giovedì 23 giugno 2011

L'Uno è tutte le cose (dalle Enneadi di Plotino)



PLOTINO
                                                              


I. L'Uno è "tutte le cose" e al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non è "tutte le cose" in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si troveranno.
...E tutto torna ad Allah! Come possono allora derivare dalla semplicità dell'Uno, mentre in una pura identità non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna piegatura, quale che sia, assolutamente? Orbene, proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per questo, dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi, affinché l'essere sia, per questo Egli non è "essere", ma solo il genitore dell'essere; e questa che vorrei chiamare "genitura" è primordiale.Il Corano,Sura CXII. La Sura del culto sincero: Nel Nome di Allah, Clemente e Misericordioso! Dì: "Egli.Dio, è Uno, Dio, l'Eterno, Non generò nè fu generato, e nessuno Gli è pari!" Questo concetto Plotino non riesce a chiarirlo usando un linguaggio equivoco. Mi spiego; perfetto com'è, giacché nulla ricerca, nulla possiede, di nulla ha bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e la sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l'essere così generato si rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento verso l'Uno crea l'Essere; la contemplazione che l'Essere volge a se stesso crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere. Così, dunque, l'Essere è un "secondo Lui" e perciò crea ciò che gli è simile, versando fuori la sua forza esuberante; ma, immagine, anche questa, dell'Essere corrisponde a Colui che già prima dell'Essere s'effuse. E questa forza operante che sgorga dall'Essere è "Anima" che diviene quello che è, mentre lo Spirito è fermo; poiché anche lo Spirito sorse mentre "Ciò che era prima di Lui" perseverava nell'immobilità. Questi ultimi concetti sono spiegati in modo eccelso,nelle sue Opere, da 'Ibn el Arabi.
L'Anima però non è immobile nel suo creare; tutt'al contrario, ella generava la sua immagine, allorché aveva già subito il movimento. Ora, finché ella guarda lassù donde nacque, si riempie di Spirito; ma se avanza su un'altra ed opposta direzione, genera - immagine di se stessa - la sensibilità e, nelle piante, la potenza vegetativa. Nulla, peraltro, è separato, nulla è scisso da ciò che precede. Sotto questo rispetto, sembra persino che l'anima umana s'inoltri, pur essa, sino alle piante: vi si inoltra, intendiamoci, in questo senso che la potenza vegetativa ch'è nelle piante appartiene all'Anima; certo, ella non è, tutta quanta, nelle piante, ma se è nelle piante è in questo senso ch'ella è procedura sino a tal punto, nel basso, da creare un essere novello in quel suo processo e in quella sua premura del "peggiore". Del resto, anche la sua parte superiore, quella sospesa allo Spirito, lascia che se ne stia quieto e fermo lo Spirito che è in essa.Questi concetti dovevano essere sicuramente chiariti oralmente!
II. ...Tutte queste gradazioni sono Lui e non sono Lui: sono Lui poiché da Lui derivano; ma non sono Lui, poiché Egli, fermo in se stesso, non ha fatto altro che dare. Concludendo, gli è come un corso lento di vita che si protenda in lunghezza: ognuno dei tratti successivi è "un diverso", ma il tutto è compatto in se stesso e se, per via di differenze, ogni cosa sorge perennemente nuova, l'antico però non si perde nel nuovo.Quest'ultimo concette si rispecchia chiaramente con la Dottrina della Shakti nel Vedanta Advaita Tantra.
Enneade V, 2 - I - II (Laterza - 1944)
I. Se c'è "qualcosa" ulteriormente al Primo, necessità vuole ch'esso o derivi da Lui, immediatamente, o si rifaccia a Lui per via di intermediari; esiste, così, un ordine di "cose di secondo grado" e un ordine di "cose di terzo grado": l'uno risale al Primo - è il secondo, s'intende -, il terzo poi risale al secondo.
Io intendo: deve esser di una semplicità anteriore a ogni altra, questo nostro Primo e, precisamente, Egli è diverso da tutto ch'è dopo di lui, esistente in sé, non mescolato con le cose da Lui derivanti e capace tuttavia di star dentro alla sua volta, in un modo tutto suo, nelle altre cose, uno che è veramente Uno (non come se questo "è" fosse una cosa diversa e poi gli si applicasse l'Uno) uno, insomma di cui già l'espressione "è Uno" suona falsa; uno di cui non si ha né concetto, né scienza; uno, in definitiva, di cui usa dire che "è al di là dell'essere".
Infatti, se non fosse semplice, scevro di ogni casualità e composizione e veramente e propriamente uno, Egli non sarebbe principio; e solo per il fatto che è semplice, ha sovrano indipendenza e primato su tutte le cose; poiché il "non - primo" ha bisogno di ciò che lo precede e il "non semplice" ha bisogno degli elementi semplici contenuti in lui, a che ne sia costituito.
Sì, ciò che è di tal natura non può esser altro che Uno; ché, se ve ne fosse un "altro" di simigliante natura, l'uno e l'altro coinciderebbero. Corano, Sura CXII: ....e nessuno Gli è pari! Qui, beninteso, noi non ci riferiamo a due corpi, né diciamo che l'Uno è il primo corpo! In verità, nulla che sia semplice può essere corpo; e il corpo, poi, è qualcosa che diviene, ma non può mai esser principio; il principio, per contro, è ingenerato. Se, dunque, quell' "altro" non è corporeo ma è realmente uno, esso coincide col Primo. E allora, se dopo il Primo, ha da esserci qualcosa di diverso, mai più questo sarà semplice; sarà, di conseguenza, "uno-molti".
Orbene, donde nasce questo "secondo"? Dal Primo. Certo non potrebbe nascere a caso, perché allora non sarebbe più "principio di tutte le cose" quel nostro Primo! Ma in qual maniera, allora, il secondo nasce dal Primo? Ecco, se il Primo è perfetto, anzi il più perfetto al mondo, se esso è la primordiale forza operante, urge, allora, che esso sia, tra gli esseri tutti, il più perfetto e che tutte le altre forze operanti, a tutto potere, imitino Lui.
Qualsiasi, tra le restanti cose, giunta che sia alla sua piena maturità, genera - noi lo vediamo - e non sopporta una immota solitudine, in se stessa; ma crean tutti un essere novello, non solo chi abbia una volontà consapevole, ma quelli ancora che, senza volontà consapevole, vegetano semplicemente, e persino gli esseri inanimati cedono altrui, di sé, tutto quello che possono: ad esempio, il fuoco riscalda e la neve raffredda e le medicine esercitano una efficacia corrispondente alla loro propria natura su di un essere diverso: tutte le cose, assolutamente, sono copie più o meno fedeli che si dispiegano in eternità e in bontà.

E allora come potrebbe starsene inerte in se stesso il perfettissimo e il primo Bene, quasi fosse avaro di se stesso ovvero impotente, Lui che è la potenza del tutto? E come potrebbe essere tuttora principio? Sì, "qualcosa" anche da Lui deve pur nascere, direttamente, se è vero peraltro che "qualcosa" deve esistere; e, del resto, tutte le altre cose traggono da lui l'esistenza: che la traggano da lui, voglio dire, è una necessità.
In verità, dev'essere sovranamente venerabile Colui che genera le cose seguaci; così, anche il frutto di tale generazione dev'essere venerabile al sommo, e, precisamente, in un grado ch'è secondo dopo di lui ma superiore a tutto il resto.
II. Ora, se il generante fosse lui stesso Spirito, il generato dovrebbe riuscire più manchevole dello Spirito, sempre però abbastanza vicino e somigliante allo Spirito. Poiché invece il generante è al di là dello Spirito, il generato dev'essere, necessariamente, Spirito.
E perché non è generante lo Spirito, quello Spirito il cui atto è pensiero? Ma il pensiero contempla l'oggetto dello Spirito ed è volto su di questo e da questo è come perfezionato e compiuto: tale pensiero è indefinito come il vedere, e viene definito solo dall'oggetto dello Spirito! Perciò poi fu anche detto: "dalla dualità indefinita" e dall'Uno escono le Idee e i numeri: vale a dire lo Spirito. Ecco perché lo Spirito non è semplice ma è "molte cose" e rivela già una composizione di natura spirituale, s'intende - e contempla oramai la pluralità. Certo, egli è anche, in se stesso, oggetto di pensiero e, nondimeno, altresì soggetto pensante: e quindi comporta già una dualità; ma vi è ancora dell'altro: la realtà spirituale che viene dopo di Lui.
Ma in qual modo questo nostro Spirito deriva dall'Uno, oggetto del suo pensiero? L'Uno, quale oggetto di pensiero, fermo in se stesso e immune dal bisogno cui è invece soggetto il Contemplante e il Pensante (bisognoso, però, io intendo il Pensante solo in rapporto dell'Uno) non è, per così dire, un Inconscio; no, ma tutto il suo contenuto non solo è in Lui ma è anche con Lui; Egli discerne perfettamente se stesso; c'è vita in Lui; c'è tutto, anzi, in Lui; e persino la sua contemplazione - ch'è Lui stesso - si accompagna a non so qual sentimento in una fissità eterna e in un'attività spirituale che non ha che fare col pensiero dello Spirito.

