venerdì 31 luglio 2009

Crisi finanziaria,febbre suina,guerra





Come la follia diventa sistema di governo del mondo.
di Stefano Comi




C’era una volta in un paese lontano, lontano, lontano,
una casetta piccola piccola piccola
su una collina verde, verde, verde, una casetta piccola, piccola, piccola, abitata da un vecchietto con una barba bianca, bianca, bianca.
Vicino alla casa c’era un modesto pozzo d’acqua e un piccolo orto che il vecchio eremita annaffiava ogni sera dopo aver munto l’unica capra che gli faceva compagnia.
L’eremita passava le sue lunghe giornate sonnecchiando fra un lavoretto e l’altro perché la sua baracca di legno e fango non gli cascasse addosso e la notte, dopo le abluzioni, vegliava in meditazione e preghiera ringraziando Dio di tanta misericordia e battendosi il petto chiedendo perdono di tutte le sue debolezze.
Una volta alla settimana scendeva a valle al mercato per scambiare il suo poco formaggio di capra in cambio di un pezzo di corda, qualche chiodo e un po’ di farina e questa era tutta la sua vita.
Una notte, mentre pregava assorto, l’Angelo del Signore lo sfiorò con la punta delle ali.
“Eccomi Signore” rispose l’eremita “sono pronto, spalanca pura la porta del tuo Regno, qui non ho nulla da fare, lasciami entrare nella Gloria dei tuoi Angeli e dei tuoi Santi perché anch’io possa ammirare la Tua Potenza e la tua Maestá!”
“Apri gli occhi” disse l’Angelo “ la tua Ora non è ancora giunta. Domani a quest’ora l’Angelo della Vendetta scenderà questa collina diretto a valle e la sua nuvola avvelenerà i pozzi di questa popolazione incredula e di dura cervice. Ma tu sei entrato nella Grazia del Signore e Lui ti risparmierà. Uccidi dunque la tua capra e cospargi di sangue la pietra del pozzo cosí che l’Angelo della Vendetta passi oltre”.
E cosí fece rinchiudendosi poi in casa assorto nella recitazione dei Sacri Versi.
Passó l’Angelo e avvelenò tutti i pozzi, tranne quello segnato col sangue di capro.
Il giorno successivo, giorno di mercato, l’eremita scese a valle nella speranza di vendere la carne del suo capro in cambio di un agnello che poi avrebbe cresciuto sulla sua collina.
Spalancó incredulo gli occhi e rimase sbigottito nel constatare che tutti gli abitanti della valle che a quell’ora avevano giá bevuto in abbondanza dell’acqua dei loro pozzi erano completamente impazziti. Tutti. Il fatto piú incredibile era che, dal momento che proprio tutti erano impazziti, nessuno sembrava rendersene conto. Nessuno. Tranne lui.
Provó a rivolgere la parola al mercante, al mugnaio, al ciabattino, tutti amici suoi. Provó a confrontarli con le evidenti prove di follia del vinaio, del cerusico, dell’usuraio … ma niente da fare. Tutti erano pazzi allo stesso modo e le sue parole cadevano nel vuoto, anzi, alle sue insistenze la folla cominció a reagire in malo modo e ben presto si rese conto che non ci sarebbe stata per lui nessuna possibilitá di rinsavire tutta quella moltitudine.
Decise cosí che si sarebbe tenuta la sua saggezza e conoscenza per sei giorni la settimana e che, nel giorno di mercato, avrebbe parlato e agito come un pazzo cosí da non dare nell’occhio nel momento in cui avrebbe scambiato i suoi pomodori con qualche pezza di stoffa per rammendare la sua tunica.

Non è una favola, purtroppo. È la realtá del mondo nel quale ci troviamo a vivere. Un mondo nel quale abbiamo sostituito all’amore a alla famiglia la pornografia e il meretricio, alla solidarietá l’usura, al commercio la guerra. Un mondo dove la furbizia e la malizia sono diventate virtù e la sinceritá e l’onestá una vergogna. La modestia fa ridere e l’ostentazione è onore. Non importa come, ma i soldi che guadagniamo devono essere tanti, maledetti e subito. Chi rimane per strada è un fallito e non merita attenzioni. È questa la logica che ha spinto avventurieri della finanza nelle speculazioni piú azzardate e immorali e che alla fine hanno trascinato gli istituti finanziari di mezzo mondo al tracollo. La brillante idea di alimentare ovini e bovini con gli scarti della macellazione delle carni ha scatenato il fenomeno noto come “mucca pazza” e alla base dell’influenza suina (che ora, per non mettere in pericolo l’industria del prosciutto si chiama “nuova influenza”) pare ci siano gli enormi allevamenti di maiali messicani al di fuori di ogni norma di igiene e di buon senso. La corsa alle ultime fonti di petrolio e al monopolio della sua distribuzione è responsabile delle ultime guerre. Follia, follia, follia. Ma è malattia cosí comune che le avventure di un mediocre politico circondato dalle sue cortigiane e meretrici fanno al massimo sorridere anziché indignarci. Le migliaia di famiglie derubate dai loro risparmi non sono nemmeno notizia al margine della crisi finanziaria e le responsabilitá (!) di medici, tecnici e controllori dell’industria alimentare vengono taciute. Indignazione della pubblica opinione? Aspetta e spera! Siamo impegnati al conto delle veline, alla classifica della formula uno e alle avventure di un re che preferisce ballare sotto le stelle anziché assumersi le responsabilitá del popolo che il destino gli ha assegnato. La Religione l’abbiamo bollata come oppio dei popoli e ci raduniamo a milioni quando divi e dive pompati dagli stupefacenti si riuniscono a dare spettacolo della propria miseria morale e spirituale. La follia minore è quella di una gioventù dedita all’abuso dell’alcol e alla promiscuità nelle notti d’estate nella cosiddetta movida. E allora con chi prendersela? Il Dio, al quale non vogliamo credere, non ha nemmeno bisogno di inviare il Suo Angelo della Vendetta. La fossa verso la quale ci dirigiamo a passo di corsa ce la siamo scavata da soli quando abbiamo giustificato ogni comportamento abnorme in nome della libertá individuale.
Allora abbiamo almeno il coraggio e la dignitá della compostezza e risparmiamoci invettive e anatemi contro il destino avverso e la mala sorte.
Chi è causa del suo male …
Postato in:
Dunya, Spirit
Postato il 29 Luglio 2009 su www.ilderviscio.wordpress.com
Riportato su "januacoeli" il 31 Luglio 2009

lunedì 27 luglio 2009

Gli Uiguri tra Impero e Separatismo



Gli Uiguri in Mongolia
Volendo dare un'idea della "mobilitazione contrastiva della storia" prodotta dallo scontro fra le tendenze separatiste riapparse nello Xinjiang e la rivendicazione di sovranità della Repubblica Popolare Cinese sulla regione, il generale Fabio Mini ha osservato: "Gli uiguri di oggi ricorrono volentieri alla storia per legittimare le loro rivendicazioni di indipendenza, evocando la rappresentazione di una nazione e di uno Stato unitario travolto dalla dominazione cinese alla fine del secolo scorso. Un'oppressione senza scrupoli contro la quale una fiera resistenza avrebbe combattuto e combatte ancora" (1). Da parte sua, la prospettiva geopolitica cinese si ricollega ad una concezione imperiale, poiché replica più o meno in questi termini: "il dominio imperiale, esercitato per vie diplomatiche o per controllo diretto o per conquiste militari o per cosiddetti 'protettorati', era comunque assoluto. Le dinastie, anche barbare, che nei secoli avevano acquisito il controllo del Xinjiang, erano comunque espressioni legittime del potere cinese. Il loro dominio era incontrastato e veniva materializzato dal rapporto di tributo" (2).
Le rappresentazioni messe recentemente in circolazione dalla grancassa mediatica occidentale rivelano il loro carattere strumentale e inconsistente qualora ci si sforzi di passare in rassegna, anche in maniera sintetica e sommaria, le vicende storiche degli Uiguri e della regione nella quale essi andarono a insediarsi in un certo momento della loro storia.
Tale rassegna può iniziare dal 744 dell'era volgare, allorché l'impero dei "Turchi Celesti" (Kök Türk), che era sorto in Mongolia nel 552 e all'apice della sua fortuna aveva dominato lo spazio compreso tra il Mar Giallo e il Mar Nero, crollò a causa della ribellione di alcune tribù turciche vassalle, tra le quali quella degli Uiguri.
Il capo degli Uiguri, inviata alla corte imperiale cinese la testa mozzata dell'ultimo qagan turco, assunse a sua volta la dignità di qagan. Nacque così un vasto regno che, estendendosi dal Fiume Giallo al fiume Yili, subentrò ai Turchi Celesti nel dominio della steppa. "Il rapporto che si sviluppò tra gli Uiguri e i Cinesi fu di reciproco beneficio: per non indebolire la dinastia cinese i primi fornirono un notevole sostegno militare, mentre ricevettero dalla Cina un immenso guadagno e una posizione privilegiata nel commercio. Si trattava di un rapporto simbiotico, poiché gli Uiguri erano fedeli alleati, che riconoscevano che non era nel loro interesse permettere che la dinastia Tang fosse rovesciata" (3).
A quell'epoca gli Uiguri parlavano una lingua del gruppo uiguro-oguz (sottogruppo uiguro-tukius), appartenente a sua volta al ramo unno-orientale del gruppo turco. Questa lingua, che possiamo chiamare antico uiguro e che non è molto diversa da quella delle epigrafi dell'Orkhon dei secoli VII-X, si differenzia dalle lingue uigure del gruppo karluk, ossia dall'uiguro dei secc. X-XI, formatosi in seguito all'interazione con l'arabo e col persiano, nonché dall'uiguro dei secc. XI-XIV, costituitosi per effetto dell'invasione mongola. L'alfabeto con cui essa veniva comunemente scritta, detto 'uigurico', era "una variante dell'alfabeto sogdiano, derivato a sua volta dall'alfabeto aramaico, cosa ben comprensibile se si pensa al ruolo di diffusori di civiltà espletato dai sogdiani, popolo di intraprendenti commercianti" (4). Dell'uiguro antico si servì, nell'iscrizione runica di una cinquantina di righe rimasta a Shine Usu, il secondo qagan degli Uiguri, El Etmish, per enumerare gli eventi che si erano susseguiti dal 743 al 750.
In un'altra epigrafe (quella di Qarabalghasun, in turco, cinese e sogdiano) è attestata la conversione degli Uiguri al manicheismo. Il 20 novembre del 762 il qagan uiguro El Tutmish aveva espugnato Lo-yang, liberandola dal generale ribelle An Lushan e restituendola all'imperatore cinese Suzong in cambio di un pagamento annuo di 20.000 rotoli di seta e delle nozze con una principessa tang; ma in quella circostanza il qagan aveva incontrato alcuni missionari manichei che lo avevano indotto ad abbracciare la loro fede. Nel testo cinese dell'epigrafe si legge: "Il paese dai costumi barbari e fumante di sangue si mutò in un paese in cui ci si nutre di legumi; il paese in cui si uccideva, in un paese in cui si incoraggia al bene" (5).
Il manicheismo divenne così la religione ufficiale del regno uiguro e gli Uiguri diventarono i protettori ufficiali delle missioni manichee in Cina. "La protezione del qagan costringe l'imperatore cinese ad accordare ai manichei per due volte - nel 768 e nel 771 - l'autorizzazione a istituire dei 'templi' in diverse località. Per due volte ugualmente - nell'806 e nell'817 -, dei manichei vengono accreditati come ambasciatori presso la corte di Cina" (6).
Da parte loro, gli Uiguri intrapresero periodiche campagne militari al servizio dell'impero cinese, esigendo in cambio gravosi pagamenti. "Alcune di queste entrate provenivano dall'esorbitante prezzo che facevano pagare per i cavalli, scambiati con la seta. Un viaggiatore arabo che visitò la capitale uigura [presso Qarabalghasun] riferì che il khaghan riceveva pagamenti annuali di mezzo milione di pezze di seta dalla Cina" (7).

