telema mercuriale. Rispettare un "territorio", proteggendolo ecologicamente invece di distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.
I sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città – cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l’abitare – che prevedeva primariamente l’individuazione del luogo idoneo per stabilire un nucleo urbano, in base a conoscenze di tipo cosmologico e divinatorio, ancorché geologiche e naturali. L’insediamento, in tal modo, diveniva il luogo in cui poteva esercitarsi la sacralità dell’abitare il microcosmo in simbiosi con il macrocosmo. Lo scopo della fondazione rituale di un luogo consisteva però anche nel “dovere scendere a patti” con il Genius Loci del luogo in cui si costruiva. L’energia propria al luogo naturale veniva richiamata e invitata a “collaborare” con gli abitanti di quell’insediamento. Gli antichi ritenevano che, all’identità propria al luogo, si sommasse l’energia propria alla sedimentazione dell’abitare e degli abitanti del luogo, generata dalle loro attività – sacre e/o profane – nel territorio. Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura involontariamente ecologica delle forme di civiltà.
Abitare, sulla scia della riflessione novecentesca di Heidegger e Kahn, voleva dire condurre ad espressione l’essenza dello spazio, un rapporto essenziale dell’uomo con l’essere. Abitare voleva dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi in chi viveva in quel dato posto, che la assorbiva in sé, rispettandola, rilanciandola in modo creativo; così l’abitare diveniva un atto sacro di corresponsione con l’energia spirituale della terra, che è la vita stessa.
Questo è il riferimento fenomenologico, che è alla base delle riflessioni dei teorici del pensiero ecologico, come Arne Naess, quando parlano della natura come di un “valore in sé”, che l’uomo deve rispettare perché ne è parte. L’ecologia olistica insegna che non esiste una cosa isolata, tutto è profondamente connesso: “la vita è fondamentalmente una”, una stessa sostanza vitale abbraccia ogni forma di vita. Una spontanea capacità di autoprodursi e di autoevolvere secondo un ordine proprio, che ci costituisce nel tessuto delle relazioni da cui dipende la vita dell’intero sistema.
Non si deve pensare però che costruire, architettare, edificare case ed edifici venisse ritenuto nell’antichità un’operazione riduttivamente impositiva e limitante.
Corrispondere all’identità propria del luogo rispettandola, significava corrispondere al divino la condizione umana: sacralizzare l’esistenza in modi autentici di vivere.
Per la maggior parte, le società native, nel mondo intero, avevano tre caratteristiche in comune: possedevano un rapporto intimo e cosciente con il loro luogo; erano stabili culture “sostenibili”, che spesso duravano migliaia d’anni; avevano una intensa vita cerimoniale e rituale. Il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò: idolatriamo una razionalità strumentale e un tipo riduttivo di “praticità”, che ha disincantato ogni aspetto della nostra cultura. Se intendiamo ristabilire un rapporto vivibile con la natura, sarà necessario riscoprire la saggezza di queste altre culture – consapevoli che il rapporto con la terra e il mondo naturale richiedeva l’intero loro essere – che, fino a qualche decennio fa, erano ancora presenti, per quanto residualmente, nelle consuetudini popolari di molte aree del Paese. Quelli che noi definiamo sbrigativamente i loro “riti e cerimonie” erano in realtà una sofisticata tecnologia spirituale e sociale, affinata in migliaia d’anni di esperienza e di consuetudine tradizionale, che manteneva quel delicato rapporto con ben maggiore successo di quanto facciamo noi. Tutte le culture tradizionali avevano festività e riti stagionali. Lo scopo di tali eventi era di rivivere periodicamente il topocosmo; dal greco topos, luogo, e cosmos, ordine del mondo. Il topocosmo è l’intero complesso di una data località concepito come un organismo vivente: non solo la comunità umana, ma la comunità totale comprendente la natura, il suolo, il paesaggio del posto. Il topocosmo non è solo l’effettiva e presente comunità vivente, ma anche l’entità continua della quale la presente comunità non è che la manifestazione corrente, nella coincidenza simbolica e reale tra l’eternità dell’essere e il fluire del divenire.
Se intendiamo realmente ricollegarci alla terra, dobbiamo cambiare la nostra percezione e il nostro modo di relazionarci, più che il nostro posto. Finché ci faremo limitare dall’utilitarismo razionalista, saremo separati dall’ecologia profonda del nostro luogo. Come sostiene Heidegger, “abitare non è primariamente occupare, ma l’avere cura e creare quello spazio nel quale qualcosa di individuale sorge e prospera”. Il rituale è essenziale, perché stabilisce le connessioni profonde tra cultura e natura. Fornisce comunicazione a tutti i livelli: tra la persona e la comunità, tra la comunità e il territorio e, attraverso questi livelli, tra l’umano e il non umano, nell’ambiente naturale. Il rituale ci fornisce uno strumento per imparare a pensare logicamente, analogicamente ed ecologicamente mentre facciamo l’esperienza, unica nella nostra cultura, invece di non opporci semplicemente alla natura o cercare di essere in comunicazione con essa, di trovare noi stessi nella natura, ovvero la chiave per un significato ontologico dell’esistenza e delle sue forme.
Faccio un esempio concreto e non banale: nella cultura popolare i prodotti della terra (l’olio, il vino) sono sacri, in quanto espressione dell’energia della terra, di cui portano impressa la traccia, la qualità essenziale. Mangiare i prodotti della terra che si attraversava era considerato un rito sacro, perché significava arricchirsi dell’energia di quel luogo. Per questo, Trakl individua nella figura del viandante il ricercatore dello spirito, colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e dell'emozione. Per questo motivo, a tavola gli vengono offerti “pane e vino”:
Alcuni nel loro errare
Giungono alla parte per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
Il viandante è colui che vive il Genius Loci proprio nel suo offrirsi di luogo in luogo, in quanto possiede “dentro” il senso archetipico dell’Heimat, dell’empatia della patria.