Orbene, se qualche cosa nasce mentre Egli persevera in se stesso, questa nasce da Lui proprio allora che l'Uno sia alla vetta suprema del suo essere; se Egli quindi perdura nel suo proprio modo di essere, il generato nasce, si, da Lui, ma nasce senza ch'Egli esca dalla sua immobilità. Pertanto, poiché Quello persevera come oggetto di pensiero, il divenire s'avvera come pensiero; ma, pensiero qual è e traendo il contenuto del suo pensiero da Colui donde sorse (ché non ha altro) diviene Spirito; così ha, vorrei dire, un nuovo oggetto di pensiero, che s'assomiglia quasi a quello di prima ed è una immagine e una figura di Lui.Qui nel tentativo di dare una spiegazione logica dello sprigionarsi dall'Uno,quella che noi oggi chiamiamo Creazione,il pensiero diviene più oscuro,nel brano che segue spiega a parole ciò che la raffigurazione artistica della Chakti abbracciata a Shiva illumina ogni Fedele: Shiva che è l'Uno dal quale procede ogni creazione a mezzo del movimento sinuoso della Chakti, la Sua Potenza! 
Ma come - Lui fermo si svolge il divenire? In virtù della forza operante. La quale è duplice: l'una è chiusa nell'essere; l'altra sgorga al di fuori dell'essere particolare di ciascuna cosa; e, precisamente, quella che appartiene all'essere è proprio quella singola cosa in atto; quella che sgorga fuori, da esso, e che deve necessariamente tener dietro ad ogni cosa, è diversa da quella singola cosa. Tant'è, per esempio, nel fuoco: vi è, da un canto, il calore che entra di pieno diritto nella sua essenza; e v'è, d'altro canto, il calore che nasce già come derivato dell'essenza, allora che il fuoco, in quel semplice perseverare come fuoco, esercita la forza operante chiusa nativamente nel suo essere.
Proprio così è anche nel mondo superno; lassù, anzi, a più forte ragione: mentre l'Uno persevera nel suo proprio modo di essere, la forza operante, nata com'è dalla perfezione e dalla congiunta forza operosa ch'è in Lui si ipostatizza appunto perché sorge da una potenza enorme - la suprema, certo, tra tutte - e giunge sino alla vetta dell'essere e dell'essenza; poiché l'Uno era al di là dell'essenza. Precisiamo: l'Uno è la potenza del Tutto; il generato, invece, è già il Tutto. Ma se questo è il Tutto, Quegli è al di là del Tutto; di conseguenza, al di là dell'essere. Inoltre, se lo Spirito è tutto, l'Uno invece è anteriore a tutto e non ha quindi una unità di misura comune con tutte le cose e così, anche per questa considerazione, Egli vuol essere al di là dell'essenza; tant'è dire al di là pure dello Spirito. Si conclude che al di là dello Spirito c'è "qualcosa". Francamente, l'essere non è un cadavere e neppure una "non-vita" e neppure "uno che non pensi". Così Spirito ed Essere coincidono. Mi spiego: tra le cose e lo Spirito non corre lo stesso rapporto che c'è tra la sensazione e i sensibili - i quali la precedono -; no, ma lo Spirito coincide con le cose, dal momento che le loro forme ideali non sono acquisite ma immanenti; poiché donde potrebbero acquistarsi? Qui solamente, tra questi oggetti dello Spirito, regna una vicendevole identità ed unità. Del resto, anche la scienza delle cose immateriali, presa nel suo complesso, si identifica col suo contenuto reale.
Enneade V, 4 - I - II - Ibid.

XI. Ma se uno di noi - mal riuscendo a vedere se stesso - ghermito dal dio superno, trasporta al di fuori la visione per poter vederla, egli allora trasporta al di fuori anche se stesso e guarda semplicemente una abbellita immagine di sé. Ma se lascia cadere tale immagine, per bella che sia, e giunge a unificarsi con se stesso senza spezzarsi più, egli è uno e tutto a un tempo, in compagnia di quel dio che è lì presente, nel silenzio, e allora egli se ne sta con Lui, sino al limite del suo potere e della sua brama. Se, per contro, egli si volge indietro e ricade nella dualità, fino a che resti puro, egli è sempre in immediata vicinanza con Lui, sì da rientrare ancora - in quel modo trascendente - proprio nel suo essere, purché solo si rivolga, di bel nuovo, a Lui; comunque, da quel suo volgersi indietro, egli ha tratto il seguente guadagno: al principio, egli acquista una percezione di se stesso, fino a che sia distinto da Lui; ma allora egli si affretta a entrare nel suo interno e riguadagna il tutto, tanto che, facendo getto della percezione, torna indietro, per paura di esser diverso da Lui, e ritorna così uno, lassù. Se però egli brama vederlo come un diverso, egli rende esteriore pure se stesso. Chi però fermo in una qualche traccia di Lui lo va scoprendo, deve anzitutto a furia di cercare, vagliarne la cognizione; ma, dopo avere così saggiato, con la prova dovuta, il valore della cosa in cui deve entrare - come, cioè, entri in una somma beatitudine - egli deve oramai abbandonarsi al suo intimo e tramutarsi alfine, risplendendo di pensieri, da "veggente" in "visione", la visione, voglio dire, di un altro Contemplante, com'è Colui che ci si fa incontro di lassù. Questo concetto viene splendidamente chiarito con il Mito di Narciso.
Ora, come può uno essere nel bello e tuttavia non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello come altro da sé, non è ancora nel bello costui; se invece è divenuto bello, allora soltanto, egli si trova, al più alto grado, nella bellezza. Se pertanto il vedere si riferisce a ciò che sta fuori, non vuol essere visione, questa, se non sia tale da identificarsi con la cosa vista: ma questa è, per così dire, intelligenza e coscienza di sé, e qui si deve fare attenzione a che non si corra il rischio di allontanarsi da se stesso, proprio mediante una più intensa coscienza! Occorre pure riflettere al fatto che le percezioni di cose cattive ci colpiscono più violentemente e indeboliscono la conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce; la sanità invece, benché tranquilla compagna, sa farsi avvertire di più poiché essa sta in noi, come a casa sua, al primo posto, anzi s'unifica con noi, mentre la malattia è un'estranea e non è appropriata al nostro essere ed è visibilissima proprio per questo che si manifesta violentemente diversa dal nostro essere.
Pure, su ciò che rientra nel nostro "io" e sullo stesso nostro "io", noi non rivolgiamo normalmente la nostra avvertenza; ma proprio così, più che mai, noi siamo consci di noi, in quanto abbiamo operato l'unità tra il nostro sapere e il nostro "io". Lassù pertanto, allorché il nostro sapere corrisponde nel grado più alto allo Spirito, abbiamo l'impressione di non saper nulla, poiché attendiamo l'impronta della coscienza, la quale dice di non aver visto nulla; in realtà essa non ha visto nulla né potrebbe mai vedere cose siffatte. Così, la fonte del dubbio è la coscienza: tutt'altro, invece, è Colui che vede; o, se dubitasse lui pure, non dovrebbe neppure credere a se stesso. Mai e poi mai, in verità, lo Spirito potrebbe trasferire se stesso al di fuori e guardarsi con occhi corporei come se fosse un oggetto sensibile.

Enneade V, 8 - XI - Ibid.
XII. [...] Ma almeno ciò, che è in senso assoluto quello che è - Essere in sé - e non è distinto dalla sua essenza, in questa situazione è proprio quello che è, vale a dire padrone di sé e privo di ogni ulteriore orientamento su altrui, in quanto è e in quanto è essenza. A lui, d'altronde, fu dato esser padrone di sé su la via ov'Egli è "Colui che è il Primo". Su la via che conduce all'Essere. Ora, Quegli che rende libera l'essenza, Quegli che ha insita, con piena evidenza, nella propria natura, l'opera della liberazione sino ad essere detto "creatore di libertà", a chi mai dovrebbe far da servo? Purché non sia già sacrilegio esprimersi così persino in una maniera generale! Forse alla sua propria essenza? Intanto, anche questa è libera solo in grazia di Lui ed è posteriore a Lui; e poi non ha essenza, Lui! Chi vede la Creazione dal punto di vista di Shiva!
Così, se c'è in Lui qualcosa sul tipo dell'atto e noi vogliamo far consistere Lui in tale atto, neppure per questa via Egli riuscirebbe diverso da sé, e non sarebbe padrone di sé Colui donde l'atto scaturisce, poiché non sono cose diverse l'atto e Lui stesso. Ma se non vogliamo proprio ammettere che ci sia un atto, in Lui; se dobbiamo, per contro, riconoscere che solo le altre cose si attuano intorno a Lui e conquistano così l'esistenza, a maggior ragione ancora non dobbiamo ammettere lì, nell'Uno, né un elemento che domina né un elemento dominato; a rigore, anzi, non gli concederemo neppure l'attributo "padrone di sè" non perché un altro sia padrone di Lui ma perché noi assegnammo il dominio di sé all'Essere e collocammo invece Lui in un grado più alto di quel che corrisponde a questo auto-dominio.
Ora, che significa questa espressione "in un grado più alto di quel che è padrone di sé"? Ecco: lì, in seno all'Essere, essenza ed atto sono, in un certo senso, dualità - dall'atto stesso ognuno poté trarre l'idea dell' "esser padrone" (quest'atto, beninteso, è identico all'essenza) -; proprio per questo fatto fu preso separatamente "l'esser padrone", e, l'Essere fu detto "padrone di sé". Allorché, invece, non c'è una dualità in valore di unità ma proprio l'unità in se stessa - cioè o esclusivamente atto o qualcosa che non è neppure atto - anche l'espressione "padrone di sé" non è giustificata.
XIII. Frattanto, se è necessario introdurre queste espressioni che si applicano in modo inesatto all'oggetto della nostra ricerca, si ribadisca ancora una volta che ben a ragione si afferma l'esigenza di non renderlo dualità neppure per successiva astrazione mentale; per il momento, però, solo per destare la persuasione, c'indurremo persino ad uscire dal retto cammino della logica, nel nostro discorso....