La migrazione uigura nell'attuale Xinjiang

L'egemonia uigura sulla Mongolia durò circa un secolo, finché nell'840 le tribù chirghise provenienti dal nord si impadronirono della capitale, costringendo gli Uiguri a trasferirsi nel Gansu e nel bacino del Tarim, regioni che essi avevano già in parte conquistate verso l'800. Mentre il Gansu venne conquistato dalla tribù tibetana dei Tanguti, la valle del Tarim, nel Turkestan orientale, restò in possesso degli Uiguri, i quali fissarono le residenze invernale ed estiva dei sovrani rispettivamente a Qocio (Kuča), nell'odierna oasi di Turfan, ed a Beshbalïq, a nord del T'ien Shan, presso l'odierna Ürümqi.
Il Turkestan orientale era un paese di antica civiltà: lo rivelò, negli ultimi anni dell'Ottocento, il ritrovamento di una serie di manoscritti risalenti ai secoli V-IX d.C., contenenti testi non solo in cinese, mongolo e sanscrito, ma anche in una lingua indoeuropea fino allora sconosciuta: il tocario. Secondo un'ipotesi accreditata presso la maggior parte degli archeologi e dei linguisti, i Tocari avrebbero fatto parte della cosiddetta migrazione pontica e si sarebbero insediati nella regione intorno ai secoli IX-VIII a.C.
All'epoca dell'immigrazione uigura, dunque, "nelle principali città carovaniere, al tempo stesso centri di vita sedentaria, vivevano popolazioni parlanti lingue indoeuropee quali il sogdiano e il sacio (appartenenti al gruppo iranico) e il tocario. Presso queste popolazioni si erano affermate una letteratura religiosa in massima parte di ispirazione buddhistica, per il resto manicaica o nestoriana, e un'arte composita in cui si fondevano elementi dell'arte indiana (greco-romano-buddhistica e gupta), iranica e cinese. Gli uiguri assimilarono la civiltà preesistente alla loro venuta, e ne prolungarono l'esistenza con propri contributi (...) La caleidoscopica civiltà degli uiguri, fatta piuttosto di echi che di sintesi o di originali sviluppi, si spense sul posto, dopo l'invasione mongola" (8).
Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, la maggior parte degli Uiguri venne a trovarsi nell'ulus di Ciagatai, che nella partizione dei domini paterni aveva ricevuto la Kashgaria, l'attuale Xinjiang, i territori ad est del lago Balkash, la Transoxiana e la Semireche. Il contributo che gli Uiguri diedero all'organizzazione degli Stati turco-mongoli fu enorme: i figli di Gengis Khan impararono a leggere e a scrivere la scrittura uigurica, mentre agli Uiguri "venne affidata l'amministrazione delle province conquistate, ed essi, mandati soprattutto in Cina, competevano vantaggiosamente anche con i funzionari del paese, quanto a capacità e destrezza; il cristiano Cingai fu messo a capo di tutta l'amministrazione dell'impero" (9).
Nel periodo mongolo, infatti, gli Uiguri erano in gran parte cristiani (10), essendo stati da tempo evangelizzati dagli zelanti missionari nestoriani. Più sopra si è detto della loro conversione al manicheismo, avvenuta nell'VIII secolo; ma nel bacino del Tarim aveva avuto larga diffusione il buddhismo mahâyâna, tanto che nel 981 la capitale uigura possedeva un solo tempio manicheo, a fronte di una cinquantina di templi buddhisti. Alla predicazione buddhista era poi subentrata quella nestoriana. In questo paesaggio religioso variegato e fluido, in cui manicheismo, buddhismo, cristianesimo nestoriano "coesistevano in una certa tolleranza o indifferenza per le credenze e le pratiche sciamaniste ancestrali" (11), i Turchi introdussero l'Islam, che grazie alla Pax Mongolica si era d'altronde già diffuso da tempo nei territori cinesi.

Gli Uiguri e l'Islam

La graduale islamizzazione degli Uiguri giunse ad uno stadio decisivo allorché Tarmashirîrîn Khân (1326-1334), sovrano dell'ulus ciagataico, abbandonò il buddhismo ed abbracciò l'Islam, diventando sultano col nome di ‘Alâ'oddîn; un ulteriore impulso alla diffusione dell'Islam nella regione venne dato da Tughluq Timur Khan (1343-1363).
Mentre in Cina l'epoca Ming (1368-1644) vedeva nascere e consolidarsi, attraverso un processo di sinizzazione dell'Islam, quell'etnia hui che, costituita di Han convertiti all'Islam, è la più numerosa tra le etnie musulmane della Cina, gli Uiguri condividevano le sorti delle tribù ciagataiche. La tradizione colta rappresentata dal linguaggio amministrativo degli Uiguri fu una componente determinante della cultura ciagataica nei domini di Tamerlano e, in particolare, nelle corti timuridi di Samarcanda, di Herat, di Shiraz. Intanto, a partire dal XVI e ancor più dal XVII secolo, nel Turkestan orientale e in altri territori della Cina nordoccidentale (Gansu, Qinghai, Ninxia) si andavano costituendo i nuclei di quattro confraternite sufiche: la Qadiriyya, la Khufiyya, la Jahiriyya e la Naqshbandiyya; a quest'ultima, in particolare, appartenevano i Khwa^ja, discendenti dello shaykh Makhdûm-i Azam (morto nel 1540 a Kashgar), che in seguito alla frantumazione del chanato ciagataico governarono la Kashgaria dal 1678 al 1757. Con la caduta della dinastia dei Khwâja, il Turkestan orientale venne chiamato Huijiang ("Provincia islamica") ed annesso in maniera stabile al Celeste Impero, alla guida del quale s'era insediata nel 1644 la dinastia sino-mancese dei Qing. "I cinesi consideravano il Turkestan orientale una loro naturale regione d'influenza, al punto che gli scambi commerciali che essi intrattenevano con le popolazioni che lo abitavano erano visti come una forma di tributo offerto da costoro. L'annessione di queste regioni, per il discorso che qui più c'interessa, si risolse in un importante evento: l'inglobamento di un considerevole numero di musulmani non sinizzati (e dei loro centri devozionali) entro i confini dell'Impero. Il Turkestan - che dal lato occidentale era assediato dall'espansionismo russo - venne governato grazie all'ausilio di capi musulmani locali (beg), che in cambio d'assegnazioni fondiarie collaboravano con gli amministratori Han protetti da guarnigioni cinesi stanziate a Ürümqi, Kashgar, Khotan ed altri centri" (12).
Ma dal loro rifugio di Kokand (Qo'qon) i Khwâja detronizzati di Kashgar attendevano che si presentassero le circostanze favorevoli per una riconquista del potere perduto. Sotto la spinta del movimento eterodosso Xin jiao ("Nuova dottrina"), che nel 1781 aveva animato una rivolta di Hui nel Gansu, a partire dal 1820 i Khwâja organizzarono una serie di incursioni in territorio cinese e tra il 1826 e il 1827 suscitarono una sommossa nel Turkestan orientale. Una nuova ribellione scoppiò una ventina d'anni più tardi, nello stesso anno in cui il potere centrale riusciva finalmente a domare la grande rivolta contadina del Taiping Tianguo; in seguito all'insurrezione degli Hui guidata nello Shanxi e nel Gansu da Ma Huolang, capo della confraternita Jahiriyya, nel 1864 gli Uiguri si sollevarono sotto la guida del tagico Yaqub Beg (1820-1877), edificando un'effimera entità politica (il "regno della Kashgaria") che trovò sostegno presso i Britannici e i Russi e venne riconosciuta dal sultano ottomano. Alla repressione di questa rivolta, avvenuta nel biennio 1877-1878 ad opera del generale cinese Zuo Zong-tang (1812-1885), seguì, nel 1884, la riorganizzazione del Turkestan orientale, che andò a costituire una nuova provincia cinese e ricevette il nome di Xinjiang ("Nuovo Territorio").

Il separatismo uiguro

Nel primo periodo repubblicano (1911-1949) lo Xinjiang fu teatro di nuove insurrezioni, le quali però presentavano "una peculiarità rispetto a quelle della seconda metà dell'Ottocento: da una caratterizzazione più marcatamente 'islamica', ora l'accento viene posto gradualmente sul fattore etnico, con l'Islam che fornisce per così dire la 'bandiera' ai separatisti-indipendentisti" (13). Si cominciò nel 1931, con la rivolta capeggiata dal khwâja Niyâz Hajji, che il 12 dicembre 1933 approdò alla proclamazione di una "Repubblica Islamica Turca del Turkestan Orientale" che nel giro di un anno venne abbattuta dall'esercito nazionalista cinese; il secondo atto ebbe luogo nel 1937 col movimento guidato da ‘Abdallâh an-Niyâz; nel 1940 scoppiò la rivolta di ‘Uthmân Batûr, che fu repressa nel 1943; nel 1944 la rivolta della valle dello Yili si concluse con la proclamazione di una nuova "Repubblica del Turkestan Orientale" che, sostenuta dalle truppe sovietiche, durò fino al 1949, quando Stalin, essendo ormai certa la vittoria di Mao Tse-tung, impose al governo uiguro la riconciliazione con la Cina.
La Repubblica Popolare Cinese istituì, il 1 ottobre 1955, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, all'interno della quale nacquero due prefetture (chou) autonome (una khalkha ed una hui), nonché due distretti (hsien) autonomi (uno hui ed uno tagico). In base alla Costituzione del 1949, la lingua ufficiale della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang era l'uiguro basato sui dialetti del sud e scritto in lettere arabe (mentre l'uiguro parlato in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbechistan e Turkmenistan, formatosi sulla base dei dialetti del nord, utilizzava l'alfabeto cirillico) (14).
La pratica dell'Islam, che la Costituzione garantiva agli Uiguri così come alle altre nove "nazionalità" (minzu) musulmane della Cina, trovò un valido sostegno nell'Associazione Islamica Cinese, la quale, sorta nel 1953, "si occupò di pellegrinaggi alla Mecca, di rapporti con personalità religiose straniere, di formazione degli addetti al culto ed in generale del coordinamento delle attività religiose e sociali" (15). L'attività dell'Associazione, interrotta dalla Rivoluzione Culturale, riprese nel 1978, dopo la caduta della "Banda dei Quattro".
Per assistere ad una ripresa del movimento separatista uiguro, bisogna arrivare agli anni Novanta, quando nello Xinjiang avvengono scontri di piazza ed atti di terrorismo. La condanna a morte di una trentina di attivisti provocò, il 5 febbraio 1997, la dimostrazione di Ghulja, duramente repressa dalla polizia; a ciò fece seguito, venti giorni dopo, la strage di Ürümqi, dove saltarono per aria tre autobus di linea.
Anche se il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, del quale sono stati denunciati gl'immancabili "legami con Al-Qaeda", è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, non è certamente l'Islam a costituire la motivazione più forte dell'attuale movimento separatista. "La spinta ideologica della resistenza si avvale di un blando integralismo religioso" (16), per cui il movimento può richiamarsi senza troppe difficoltà ai principi cardinali del sistema occidentale: Democrazia e Diritti Umani. E senza difficoltà il National Endowment for Democracy ha potuto stanziare, nel 2008, più di 500.000 dollari a favore di quattro organizzazioni separatiste che agiscono nello Xinjiang. D'altronde i dirigenti del separatismo uiguro hanno le loro centrali in Occidente: mentre il Congresso Mondiale Uiguro ha sede a Monaco di Baviera, la sua principale esponente, Rebiya Kadeer, grazie all'interessamento diplomatico di Condoleeza Rice si è potuta trasferire da Pechino agli Stati Uniti.



(1) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, "Limes", 1/1999, p. 85.
(2) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., ibidem.
(3) J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Newton & Compton, Roma 2002, p. 150.
(4) Alessio Bombaci, La letteratura turca, Sansoni-Accademia, Milano 1969, p. 33.
(5) "Journal Asiatique", 1913, p. 194.
(6) Henri-Charles Puech, Il manicheismo, in: Storia delle religioni, a cura di H.-Ch. Puech, 8. Gnosticismo e manicheismo, Laterza, Bari 1977, pp. 182-183.
(7) J. A. G. Roberts, Storia della Cina, cit., p. 151.
(8) Alessio Bombaci, La letteratura turca, cit., p. 32.
(9) Giuseppe Messina, Cristianesimo buddhismo manicheismo nell'Asia antica, Nicola Ruffolo, Roma 1947, p. 143.
(10) Sull'attività degli Uiguri nel periodo mongolo cfr. W. Barthold, Turkestan down to Mongol invasion, in Gibb M. S., New series V, Oxford 1928, p. 386 ss.
(11) Claude Cahen, L'Islamismo. I. Dalle origini all'inizio dell'Impero ottomano, Feltrinelli, Milano 1969, p. 283.
(12) Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, "Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. III, n. 1, genn.-marzo 2006, pp. 92-93.
(13) Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, cit., p. 94.
(14) "La formazione della lingua letteraria risale al secolo X e rappresenta il risultato dell'interazione delle lingue turciche di occidente e di oriente con la lingua tagica e con altre lingue iraniche. Il periodo moderno della lingua letteraria inizia nel secolo XVII, quando si avvicina lentamente alla lingua viva del popolo. Il vocabolario della lingua uigurica è molto ricco di prestiti arabi (33%), meno di persiani (7%). Tali prestiti sono molto antichi. Si spiegano coi rapporti economici tra Uiguri, Arabi e Persiani fin dal secolo X" (Lucia Wald - Elena Slave, Ce limbi se vorbesc pe glob, Editura ştiintifică, Bucureşti 1968, p. 149).
(15) Piero Corradini, L'Islàm in Cina oggi, "Islàm. Storia e civiltà", a. I, n. 1, ott.-dic. 1982, p. 16.
(16) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., p. 94.