Si può così comprendere, dal punto di vista della fenomenologia di Heidegger (e del pensiero di Humboldt, prima di lui), il senso dell’affermazione: “La parola è sacra”. Quello squadernarsi del mondo nelle quattro direzioni del cielo, della terra, dei mortali e dei divini: un gioco di rimandi allusivi, per cui ogni lato del quadrato è se stesso solo nell’atto di rinviare agli altri. La parola di un certo luogo, la sua lingua, è l’espressione autentica del corrispondere dell'essere umano al Genius Loci di quella terra. La lingua corrisponde allo spirito di un luogo. Per questo, Rilke sosteneva che il poeta fosse “parlato” dalla fonte dell’essere (dell'energia impersonale del luogo). Per questo, Hölderlin scrive: “La parola è il fiore della bocca”. Il fiore è l'espressione dell'energia della terra non meno della voce, della parola. Il poeta è colui che coscientemente è “parlato” dall'energia della sua terra.
Di qui l’importanza della lingua di un luogo, del suo dialetto, perché porta in sé la testimonianza più immediata del Genius Loci. Nella manifestazione linguistica vi è quindi un fondamento evocativo sostanziale della cultura locale; ben oltre le forme della resistenza residuale ai margini della omogeneizzazione tecnomorfa della civilizzazione industriale, lo sforzo intenzionale per la sua sopravvivenza e per la consapevolezza del suo valore deve divenire uno sforzo dell’intera comunità d’appartenenza. Un luogo non può essere tradotto, come nessuna lingua può esser tradotta, come nessun panorama può essere tradotto, come nessun monumento può essere tradotto. Quando le costruzioni di un luogo non si sovrappongono, ma, al contrario, facilitano il trasparire del Genius Loci di un luogo, possiamo parlare di “raduno”: il permettere alle cose di essere tali. Scopo dell’architettura è la creazione di luoghi in cui la spazialità del Genius identitario si esprima in concordia con la ricerca dei propri sentimenti. La sensibilità interiore è in ogni dove. Da essa si può guardare la realtà nelle sue sfumature, che creano le differenze qualitative della culturalità dell’uomo, abbracciando una visione olistica per cui la totalità è composta di complementarietà identitarie. Il Genius Loci è per definizione pluralista e relativista: per dirla con Mircea Elide, “in ogni luogo vi è un centro del mondo” versus ogni unilateralismo e omogeneizzazione.
L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso.
In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi, responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma contribuisce all’armonia del tutto.
Quando Thoreau afferma chenella natura selvaggia sta la preservazione del mondo”, intende dire che una corretta disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia noi che la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza dell’azione o del discorso. Nel momento in cui la natura viene concepita come parte di noi si distrugge la possibilità stessa di salvaguardarla. La remissione di ogni tendenza assimilazionistica riconosce e rispetta l’alterità delle identità.
In questo approccio, rintracciabile nella sapienzialità delle culture preindustriali, ritroviamo composta la drammatica frattura dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica progressista. La visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un approccio scientifico olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti. Una scienza dei “legami vitali”, armonicamente coordinati nella coerenza della natura viva, sconvolti dalle micidiali incompatibilità culturali, psicologiche e fisiologiche della tecnosfera. Lo squilibrio dualistico dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l’artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i “progrediti” sugli “arretrati”. Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna considerare come centrale la questione ecologica, non già semplicisticamente nei suoi effetti ultimi, “ambientali”, ma nel suo significato profondo, ontologico, causale, di distacco fra cultura umana e natura.
In una civilizzazione ad alta entropia - generazione di un ordine sempre più accentuato in un determinato ambito, inducendo il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene - lo scopo prevalente della vita diviene quello di usare un elevato flusso energetico per creare l’abbondanza materiale e soddisfare ogni concepibile desiderio umano; la libertà umana viene quindi a coincidere con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, il sistema di valori materialista e ad alta entropia cerca di creare il “paradiso in Terra”, definendo lo scopo ultimo della nostra esistenza nella soddisfazione di ogni possibile bisogno voluttuario. La “realtà” è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Il dualismo pervade le nostre menti separate dai nostri corpi e i nostri corpi disgiunti dal “mondo circostante”. Soggiaciamo al progresso materiale, all’efficienza dell’automatismo, alla specializzazione posta al di sopra di qualsiasi altro valore e, di conseguenza, distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.
Feyerabend scrive che il razionalismo occidentale è legato, fin dalla sua origine, a derive totalitarie: “La scienza diventa anch’essa antidemocratica, nella misura in cui da arte si converte in impresa filosofica”; per il filosofo o per lo specialista, sapere cos’è un uomo non significa semplicemente conoscere, attraverso rapporti personali, molti uomini, uomini di diverse culture e di diverse classi sociali, ma cogliere un’essenza chiara, obbediente a chiare regole, che sia separata da processi così caotici e soggettivi: il concetto di uomo. Questo ci dovrebbe persuadere che la giustizia e la verità non si possono isolare da una forma di vita, che le forme speculative e i concetti astratti sono sostanziali al macchinismo della modernità e che la pretesa di ogni forma di razionalismo legato alla tradizione occidentale ha essenzialmente l’obiettivo di istituire forme politiche liberticide, che annichiliscono le comunità solidali e le identità sostanziali.
La cultura dominante ribalta la constatazione della realtà e descrive le leggi di natura come pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche e giuridiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo come “interiorizzazione della comunità”, da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura, tra forma e cultura, nel cuore incarnato dei popoli: vox populi, vox dei.
E questo ce lo dà l'Islam! (Janua Coeli)

tratto da EST-OVEST

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