Enneade VI, 8 - XII - XIII – Ibid.
Da: http://www.montesion.it/_montesion/Montesion.html


LE  NOTE  IN   ROSSO SONO DI JANUA COELI

martedì 21 giugno 2011

Un orientalista dimenticato

Un orientalista dimenticato

Pizzi iranista
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A mezzo secolo dalla morte dell'orientalista parmigiano Italo Pizzi (1849-1920), "l'oblio quasi totale in cui quell'operosissimo divulgatore di esotica cultura è oggi caduto" (1) veniva accusato come ingiusto da Francesco Gabrieli, che nel 1969, volendo riproporre al lettore italiano il poema nazionale persiano, ne aveva curato per la UTET un'antologia, anzi, "quasi una antologia dall'antologia", in quanto la scelta dei brani era stata ricavata dalla versione ridotta pubblicata presso la casa torinese dallo stesso Pizzi (2).

Ma il prolifico e versatile orientalista pubblicò anche una traduzione integrale dello Shâhnâmeh (3) che costituisce senza dubbio il suo opus magnum. Lavorando per circa vent'anni sull'edizione calcuttense di Turner Macan del 1829, egli trasfuse i centomila versi mutaqârib di Firdusi in endecasillabi sciolti che furono lodati da Giosue Carducci, che nel 1867 lo aveva esaminato per l'ammissione alla Normale di Pisa. "L'arte del traduttore - scrisse il poeta sulla "Nuova Antologia" del 1 luglio 1886 - a me pare molta e buona. L'endecasillabo sciolto, condotto secondo le tradizioni della scuola classica, procede corretto, non stentato mai, decoroso, variato d'intonazioni e pienezza secondo e quanto permette l'indole di questa poesia, epica ed orientale". Meno entusiastico fu il successivo giudizio di uno studioso dell'opera di Firdusi, Gino Lupi, il quale trovò la traduzione "volutamente artificiosa e contorta, ben lontana dalla semplicità firdusiana" (4), ma tuttavia non poté non poté fare di utilizzarla e di riconoscere a Pizzi il merito fondamentale di aver contribuito "alla conoscenza fra noi di quel mondo di cui ben pochi in Italia, prima di lui, si erano occupati" (5).

Non solo la traduzione dello Shâhnâmeh, ma anche i "numerosi appassionati studi del medesimo Pizzi sull'epopea iranica e su Ferdousî" (6), che Alessandro Bausani (1921-1988) invitava a rileggere per quanto li ritenesse "in qualche punto superati" (7), sono oggi praticamente negletti. Perfino il repertorio del Pearson (8), organica ed accurata bibliografia di trecento pagine destinata agli studiosi dell'Iran preislamico, registra sotto il nome di Italo Pizzi soltanto la Grammatica elementare dell'Antico Iranico, la scelta di passi avestici intitolata Lyra Zarathustrica e altri cinque titoli di diverso rilievo (9), mentre il numero delle pubblicazioni pizziane di argomento iranistico supera sicuramente la cinquantina (10). Oltre che dalla Grammatica elementare dell'Antico Iranico citata dal Pearson, l'attività linguistica di Pizzi è rappresentata dalle abbondanti note grammaticali e lessicali con cui egli corredò alcune opere antologiche, come la Chrestomathie persane o il Manuale della lingua persiana, un lavoro che in sostanza era un florilegio firdusiano (11). Probabilmente è quest'ultima opera di Pizzi quella alla quale si riferisce confusamente Mircea Eliade, allorché dichiara di aver cominciato nel 1927 a studiare persiano e sanscrito "à l'aide des manuels Hoepli, de Pizzi et Pizzagalli" (12), sognando di poter tradurre in romeno lo Shâhnâmeh; confusamente, perché nella serie dei Manuali Hoepli, che effettivamente comprendeva la Grammatica sanscrita di A. M. Pizzagalli, apparve una Grammatica persiana compilata da Angelo de Martino, non da Italo Pizzi.

Nei Manuali Hoepli, invece, apparve nel 1887 un Manuale di letteratura persiana che, secondo Pizzi, doveva "dare un'idea di tutto il movimento letterario dell'Iran dai primi tempi fino a noi" (p. vii); ripartita in tre capitoli (letteratura antica, medioevale, moderna), questa trattazione storico-letteraria presenta alcuni brani di autori persiani. Qualche anno dopo, Pizzi pubblicò una più ampia Storia della poesia persiana, "più per tutti quelli che amano aver conoscenza delle letterature straniere, pur non facendone uno studio ex professo, che per gli Orientalisti" (p. vii). L'opera però non è semplicemente di una storia letteraria, ma è, al contempo, un'antologia poetica, poiché i due volumi (850 pagine in totale) contengono le traduzioni da centoventi poeti, per un totale di oltre quattrocento brani d'autore.

Tra i poeti persiani, Pizzi amò in particolare Sa'di, del quale tradusse il Gulestân (13); ma quello cui riservò la più costante ed amorosa attenzione fu Firdusi. Alla prima prova di versione dallo Shâhnâmeh, che apparve nel 1868 sulla "Rivista Orientale" di Firenze, ne seguirono altre (14), finché tra il 1886 e il 1889 videro la luce gli otto volumi della traduzione integrale. Ma il poema di Firdusi costituì pure l'oggetto di diversi saggi critici e divulgativi di Pizzi, tra i quali occorre menzionare il saggio sugli eroi dello Shâhnâmeh (15), il saggio sull'epopea persiana (16) e il "profilo" formigginiano in cui la presentazione dello Shâhnâmeh è inframezzato di brani del poema (17).

Lyra Zarathustrica, citato più sopra, contiene la versione di alcuni brani dell'Avesta così intitolati dal traduttore: Inno al Fuoco, Inno a Mithra, Inno alla dea delle acque Ardvi Sura Anahita, Leggenda del re Yima, Glorificazione di Haoma, Domande del fedele intorno al perché e all'origine delle cose. Mentre Francesco Adolfo Cannizzaro (1867-1914) aveva tradotto il libro avestico del Vendidâd, che sarebbe uscito postumo con una Prefazione di Italo Pizzi (18), quest'ultimo volle invece procedere sulla linea della compilazione antologica: diede alle stampe un volume intitolato L'Avesta (19), per il quale trascelse quei capitoli e quei passi che a lui parevano i "più importanti nel riguardo storico, morale, religioso, i più belli per l'ispirazione poetica, i più caratteristici per le idee dei tempi, dei luoghi, della gente, della civiltà a cui appartengono" (Prefazione, p. 12). La scelta dei brani era preceduta da una lunga Introduzione (pp. 17-118), articolata in una settantina di paragrafi, che mirava ad informare il lettore su Gli Irani (capo I) e su Zarathustra e la sua religione (capo II). F. Gabrieli apprezzò questo florilegio avestico in particolare per gli Yasht, "che Pizzi tradusse in torniti e sonanti endecasillabi, talora pervasi di un vero afflato religioso" (20).


Riscontri euro-iranici

Lo studio della civiltà persiana consentì ad Italo Pizzi di rendersi conto della parentela spirituale esistente tra l'Europa e l'Iran e di quella ricca eredità ideale che l'Iran ha trasmesso all'Europa, un'eredità "talvolta così radicata nel nostro costume di vita che non ce ne accorgiamo neppure, dato anche il fatto che frequentemente ci è giunta tramite culture intermedie o modelli occidentalizzati da secoli" (21).

Al già citato articolo Una massima di sapienza popolare nell'Antigone di Sofocle e nel Marzbânnâmeh di Verâvini possiamo aggiungere altri contributi che testimoniano della consapevolezza di Pizzi circa i rapporti euro-persiani, per esempio, la prolusione accademica su Dante e Firdusi (22). Ancor più significativo è il titolo Le somiglianze e le relazioni tra la poesia persiana e la nostra nel Medio Evo (23), dato ad una memoria che sarebbe stata trasfusa nell'ultimo capitolo della Storia della letteratura persiana.

In particolare, Pizzi attribuì un'origine persiana al romanzo di Tristano e Isotta: oltre a riprendere l'ipotesi di Hermann Éthé (1844-1917), il quale aveva fatto notare che il poema persiano di Ramîn e Vîs attribuito a Fakhrî tratta lo stesso tema del Tristano e Isotta di Goffredo di Strasburgo, Pizzi rileva le analogie tra la pazzia di Tristano e quella del giovane Qays (detto poi Majnûn, cioè "folle") nelle opere di Nezâmî e di Giâmî (24).

Altre interessanti corrispondenze vengono indicate in Riscontri orientali (25): una novella del Gozzi ed una del Novellino rinvierebbero anch'esse al Marzbânnâmeh di Verâvini, mentre la storia di Rosmunda troverebbe parziale riscontro nello Shâhnâmeh.

Per porre in evidenza ulteriori analoghe connessioni, Pizzi si sofferma sulla figura di un dotto vissuto alla corte persiana nel VI secolo dell'era volgare, Buzurcimihr (=Vazurkmihr), al quale vengono riferiti ammonimenti e sentenze. I dialoghi che questo celebre saggio ebbe con Cosroe il Grande (531-578) furono redatti in pahlavi, quindi tradotti in arabo, in ebraico, in latino; da essi traggono origine il libro provenzale di Sidrac, il libro tedesco della disputa di Marcolfo con Salomone, il dugentesco libro italiano di Secondo, il libro di Bertoldo. Fu Buzurcimihr a tradurre dal sanscrito in pahlavi il Pañcatantra, che dal pahlavi fu tradotto in arabo, dall'arabo in ebraico, dall'ebraico in latino, dal latino in tedesco, francese, italiano ecc. Infine, fu Buzurcimihr a fissare le regole del gioco degli scacchi (26).