Scritto da Claudio Mutti il 20 Luglio 2009, su www.claudimutti.com





Attenzione, Xinjiang!

di Roman Tomberg
* Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/print.php?id=2310
il 20 Luglio 2009


Dal 5 luglio, l'attenzione di tutto il mondo si è concentrata sull'ordine del giorno del prossimo vertice G8, che aveva tutte le possibilità di diventare l’evento culminante del mese. Eppure, le principali notizie sono arrivate in gran numero non da L'Aquila, in Italia, ma da Urumqi, in Cina. I disordini scoppiati in città hanno provocato 184 morti e 1.680 feriti, oltre a più di 260 autovetture incendiate e circa 200 negozi saccheggiati. Nel corso dei tre giorni di disordini che inizialmente hanno preso di mira la popolazione cinese, e poi quella Uigura, della regione autonoma dello Xinjiang, i problemi della provincia cinese hanno attirato l'attenzione di Pechino, dei vicini della Cina in Asia centrale, e del resto del mondo.
Considerando che i disordini in Tibet, lo scorso anno sono stati, evidentemente, sincronizzati con l'apertura delle Olimpiadi di Pechino, la coincidenza temporale dei disordini nella regione autonoma dello Xinjiang e del vertice del G8 non sembra casuale.
Senza dubbio, la situazione nello Xinjiang sta per essere utilizzata per offuscare l'immagine della Cina e per ridurre la sua influenza nella politica internazionale. Gli eventi di Urumqi forniscono all'Occidente un pretesto per mettere un governo legittimo di un paese sovrano sotto pressione, così come è stato precedentemente fatto nel caso della Jugoslavia, in Cecenia e in Iraq. Ora sarà possibile interpretare la lotta al terrorismo delle forze di sicurezza della Cina, come una pulizia etnica e un genocidio contro la popolazione Uigura. In realtà, è in gran parte il risultato delle attività internazionali delle "vittime delle torture da parte del governo" tra le fila della setta Falun Gong, se la situazione dei diritti umani in Cina è diventata il bersaglio di critiche permanenti, che sono state leggermente smorzate negli ultimi anni, solo a causa della interdipendenza delle economie degli Stati Uniti e della Cina.
Molto probabilmente, gli avvenimenti nella regione autonoma Uigura dello Xinjiang avrà un effetto negativo sulla capacità della Cina di attrarre investimenti esteri, il che sarebbe un duro colpo per la sua enorme economia nel tentativo di sottrarsi alla crisi globale. Pochi giorni fa, la politica della Cina di acquistare in tutto il mondo risorse naturali ha incontrato il primo serio ostacolo, gli azionisti di Rio Tinto, una grande azienda metallurgia l'anglo-australiana, ha invocato considerazioni di sicurezza nazionale ed ha rifiutato di vendere una quota 7,2 miliardi di dollari alla società della Cina Chinalco. Sebbene l'accordo generale sull’affare è stato raggiunto nel febbraio 2008, Rio Tinto se ne è allontanata a seguito di un suggerimento avanzato dall’Australia's Foreign Investments Review Board.
Attualmente, la regione autonoma Uigura dello Xinjiang è la più grande unità amministrativo-territoriale della Cina, con una superficie di 1.660.000 km quadrati (superiore a quella di Germania, Francia, Spagna e combinata), o 1/6 della superficie totale della Cina. Gli Uiguri nella regione sono un gruppo etnico che conta circa 12 mln di persone (la popolazione totale della regione è di circa 20 mln). Nel complesso, la regione è abitata da 47 gruppi etnici. La Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang ed il Tibet sono le solo regioni della Cina con una popolazione prevalentemente non cinese. Va osservato che attualmente gli Uiguri sono l'unica grande nazione di lingua turca in Asia centrale, che rimane senza uno stato.
Lo Xianjiang è stato inserito nell’orbita della Cina relativamente di recente - nel 1760 sotto la dinastia Manciù. Gli Uiguri non ha accolto con favore i cinesi e i loro metodi dell’amministrazione e, spesso, si ribellarono. Quando la Cina si riprese lo Xinjiang nel 1949, la leadership cinese ha tenuto in considerazione l'esperienza passata e prevedibilmente ha concluso che la popolazione d'etnia cinese Han sarebbe stata molto più fedele rispetto a nativi turchi e musulmani. Le famiglie cinesi sono state trasferite in gran numero dalla province orientali della Cina alla regione sotto il controllo della Xianjiang Production and Construction Corp., considerando che i cinesi costituivano solo il 5% della popolazione della regione Xianjiang al momento in cui esso è stato accolto in Cina. Attualmente la cifra ha raggiunto il 41% o 7,5 milioni di persone, la maggior parte di questa popolazione è urbana.
In particolare, Pechino non stimola la migrazione di tali proporzioni in qualsiasi altra regione della Cina. Ad esempio, solo 160.000 cinesi risiedono in Tibet (su un totale della popolazione di 2,4 mln), ma in nessun caso si è avuto un afflusso massiccio di cinesi nella regione. La spiegazione risiede nell’importanza strategica dello Xianjiang per la Cina.
In primo luogo, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang è ricca di risorse naturali quali petrolio, gas naturale, carbone e uranio. Lo Xinjiang è stato il secondo più grande produttore di petrolio in Cina nel 2008, con una produzione di 27,4 mln di tonnellate di greggio (14% del totale nazionale). Oltre, 1/3 del gas naturale prodotto in Cina proviene dallo Xinjiang, 24,1 Barili pompati annualmente alle province della Cina orientale, attraverso il gasdotto Ovest-Est costruito nel 2005. Lo Xinjiang è al primo posto tra le regioni minerarie carbonifere della Cina (il carbone è il principale tipo di carburante in Cina) col 40% di partecipazione delle riserve di carbone del paese. L'anno scorso, il più grande deposito di uranio della Cina - 10.000 tonnellate - è stato scoperto nel bacino del fiume Ili.
In secondo luogo, questa regione della Cina occidentale ha tradizionalmente servito come sede segreta delle attività di ricerca strategiche. Lop Nur, la più grande base di test di armi nucleari della Cina, con una superficie di 100.000 km quadrati, si trova nello Xinjiang. E’ stata utilizzata per i test nucleari negli anni ‘60 e attualmente serve per testare i missili balistici. Un’altra struttura segreta è situata nello Xinjiang, è il centro di ricerca per la Fisica Nucleare, il Malan Research Institute.
In terzo luogo, lo Xinjiang confina con sette paesi - Russia, Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Mongolia, Pakistan e Tagikistan - e quindi gioca il ruolo della porta della Cina verso la Grande Asia centrale, che è stata a lungo tra le priorità della politica estera di Pechino. La vicinanza geografica all’Iran, il paese con cui la Cina prevede di rafforzare un partenariato strategico, contribuisce anch’esso all'importanza dello Xinjiang.
L'instabilità nello Xinjiang pone una serie di minacce alla Cina, soprattutto quelle del terrorismo e del separatismo. Un certo numero di gruppi Uiguri - il movimento di indipendenza del Turkestan orientale, l'Organizzazione di liberazione islamica del Turkestan orientale, la Conferenza Mondiale della Gioventù Uigura e il Centro di Informazione del Turkestan orientale – sono impegnati in attività anti-governative e, in alcuni casi, in attività terroristiche. Alcuni di essi sono sospettati di essere legati ad Al Qaeda.

I problemi incontrati dallo Xinjiang riceve una grande copertura mediatica internazionale, soprattutto grazie agli sforzi compiuti dal Congresso Mondiale Uiguro, che agisce come valvola di sfogo della popolazione locale della regione. Inoltre, le espressioni di sostegno al movimento di indipendenza Uiguro sono stati ascoltati nei circoli politici di Gran Bretagna, Paesi Bassi, e persino nel vicino Kazakistan. Il Primo Ministro turco Erdogan ha presentato una dichiarazione forte, sulla scia degli scontri di Urumqi (la Turchia è un giocatore chiave nell’Asia centrale). Ha chiamato il dramma in Urumqi genocidio e ha promesso che il tema sarebbe stato messo all'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Lo Xinjiang è uno dei principali hub di transito regionale. Il gasdotto Atasu-Alashankou che collega Cina e Kazakistan attraversa la regione autonoma Figura dello Xinjiang. Nel prossimo futuro, si prevede di costruire un ulteriore tappa della pipeline che aprirà l'accesso al Mar Caspio della Cina. Un’altra importante infrastruttura situata nella regione è il gasdotto che collega ai giacimenti di gas del Turkmenistan e Kazakistan, e sarà presto aggiornato per raggiungere l'Uzbekistan. Perciò, l'instabilità nello Xinjiang rappresenta una minaccia per la sicurezza energetica di tutta l'Asia centrale.
L'energia non è l'unico settore che affronta potenziali minacce a causa degli sviluppi nello Xinjiang. L'avanzata del separatismo nello Xinjiang comporta il rischio della creazione di una rete terroristica che va dalla valle di Fergana a quella di Turfan. Il probabile effetto parallelo sarebbe la creazione di un corridoio per il traffico di droga e di armi, nonché dell'immigrazione clandestina, soprattutto sul versante dell'Afghanistan e del Pakistan. La possibilità di simultanei disordini Uiguri tra le popolazioni delle vicine repubbliche, soprattutto Kazakistan e Kirghizistan, non può essere esclusa. L'instabilità nello Xinjiang è un problema di scala regionale, e un meccanismo di indirizzo dovrebbe funzionare con un’organizzazione a livello regionale. Il corpo corrispondente è la Shanghai Cooperation Organization, che ha pianificato misure volte a contrastare il terrorismo, il separatismo, l'estremismo e, dal 2001, lo svolgimento di esercitazioni congiunte delle forze armate dei suoi paesi membri, nei territori della Russia, la Cina e in Asia centrale ed orientale, come le missioni anti-terrorismo e di pace. In circostanze attuali, l'aspetto militare della Shanghai Cooperation Organization può essere non meno importante per la Cina di quello economico. Più ampie esercitazioni militari, nel quadro della Shanghai Cooperation Organization, dovrebbero essere previste in futuro.
Sarebbe un errore credere che lo Xinjiang è solo un mal di testa della Cina. Si tratta di un nuovo, o meglio, un alquanto trascurato fattore di rischio che caratterizza l'intera Asia centrale.

*Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/print.php?id=2310 20.07.2009

Apparso sulla Rivista di Geopolitica "EURASIA"

sabato 18 luglio 2009

Burhanuddin la sua vita



LA SUA VITA

In ogni raduno,
in ogni incontro occasionale per strada,
c‘è uno splendore,
un‘eleganza che sorge.
Oggi, ho riconosciuto che il gioiello della bellezza è la Presenza:
la nostra amabile confusione,
la luminescenza con cui l‘argilla acquosa
diventa più luccicante del fuoco,
Colui che chiamiamo l‘Amico.
Ho implorato:“Esiste una via per raggiungerTi,una scala?”
“La tua testa è la scala,ponila giù, sotto i tuoi piedi”.
La mente,questo globo di consapevolezza,
è un universo stellato
che quando allontani con un piede,
mille nuove strade si fanno chiare,
come fai tu stesso all‘alba,veleggiando attraverso la luce.

Mevlana Jalaluddin Rumi

Burhanuddin ha ricevuto la trasmissione diretta dell‘ordine Sufi Naqshbandi, uno tra i più autorevoli e antichi tra i quaranta tradizionali esistenti. Noto attraverso le epoche sotto diversi nomi, tra cui la Scuola dei Maestri di Saggezza, o il Cammino d’Amore, è noto oggi come Naqhshbandi. Deriva il suo nome dal grande santo Sufi, attivo in Asia Centrale nella zona di Bukhara in Uzbekistan, Shah Baha’uddin Naqshband (1317-1389), che il suo segreto sia santificato. Fu il diciassettesimo in una linea di successione ininterrotta che ha origine dal cuore del Profeta Muhammad, pace e benedizioni su di lui, attraverso Sayyidina Abu Bakr, il riconosciuto erede dei suoi insegnamenti mistici, anzichè Sayyidina Ali, possa Dio compiacersi di loro, come accade per tutti gli altri ordini Sufi.
Naqshbandi etimologicamente si compone dei termini “impressione, sigillo” (naqsh) e “fissare, legare” (band), in riferimento al nome di Dio che viene impresso nel cuore del discepolo. Può avvenire attraverso uno sguardo dello Sheikh, il maestro, e attraverso la pratica che manterrà viva quella connessione.
Burhanuddin ha viaggiato a lungo in oriente per approfondire i suoi studi e ricevere gli insegnamenti della Via. Ha iniziato a muovere i primi passi sul sentiero Sufi quando era molto giovane. A diciannove anni, dopo averne visto una fotografia, decise di invitare nella sua città il suo futuro insegnate, il Gran Maestro Maulana Sheikh Nazim al Haqqani, l’attuale guida mondiale dell‘ordine Sufi Naqshbandi e quarantesimo nella linea di discendenza diretta.Quando lo vide per la prima volta, fu così sopraffatto dalla sua maestosità e potenza, che semplicemente svenne, in mezzo alla strada. Dal quel giorno fu al suo fianco nei frequenti viaggi in tutto il mondo per diffondere il tocco Sufi di grazia e amore.
Nella tradizione Sufi quando il maestro vede che il discepolo è pronto, lo sottopone alla prova più dura: un periodo di quaranta giorni di ritiro dal mondo. Burhanuddin ha sostenuto il suo primo ritiro a trentacinque anni. Sotto la guida del maestro si viene isolati in una piccola cella e si segue un programma di pratica estremamente arduo in uno stato di lode continua del Divino, senza pausa, per quaranta giorni e quaranta notti. Il cibo è quasi inesistente, e scarsissimo il sonno. In questo modo è possibile affinare e rafforzare la propria determinazione di raggiungere Dio, affrontando e combattendo i molteplici aspetti del proprio ego.

Discorsi Sufi
Una guida mistico-pratica alla Via dei Dervisci,Armenia, Milano, 2006
IL DERVISCIO METROPOLITANO

Vivere oggi la tradizione Sufi Armenia, Ho un Innamorato segreto intorno a me che di tanto in tanto mi manda un profumo sacro.Gli ho chiesto nel mio cuore:perchè lo fai?Ha risposto:E' l'unico modo per baciare il tuo cuore direttamente.
Burhanuddin Herrmann
 
Devi diventare una penna in mano al Sole.
Abbiamo bisogno che la Terra canti
attraverso i nostri pori
e i nostri occhi.
Il corpo non avrà riposo
fino a che la tua anima
non dipingerà tutta la sua bellezza
nel cielo.