Frequenti rimandi alla cultura persiana sono contenuti nel manuale scolastico di storia della letteratura greca compilato da Pizzi nel 1897. Affrontando la questione omerica, l'autore difende la tesi unitaria proponendo un parallelo tra la nascita dell'Iliade e dell'Odissea e la composizione dello Shâhnâmeh. "Vi sono certi tempi, - scrive - in cui presso un popolo s'inizia e cresce e lungamente dura un grande movimento epico (...) e allora è facile che un poeta solo, fattosi come l'interprete fedele e gradito del popolo suo, imbrigli e governi, per così dire, tutto quel movimento e, facendolo suo, v'impronti l'orma del genio suo. Cotesto, per esempio, ha fatto Firdusi per la Persia nel 1000 dopo l'Era volgare allorquando (...) egli compose da solo, pur appoggiandosi sull'opera degli antecessori e dei contemporanei, il Libro dei Re. Ora, ciò che ha potuto fare un poeta persiano, non si vede perché non abbia potuto fare, in condizioni forse non dissimili, un poeta greco" (27).

Trattando della Ciropedia di Senofonte, Pizzi è indotto a supporre l'esistenza di un modello persiano. "La letteratura persiana (...) ha un genere tutto suo particolare che è il romanzo, e il romanzo persiano è di due maniere, o imprende a descrivere la vita di un grande personaggio storico, o narra pietose avventure d'amore di due amanti. Secondo la prima di queste due maniere, il romanziere persiano narra la nascita del suo eroe, la sua accurata educazione, la sua prima caccia in cui fa prodigi di destrezza (come appunto Ciro nella Ciropedia), la sua prima milizia, il suo avvenimento al trono, il suo regno, le sue conquiste e la morte felice e serena, rivolti amorevoli ammonimenti ai figli e agli amici. Ora non è questo appunto lo schema della Ciropedia di Senofonte? Nella seconda maniera invece, il romanziere persiano narra lungamente i casi di due giovani amanti, la loro felicità come son fatti sposi, la loro morte prematura e quasi contemporanea. E non è questo lo schema della tenera storia di Abradata e di Pantea, introdotta a modo di episodio nella Ciropedia?" (28) Origine orientale viene attribuita anche al romanzo di Carete di Mitilene, "portato in Occidente dai soldati di Alessandro" (29) e a quello di Striangeo e Zairinaia riferito da Nicolò Damasceno.

Per quanto riguarda gli storici minori del V secolo, Pizzi rileva, sulla traccia di Friedrich Spiegel, l'influenza che l'epopea e la mitologia persiane hanno esercitata sui Persikà di Ctesia; né manca di notare, con Christian Lassen, che alcune notizie contenute negli Indikà provengono da "poesie e speculazioni d'Indiani" (30).

Nel paragrafo conclusivo del manuale si accenna alla fortuna che la filosofia e la scienza dei Greci avrebbero conosciuta in Persia dopo il tramonto dell'ellenismo, nonché alla trasmissione dell'eredità filosofico-scientifica greca alla cultura islamica. "Il re Chosroe, quel Chosroe che fece tremar sul suo trono di Costantinopoli Giustiniano, accoglieva alla sua mensa ospitale in Ctesifonte i filosofi greci che l'imperatore aveva discacciati (...) Chosroe fece tradurre Platone e Aristotele e altri filosofi (...) Quando poi nel 650 gli Arabi invasero la Persia (...), in arabo fu scritta, dal settimo al tredicesimo secolo, tutta quanta quella letteratura scientifica che forma in complesso ciò che noi, erroneamente, diciamo cultura degli Arabi" (31).

Ai filologi che lo accusarono di aver tralasciato il metodo scientifico Pizzi replicò ribadendo la validità dei suoi accostamenti. "Gli egregi Critici hanno taciuto, p. e., ciò che ho detto di Erodoto e di Senofonte secondo le recentissime scoperte sui cuneiformi persiani e assiri e sulla letteratura persiana. Veggano cosa dice il Nöldeke (è un tedesco, si consolino) sull'epopea persiana di cui s'è trovato un frammento in Erodoto, e leggano come io abbia pur riferita questa cosa (pag. 158). Il giuramento di Serse, riferito da Erodoto, fu da me, credo per il primo almeno in un manuale, confrontato con un passo dei cuneiformi persiani che ha quasi le stesse parole (pag. 157)" (32).

Convinto dell'importanza che tali riferimenti rivestivano per l'istruzione classica, Pizzi compilò una rassegna storico-letteraria dei generi poetici e prosastici, Ammaestramenti di letteratura (33), che per la prima volta introdusse nell'insegnamento ginnasiale utili raffronti con le letterature orientali. A coloro che li giudicarono inopportuni obiettò: "Gli studi filologici orientali hanno ormai messe in sodo tali verità intorno alle origini di alcuni generi letterari, che nelle scuole secondarie non è più lecito ignorarle" (34).


Il Kalevala, i Nibelunghi e l'Oriente
Gli studi che Pizzi coltivò al di fuori del prediletto ambito iranistico spaziarono da diverse lingue e culture accomunabili sotto la generica e vaga definizione di "orientali" fino alla filologia germanica e al greco, sfiorando la filologia slava e quella ugrofinnica. Le sue avventure linguistiche cominciarono allorché, quindicenne, si imbatté nella grammatica ebraica dello Slaughter; "come mi sentii in grado d'intendere il testo ebraico della Bibbia", leggiamo nelle Memorie da lui pubblicate sotto lo pseudonimo di Italo da Parma, "passai allo studio del caldaico e del siriaco". Il passo successivo avvenne in direzione dell'arabo; poi fu la volta del persiano, "col quale ultimo andai oltre il campo degl'idiomi semitici per entrare in quello degl'indoeuropei". Lo studio del sanscrito fu rimandato, ma affrontato anch'esso. Il greco non venne mai trascurato, anzi: "Di questa lingua (...) mi occupai sempre sempre senza interruzione alcuna" (35).

La multiforme erudizione linguistica e letteraria di Italo Pizzi è testimoniata da un altro testo scolastico che egli compilò ad uso delle scuole: un'antologia di brani epici persiani, indiani, germanici, slavi e finnici (36).

Per quanto riguarda l'epica finnica, è il caso di notare che Pizzi fu tra i primi a presentare traduzioni italiane dal Kalevala (37), anche se l'antesignano degli studi kalevaliani in Italia, Domenico Comparetti, nella sua rassegna delle versioni integrali e parziali del poema finnico non cita altre traduzioni italiane oltre a quella di Domenico Ciampoli, "che ne ha dati alla stampa due saggi (Runa 8a e 50a, Catania 1890)" (38).

Le versioni dei brani d'epica germanica presenti nell'antologia (39) sono il frutto un interesse che indusse Pizzi a tradurre in versi italiani i Nibelunghi (40) e l'Atlakvidha eddico (41). Pizzi pubblicò qualche altro saggio di versione dall'Edda, poiché nelle sue Memorie egli scrive: "E mi ero anche proposto di tradurre l'Edda più antica che ha tanta relazione coi Nibelunghi, e già ne avevo dato fuori qualche breve saggio; ma poi non ne fece nulla. Me ne sgomentò la difficoltà estrema del linguaggio originale che è il nordico antico, e l'aver compreso che il nostro endecasillabo sciolto assai inettamente avrebbe reso, col suo andamento solenne, il verso rapido e tronco, e quasi saltante a sbalzi, del testo" (42).

L'interesse per l'epica indiana testimoniato nell'Antologia epica si ricollega ad una più vasta attività indologica dell'autore. Ex alunno di Michele Kerbaker, che insegnò al Liceo Regio di Parma nell'anno scolastico 1866-'67 (43), Pizzi recensì la traduzione kerkaberiana del Sauptika Parva (il Libro X) del Mahâbhârata (44) e tradusse egli stesso un episodio del Râmâyana (45). Tradusse inoltre il Pañcatantra (46) e lo Shatakatraya, ma di quest'ultimo tralasciò la seconda centuria, "quella dell'amore, poiché - così ne giustificò l'omissione - ha repugnato a me, come credo che repugnerebbe a chiunque, il tradurre cose tanto indecenti e oscene" (47). Degna di menzione, infine la Grammatica elementare della lingua sanscrita (48).

Nel novero delle grammatiche e dei manuali linguistici compilati da Pizzi rientrano anche una grammatica ebraica (in latino) con crestomazia e glossario (49) ed un paio di manuali di arabo (50). Il Pizzi arabista è anche autore di una storia letteraria (51) che arriva fino al XIII secolo, ma contiene anche qualche cenno al periodo successivo; scrive qualche cenno biografico su Shanfara, il poeta-predone dell'Arabia preislamica, fornendo la traduzione prosastica di alcuni suoi brani (52); traduce ed esamina (53) l'operetta dialogica dello shaykh ‘Abd Allâh ash-Shubrâwî intitolata 'Unwân al-bayân wa bustân al-adhân ("Frontespizio di eloquenza e giardino di prudenza"), sintetico rifacimento di un testo pahlavico d'epoca sassanide attribuito a Buzurcimihr; traduce un passo di Ibn ‘Arabshâh, biografo di Tamerlano ed autore di una raccolta di novelle e di aneddoti che è il rifacimento arabo di un vecchio libro persiano (54).