Hafiz


Burhanuddin è un profondo lettore di anime e possiede un’innata sensibilità e capacità di comprendere e aiutare le persone nei loro problemi psicologici e fisici.Da oltre vent’anni viaggia in giro per il mondo, dietro istruzione del suo maestro in ossequio all'usanza dei dervisci; conduce seminari di crescita spirituale accettando inviti in diversi paesi, dove è anche alla guida di comunità Sufi locali. E‘ possibile incontrarlo in occasione di seminari in Europa, Sud America e India. Burhanuddin Herrmann ha pubblicato due libri e il terzo è in preparazione:
IL CAMMELLO SUL TETTO. Milano, 2007

BURHANUDDIN - GERMANY




BURHANUDDIN LIFE HISTORY



In any gathering,
in any chance meetingon the street,
there is a shine,an elegancerising up.
Today, I recognizedthat the jewel-like beautyis the Presence:
our loving confusion,
the glow in which watery claygets brighter than fire,
the onewe call the Friend.
I begged,“Is there a way into you, a ladder?”
“Your head is the ladder,bring it downunder your feet”.
The mind,this globe of awareness,
is a starry universethat when you push off with your foot,
a thousand new roads become clear as you yourself do at dawn
sailingthrough the light.
Mevlana Jalaluddin Rumi




Burhanuddin received the direct transmission of the Sufi Naqshbandi order, one of the most authoritative and ancient one among the forty traditional existing Sufi orders. Known through the ages under different names, like the School of the Masters of Wisdom, or the Path of Love, it is called nowadays Naqshbandi. It derives its name from the great Sufi saint, active in Central Asia, in the area of Bukhara in Uzbekistan, Shah Baha’uddin Naqshbandi (1317-1389), may God sanctify his secret. He was the seventeenth in the direct uninterrupted line of descent originated from the heart of the Prophet Muhammad, peace and blessings be upon him, through Sayyisdina Abu Bakr the acknowledged heir of his mystic teachings, instead of sayyidina Ali, may God be pleased with them, as it is the case for all the other Sufi orders.
Naqshbandi etymologically is composed by the terms “impression, print” (naqsh) and “to bind, to fasten” (band), referring to the divine Name that is imprinted in the heart of the disciple. It may happen through one glance of the Sheikh, the master, and through the practise that will keep alive that connection.
Burhanuddin used to travel in the East to deepened his studies and to receive the teachings of the Way. He started walking on the Sufi path when he was very young. At the age of nineteen, after seeing one of his picture, he decided to invite to his town his future teacher, Grand Master Maulana Sheikh Nazim al Haqqani, the present world guide of the Naqshbandi Sufi order and the fortieth in the direct descent line. When he saw him the first time, he was so overwhelmed by his majesty and power, that he simply fainted in the middle of the street. From that day on he was at his side, accompanying him in his frequent travelling all over the world spreading the Sufi touch of grace and love. In the Sufi tradition when the master sees that the disciple is ready, he puts him through the hardest test: a period of forty days seclusion. Burhanuddin received his first retreat when he was thirty-five years old. Under the guidance of the master, the disciple is locked into a tiny cell, and follows an extremely hard practise program in a constant praising state of the Divine, with no pause for forty days, and forty nights. The food is almost in-existing and very little sleep. This is how through the constant practice it is possible to sharpen your intention to reach God, facing and fighting the manifold aspects of your ego.
I have a secret Lover around meand from time to timehe sends mea sacred smell.I asked himin my heart:why do you do that?And he said:this is the only waysto kiss your heart directly.
Burhanuddin Herrmann
 
You need to become a pen
In the Sun´s hand.
We need for the earth to sing Through our poresand eyes.
The body will again become restless
Until your soul paint sall its beauty Upon the sky.
Hafiz




Burhanuddin is a deep soul reader, and has an innate sensitivity and capacity of understanding, and helping people in their psychological or physical problems. Since over twenty years, he travels around the world under instruction of his master: he leads seminars of spiritual growth accepting invitations to many countries, where he is also leading local Sufi communities. It is possible to meet him in seminars in Europe, South America and India. Burhanuddin Herrmann published two book and the third one is in preparation:


THE CAMEL ON THE ROOF. Sufi Discorses A mystical-practical guide to the Way of the Dervishes Armenia, Milano 2006
THE METROPOLITAN DERVISH To live today the Sufi Tradition,Armenia, Milano, 2007