Altre traduzioni dall'arabo, assieme ad altre che Pizzi eseguì dal persiano, dal sanscrito e dal siriaco, furono raccolte sotto il comun denominatore "orientale" in un'antologia intitolata Fiori d'Oriente (55) e suddivisa in sette libri. Il primo contiene racconti storici da cui risaltano caratteri, consuetudini, mentalità peculiari. Anche il secondo libro riunisce brani narrativi, ma concernenti fatti straordinari, casi strani, leggende. Nel terzo libro vi sono le novelle. Nel quarto, descrizioni di paesi, animali, fenomeni naturali. Il quinto contiene "ragionamenti e considerazioni" di carattere per lo più morale e filosofico; il sesto comprende sentenze, proverbi, motti arguti, facezie, favole; il settimo è quello delle allegorie.

All'Oriente, inteso come area essenzialmente unitaria al di là delle forme di cultura diverse, è dedicato il saggio Pessimismo orientale (56). Il titolo, però, come scrive l'autore nel Proemio, "è più ampio e comprensivo di quanto veramente il libro contiene, perché non vi si tocca che del pessimismo presso gli Ebrei, presso gl'Indiani, presso i Persiani, e vi si tace di quello d'altri popoli d'Oriente" (57). Ma il titolo è anche indicativo di una certa incomprensione manifestata dall'opera nei confronti di dottrine che sfuggono a categorie sentimentali come pessimismo e ottimismo, categorie dalle quali possono difficilmente prescindere, a quanto pare, anche quegli occidentali che si trovano in possesso di strumenti linguistici atti ad agevolare il loro accostamento allo spirito dell'Oriente tradizionale. A mostrare l'incomprensione dell'autore per l'oggetto del suo studio (e ad ulteriore riprova dell'insufficienza dell'erudizione accademica di fronte alle dottrine spirituali) basterebbe citare alcune definizioni contenute in questo saggio, dal quale risulta che il sufismo è una "cupa dottrina pessimistica" (58), che un racconto simbolico di ‘Attâr è una "scempia allegoria" (59), che le opere di Giâmî contengono solo "idee scioccamente esagerate" (60) e così via, sicché alla domanda "A che approdarono Buddhismo e Sufismo?" l'autore ritiene di poter dare questa risposta sicura: "A nulla!" (61). Quanto al "pessimismo ebraico", esso invece supererebbe se stesso, poiché, dopo un "momentaneo turbamento" (rappresentato dal Libro di Giobbe e dall'Ecclesiaste), la mente ebraica assurge "ad un più alto e nobile ordine di idee e di pensieri" (62).

Un'opera altrettanto infelice è L'Islamismo (63), che, oltre a rivelare notevoli lacune nella conoscenza della dottrina rispettiva, manifesta l'adesione dell'autore a luoghi comuni ed opinioni preconcette.

Purtroppo Italo Pizzi non andò esente da un vizio diffuso tra gli orientalisti: quello che consiste nel voler estendere "la loro competenza su tutto quel che ecceda la semplice erudizione", fino a impegnarsi in un lavoro di esegesi dottrinale nella convinzione che "i loro studi linguistici e storici gli diano il diritto di trattare d'ogni sorta di cose" (64). Ciò tuttavia non deve impedirci, nel tirare le somme della sua attività, di riconoscergli quello che gli spetta: il merito di aver coltivato per la prima volta in Italia il campo dell'iranistica, soprattutto della filologia neopersiana, e di aver applicato il suo prodigioso poliglottismo a varie letterature d'Europa e d'Asia, riuscendo spesso a individuare i nessi che intercorrono tra le diverse forme culturali del Continente Antico.

                                                                **********************

1. F. Gabrieli, Arabeschi e studi islamici, Guida, Napoli 1973, p. 247.

2. Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano recato in versi italiani da Italo Pizzi, Edizione rifatta e compendiata sull'integra, 2 voll., UTET, Torino 1915. Questa edizione ridotta si era resa necessaria non solo perché la precedente, integrale, era andata esaurita nel giro di un quarto di secolo, ma anche perché, avvertiva il traduttore, "un poema, per quanto magnifico e grande, che conta intorno a centomila versi, riesce lungo e grave alla lettura anche con le molte sue bellezze; e la mole ne cresce, s'intende, anche il prezzo dell'acquisto. Indotto da ciò, mi avvisai di fare quanto si è fatto per altri poemi, cioè scegliere, serbandone l'ordine, le parti più essenziali all'intendimento di esse, le più belle e magnifiche per la forma e per le cose narrate e descritte, compendiando in succinta prosa le parti intermedie lasciate" (p. x).

3. Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano, recato in versi italiani da Italo Pizzi, 8 voll. (di circa 600 pp. l'uno), Unione Tipografica Editrice, Torino 1886-1889.

4. G. Lupi, Firdusi, La Scuola, Brescia 1947, p. 136.

5. Ibidem.

6. A. Pagliaro - A. Bausani, La letteratura persiana, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1968, p. 363.

7. Ibidem.

8. J. D. Pearson, A Bibliography of Pre-Islamic Persia, Mansell, London 1975, pp. 4, 28, 36, 87, 229. Il Pearson fu professore di bibliografia presso la School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra.

9. Grammatica elementare dell'antico iranico (zendo e persiano antico) con antologia e vocabolario, Clausen, Torino 1897; Lyra Zarathustrica, versione metrica, "Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino", XLIV (1909), pp. 805-828; La radice zenda karet nei nomi di coltelli in Asia ed in Europa, 4° Congresso Internazionale di Orientalistica, 1878, vol. II, pp. 61-63; Paralleli indo-iranici, "Giornale della Società Asiatica Italiana", 7 (1893), pp. 197-242; Les coutumes nuptiales aux temps héroïques de l'Iran, "Le Muséon", II (1883), pp. 385-380; Le Livre des Rois de Firdousi et ses cycles épiques, "Le Muséon", I (1882), pp. 371-388; Una massima di sapienza popolare nell'Antigone di Sofocle e nel Marzbânnâmeh di Verâvini, in Mélanges Charles de Harlez, Brill, Leiden 1896, pp. 226-227.

10. Cfr. C. Mutti, L'attività persianistica di Italo Pizzi orientalista parmigiano, "Malacoda", genn.-febbr. 1991, pp. 25-33.

11. Chrestomathie persane avec un abrégé de la grammaire et un dictionnaire, Bona, Turin 1889. Manuale della lingua persiana. Grammatica, antologia e vocabolario, W. Gerhard, Leipzig 1883. La seconda edizione, emendata di alcuni difetti, uscì con titolo mutato: Antologia firdusiana. Con un compendio di grammatica persiana e un vocabolario, 2a ed. con l'aggiunta delle correzioni, Drugutin, Leipzig 1891. Questo lavoro rimase "per più generazioni un'ottima introduzione alla conoscenza del poema nell'originale" (F. Gabrieli, op. cit., p. 253).

12. M. Eliade, Mémoire I. 1907-1937. Les promesses de l'équinoxe, Gallimard, Paris 1980, p. 125.

13. Il Roseto di Saadi, 2 voll., Carabba, Lanciano 1917.

14. Storia di Rustem e di Akvân, "Rivista Orientale", 1868; Storia di Sohrab, episodio del Sha^hna^meh di Firdusi. Recato dal persiano in lingua italiana, Fiaccadori, Parma 1872; Racconti epici del Libro dei Re di Firdusi, recati per la prima volta dal persiano in versi italiani, con un discorso d'introduzione sull'epopea persiana, Loescher, Torino 1877. La morte di Rustem, episodio del libro di Firdusi, "Il Fanfani", 1 (1881), pp. 267-270, 277-280, 300-303, 330-334, 348-351, 363-367. Avventure di un Principe di Persia, Successori Le Monnier, Firenze 1882.

15. Gli eroi del Libro dei Re di Firdusi. Saggio, Paravia, Torino 1879. Stesso testo in: "Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino", XXXII, 2a serie (1880), pp. 1-75.

16. L'epopea persiana e la vita e i costumi dei tempi eroici di Persia, Niccolai, Firenze 1888.

17. Firdusi, A. F. Formiggini, Modena 1911.

18. Il Vendidad reso italiano sul testo zendico di C. F. Geldner da F. A. Cannizzaro, Stabilimento tipografico Guerriera, Messina 1916. Nuova edizione: Vendidad. La Legge di abiura dei demoni dell'Avesta zoroastriano tradotto da F. A. Cannizzaro, Mimesis, Milano 1990.

19. Zarathustra, L'Avesta. Con una introduzione storica di Italo Pizzi, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1914. Seconda edizione riveduta e corretta: Bietti, Milano s. d. [ma: 1916].

20. F. Gabrieli, op. cit., p. 250.

21. P. Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell'Occidente, Centro Culturale Italo-iraniano, Roma 1977, pp. 1-2.

22. Dante e Firdusi, Prolusione ad un corso di lingue e letterature orientali letta il 16 novembre 1908 nella R. Università di Torino, "Rivista d'Italia", febbraio 1909, pp. 190-204.

23. Le somiglianze e le relazioni tra la poesia persiana e la nostra nel Medio Evo, "Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino", 1892.

24. L'origine persiana del romanzo di Tristano e Isotta, Prolusione letta nell'Università di Torino il 16 novembre 1910, "Rivista d'Italia", 1911, pp. 5-21.

25. Riscontri orientali, "Giornale storico della letteratura italiana", vol. XXII (1893), pp. 220-228.

26. Ciò che noi dobbiamo al gran savio Buzurcimihr, "Per l'Arte", 14 (1902), pp. 92-93.

27. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, Clausen, Torino 1897, p. 34.

28. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., pp. 169-170.

29. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 270.

30. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 173, n. 2.