Tratto da www.the-sufiway.org

venerdì 17 luglio 2009

Islam e Evola - Italian Version





L'Islam visto da Julius Evola




L’inizio della fortuna dell’opera evoliana nel mondo islamico risale probabilmente agli inizi degli anni Novanta, allorché il filosofo musulmano di nazionalità azera Gejdar Dzemal (1), fondatore del Partito della Rinascita Islamica, curò per il primo canale della televisione russa una trasmissione dedicata a Julius Evola. Nel 1993 Rivolta contro il mondo moderno veniva evocata, in un’intervista pubblicata dal n. 77 di “Éléments", da un altro intellettuale musulmano: l’algerino Rachid Benaissa, allievo e continuatore di quel maître à penser della “rinascita dell’Islam” che è stato Malek Bennabi.Nel 1994, per iniziativa di un professore di teologia islamica dell’Università di Marmara usciva ad Istanbul, presso la casa editrice Insan, un libro intitolato Modern Dünyaya Baskaldiri: era la traduzione turca di Rivolta contro il mondo moderno. La presentazione editoriale faceva espresso riferimento a René Guénon, un autore del quale sono apparse in turco, negli stessi anni, due opere di critica del mondo moderno: La crise du monde moderne (Modern Dünyanin Bunalimi, Agac, Istanbul) e Le règne de la quantité et les signes des temps (Niceligin egemenligi ve çagin alâmetleri, Iz, Istanbul). Se alcuni ambienti musulmani hanno manifestato un certo interesse per l’opera di Evola, in quale misura Evola ha avuto conoscenza dell’Islam?Il quadro della tradizione islamica tracciato da Evola in Rivolta contro il mondo moderno non occupa più di un paio di pagine, ma presenta con sufficiente risalto quegli aspetti dell’Islam che nella prospettiva evoliana valgono a caratterizzarlo come “tradizione di livello superiore non solo all’ebraismo, ma anche alle credenze che conquistarono l’Occidente” (2), vale a dire alla religione cristiana.In primo luogo Evola fa notare come il simbolismo dell’Islam indichi chiaramente una riconnessione diretta con la Tradizione primordiale stessa, sicché l’Islam risulta indipendente dall’ebraismo e dal cristianesimo, religioni delle quali esso d’altronde respinge i temi peculiari: peccato originale, redenzione, mediazione sacerdotale eccetera. Leggiamo direttamente il brano evoliano:Come nell’ebraismo sacerdotale, qui al centro sta la legge e la tradizione quale forza formatrice, cui però i ceppi arabi delle origini offrirono una materia assai più pura, nobile, improntata da spirito guerriero. La legge islamica, shariyah, è legge divina; la sua base, il Corano, viene concepita come la stessa parola di Dio – kalâm Allâh – come opera non-umana, libro “increato”, esistente ab aeterno nei cieli. Se l’Islam si considera come “la religione di Abramo” e di questi ha voluto anche fare il fondatore della Kaaba, ove ricorre la “pietra”, il simbolo del “Centro”, pure sta di fatto che esso afferma la sua indipendenza dall’ebraismo non meno che dal cristianesimo, che il centro della Kaaba con quello stesso simbolo è preislamico ed ha origini remote difficili a determinare; che nella tradizione esoterica islamica il punto di riferimento è la figura misteriosa del Khidr, concepito come superiore ed anteriore ai profeti biblici. L’Islam esclude il tema caratteristico dell’ebraismo, che nel cristianesimo diverrà dogma e base del mistero cristico: mantiene, sensibilmente affievolito, il tema della caduta di Adamo, senza trarne tuttavia quello del “peccato originale”. In questo esso vede una “illusione diabolica” – talbîs Iblîs - anzi, in un certo modo, tale motivo viene invertito, la caduta di Satana – Iblîs o Shaytân – essendo ricondotta, nel Corano (XVIII, 48), al rifiuto di questi di prostrarsi, insieme agli Angeli, davanti Adamo. Così viene respinta anche l’idea di “redentori” o “salvatori”, centro del cristianesimo, non solo, ma viene esclusa la mediazione di una casta sacerdotale. (3)La radicale formulazione della dottrina dell’Unità, l’assenza di ogni macchia di antropomorfismo, la restaurazione del primordiale contatto diretto col Principio, l’integrazione di ogni settore dell’esistenza in un ordine rituale, l’ascesi dell’azione culminante nel rito del jihâd, la capacità di plasmare una “razza dello spirito” in termini di ummah: sono questi, successivamente, gli aspetti dell’Islam sui quali si sofferma l’attenzione di Evola.Concepito il Divino in assoluta purezza monoteistica, senza un “Figlio”, senza una qualità di “Padre”, senza una “Madre di Dio”, ogni uomo come muslem appare direttamente connesso a Dio e santificato attraverso la legge, la quale permea ed organizza in qualcosa di assolutamente unitario la vita in ogni sua espressione, giuridica, religiosa, sociale. Come si è accennato, nell’Islam originario l’unica forma di ascesi che si concepì fu quella dell’azione, in termini di jihad, di “guerra santa”, guerra, teoricamente, da non interrompere mai, fino al pieno consolidamento della legge divina. E appunto attraverso la guerra santa, non per un’azione di predicazione e di apostolato, l’Islam ebbe una espansione repentina, prodigiosa, formando non solo l’Impero dei Califfi, ma soprattutto l’unità propria ad una razza dello spirito – umma – la “nazione islamica”. (4)L’Islam infine, osserva Evola, è una forma tradizionale completa, nel senso che nel suo contesto è vivo ed operante un essoterismo in grado di fornire, a chi sia dotato delle necessarie qualificazioni, i mezzi utili a conseguire una realizzazione spirituale che oltrepassi il traguardo esoterico della pura e semplice “salvezza dell’anima”:Infine l’Islam presenta una completezza in alto grado tradizionale in quanto il mondo della Shariyah e della Sunna, della legge e della tradizione, ha il suo complemento non tanto in una mistica, quanto in vere e proprie organizzazioni iniziatiche – turuq – cui è proprio l’insegnamento esoterico, il ta’wil e la dottrina metafisica della Identità suprema, tawhid. La nozione, ricorrente in tali organizzazioni e, in genere, nella cosiddetta Shia, del ma’sum, della doppia prerogativa dell’isma, o infallibilità dottrinale, e dell’impossibilità di esser intaccati dalla colpa, per i capi, gli Imam visibili ed invisibili, e i mujtahid, rientra logicamente nella verità di una razza non spezzata e formata da una tradizione di livello superiore non solo all’ebraismo, ma anche alle credenze che conquistarono l’Occidente. (5)Fra tutti questi aspetti, quello che in modo più diretto interessa l’”equazione personale” di Evola è ovviamente il motivo dell’azione consacrata. È così che l’attenzione di Evola si fissa sul concetto di jihâd e sulla sua duplice applicazione, secondo la celebre frase attribuita al Profeta Muhammad: “Raja’nâ min al-jihâd al-açghar ilâ-l-jihâd al-akbar” Cioè: “Siamo tornati dal jihâd minore al jihâd maggiore”. Questo detto tradizionale, che ispira il titolo di un capitolo di Rivolta contro il mondo moderno (“La grande e la piccola guerra santa”), viene commentato da Evola nei termini seguenti:Nella tradizione islamica vengono distinte due guerre sante: l’una è la “grande guerra santa” – el-jihadul akbar – l’altra la “piccola guerra santa” – el-jihadul açghar – da un detto del Profeta che, di ritorno da una spedizione di guerra, disse: “Siamo tornati dalla piccola guerra santa”. La prima guerra è di ordine interno e spirituale; l’altra è la guerra materiale, quella che si combatte all’esterno contro un popolo nemico, in particolare, con l’intento di riprendere popoli “infedeli” nello spazio ove vige la “legge di Dio”, dâr al-islâm.Tuttavia la “grande guerra santa” sta alla “piccola guerra santa” come l’anima sta al corpo; ed è fondamentale per la comprensione della “ascesi eroica” intendere la situazione nella quale le due cose divengono una sola, la “piccola guerra santa” facendosi il mezzo attraverso il quale si attua una “grande guerra santa” e viceversa: la “piccola guerra santa” – quella esteriore – divenendo quasi un’azione rituale che esprime e testimonia la realtà della prima. In effetti, in origine l’Islam ortodosso non concepiì che una forma di ascesi: quella legantesi appunto al jihad, alla “guerra santa”.La “grande guerra santa” è la lotta dell’uomo contro i nemici che egli porta in sé. Più esattamente, è la lotta dell’elemento non umano dell’uomo contro tutto ciò che in lui vi è di umano e, come tale, di legato al tronco profondo del desiderio e della passionalità, quindi di governato dal principio del caos e del disordine. (6)La dottrina islamica della piccola e della grande “guerra santa” occupa nel contesto dell’opera evoliana una posizione importante, poiché assume un valore paradigmatico; essa infatti esemplifica e rappresenta la concezione generale che il mondo della Tradizione riferisce all’esperienza guerriera e, in senso più ampio, all’azione intesa come via di realizzazione spirituale. Gl’insegnamenti riguardanti l’azione guerriera che si ritrovano in ambiti tradizionali diversi vengono dunque considerati alla luce della loro coincidenza essenziale con la dottrina del jihâd e vengono esposti mediante il ricorso a una nozione che è, pure essa, di derivazione islamica: la nozione della “Via di Dio” (sabîl Allâh).Nel mondo dell’ascesi guerriera tradizionale la “piccola guerra santa”, ossia la guerra esteriore, viene additata od anche prescritta quale via per realizzare questa “grande guerra santa” e per tale ragione nell’Islam “guerra santa” – jihad – e “via di Allah” son termini spesso usati come sinonimi. In quest’ordine di idee l’azione ha rigorosamente la funzione e il compito di un rito sacrificale e purificatorio. Le situazioni esteriori della vicenda guerriera determinano un “affioramento” del nemico interiore, il quale come istinto animale di conservazione, paura, inerzia, pietà o passione, oppone una rivolta e una resistenza, che chi combatte deve vincere all’atto stesso di scendere in campo a combattere e a vincere il nemico esteriore o il “barbaro”.Naturalmente, l’orientamento spirituale, la “giusta direzione” – niyyah – che è quella rivolta agli stati sopraindividuali dell’essere (simboli: il “cielo”, il “paradiso”, i “giardini di Allah”, e via dicendo) è presupposta come base; altrimenti la guerra perde il carattere sacro e si degrada in una vicenda selvaggia e irrazionale ove al Guerriero si sostituisce il soldato e all’”eroe” nel senso antico la bestia, o, al più, l’esaltato. (7)Evola riporta tutta una serie di passi coranici relativi ai concetti di jihâd e di “Via di Allah”; si tratta dei seguenti versetti, che citiamo secondo la numerazione del Bonelli e nel medesimo ordine in cui vengono riferiti in Rivolta contro il mondo moderno (8): IV, 76; II, 186; II, 187; XLVII, 37; XLVII, 4; XLVII, 38; XLVII, 40; IX, 38; IX, 52; II, 212-213; IX, 88-89; IX, 90; XLVII, 5-7. Oltre a questi versetti vengono pure citate, a titolo esemplificativo ed illustrativo, due massime: “Il paradiso è all’ombra delle spade” e “Il sangue degli eroi è più vicono a Dio dell’inchiostro dei filosofi e delle preghiere dei devoti” (9). Ora, se la prima di queste due massime è effettivamente un hadîth, la seconda, desunta da una fonte di cui Evola non fornisce gli estremi, suona originariamente in termini alquanto diversi: “L’inchiostro dei sapienti e il sangue dei martiri saranno pesati nel Giorno della Resurrezione, e la bilancia penderà in favore dei sapienti” (hadîth riferito da Suyûtî, Al-jâmi’ aç-çaghîr).Prima di passare ad esporre le formulazioni secondo le quali la dottrina della “guerra santa” è stata enunciata in ambiti tradizionali diversi da quello islamico (soprattutto in quelli indù e cristiano), Evola individua un rapporto di analogia tra la morte conseguita dal mujâhid e la mors triumphalis della tradizione romana (10); il tema viene ripreso più oltre, laddove il “significato di immortalamento” (11) attribuito alla vittoria guerriera da certe tradizioni europee è messo in stretto rapporto con “l’idea islamica, secondo la quale i guerrieri uccisi nella ‘guerra santa’ – jihad – non sarebbero mai veramente morti” (12). A tale proposito viene citato un versetto coranico: “Non dite morti coloro che furono uccisi nella via di Dio; no, anzi sono vivi, però voi non ve ne avvedete” (II, 149); il parallelo specifico è qui rintracciato in Platone (Resp. 468 e), “secondo cui alcuni morti in guerra vanno a far corpo con la razza aurea che, secondo Esiodo, non è mai morta, ma sussiste e veglia, invisibile” (13).Un altro argomento che, in Rivolta contro il mondo moderno, fornisce lo spunto per alcuni riferimenti alla dottrina dell’Islam è quello trattato nel capitolo su “La Legge, lo Stato, l’Impero”. Osservando che ancor fin nella civiltà medievale la ribellione contro l’autorità e la legge imperiale fu considerata allo stesso titolo dell’eresia religiosa e i ribelli valsero, non meno degli eretici, come i nemici della loro stessa natura, come coloro che contraddicono la legge della loro stessa essenza, (14)Evola rileva la presenza di una analoga concezione nell’Islam e rinvia il lettore alla sura IV del Corano, v. 111. Un altro parallelo che coinvolge l’Islam viene poi stabilito fra la concezione romano-bizantina da un lato, la quale contrappone la legge e la pax dell’ecumene imperiale al naturalismo dei barbari rivendicando al contempo l’universalità del proprio diritto, e la dottrina islamica dall’altro, poiché in quest’ultima si ha su base analoga (…) la distinzione geografica fra il dar al-islam, o terra dell’Islam, retto dalla legge divina, e il dar al-harb, o terra della guerra, per comprendere genti, che nella prima vanno riprese attraverso il jihad, la “guerra santa”. (15)Nel medesimo capitolo, trattando della funzione imperiale di Alessandro Magno, soggiogatore delle orde di Gog e di Magog, Evola rimanda alla figura coranica di Dhû’l-qarnayn (il Bicorne, che viene correntemente identificato con Alessandro), nonché alla sura XVIII del Corano. (16)2Le analogie fra determinati aspetti dell’Islam e i corrispondenti elementi di altri ambiti tradizionali vengono rilevate anche nel Mistero del Graal; ma, mentre in Rivolta si tratta di puri paralleli dottrinali, che talvolta vedono messe a confronto con l’Islam forme tradizionali mai venute a contatto col mondo musulmano, nel saggio sulla “idea imperiale ghibellina” le similitudini tra Islam e templarismo vengono invece puntualizzate nel quadro dei rapporti che sarebbero intercorsi fra esponenti dell’esoterismo cristiano e dell’esoterismo islamico:inoltre si accusavano i Templari di aver delle intese segrete con i mussulmani e di esser più vicini alla fede islamica che non a quella cristiana. Quest’ultimo accenno è probabilmente da intendersi sulla base del fatto, che a caratterizzare l’islamismo sta parimenti la anticristolatria. Quanto alle “intese segrete”, esse debbono apparirci sinonimo di un punto di vista meno settario, più universale, quindi più esoterico di quello del cristianesimo militante. Le Crociate, nelle quali i Templari e, in genere, la cavalleria ghibellina ebbero una parte fondamentale, sotto vari riguardi crearono malgrado tutto un ponte supetradizionale fra Occidente e Oriente. La cavalleria crociata finì col trovarsi di fronte ad una specie di fac-simile di se stessa, cioè a guerrieri che avevano la stessa etica, gli stessi costumi cavallereschi, gli stessi ideali di una “guerra santa” e, in più, a corrispondenti vene esoteriche. (17)Evola passa così a tracciare un sommario profilo di quello che egli, con una certa improprietà, definisce “l’Ordine arabo degli Ismaeliti”, cioè il movimento eterodosso d’origine sciita nato verso la metà del sec. VIII:Così ai Templari fece esatto riscontro, nell’Islàm, l’Ordine arabo degli Ismaeliti, che anch’essi si consideravano come i “guardiani della Terra Santa” (anche in senso esoterico, simbolico) e avevano una doppia gerarchia, una ufficiale e una segreta. E tale Ordine, con eguale doppio carattere, guerriero e religioso, corse pericolo di fare una fine analoga a quella dei Templari per un analogo motivo: per un suo fondo iniziatico e per l’affermazione di un essoterismo sprezzante la lettera dei testi sacri. È anche interessante che nell’esoterismo ismaelita riappare lo stesso tema della saga imperiale ghibellina: il dogma islamico della “resurrezione” (qiyama) qui viene interpretato come la nuova manifestazione del Capo supremo (Imam) divenuto invisibile nel cosiddetto periodo dell’”assenza” (ghayba): perciò l’Imam ad un dato momento era scomparso sottraendosi alla morte, sussistendo però pei suoi seguaci l’obbligo di giurargli fedeltà e sudditanza come allo stesso Allah. (18)L’esoterismo islamico è definito da Evola come “dottrina che giunge perfino a riconoscere nell’uomo la condizione in cui il Principio prende coscienza di sé, e che professa l’Identità Suprema” (19), sicché, grazie ad esso, l’Islam costituisce un esempio chiaro ed eloquente di un sistema che, pur comprendendo un dominio religioso a base rigorosamente ateistica, riconosce una verità e una via realizzativi più alte, l’elemento emozionale e devozionale, l’amore e il resto perdendo (…) ogni significato “morale” e ogni valore intrinseco e acquistando solo quello di una delle tante tecniche. (20)Ebbene, l’esoterismo islamico, con gl’insegnamenti dei suoi maestri e col suo mondo di nozioni e di simboli, fornisce ad Evola spunti e riferimenti di una certa importanza. Per quanto concerne simboli e nozioni, si noti il rilievo che nell’opera evoliana è assegnato alla funzione polare. Come spiega lo stesso Evola, “nel vicino Oriente” (ma sarebbe stato più corretto dire “nel mondo islamico”) “il termine Qutb, ‘polo’, ha designato non solo il sovrano ma, più in genere, colui che dà legge ed è il capo della tradizione di un dato periodo storico” (21). (Per essere esatti, il Qutb rappresenta il vertice supremo della gerarchia iniziatica). Ora, c’è in Rivolta un capitolo intero, il terzo della prima parte, che verte su questa funzione tradizionale e impiega per l’appunto i termini “polo” e “polare”; lo strano è che esso non contiene nessun riferimento esplicito alla tradizione islamica! Per quel che invece riguarda i maestri dell’esoterismo islamico, ricorrono nell’opera evoliana i nomi di Ibn ‘Arabî, di Hallâj, di Rûmî, di Hâfez, di Ibn ‘Atâ’, di Ibn Fârid, di ‘Attâr.La prima menzione di Ibn ‘Arabî, ash-shaykh al-akbar (=magister maximus), appare in una glossa di Introduzione alla Magia che non è firmata, ma è dovuta certamente ad Evola: viene ivi citato “il caso di Ibn Arabi” al fine di esemplificare la “inversione delle parti rispetto allo stato in cui, creata la dualità, l’imagine divina incarnante l’Io superiore sta di fronte al mistico come un altro essere” (22). Per approfondire il concetto, Evola fa ricorso a un insegnamento del tasawwuf:È interessante notare che nell’esoterismo islamico vi è un termine tecnico per indicare questo mutamento: shath. Shath, letteralmente, significa proprio “scambio delle parti” ed esprime il punto in cui il mistico assorbe l’imagine divina, sente quella come il sé e il sé, invece, come un altro, e parla in funzione di quella. Sono anzi indicati, nell’Islam, alcuni “segni certi” per riconoscere in quali casi lo shath ha avuto luogo oggettivamente e non si tratta di un semplice sentimento della persona in questione. (23)Viene quindi ricordato che la fine di El Hallaj, il quale viene tuttavia considerato come uno dei principali maestri dell’Islamismo esoterico (sufismo), (24)fu una conseguenza della divulgazione del segreto che si connette al conseguimento della suddetta condizione. Su tale argomento Evola ritorna in un altro punto della sua opera, laddove scrive:Si vuole che la condanna e la stessa uccisione di alcuni iniziati di cui si era lungi dal disconoscere questa loro dignità (come caso tipico viene addotto quello di El Hallaj nell’Islam) siano dovute al loro non aver riconosciuto questa esigenza (cioè l’esigenza del segreto, n.d.r.): non si tratta di “eresia”, ma di ragioni pratiche e pragmatiche. Un detto tipico è, a tale riguardo: “Che il sapiente con la sua sapienza non turbi la mente di coloro che non sanno”. (25)L’altro breve accenno ad Ibn ‘Arabî contenuto nella medesima opera collettiva è pure esso dovuto a Evola, il quale, nello scritto firmato con lo pseudonimo “Ea” e intitolato Esoterismo e mistica cristiana, rileva come nell’ascesi del cristianesimo manchi, nonostante la disciplina del silenzio,la pratica di quel grado più interiorizzato di tale disciplina, che è il tacere non solo con la parola parlata, ma altresì col pensiero (il “non parlare con se stessi” di Ibn Arabi). (26)In Metafisica del sesso, dopo aver notato come nell’Islam, “legge destinata a chi vive nel mondo, e non all’asceta” (27), sia assente “l’idea della sessualità come qualcosa di peccaminoso e di osceno” (28), tant’è vero che prima di congiungersi sessualmente alla donna l’uomo pronuncia la formula rituale “Bismillâhi ‘r-Rahmâni ‘r-Rahîm” (“Nel nome di Allâh, il Misericordioso, il Misericorde”), Evola osserva che Ibn ‘Arabî giunge fino a parlare di una contemplazione di Dio nella donna, in una ritualizzazione dell’amplesso conforme a valenze metafisiche e teologiche. (29)Seguono due lunghe citazioni dai Fusûs al-hikam, nella traduzione di Titus Burckhardt, quindi la conclusione:In questa teologia sufistica (sic, n.d.r.) dell’amore devesi vedere solo l’amplificazione e la elevazione a una più precisa coscienza del mondo rituale in cui l’uomo di tale civiltà ha più o meno distintamente assunto e vissuto i rapporti coniugali in genere, partendo dalla santificazione che la Legge coranica conferisce all’atto sessuale in regime non solo monogamico ma anche poligamico. Da qui appare anche il significato particolare che può assumere il procreare, inteso appunto quasi come un amministrare il prolungamento, esistente nell’uomo, del potere creativo divino. (30)Un altro passo dei Fusûs al-hikam illustra in Metafisica del sesso la “chiave della tecnica islamica” (31), la quale consiste nell’assumere il “dissolversi attraverso la donna” (32) come un simbolo dell’estinzione nella divinità. Al medesimo ordine di idee viene riferito il significato delle “Esperienze tra gli Arabi” di Gallus, un capitolo di Introduzione alla Magia dal quale Evola estrae alcuni brani, relativi alle “pratiche orgiastiche a fini mistici (…) attestate (…) nell’area arabo-persiana” (33).In quello che Rûmî dice della danza (“Chi conosce la virtù della danza vive in Dio, perché sa come l’amore uccide”) (33) Evola individua un’altra “chiave” delle tecniche iniziatiche islamiche:la chiave delle pratiche di una catena, o scuola, di mistica islamica, continuatasi attraverso i secoli, che in Gelâleddîn Rûmî considera il suo maestro. (35)Nella poesia del sufismo arabo-persiano, a lui nota attraverso l’antologia del Moreno (36), Evola ritrova motivi che per la sua “metafisica del sesso” sono di un certo interesse: ad esempio, l’applicazione del simbolismo maschile all’anima dell’iniziato, sicché la divinità (…) viene considerata come donna – come la “Fidanzata” o l’”Amata”, invece che come lo “sposo celeste” dell’anima. Così per es. in Attâr, in Ibn Fârid, in Gelâleddîn el-Rûmî, ecc. (37)O, ancora, vi trova l’idea dell’amore quale “forza che uccide” l’io individuale, idea rintracciata in Rûmî (38) e in Ibn Fârid (39).Su una tecnica tipica del sufismo, il dhikr, si sofferma una glossa di Introduzione alla Magia che riteniamo di poter attribuire ad Evola. Essa rileva, in particolare, la corrispondenza di tale tecnica islamica col mantram indù e con la ripetizione dei nomi divini praticata dall’esicasmo (40). La glossa cita Al-Ghazâlî, del quale Evola deve aver letto qualcosa in qualche traduzione europea, poiché di questo maestro vengono citate, in altre pagine della stessa opera attribuibili ad Evola (41), un paio di affermazioni.Assai più proficuo è l’incontro di Evola con l’ermetismo islamico: l’autore musulmano più menzionato nella produzione evoliana è infatti Geber (= Jâbir Ibn Hayyân). Circa il ruolo svolto dagli ermestisti dell’Islam Evola scrive:Fra il VII e il XII secolo, essa (la tradizione ermetico-alchemica, n.d.r.) è attestata fra gli Arabi, che anche a tale riguardo fecero da mediatori per la ripresa, da parte dell’Occidente medievale, di un più antico retaggio della sapienza precristiana. (42)Nel suo studio specificamente consacrato alla tradizione ermetica, Evola si avvale di numerosissime citazioni tratte dai testi musulmani raccolti dal Berthelot e dal Manget. Primeggia, come si è detto, Geber, ed è ovvio, data la mole immensa del corpus geberiano; ma è pure menzionato Râzî e sono citati alcuni libri anonimi, fra i quali la celebre Turba Philosophorum, tradotta in italiano nel secondo volume di Introduzione alla Magia (43). Della Turba Philosophorum Evola dice che “è uno dei testi ermetico-alchemici occidentali più antichi” (44); in realtà nel 1931, anno in cui uscì la prima edizione della Tradizione ermetica, J. Ruska dimostrò in maniera inoppugnabile l’origine araba del testo in questione, sicché la Turba Philosophorum può esser detta occidentale solo in rapporto alla sua tradizione latina; ma ciò evidentemente sfuggì ad Evola, che anche nelle edizioni successive del suo libro sull’ermetismo mantenne l’inesatta definizione riportata più sopra.3Com’è noto, gran parte dell’opera di Evola si fonda su certi insegnamenti tradizionali divenuti per lo più accessibili in seguito all’esposizione fattane da René Guénon; Evola si è dunque basato in larga misura sull’opera di quest’ultimo, riprendendo concetti che ivi erano stati espressi e adattandoli spesso alla propria “equazione personale”. Ora, data l’appartenenza di Guénon all’Islam e data la derivazione islamica di alcuni fondamentali insegnamenti contenuti nell’opera di Guénon, non sarà fuor di luogo considerare ciò che Evola ha scritto circa l’integrazione di Guénon nella tradizione islamica:Il Guénon era convinto del sussistere, in Oriente, malgrado tutto, di gruppi tuttora depositari della Tradizione. Praticamente egli ebbe rapporti diretti propriamente col mondo islamico, dove vene iniziatiche (sufi e ismaelite) esistono tuttora accanto alla tradizione esoterica (cioè religiosa). Ed egli si “islamizzò” ad oltranza. Stabilitosi in Egitto, aveva ricevuto il nome di sheikh Abdel Wahîd Yasha (sic, n.d.r.) ed anche la cittadinanza egiziana. In seconde nozze, sposò un’araba. (45)Nel caso del Guénon, quel collegamento (iniziatico, n.d.r.) deve essersi principalmente realizzato – come abbiamo detto – con “catene” islamiche. Ma a chi non se la sente di rimettersi a musulmani e ad Orientali, il Guénon offre assai poco. (46)Il “caso di Guénon” ha dunque costretto Evola ad ammettere che anche oggi esistono, nonostante tutto, le possibilità per un ricollegamento iniziatico; solo, nelle condizioni attuali la scelta dell’Islam risulta praticamente obbligata.Una tale conclusione riprende queste precedenti considerazioni:Si potrebbe aggiungere una testimonianza islamica che è data dalla corrente iniziatica ismaelita e in particolare da quella dei cosiddetti Duodecimani. La corrispondente veduta è che l’Imam, il capo supremo dell’Ordine, manifestazione di un potere dall’alto e principio anche delle iniziazioni, si sia parimenti “ritirato”. Si attende bensì che egli si rimanifesti, ma l’epoca attuale sarebbe quella di una “assenza”.Tuttavia ciò, a nostro parere, non implica che centri iniziatici in senso stretto siano ormai inesistenti. Senza dubbio, ne esistono ancora, anche se a tale riguardo l’Occidente entra scarsamente in questione e bisogna riferirsi ad altre aree, al mondo islamico e all’Oriente. (47)Potremmo qui rilevare che Evola ha probabilmente scambiato la Scia duodecimana per una diramazione particolare del movimento ismaelita, e una svista del genere sarebbe veramente eccessiva, anche se commessa da una persona non “addetta ai lavori”; parimenti, Evola sembra credere che l’Imam sia “il capo supremo dell’Ordine” tanto nella prospettiva degli Ismaeliti quanto in quella dei “cosiddetti Duodecimani” – e anche questa sarebbe una inesattezza considerevole, perché per la Scia duodecimana l’Imam, in quanto successore del Profeta, è “capo supremo” non solo di un Ordine, ma di tutta quanta la comunità. Ma non è questo che deve interessare. L’importante è, invece, che secondo Evola un ricollegamento iniziatico nell’epoca attuale è ancora possibile, purché ci si rivolga “al mondo islamico e all’Oriente”.Un problema introdotto da Evola in questo contesto concerne il rapporto fra i centri iniziatici e il corso della storia umana e viene così formulato:il corso della storia ultima (…) ha, in genere, un carattere assolutamente involutivo e dissolutivo. Ora, di fronte alle forze che sono in opera in questi sviluppi, quale è la posizione dei centri iniziatici? (48)Il problema ovviamente coinvolge anche l’Islam:Ad esempio, nel caso dell’Islam sono certamente esistenti centri iniziatici (sufi), ma la loro presenza non ha affatto impedito l’”evolversi” dei paesi arabi nel senso antitradizionale, progressista e modernista, con tutte le inevitabili conseguenze. (49)Tale questione era stata posta da Evola nel quadro di uno “scambio d’idee con Titus Burckhardt” (50), noto studioso svizzero ricollegato all’esoterismo islamico e residente in un paese musulmano, il quale, con conoscenza di causa, gli “aveva fatto rilevare il sussistere di possibilità del genere (cioè di un ricollegamento iniziatico, n.d.r.) in aree non europee” (51). Non sappiamo se e come lo studioso svizzero abbia replicato alle obiezioni di Evola; da parte nostra, comunque, potremmo far innanzitutto notare che “i paesi arabi” costituiscono sotto il profilo demografico soltanto la quinta parte di tutto il mondo musulmano, sicché non è corretto far coincidere il loro “evolversi” con lo sviluppo della situazione generale dell’ummah islamica; in secondo luogo – e ciò possiamo forse osservarlo meglio oggi che non al tempo di Evola – anche all’interno di alcuni paesi arabi è in atto un “risveglio dell’Islam” che sembrerebbe annunciare un’inversione di tendenza; infine, quand’anche i “centri iniziatici (sufi)” non ostacolassero, con la loro azione, il processo generale di involuzione, non sarebbe tuttavia lecito affermare che la loro funzione è illusoria (52). Infatti il ricollegamento ai centri iniziatici – dai quali procede ogni trasmissione regolare delle influenze spirituali – costituisce l’unica soluzione possibile per coloro i quali intendano reagire alla tendenza discendente del mondo moderno: tendenza inesorabile, perché soggetta alle rigorose leggi cicliche che governano la manifestazione. È proprio il ricollegamento ad un centro iniziatico – e, mediante esso, al centro supremo – ad assicurare la continuità della trasmissione delle influenze spirituali per tutta la durata del presente ciclo d’umanità e quindi a consentire la partecipazione allo Spirito fino alla chiusura del ciclo. In questa prospettiva, è proprio il processo involutivo a rivelarsi illusorio: esso infatti concerne unicamente la manifestazione, la quale, dato il suo fondamentale carattere contingente, è rigorosamente nulla in rapporto all’Assoluto.Alcuni esponenti di quella varietà umana che qualcuno ha chiamato “evolomane”, presi da una foga polemica degna di miglior causa, hanno citato, come rappresentative della posizione evoliana rispetto all’Islam, queste parole:lo stesso cattolicesimo (…) è una dottrina inconsciamente tragica, una dottrina quasi diremmo da disperati (il protestantesimo e l’islamismo lo sono ancora di più). (53)A onor del vero bisogna dire che questo brano, estratto dall’edizione del 1949 di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, venne eliminato dalla successiva edizione del 1971: evidentemente l’Autore si era reso conto che la frase non corrispondeva al suo pensiero. Sicuramente la frase non corrispondeva all’opinione evoliana dell’Islam. Infatti, come si è potuto dedurre dai passi riportati più sopra, Evola traccia un quadro della tradizione islamica che, se è talvolta inesatto in qualche particolare ed è spesso condizionato da una prospettiva piuttosto personale, costituisce tuttavia una rappresentazione ispirata al riconoscimento di ciò che è essenzialmente l’Islam: una manifestazione dello spirito tradizionale da cui non può prescindere la “rivolta contro il mondo moderno”.


(1) Gejdar Dzemal (n. 1947) ha pubblicato in italiano Tawhid. Prospettive dell’Islam nell’ex URSS, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1993. La videocassetta che riproduce la trasmissione di G. Dzemal su Julius Evola è distribuita dalle Edizioni all’insegna del Veltro. Su G. Dzemal, Michel Schneider ha scritto („Nationalisme et République“, 18 settembre 1992) : “Parla il francese come i nostri figli non lo parlano più; altrettanto perfettamente padroneggia il tedesco. Vi può citare, a richiesta, i titoli dei romanzi di Anatole France. Quest’uomo ha la personalità fortissima dei geni… Con facilità e proprietà di linguaggio parla di Islam, di Dio, di metafisica. Dotato di un’intelligenza fuori dal comune e di una presenza fisica imponente, sa recitare su tutti i registri…” Da parte nostra aggiungeremo che Gejdar Dzemal parla anche l’arabo, il persiano e il turco; che conosce i film di Fellini e sa cantare in perfetto italiano le canzoni dello squadrismo fascista. Quanto ai libri di Evola, Dzemal li poté leggere durante il periodo comunista, accedendo con un documento contraffatto al reparto riservato della Biblioteca Lenin di Mosca in cui veniva custodita la “letteratura proibita”.
(2) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Milano 1951, p. 324.
(3) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 323.
(4) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 323-324.
(5) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 324.
(6) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 171-172. Cfr. anche J. Evola, La dottrina aria di lotta e vittoria, Padova 1970, p. 15, dove l’idea del jihâd è vista come il “rinascimento di una eredità aria primordiale”, sicché “la tradizione islamica sta qui al posto della ario-iranica”.
(7) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 172-173. Cfr. anche La dottrina aria di lotta e vittoria, cit., p. 16 e Diorama filosofico, Roma 1974, pp. 307-308.
(8) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 173-174.
(9) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 180. Cfr. Diorama filosofico, cit., p. 308, dove la seconda massima è data in una forma un po’ differente.
(10) J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 174.
(11)J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 193.
(12)Ibidem.
(13)Ibidem.
(14)J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 52-53.
(15)J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 59.
(16)J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 58.
(17)J. Evola, Il mistero del Graal, Milano 1962, p. 147.
(18)J. Evola, Il mistero del Graal, cit., pp. 147-148.
(19)J. Evola, Oriente e Occidente, Milano 1984, p. 212.
(20)Ibidem.
(21)J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Roma 1974, p. 50.
(22)Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, Roma 1971, vol. I, p. 71.
(23)Ibidem.
(24)Ibidem.
(25)J. Evola, L’arco e la clava, Milano 1968, p. 108.
(26)Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, cit., vol. III, p. 281.
(27)J. Evola, Metafisica del sesso, Roma 1969, p. 262.
(28)J. Evola, op. cit., p. 256.
(29)J. Evola, op. cit., p. 257.
(30)J. Evola, op. cit., p. 258.
(31)J. Evola, op. cit., p. 372.
(32)Ibidem.
(33)J. Evola, op. cit., p. 370.
(34)J. Evola, op. cit., p. 134. L’espressione è riportata anche in Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 191.
(35)J. Evola, Metafisica del sesso, cit., p. 134.
(36)M.M. Moreno, Antologia della mistica arabo-persiana, Bari 1951. Si tenga presente che la prima edizione di Metafisica del sesso è del 1958.
(37)J. Evola, op. cit., p. 293.
(38)J. Evola, op. cit., pp. 108-109 e 345.
(39)J. Evola, op. cit., p. 288.
(40)Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, cit., vol. I, pp. 396-397.
(41)Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, cit., vol. II, pp. 135-136 e 239.
(42)J. Evola, Il mistero del Graal, cit., p. 173.
(43)Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, vol. II, pp. 245-278.
(44)J. Evola, La tradizione ermetica, Roma 1971, p. 8.
(45)J. Evola, René Guénon e il “Tradizionalismo integrale”, “La Destra”, a. III, n. 4, aprile 1973, p. 22.
(46)J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, cit., p. 212.
(47)J. Evola, I centri iniziatici e la storia, “Vie della Tradizione”, a. I, n. 3, luglio-settembre 1971, p. 120; inserito come cap. XVII nella seconda edizione di L’arco e la clava, Milano 1971, pp. 227-228.
(48)J. Evola, L’arco e la clava, sec. ed., p. 228.
(49)Ibidem.
(50)J. Evola, Il cammino del cinabro, Milano 1963, p. 225. Lo “scambio d’idee” col Burckhardt risale dunque a una data anteriore al 1963.
(51)Ibidem.
(52)Evola infatti aveva esattamente scritto: “Il punto di vista realistico che ho creduto di dover assumere in Cavalcare la tigre mi ha portato, ultimamente, a qualche scontro polemico con ambienti che ancora nutrono delle illusioni (sottolineatura nostra, n.d.r.) sulle possibilità offerte dai ‘residui tradizionali’ esistenti nel mondo d’oggi” (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., ibidem).
(53)J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Bari 1949, p. 131.