31. Storia della letteratura greca ad uso delle scuole, cit., p. 284.

32. Risposta del Prof. Italo Pizzi ai suoi Critici, Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona, Torino 1898, p. xxxxxxxxx

33. Ammaestramenti di letteratura per i componimenti in prosa ed in poesia ad uso della quinta classe ginnasiale, Loescher, Torino 1875. Gli Ammaestramenti ebbero numerose edizioni; l'undicesima (Petrini, Torino 1904) comprendeva anche un trattatello di stilistica per gli studenti di quarta ginnasio, Precetti dell'arte del dire, che venne pubblicato in successive edizioni.

34. Ammaestramenti di letteratura per i componimenti in prosa ed in poesia ad uso delle scuole secondarie, Loescher, Torino 1890, Prefazione.

35. Memorie d'un letterato che non fu ciarlatano, S.E.I., Torino s. d. [1921? 1922? 1924?], p. 33.

36. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, Loescher, Torino 1877. Seconda edizione: Antologia epica, Loescher 1891.

37. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, cit., pp. 314-352.

38. D. Comparetti, Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni, "Atti della R. Accademia dei Lincei", a. CCLXXXVII (1890), Serie quarta, classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, vol. VIII, parte I, Memorie.

39. Antologia epica tratta dalle principali epopee nazionali ad uso delle scuole, cit., pp. 222-255.

40. I Nibelunghi. Poema epico germanico. Traduzione in versi italiani, 2 voll., Hoepli, Milano 1889-1890.

41. Il Canto di Atli nell'Edda, tradotto in versi, Ferrari, Parma 1876.

42. Memorie d'un letterato che non fu ciarlatano, cit., p. 208.

43. Commemorazione di Michele Kerbaker, "Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino", L (1915), pp. 189-194.

44. Del tradurre opere orientali, "Per l'Arte", 14 (1902), pp. 331-334.

45. L'avventura di Visvamitra. Episodio del poema indiano il Ramayana. Tradotta dal sanscrito, "Acropoli", IV-V (1911).

46. Le novelle indiane di Vishnusarma (Panciatantra), Unione Tipografico-Editrice, Torino 1896.

47. Le sentenze di Bhartrihari, Tipografia Salesiana, Torino 1899, p. 20.

48. Grammatica elementare della lingua sanscrita con temi, antologia e vocabolario, Clausen, Torino 1896.

49. Elementa grammaticae hebraicae, cum chrestomathia et glossario, Tipografia Salesiana, Augusta Taurinorum 1899. Seconda edizione: 1904. Terza edizione: 1909.

50. Piccolo Manuale dell'Arabo volgare d'Egitto. 1. Lingua Araba, Volgare, Grammatica, Le Monnier, Firenze 1886. Nuova edizione: 1912. Manuale della lingua araba scritta. Grammatica, temi, antologia, vocabolario, Successori Le Monnier, Firenze 1913.

51. Letteratura araba, Hoepli, Milano 1903.

52. Shanfara, "Per l'Arte", 13 (1901), pp. 168-169.

53. Un riscontro arabo del Libro di Sidrac, in: Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Barbera, Firenze 1901.

54. Un demonio che fa l'elogio di sé stesso, "Per l'Arte", 14 (1902), pp. 409-410.

55. Fiori d'Oriente. Antologia di traduzioni di autori arabi, persiani, indiani, siri, Luigi Trevisini, Milano 1907.

56. Pessimismo orientale, Laterza, Bari 1902.

57. Pessimismo orientale, cit., p. 3.

58. Pessimismo orientale, cit., p. 84.

59. Pessimismo orientale, cit., p. 83.

60. Pessimismo orientale, cit., p. 83.

61. Pessimismo orientale, cit., p. 111.

62. Pessimismo orientale, cit., p. 127.

63. L'Islamismo, Hoepli, Milano 1903.

64. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Studi tradizionali, Torino 1965, p. 259.

Scritto da Claudio Mutti
Inserita il 24/03/2011 alle 19:57:28 nel suo Web

giovedì 16 giugno 2011

Giovedì 16 Giugno 2011 02:39 Versione integrale del discorso del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al vertice dell’Organizzazione di Shanghai


Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

La Lode appartiene al Signore dei due mondi ed elogi e pace sul nostro patrono e profeta Mohammad e sulla sua sacra famiglia e sui suoi discepoli vicini e su tutti i nunzi e i messaggeri(di Dio/ndr).
O nostro Allah affretta l’apparizione del Tuo prescelto(il Mahdi/ndr), garantisci a lui la salute e la vittoria e collocaci tra i suoi migliori seguaci e sostenitori, pronti a lottare per la sua nobile causa.

Sua Eccellenza Nur Sultan Nazarbayev, egregio presidente del Kazakistan,      
Rispettabili presidenti e delegazioni,

ringrazio il gran Dio per avermi dato la fortuna di partecipare a questa riunione e di essere in questo gruppo amichevole e ringrazio per la calorosa accoglienza e l’ottima gestione della riunione ad opera del rispettabile presidente Nazarbayev.
Voglio porgere i miei auguri per il decimo anniversario della formazione dell’Organizzazione di Shanghai e il ventesimo anniversario dell’indipendenza del Kazakistan; mi auguro che questa seduta possa essere un passo importante nel raggiungimento degli obbiettivi prestabiliti.

Vossignorie,
con il massimo del rispetto e dell’amicizia, oggi voglio parlare di ‘reponsabilità internazionali’.
Ed inizio con alcune domande.
C’è tra di noi un solo paese che abbia avuto un ruolo nella creazione del fenomeno oscuro dello schiavismo e nella morte di milioni di persone?
C’è solo uno dei nostri popoli che abbia imposto ad altre parti del mondo il colonialismo?
C’è una solo nazione tra di noi che abbia rubato la cultura e la ricchezza degli altri popoli attraverso i metodi del colonialismo?
C’è uno solo dei nostri paesi che abbia motivato le due guerre mondiali ed abbia causato la morte, il ferimento e la fuga di decine di milioni di persone in tutto il mondo?
C’è qualcuno tra di noi che abbia usato la bomba atomica contro i cittadini indifesi di altri paesi?
C’è un solo paese tra i nostri che abbia imposto al Medioriente il Sionismo e con esso numerose guerre, 60 anni di insicurezza, terrore e minacce contro il popolo palestinese e gli altri popoli della regione?
Siamo stati noi a sostenere il potere dei dittatori in America Latina e nelle altre regioni del mondo?
Ma quale dei nostri paesi ha avuto il più piccolo ruolo nell’11 Settembre e nel successivo attacco all’Afghanistan e all’Iraq che ha portato alla morte ed al ferimento di milioni di persone?
L’estremismo ed il terrorismo, in Afghanistan, Iraq e Pakistan e il traffico di stupefacenti lo abbiamo creato e sostenuto noi?
La regione e i nostri popoli sono stati favoriti o danneggiati dal terrorismo, dall’estremismo e dal narcotraffico?
Quale dei nostri paesi ha avuto un ruolo nella costruzione del sistema economico mondiale e quale tra noi ha programmato la crisi finanziaria mondiale?
La distanza incolmabile tra nord e sud del mondo l’abbiamo creata noi?
Quale dei nostri paesi ha imposto la guerra, l’ignoranza e la povertà all’Africa per poterla derubare delle sue miniere?
Quale dei nostri paesi ha immesso nel mercato dollari senza controvalore per rimediare ai propri deficit e creare una crisi finanziaria globale?
Tra i nostri paesi c’è qualcuno che ha sovraccaricato sugli altri paesi i propri problemi economici succhiando la ricchezza altrui?

Amici miei,
ci sono decine di domande simili ed è chiaro quale sia la risposta.
Con onore annuncio che nessuno dei nostri popoli ha avuto un ruolo in questi brutti fenomeni storici. Noi abbiamo sempre aspirato alla pace, alla tranquillità, al benessere ma ad un benessere che sia accompagnato dall’amicizia e dalla giustizia tra i popoli. La cultura umana, l’amore e l’affetto, sono stati il comune denominatore delle nostre popolazioni.
Ma la nostra domanda principale è questa:
Per quale motivo gli schiavisti, i colonialisti, gli occupatori, e i creatori di tutti i problemi della società umana devono poter mettere sotto pressione i nostri paesi indossando la maschera della democrazia ed usando la scusa dei diritti umani?
Come possiamo fidarci dei falsi difensori della libertà che usando l’ordine unilaterale dominante sul mondo inseguono gli stessi obbiettivi di ieri sono con slogan moderni?
E la domanda ancora più fondamentale e importante è che la reazione passiva alla voglia di questo gruppo di dominare il mondo, renderà forse migliore la situazione globale?
Ma davvero, mi chiedo, cos’hanno fatto i nostri popoli di tanto grave per essere sotto la pressione dei peggiori politici della storia, e sopportare le loro offese e le loro minacce?

Cari colleghi,
la storia lo dimostra ed il mondo lo sa’ che noi ripudiamo la guerra e cerchiamo di sottrarci ad essa.
Ma allora usando le vie politiche e sfruttando il potere dell’unione degli Stati, non si possono correggere questi comportamenti errati?
Non si può creare unità e cooperazione per ottenere il minimo dei diritti dei nostri popoli?
Voi sapete molto bene che la giustizia, la pace e la sicurezza, nel nostro mondo, non le regalano.
Non possiamo allora sviluppare le relazioni e sfruttare le occasioni e le capacità a livello internazionale per salvaguardare i nostri popoli?

Vostre Signorie,
oggi non c’è dubbio che la gestione del mondo ad opera degli schiavisti e dei colonialisti di ieri è la radice di tutti questi problemi.
La mia opinione è che l’Eurasia, grazie alla sua popolazione, al territorio, alla ricchezza, alla forza umana, ed alla capacità politiche, culturale e civili è un insieme senza pari. Credo che aiutandoci a vicenda possiamo correggere questa gestione del mondo.
Credo che con una azione coordinata possiamo cambiare a favore dei popoli, della pace e della giustizia l’andamento attuale del mondo.
Possiamo contenere la forza spudorata del sistema imperiale e ridare al mondo un pò di tranquillità.
Il futuro appartiene a coloro che attendono orizzonti luminosi e che decidono alla grande, con l’amore, la speranza e l’aiuto delle proprie popolazioni.

Amici miei,
la fine del mondo sarà caratterizzata da bellezza e bontà.
Il dominio dell’amore e della giustizia sul mondo è l’unica via di salvezza e l’unico modo per garantire in maniera stabile e duratura il benessere a tutti i popoli.
Il passato, la cultura e la civiltà di cui siamo in possesso ci dicono che oggi noi possiamo fare qualcosa per la realizzazione di questo futuro luminoso.
Il popolo iraniano, stringe la mano a tutti coloro che si sforzano per realizzare questo sogno.
Ringrazio nuovamente tutti voi e sua eccellenza Nur Sultan Nazarbayev e auguro successo anche al presidente ed al governo cinese che ospiterà il prossimo vertice e che ha scelto il bellissimo slogan “Vicinato e Amicizia” per questo
                                                                                           

lunedì 13 giugno 2011

4 elicotteri degli aggressori NATO abbattuti, mentre la Libia rinforza la No Fly Zone.

4 elicotteri degli aggressori NATO abbattuti, mentre la Libia rinforza la No Fly Zone.
pubblicata da INFORMAZIONE SCORRETTA il giorno domenica 12 giugno 2011 alle ore 9.23.11 giugno 2001

Da: Mathaba http://www.mathaba.net/news/?x=627084          

La No Fly Zone è stata usato come uno stratagemma dall’alleanza NATO FR-UK-USA per distruggere le infrastrutture libiche, rovesciare il governo democratico e assassinare Muammar Gheddafi. Ora la Libia ha deciso di interpretare giuridicamente la Risoluzione ONU e applicare una No-Fly Zone sulla Libia contro questo massacro di civili.
Le Forze Armate del popolo libico hanno abbattuto il quarto elicottero della NATO quest’ oggi, nei pressi di Dafniya che è vicino a Misurata, una fonte affidabile militare ha confermato.
Questo è il quarto elicottero ad essere abbattuto da quando la NATO ha cominciato a usarli.
La NATO ha schierato gli elicotteri d'attacco per la prima volta in Libia all'inizio di questo mese dopo aver fallito nella sua missione di preparare la strada ad occupare la Libia, al fine di avere una porta d’accesso per afferrare le risorse dell'Africa, in un nuovo tentativo di colonizzazione.
La NATO ha prevedibilmente negato le affermazioni, ma ha anche messo fuori false dichiarazioni fin dall'inizio del suo bombardamento della Libia, sostenendo che si tratta di bombardare il paese, al fine di proteggere i suoi civili da Muammar Gheddafi, un vecchio che scrisse un trattato sulla democrazia e che ha consegnato il potere alle persone dopo averlo strappato a un re corrotto.
Gli stati fallimentari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America hanno ordito un complotto per afferrare l'immensa ricchezza dello stato più ricco dell'Africa, la Libia, e hanno rubato oltre 100 miliardi di dollari dal fondo sovrano libico, 32 miliardi dei quali erano il contributo della Libia al Fondo Monetario Africano di 42 miliardi di dollari.
Le immagini dei satelliti russi dallo spazio, (http://www.youtube.com/watch?v=XYesnOD6_gQ) hanno confermato che i proclami della NATO che sostenevano che la forza aerea libica aveva effettuato bombardamenti contro le città libiche, era una bugia usata dalla NATO e dai ribelli di Al-Qaeda con sede nella zona orientale del paese, così come dei funzionari governativi corrotti che disertarono e che mal informarono l’agenzia di intelligence francese DSGE.
Gli elicotteri d'attacco consentono maggiore flessibilità alla NATO nelle proprie operazioni, così come attacchi più precisi, ma sono stati accolti favorevolmente dai combattenti africani per la libertà che hanno sempre voluto la possibilità di avvicinarsi agli aggressori.


pubblicata da INFORMAZIONE SCORRETTA il giorno domenica 12 giugno 2011 alle ore 9.23.11 giugno 2001





lunedì 6 giugno 2011

MAGDI EXMUSULMANO ALLAM, SAPEVATE DI QUESTO?



Atto n. 4-00314
Pubblicato il 18 luglio 2006                                                    
Seduta n. 19
MALABARBA - Al Ministro dell'interno. -
Risultando all’interrogante che:

il sig. Magdi Allam, giornalista del "Corriere della Sera", nel suo ultimo libro “Io amo l’Italia, ma gli italiani la amano?” racconta che mentre si trovava per lavoro in Kuwait, nel marzo del 2003, fu contattato dal Sisde, che gli impose di lasciare quel Paese in quanto avevano “appreso di un progetto di uccidermi [Magdi Allam, cioè] di Hamas”;

questa “condanna a morte (…) decretata ai più alti vertici dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas” è stata “ispirata, raccolta, legittimata sul piano coranico e rilanciata dai loro agenti locali affiliati all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia);

secondo quanto riferito nello stesso libro dal sig. Magdi Allam, l’Ucoii unitamente alla Iadl (Islamic Anti-Defamation League), definita quest’ultima dallo stesso sig. Allam “una sorta di tribunale dell’inquisizione islamica che opera come braccio legale dell’UCOII”, sarebbero “riusciti ad assoldare nel loro plotone di esecuzione estremisti di destra e di sinistra" nonché a “spargere veleni sulla mia [di Magdi Allam] credibilità ed onorabilità”;

il sig. Magdi Allam vive scortato da carabinieri a causa di non meglio precisate minacce, tra le quali spiccano l’apertura di un sito Internet parodistico recante il suo nome che contiene una rivisitazione del “J’accuse” di Émile Zola, la lettera di un mitomane che gli scrive di aver ricevuto l’ordine di ucciderlo da un non meglio precisato uomo di Bruxelles e qualche definizione satirica e/o caustica;

preso atto che:

le segnalazioni a mezzo stampa del sig. Allam hanno cagionato l’espulsione di alcune persone, risultate poi innocenti per i fatti loro addebitati dal giornalista e reintegrate sul territorio italiano con sentenze dei Tribunali amministrativi della Repubblica;

il sig. Allam divulga frequentemente indirizzi privati delle persone che hanno opinioni contrastanti con le proprie, mettendo a rischio l’incolumità ed il privato di queste persone;

comportamenti come quelli descritti sono suscettibili di alimentare un clima di isteria collettiva che potrebbe portare al diffondersi dell’islamofobia e dell'antislamismo, denunciati nell’ultimo rapporto dell’Unione europea sul razzismo;

considerato che:

non risulta che l’organizzazione Hamas agisca al di fuori dei Territori occupati della Palestina o dello Stato d’Israele;

l’Ucoii è stata nominata con decreto ministeriale a fare parte della Consulta per l’Islam italiano, istituita dal precedente Governo, lo stesso che ha assegnato la scorta al sig. Allam perché minacciato dall’Ucoii;

la Iadl è stata definita da un Ministro del precedente Governo, l’on. Giovanardi, in risposta ad un’interrogazione, durante la seduta della Camera dei deputati n. 724 del 22 dicembre 2005: "Per quel che riguarda l'associazione Iadl (Islamic anti defamation league), costituita nel luglio scorso e con sede a Roma, segnalo che la stessa ha fra i propri fini statutari quello di difendere, nello spirito della Costituzione italiana, i musulmani e le altre minoranze presenti nel territorio nazionale. Oltretutto, si sa benissimo che gli autori degli scritti e dei comunicati diffusi dall'associazione medesima possono far uso di pseudonimi, i quali, però, debbono trovare riscontro nei libri sociali affinché sia comunque consentita l'individuazione per fini legali.";

non risultano aperti procedimenti penali a carico dell’Ucoii o della Iadl, tanto meno per l’istigazione all’omicidio del sig. Magdi Allam o altre azioni contro l’integrità dello Stato;

lo stesso Allam ha costruito svariati articoli, che non hanno trovato conferme nella realtà, basandosi su generiche “fonti dei servizi”,

si chiede di sapere:

quali siano le considerazioni che hanno spinto il Governo da un lato a nominare l’Ucoii nella Consulta per l’Islam in Italia e a difendere l’operato della Iadl in Parlamento e dall'altro a concedere la scorta al sig. Magdi Allam;

se il Ministro in indirizzo, alla luce dell’assenza di procedimenti penali scaturenti dalle gravissime denunce di persecuzione nei confronti del sig. Allam, giudichi ancora attuali i motivi che hanno portato all’assegnazione di tale scorta e in ogni caso quali sono gli attuali motivi di tale provvedimento;

quali siano i costi, sia in termini finanziari sia in termini di risorse umane, dell’apparato di sicurezza disposto per la protezione del sig. Magdi Allam;

visti i frequenti riferimenti negli articoli di Magdi Allam a non meglio precisate “fonti dei servizi”, e le recenti rivelazioni sull’esistenza di rapporti tra alcuni giornalisti e presunti elementi deviati del Sismi, se vi siano eventuali rapporti illeciti tra tali elementi deviati e il sig. Magdi Allam;

considerato che lo stesso Allam si vanta di aver ottenuto "fraudolentemente" il rinnovo del permesso di soggiorno, tale illecito potrebbe avere effetti sulla validità della successiva acquisizione da parte sua della cittadinanza italiana.

pubblicato da muamer hasanagic 

giovedì 2 giugno 2011

Specialty of Rajab - by Shaykh Muhammad Hisham Kabbani


                                                             


This month Rajabun Shahrullah, is a holy month. Allah (swt) honored

the Muslim nation with this month by saying to Prophet Muhammad (saws)

and Sayyidina Muhammad saying to us "Rajabun Shahrullah." Rajab is the

month of Allah means that it is the month that no one knows what Allah

(swt) opened for His servants opened, for His creation. In this month

it is an honor and favor for His creation which no one knows.