Scritto e pubblicato su www.claudiomutti da Claudio Mutti il 13.10.2005.

Islam and Evola



Islam in the eyes of Julius Evola [inglese]


The auspicious reception of Evola’s works in the Islamic world probably dates back to the early 1990’s, when the Muslim nationalist philosopher Gedjar Dzemal (1), founder of the Party for Islamic Renaissance, supplied the first channel on Russian television with a transmission devoted to Julius Evola. In 1993, Revolt against the modern world was evoked, in an interview published in issue n.77 of “Éléments,” by another Muslim intellectual: the Algerian Rachid Benaissa, disciple and heir of that maître à penser of the “Islamic Renaissance” who was Malek Bennabi. In 1994, due to the initiative of a professor in Islamic theology at the University of Marmara, Insan, a publisher from Istanbul, published a book titled Modern Dünyaya Baçkaldïrï, namely the Turkish translation of Revolt against the modern world. The editorial presentation made express reference to René Guénon, an author two works of whom appeared the same year in Turkish, The crisis of the modern world (Modern Dünyanin Bunalimi, Agac, Istanbul) and The reign of quantity and the signs of the times (Niceligin egemenligi ve çagin alâmetleri, Iz, Istanbul).If Julius Evola’s name is not unknown in the Islamic world, what was Evola’s breadth of knowledge of Islam?The portrayal of Islam in Revolt against the modern world occupies but a few pages, but presents with sufficient depth the aspects of Islam that, from the Evolian perspective, allow it to be characterised as “a tradition at a higher level than both Judaism and the religious beliefs that conquered the West,” (RMM 245) that is to say, Christianity. In the first place, Evola points out that Islamic symbolism clearly indicates a direct connection of this tradition to the Primordial tradition itself, such that Islam is independent from both Judaism and Christianity, religions whose characteristic themes he rejects (original sin, redemption, sacerdotal meditation, etc.) Again in Revolt against the modern world one can read: “As in the case of priestly Judaism, the center in Islam also consisted of the Law and Tradition, regarded as the formative force, to which the Arab stocks of the origins provided a purer and nobler human material that was shaped by a warrior spirit. The Islamic law (shariah) is a divine law; its foundation, the Koran, is thought of as God’s very own word (kalam Allah) as well as a nonhuman work and an “uncreated book” that exists in heaven ab eterno. Although Islam considers itself the “religion of Abraham,” even to the point of attributing to him the foundation of the Kaaba (in which we find again the theme of the “stone,” or the symbol of the “center”), it is nevertheless true that (a) it claimed independence from both Judaism and Christianity; (b) the Kaaba, with its symbolism of the center, is a pre-Islamic location and has even older origins that cannot be dated accurately; (c) in the esoteric Islamic tradition, the main reference point is al-Khadir, a popular figure conceived as superior to and predating the biblical prophets (Koran 18:59-81). Islam rejects a theme found in Judaism and that in Christianity became the dogma of the basis of the mystery of the incarnation of the Logos; it retains, sensibly attenuated, the myth of Adam’s fall without building upon it the theme of “original sin.” In this doctrine Islam saw a “diabolical illusion” (talbis Iblis) or the inverted theme of the fall of Satan (Iblis or Shaitan), which the Koran (18:48) attributed to his refusal, together with all the angels, to bow down before Adam. Islam also not only rejected the idea of a Redeemer or Saviour, which is so central in Christianity, but also the mediation of a priestly caste” (RMM 244).Absolute purity of the doctrine of Unity, exempt from every trace of anthropomorphism and polytheism, integration of every domain of existence in a ritual order, ascesis of action through jihad, ability to model a “race of the spirit”: these are, respectively, the aspects in Islam that retain Evola’s attention. He writes:“By conceiving of the Divine in terms of an absolute and pure monotheism, without a “Son,” a “Father,” or a “Mother of God,” every person as a Muslim appears to respond directly to God and to be sanctified through the Law, which permeates and organizes life in a radically unitary way in all of its juridical, religious and social ramifications. In early Islam the only form of asceticism was action, that is, jihad, or “holy war”; this type of war, at least theoretically, should never be interrupted until the full consolidation of the divine Law has been achieved. It is precisely through the holy war, and not through preaching or missionary endeavour, that Islam came to enjoy a sudden, prodigious expansion, originating the empire of the Caliphs as well as forging a unity typical of a race of the spirit, namely, the umma or “Islamic nation”” (RMM 244).Finally, Islam, Evola points out, is a complete traditional form, in the sense that it is endowed with a living and operational esoterism that can provide those who possess the necessary qualifications the means to attain a spiritual realisation that goes beyond the exoteric goal of “salvation”: “Finally, Islam presents a traditional completeness, since the shariah and the sunna, that is, the exoteric law and tradition, have their complement not in a vague mysticism, but in full-fledged initiatory organisations (turuq) that are characterised by an esoteric teaching (tawil) and by the metaphysical doctrine of the Supreme Identity (tawhid). In these organizations, and in general in the shia, the recurrent notions of the masum, of the double prerogative of the isma (doctrinal infallibility), and of the impossibility of being stained by any sin (which is the prerogative of the leaders, the visible and invisible Imams and, the mujtahid) lead back to the line of an unbroken race shaped by a tradition at a higher level than both Judaism and the religious beliefs that conquered the West” (RMM 244-245).Of all these themes, the one to which Julius Evola, given his “personal equation”, is most directly receptive, is obviously the theme of action, sacralised action. Evola’s gaze is thus fixed on the notion of jihad and on its double-application, in conformity to the famous hadith of the Prophet: “Raja'nâ min al-jihâd al-açghar ilâ-l jihâd al akbar", that is to say: “You have returned from a lesser struggle to the greater struggle;” or, if we prefer: “from the lesser to the greater holy war.” That hadith, which provides the title for a chapter in Revolt against the modern world (“The Greater and the Lesser Holy War”), is additionally commented by Evola:“In the Islamic tradition a distinction is made between two holy wars, the “greater holy war” (el-jihadul-akbar) and the “lesser holy war” (el-jihadul-asghar). This distinction originated from a saying (hadith) of the Prophet, who on the way back from a military expedition said: “You have returned from a lesser holy war to the greater holy war.” The greater holy war is of an inner spiritual nature; the other is the material war waged externally against an enemy population with the particular intent of bringing “infidel” populations under the territory of “God’s Law” (dar al-Islam). The relationship between the “greater” and the “lesser holy war” , however, mirrors the relationship between the soul and the body; in order to understand the heroic asceticism or “path of action,” it is necessary to recognise the situation in which the two paths merge, “the lesser holy war” becoming the means through which “a greater holy war is carried out, and vice versa: the “little holy war,” or the external one, becomes almost a ritual action that expresses and gives witness to the reality of the first. Originally, orthodox Islam conceived a unitary form of asceticism: that which is connected to the jihad or “holy war.” The “greater holy war” is man’s struggle against the enemies he carries within. More exactly, it is the struggle of man’s higher principle against everything that is merely human in him, against his inferior nature and against chaotic impulses and all sorts of material attachments” (RMM 118).Elsewhere, Evola sees in the idea of jihad a “late rebirth of a primordial Aryan heritage,” such that “the Islamic tradition serves here as the transmitter of the Aryo-Iranian tradition” (MW 96).The Islamic doctrine of the lesser and of the greater “holy war” occupies in Evola’s work a privileged position and acquires a paradigmatic value; it exemplifies, in fact, and represents the general conception that the world of Tradition attributes to the warrior experience, and, generally speaking, to action as a path to realisation. The teachings regarding the warrior action of various traditional milieus are thus considered in the light of their essential concurrence with the doctrine of jihad and are exposed through a notion that is also of Islamic derivation: the notion of “Allah’s way” (sabil Allah).“In the world of traditional warrior asceticism the “lesser holy war,” namely, the external war, is indicated and even prescribed as the means to wage this “greater holy war”; thus in Islam the expressions “holy war” (jihad) and “Allah’s way” are often used interchangeably. In this order of ideas action exercises the rigorous function and task of a sacrificial and purifying ritual. The external vicissitudes experienced during a military campaign cause the inner “enemy” to emerge and to put up a fierce resistance and a good fight in the form of the animalistic instincts of self-preservation, fear, inertia, compassion, or other passions; those who engage in battles must overcome these feelings by the time they enter the battlefield if they wish to win and to defeat the out enemy of the “infidel.”Obviously the spiritual orientation and the “right intention” (niyya), that is, the one toward transcendence (the symbols employed to refer to transcendence are “heaven,” “paradise,” “Allah’s gardens” and so on), are presupposed as the foundations of jihad, lest war lose its sacred character and degenerate into a wild affair in which true heroism is replaced with reckless abandonment and what counts are unleashed impulses of the animalistic nature” (RMM 118-119).Evola refers to an entire series of Koranic passages (from Luigi Bonelli’s Italian translation, which he slightly modifies) related to the ideas of jihad and “Allah’s way” (RMM 119-120): 4:76; 47:4; 47:37; 47:38; 9:38; 9:52; 2:216; 9:88-89; 47:5-7. Moreover, he cites two maxims to illustrate these ideas: “Paradise lies under the shade of the swords” and “The blood of the heroes is closer to God than the ink of the philosophers and the prayers of the faithful” (RMM, 125; cf. DF, 308). However, if the former saying is effectively a hadith, the latter, extracted perhaps from some dubious Orientalist study, is poles apart with the hadith, cited by Suyuti in his Al-jami’ al-saghir, which literally says: “On the day of Last Judgment, the savants’ ink will be weighed with the blood of martyrs, who gave their lives for the sake of Allah, and the ink will weigh heavier.”Before passing on to the exegesis on the doctrine of “holy war” in non-Islamic traditional milieus (especially India and medieval Christendom), Evola makes an analogy between the death of the mujahid and the mors triomphalis of the Roman tradition (RMM 120); this theme is again taken up later, when the significance of “immortalisation” attributed to the warrior’s victory by certain European traditions is measured with “the Islamic idea according to which the warriors slain in a ‘holy war’ (jihad) have never really died” (RMM 137). A Koranic verse is cited to illustrate this: “Do not say that those who were slain in the cause of Allah are dead; they are alive, although you are not aware of them” (Koran 2:153). The specific parallel to this is also found in Plato (Republic, 468c), whom Evola cites: “And of those who are slain in the field, we shall say that all who fell with honour are of that golden race, who when they die, according to Hesiod, ‘Dwell here on earth, pure spirits, beneficent, Guardians to shield us mortal men from harm’” (RMM 137).In Revolt against the modern world, another subject allows Evola to make certain references to the Islamic doctrine: that of the chapter “The Law, the State, the Empire”. Noting that “up to and including medieval civilisation, rebellion against authority and the imperial law was considered as serious a crime as religious heresy and that the rebels were considered just like heretics, namely, as free enemies of their own natures and as beings who contradict the law of their very own being” (RMM 21-22), Evola mentions an analogous concept in Islam and refers the reader to the 4th Koranic surat, v. III. Another link is then drawn between, on the one hand, the Romano-Byzantine concept that opposes law and the pax of the imperial ecumenism to the barbarian’s naturalism, while affirming the universality of its right, and, on the other hand, the Islamic doctrine, in which Evola notes can be found “the geographical distinction between Dar al-Islam, or ‘Land of Islam,’ ruled by divine laws, and Dar al-Harb, or ‘Land of War,’ the inhabitants of which must be brought into Dar al-Islam by means of jihad or ‘holy war’” (RMM 27).In the same chapter, evoking the imperial function of Alexander the Great, conqueror of the peoples of Gog and Magog, Evola refers to the Koranic figure of Dhul-Qarnain, generally identified to Alexander, and to what is said in the 18th surat of the Koran (RMM 26).-2-The analogies existing between certain aspects of Islam and elements corresponding to other traditional forms are also mentioned in The Mystery of the Grail; but whereas Revolt against the modern world deals with purely doctrinal parallels – comparing to Islam traditional forms that never came in contact with the Islamic world – in the essay on the “imperial Ghibelline idea,” the similarities between Islam and the Templars are, on the contrary, brought in the concrete historical framework of the relations maintained by representatives of Christian esotericism and Islamic esotericism. For instance, in the following passage: “Moreover, the Templars were charged with keeping secret liaisons with Muslims and being closer to the Islamic faith than to the Christian one. This last charge is probably best understood by remembering that Islam too is characterised by the rejection of Christ worship. The “secret liaisons” allude to a perspective that is less sectarian, more universal, and thus more esoteric than that of militant Christianity. The Crusades, in which the Templars and in general the Ghibelline chivalry played a fundamental role, in many respects created a supra-traditional bridge West and East. The crusading knighthood ended up confronting a facsimile of itself, namely, warriors who abided by corresponding ethics, chivalrous customs, ideals of a “holy war,” and initiatory currents” (MG 130-131).This is followed by a summary description of what Evola inappropriately calls “the Arab Order of the Ismaelis”, namely the heterodox movement that was closely linked to the Templars: “Thus the Templars were the Christian equivalent of the Arab Order of the Ismaelis, who likewise regarded themselves as the “guardians of the Holy Land” (in an esoteric and symbolic sense), and who had two hierarchies, one official and one secret. Such an order, which had a double character, both warrior and religious, almost met the same fate as that of the Templars, and for analogous reasons: its initiatory character and its upholding an esotericism that despised the literal meaning of the sacred scriptures. In Ismaeli esotericism we find again the same theme of the Ghibelline imperial saga: the Islamic dogma of the “resurrection” (kiyama) is here interpreted as the new manifestation of the Supreme Leader (Mahdi), who became invisible during the so-called period of “absence” (ghayba). This is so because the Mahdi at one point disappeared, thus eluding death, leaving his followers under the obligation of swearing allegiance and obedience unto him as if he were Allah himself” (MG 131).Islamic esotericism is defined by Evola as a doctrine that goes as far as “recognising in man the condition in which the Absolute becomes conscious of itself, and that professes the doctrine of Supreme Identity” (OO 212), such that Islam constitutes “a clear and eloquent example of a system that, although including a strictly theistic domain, recognises a higher truth and path of realisation, the emotional and devotional elements, love and all the rest losing here (...) every “moral” signification, and every intrinsic value, acquiring only that of a technique among others” (OO 212).Indeed, Islamic esotericism, in the teachings of its masters and its universe of notions and symbols, offers Evola bases and references of some importance. Regarding symbols and notions, it is imperative to highlight the importance attributed to the polar function in Evola’s works. As he explains, in the “Near East” (to speak of the Islamic world would be more accurate), “the word qutb, ‘pole’, does not only designate the sovereign, but, more generally, he who dictates the law and is the head of tradition of a given historical period.” (R 50) (More precisely, the qutb, “the pole”, represents the peak of the initiatic hierarchy). However, an entire chapter in Revolt against the modern world, the third of the first section, rests on the idea of this traditional function and makes use precisely of the terms “pole” and “polar”. What is strange is that that chapter contains no explicit reference to the Islamic tradition, although the names of Islamic esoteric masters such as Ibn ‘Arabi, Hallaj, Rumi, Hafez, Ibn Ata’, Ibn Farid, and Attar are mentioned in several works by Evola.The first mention of Ibn ‘Arabi, al-shaykh al-akbar (= doctor maximus), appears in an unsigned glossary to Introduction to Magic, but which is certainly due to Evola: the case of Ibn ‘Arabi is cited to illustrate “the inversion of roles in relation to the state where, duality having been created, the divine image incarnating the superior I becomes to the mystic like a different being” (IaM, I, 71). To expand on this idea, Evola refers to the corresponding doctrine in Sufism:It is interesting to note that in Islamic esoterism there is a specific term to indicate that change: shath, which literally means “exchange of parts” and expresses the level at which the mystic absorbs the divine image, feels it as himself and feels himself, instead, as something else, and speaks as a function of that image. There are, in fact, in Islam, certain “sure signs” by which to distinguish the objective shath from a mere illusionary feeling in a person (IaM, I, 71).In addition, he recalls that “the end of Al-Hallaj, who is considered as one of the main masters of Islamic esotericism (Sufism),” was a consequence of his divulging the secret that is connected to the realisation of the highest condition. Evola returns to this point elsewhere in his work, writing:“In reality, if certain initiates with undoubted qualification were condemned and even at times killed (the most popular case being that of al-Hallaj in Islam), that is because they had ignored that rule (the rule of secrecy); it was therefore not a question of ‘heresy’, but of practical and pragmatic reasons. According to one saying: “The sage must not trouble with his wisdom the one who does not know” (AC 108).The other brief allusion to Ibn ‘Arabi found in Introduction to Magic is also due to Evola; in the text titled Esotericism and Christian mysticism and signed with the pseudonym ‘Ea’, he notes that what lacks in Christian asceticism, despite the discipline of silence, is “the practice of the most interiorised degree of this discipline, that does not only consist of putting an end to the spoken word, but also to thought (Ibn ‘Arabi’s notion of ‘not speaking with oneself’)” (IaM, III, 281).In Metaphysics of sex, having pointed out that Islam, “law destined for the person engaged in the world, not for the ascetic” (MS 262), does not hold “the idea of sexuality as something blameworthy and obscene” (MS 256), such that prior to sexual congress with woman man pronounces the ritual formula “Bismillah al-Rahman al-Rahim” (In the name of God, the All-Forgiving, the All-Merciful), Evola observes that Ibn ‘Arabi “goes so far as to speak of a contemplation of God in woman, of a ritualisation of the sexual orgasm in conformity with metaphysical and theological values” (MS 257). That is followed by two long citations from Fusus al-hikam (The Seals of Wisdom), from Titus Burckhardt’s translation, followed by this conclusion:“In this Sufistic (sic, editor’s note) theology of love, one must see the amplification and the elevation to a more lucid conscience of the ritual world with which man from that civilisation has more or less distinctly assumed and experienced conjugal relationships in general, starting from the sanctification which the Qur’anic Law confers to the sexual act in not only a monogamist, but also polygamist structure. Whence derives the special meaning which procreation can acquire, understood precisely as the administration of the prolongation of the divine creating force existing within man” (MS 258). Another passage of Fusus-al-hikam serves to illustrate, in Metaphysics of sex, the “key to Islamic technique” (MS 349), which consists of assuming “the dissolution through woman” as a symbol of the extinction in Divinity. Related to the same order of ideas is the significance of Gallus’ (pseud. of Enrico Galli Angelini) “Experience among the Arabs”, a text in Introduction to Magic from which Evola cites some certain extracts related to the “orgiastic practices for mystical ends (...) attested (...) in the Arabo-Persian world” (MS 372).In what Jalal ad-Din Rumi had to say on dance (“He who knows the power of the dance of life does not fear death, because he knows that love kills”) (MS 128), Evola distinguishes another “key” of Islamic initiatic techniques, “the key to the practices of a chain or school of Islamic mysticism that has been transmitted for centuries and which considers Jalal ad-Din Rumi as its master” (MS 370).In Arabo-Persian Sufi poetry, known to Evola through M.M. Moreno’s Antologia della mistica arabo-persiana (Laterza, Bari 1951), he discerns themes of a certain relevance to his “metaphysics of sex”: for instance, in applying masculine symbolism to the initiate’s soul, such that, as he writes, “divinity (...) is considered as a woman: she is not the “celestial bride”, but the “Beloved” or the “Lover”. That is, for instance, the case in Attar, Ibn Farid, Gelaleddin el-Rumi, etc” (MS 293 footnote 1).In Sufi poetry, Evola also finds the idea of love as a “force that kills” the individual self, an idea which he traces in Rumi (MS 108-109 and 345) and Ibn Farid (MS 288). An entire glossary in Introduction to Magic, which we think can be attributed to Evola, is dedicated to a characteristically Sufi technique, the dhikr. The correspondence between this Islamic technique, the Hindu mantra and the repetition of sacred names practised in Hesychasm is particularly underscored (IaM, I, 396-397). The glossary also mentions Al-Ghazzali, citing him in other pages that are surely attributable to Evola (IaM, II, 135-136 and 239). Even more fruitful was Evola’s encounter with Islamic Hermeticism: in fact, of all Muslim authors, the one most often cited by Evola is Geber, that is Jabir ibn Hayyan. Regarding the role played by the Islamic Hermetists, Evola writes:“Between the seventh and twelfth centuries it was known among the Arabs, who became the instruments of the revival, in the medieval West, of the older legacy of the pre-Christian wisdom tradition” (MG 150). In his special study on Hermetic tradition, Evola uses a very large number of citations taken from Islamic texts compiled by Barthelot and Manget. As we have said, he privileges Geber: but if we consider the mass of Geber’s corpus, this is not surprising; Razi is also mentioned and a number of anonymous books are cited, of which the famous Turba Philosophorum, translated into Italian in the second volume of Introduction to Magic. About the Turba Philosophorum, Evola says that it is “one of the oldest of western hermetic-alchemical texts” (HT 8); in reality, in 1931, the year the first edition of The Hermetic Tradition was published, J. Ruska indisputably demonstrated the Arabic origin of the text in question. -3-As is known, a large part of Evola’s work is based on certain traditional teachings that were made widely accessible by the writings of René Guénon. Evola thus owed a great deal to the latter’s works, from which he took up concepts and adapted them to his own “personal equation”. Even so, given Guénon’s belonging to Islam and the Islamic derivation of certain fundamental teachings in his work, it would not be irrelevant to consider what Evola wrote about Guénon’s integration in the Islamic tradition:“Guénon was convinced that certain depositaries of Tradition still survived, despite everything, in the East. Practically speaking, he had firsthand contacts with the Islamic world where initiatic chains (Sufi and Ismaeli) continued to exist parallel to the exoteric (i.e. religious) tradition. He then “Islamised” completely. Having settled in Egypt, he received the name of Sheikh Abdel Wahid Yasha (sic, editor’s note) and also the Egyptian nationality. He had a second marriage to an Arab” (R 210).“In Guénon’s case, this (initiatic) connecting must have been realised – as we’ve said before – through Islamic initiatic “chains.” But to people who do not want to turn themselves into Muslims and Orientals, Guénon’s personal path has very little to offer” (R 212).“Guénon’s case” therefore made Evola admit that there still exist, despite everything, possibilities of initiatic connection; furthermore, Evola affirms that, given the present conditions, the choice of Islam is practically necessary for those who are not satisfied with mere theory.“We can also mention an Islamic report proper to the Ismaeli initiatic current, more precisely to that of the so-called “Twelve-Imam.” The Imam, the supreme chief of the Order, manifestation of a superior power and the highest initiator, went into “occultation.” His reappearance is awaited, but the present epoch is that of his “absence.” “In our opinion, this does not mean that initiatic centres, strictly speaking, no longer exist. It is certain that some still exist, even if the West is not concerned here and that one would have to turn to the Islamic world and the East” (AC 227).We take this opportunity to note that Evola probably mistook the Twelver-Imam Shi’a movement as a particular branch of the Ismaeli movement, and such an oversight would be truly excessive, especially coming from an “insider”. In the same way, Evola seems to think that the Imam is “the supreme chief of the Order” as much in the Ismaeli perspective as in that of the “so-called Twelver-Imam”; and this would also be a significant inaccuracy, since for the Twelver-Imam Shi’a, the Imam, as a successor of the Prophet, is not only the supreme chief of an Order, but of the entire community. Nonetheless, that is of importance here. What matters, rather, is that according to Evola an initiatic connection in the present epoch is still possible, provided one turns “to the Islamic world and the East.” In the same context, Evola raises a problem regarding the relationship existing between initiatic centres and the course of history: “The course of history is generally interpreted as an involution and dissolution. But what is the position of initiatic centres with respect to the forces that operate in that direction?” (AC 228)This problem obviously implies Islam, as Evola writes:“For instance, though it is certain that initiatic organisations exist in the Islamic world (those of the Sufis), their presence has been far from stopping the “evolution” of Arab countries in an anti-traditional, progressist, and modernist direction, with all its inevitable consequences” (AC 228).This question was raised by Evola as part of an exchange of ideas with Titus Burckhardt (1), a well-known Swiss scholar who had associated with Islamic esotericism and resided in an Islamic country, and who, with full knowledge of the facts, “had remarked that possibilities of this type (that is to say, of an initiatic connection) survived in non-European regions” (CC 204). We do not know if, and how, the Swiss writer replied to Evola’s objections; in any case, it may be said, first of all, that the “Arab countries”, with which Evola seems to identify the “land of Islam”, in reality constitute but one tenth of the Islamic world, and therefore that it would not be accurate to make their “evolution” coincide with the development of the general condition of the Islamic ummah. Secondly – and, today, we are in a better position to observe this than during Evola’s time – an “Islamic awakening” that has been taking ground in some Arab countries seems to be announcing a radical change of orientation. Finally, even when the “(Sufi) initiatic centres” do not oppose, by their action, the process of general involution, it is not justified to claim that their function is illusionary (2). In fact, connection to initiatic centres – from which proceeds every regular transmission of spiritual influences – constitutes the only possible solution for whoever considers reacting to the degenerative course of the modern world: an unavoidable course, since it is bound to the precise cyclic laws that govern manifestation. It is the function of connection to an initiatic centre – and through it to the supreme centre – to ensure the continuity of transmission of spiritual influences for the entire period of the present human cycle, and thus to allow participation to the Spirit realm until the closure of the cycle. From such a perspective, the involution process appears as illusionary: in fact, it concerns but manifestation – which, given its fundamentally contingent character, represents absolutely nothing with respect to the Absolute.