                                                                                                             

This month as Grandshaykh Mawlana Abdallah ad- Daghestani, said (may

Allah sanctify his soul and bless his soul) and as Mawlana Shaykh

Muhammad Nazim al-Haqqani related that Allah (swt) does not allow the

Pen to write in this month except with Yad al-Qudrah, the Hand of

Power. Allah takes the `amal of His servants. This means that `amal is

not rewarded by "fa man y`amal mithqal dharratin khayran yarah/ wa man

y`amal mithqal dharrtin sharran yarah" - "whoever does an atom of good

will see it and whoever does an atom of bad will see it."

In this month whoever does something of goodness it is directly taken

by Qalam al-Qudrah the Pen of Power, the pen that has not been given

to angels. It is a heavenly pen beyond the level of angels. That pen

which Allah ordered to write before creation la ilaha illa Allah.

                                                                                                        

As it is mentioned in the athar that the pen wrote trembling la ilaha

illa Allah for seventy thousand years. Then Allah said write
Muhammadun Rasulullah and the pen said "Who is Muhammad that you put

his name with Your name?" and Allah said "O Pen, if not for Muhammad

(saws) I would never have created anything - law la Muhammad ma

khalaqtu ahadan min khalqee."

That pen is in the Divine Presence and has not been given to angels.

That pen will be given to Prophet Muhammad (saws) in the Judgment Day.

That pen in the month of Rajab writes the `amal of human beings. So

any smallest good `amal is rewarded so much that it cannot be weighed

or put in a balance. It is rewarded from a hidden treasure that has

never been opened before.

For any `amal that is done in this month Allah opens for the Ummah

something that has never been opened before which will increase in

ma'arij. That month Allah gives ma'arij ascensions to human beings

with their `amal. Anyone who does something will have a mi`raj and

that mi`raj will raise him to a level that even if he does the best

`amal all year round he will not get rewards as he gets for the

smallest `amal in this month. That is the lowest meaning of Rajabun

Shahrullah. Allah has opened this to humanity. In every year Awliya

wait for this month. Awliya wait to make seclusion in this month

because it is the month where treasures and fountains of knowledge

will be opened to the heart of Awliya through their seclusions.



That is why seclusion has to begin in this month. If anyone wants to

do seclusion - it is not in Ramadan-- in Ramadan there is 'itikaf.

Seclusion has to begin with Rajabun Shahrullah. Awliya wait for this

month because this month the `amal will multiply tatada'afu fihi

al-'amaal. `amal in this month will be in multiplication like an

atomic reaction. What Allah gives is multiplied, but no one can even

imagine what Allah gives because it is the Pen of Qudrah which is in

the presence of Allah (swt) always in its place waiting for an order.

That pen will be given to Sayyidna Muhammad (s).

In Rajab, Allah ordered the pen to write `amal for human beings. It is

not for any malakun muqarrab, any angel, to write. That is why Allah

said to Prophet (s) and the Prophet (s) to us "Rajabun Shahrullah wa

Shabanu Shahri- and Shaban is my month." This means that whatever is

related to Prophet (saws) from `amal will be written by the pen of the

Prophet (s). There is a Prophetic pen and there is a Qudrah pen. Allah

gave Prophet a pen in dunya and everything praising salawat on the

Prophet will be written by the Prophet (saws). Allah gave him that

power to write for his Ummah and it will be added and recorded.



Angels have no authority laysa andahum salahiyyat. Angels are assigned

to write but they are not assigned to reward. Allah rewards and Allah

gave Sayyidina Muhammad (s) authority to reward also. That is why

Allah said Rajabun Shahrullah 'I reward My servant in this month' and

the Prophet (s) said wa Shabanu shahree. He did not say "wa Shabanu

shahr ar-rasul." He said "wa Shabanu shahree" means it is balancing

Rajabun shahrullah. 'What Allah gave me is for my Ummah, so what I am

rewarding is for the benefit of the Ummah.' What Allah rewards in

Rajab is for the benefit of the Ummah and Allah rewards in Rajab

without account.



Usually Allah rewards one hasana with ten. When Allah rewards without

hisab (account) no one knows. It is beyond the level of understanding

and beyond the level of account, meezaan (balance, scale). What the

Prophet (s) gives is beyond the level of counting, because when

Prophet gives he doesn't give from his level of dunya but he gives

from the level that he is in ma`arij. Do you think the Prophet (s)

made only one mi`raj? In the Night of Ascension when the Prophet (s)

was lifted up, do you think the Prophet was lifted up and then came

back and it is stopped and finished? He is in continuous ma`arij.

When Allah gives something He doesn't hold it. He doesn't say this is

for you finished you come then go back to your place- no. Allah is

keeping from that day 1400 years ago when the Prophet (s) was in

Mi`raj on Laylat al Israa'i wal Mi`raj he is still in Mi`raj to the

Divine Presence.



So what do you think the Prophet (s) is giving? Is he giving you from

the reward of 1400 years ago or is he giving you from the level that

he gives now? And Prophet said Allah is raising me mithlaini mithlain

in the higher levels double, double, double, double multiplied by

itself. In every moment it becomes doubled then it becomes quadrupled

etc like that. So from 1,400 years until now how much is the Prophet

in ma`arij going! Anyone making praising now the Prophet (s) gives him

from his level now from those anwaar (lights) that the Prophet (s) is

dipped into the Divine Presence. He is dressed with all of these

tajalli of that no one can describe. Allah is dressing His Habib

mithlaini mithlaini. In every second the tajalli is doubled and

doubled. Every moment Allah is dressing him with light and secrets

making him in the ocean of Names and Attributes. He is swimming in

bahr al asmai wal sifat.

What Allah (swt) gave Sayyidina Muhammad (s) cannot be written. It is

in the heart of awliya but they cannot even express it. That is why

Sayyidina Abu Huraira said hafiztu an Rasulillah wi'a ain - "I have

memorized two knowledges from the Prophet. One of them I told people;

the other one if I say it they will cut my neck."



Some scholars say this refers to the signs of the Last Days. This is

not true. It refers to the secrets of the level of the Prophet (s) and

what Allah gave to this Ummah. This Ummah is Ummah marhuma (given

mercy) Ummah maghfura (forgiven). They have been forgiven for the sake

of Muhammad (s).

So rajabun shahrullah shabanu shahri. 'That is my property which you

are entering,' the Prophet is saying. Shabanu shahri. He didn't say

Shabanu shahr al-Nabi or shahr rasulullah. It is emphasizing the

Prophet's ownership. Shahree means 'It is mine. You are entering my

property.' When you stand up and say as-salaamu `alayka ya Rasullallah

in shahr sha`ban you are entering the property of Muhammad (s). Can

one who enters the property of Muhammad go to hell? No, finished.

Allah will forgive him for the baraka of Sayyidina Muhammad (s).

Don't imagine that if you enter one foot into Paradise you can be

thrown into hell, because each Paradise is alive. What is related to

akhira is alive. Paradise is always alive with life in it. When you

enter something with life in it, Allah will not throw you back to

hell. So when you put your feet into the property of Sayyidina

Muhammad (s) and enter to his presence by salawat, who can take you

away? Finished. The Prophet (s) is going to say, 'Ya Rabbee, ya Allah

- this is my Ummah. This is Your servant, Your `abd. He believed in

me, he entered my property; my paradise." What is Allah going to say?

"Take him! I gave you shafa`a. Why did I give you shafa`a? Take him to

wherever you want to. Put him with you."

Then the Prophet (s) has his own paradise for all of the Ummah that

believed in him, praised him, loved him, felt his presence at every

moment, and called upon him. They are going to be rewarded. They are

going to be fi maq`adi sidqin 'aind maleekin muqtadir.



Those who believed in the Prophet and believed in Allah but did not

feel his presence - did not call him - will also be in Paradise but

they will be veiled from Prophet Muhammad (s).

When you enter into the river or ocean of this knowledge that

knowledge makes you drunk. You cannot think anymore. It is beyond

minds. Then Ramadan comes wa ramadanu shahru ummati. It means that

after Allah dipped them in His buhur ul qudra in the Oceans of Power

in the Oceans of Beauty He dressed them with these lights and

manifestations of His asmaa' and sifat - Names and Attributes. Then He

sent them to the Beloved One to dress them from his oceans. Then with

these two dressings that have been dressed in rajabun shahrullah and

in sha`banu shahri the Ummah is moved to Ramadan to be rewarded by

fasting, thanking Allah (swt) for what He has given them in shahr

rajab and what the Prophet gave them in shahr Sha`ban. Allah rewards

them. They will be dressed with these dressings in shahr ramadan and

they will be presented to angels.



Those that are keeping the adab of shahr rajab and shahr sha`ban they

are a special part of the Ummah. Not all of the Ummah is doing that.

To these special people who are keeping the adab of Rajab and Sha`ban

and coming to Ramadan the angels will be surprised what these people

are. Who are these people? What kind of tajalli are they dressed with?

The angels feel shy to write anything for them because whatever they

are going to write for them in Ramadan these people are dressed with

lights which have never been opened before; because of the tajalli of

the Prophet (s) and the ma'arij Angels will be surprised and standing

hayara confused not knowing what to do. That is why Allah (swt) said

the last ten days of Ramadan is atqun min al-nar - .
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