(1) ‘Il cammino del cinabro’ was published in 1963. The “exchange of ideas” with Burckhardt thus necessarily dates back earlier than 1963.

(2) Evola, in fact, wrote exactly: “The realistic point of view which I thought necessary to assume in ‘Ride the Tiger’ led me, eventually, to some polemical exchanges with milieus which still delude themselves about the possibilities offered by the “traditional residues” existing in the world today” (CC 203).

Abbreviations of the works by Julius Evola cited in the text:

AC = L’arco e la clava (Milano, Scheiwiller, 1971) CC = Il cammino del cinabro (Scheiwiller, Milano, 1963)

HM = The Hermetic Tradition (Inner Traditions, Vermont, 1994)

IaM = Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur. (Mediterrane, Roma, 1971)

MG = The Mystery of the Grail (Inner Traditions, Vermont, 1997)

MS = Metafisica del sesso (Edizioni Mediterranee, Roma 1969)

MW = Metaphysics of War (Integral Tradition Publishing, 2007)OO = Oriente e Occidente (La Queste, Milano, 1984)

R = Ricognizioni. Uomini e problemi (Mediterrane, Roma, 1974)

RMM = Revolt against the Modern World (Inner Traditions, Vermont, 1995)


Scritto da Claudio Mutti e pubblicato su www.claudiomutti.com lo 02.11.2007
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