martedì 31 agosto 2010

Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo


La Libia, parte della Nazione Araba e del mondo islamico    

Per quanto la Libia faccia parte del Maghreb, ossia dell'”Occidente” arabo, assieme alla Tunisia, all'Algeria ed al Marocco, la sua posizione risulta tuttavia periferica rispetto ad esso; anzi, come si può leggere in una tesi di diploma in Scienze politiche presentata dieci anni fa all'Università di Toulouse (1), "la Libia è integrata nel Maghreb, tuttavia la frequenza e la continuità dei suoi rapporti politici con il Mashreq [l'”Oriente” arabo, quello che dalla Siria e dalla Mesopotamia si estende a tutta la penisola arabica] la portano ad essere parte attiva del Mashreq". E al Mashreq la Libia apparterrebbe anche per via del ruolo che essa riveste nell'intreccio delle relazioni interne al mondo arabo. Anche il geografo egiziano Gamâl Hamdân considera la Libia come un paese che solo sotto il profilo antropologico e culturale può esser detto maghrebino, mentre rientra nell'ambito del Mashreq per quanto concerne le caratteristiche naturali (geologia, rilievi,clima). "La Libia - scrive Hamdân - continua ad essere l'ingresso del Maghreb e la porta del Mashreq" (2). Secondo altri ancora, la Libia apparterrebbe, con l'Egitto e con il Sudan, alla "regione del centro" (al-iqlîm al-wasat), cioè alla regione della valle del Nilo, che risulta centrale in quanto situata tra il Maghreb propriamente detto e la parte di mondo arabo situata nel Vicino Oriente.
Insomma, in ogni caso la Libia occupa una posizione centrale tra i due insiemi subregionali arabi, il Maghreb e il Mashreq, ragion per cui essa si configura come un elemento di unione tra le due ali - occidentale e orientale - del mondo arabo.
La consapevolezza geopolitica di questa posizione, nonché dell'importanza geostrategica ad essa collegata, emerge in maniera chiarissima nei discorsi di Gheddafi, il quale parla della Libia, con le sue "mille miglia di litorale mediterraneo", come di una "testa di ponte" del mondo arabo e dichiara: "L'importanza strategica della Libia non è venuta meno in conseguenza del fatto che la rivoluzione ha smantellato le basi inglesi e americane, poiché la Libia continua ad essere di enorme importanza strategica per gli Stati occidentali in caso di conflitto internazionale e per il dominio del Mare Mediterraneo dallo stretto di Gibilterra al canale di Suez. (...) La posizione della Libia è fondamentale per chi intenda esercitare un controllo sul Mediterraneo e sul Nordafrica, di cui la Libia rappresenta l'antemurale" (3).
Paese centrale del mondo arabo, nei primi anni seguiti alla rivoluzione del 1° Settembre 1969 la Libia si è proposta come centro propulsore dell'unità araba. "La Nazione Araba è un'unica nazione", dichiara Gheddafi il 28 marzo 1972 alla prima conferenza nazionale generale dell'Unione Socialista Araba.
L'Unione Socialista Araba, per citare le parole pronunciate dallo stesso Gheddafi il 28 marzo 1972, si ispira a "una dottrina d'avanguardia (...) che è stata applicata prima dall'Egitto, poi dalla Repubblica Araba Libica e dalla Repubblica del Sudan". In tal modo la rivoluzione del 1° Settembre 1969 veniva esplicitamente ricondotta ad una matrice nasseriana; d'altronde nel giugno del 1970 il Raìs Gamâl ‘Abd en-Nâser si era recato in Libia e aveva detto, congedandosi dal popolo di Bengasi: "Sento che la Nazione Araba si riconosce in voi ed ha ritrovato la sua determinazione. Io vi lascio dicendo: 'Il mio fratello Mu‘ammar al-Qadhdhâfî è il depositario del nazionalismo arabo, della rivoluzione araba e dell'unità araba'. Cari fratelli, che Iddio vegli su di voi per il bene della Nazione Araba. Che possiate passare di vittoria in vittoria, poiché le vostre vittorie saranno la vittoria dell'intera Nazione Araba".
L'idea dell'unità della Nazione Araba, fondamento del programma panarabo che ‘Abd en-Nâser aveva lasciato in eredità a Gheddafi, viene proclamata in maniera esplicita nei discorsi pronunciati da Gheddafi nella fase iniziale della sua attività di capo politico e teorico di una "terza via" ugualmente distante dalla democrazia capitalista e dal socialismo marxista.
In una lunga intervista del 1974 (4) Gheddafi assegnava alla Nazione Araba la missione storica di "lanciare l'appello all'Islam". Riconoscendo come cosa ovvia che "il Corano non appartiene solamente alla Nazione Araba", Gheddafi affermava che era compito del nazionalismo panarabo rivitalizzare tutto quanto il mondo islamico, arabo e non arabo, a vantaggio del Terzo Mondo e dell'intero genere umano. "L'appello al nazionalismo arabo - diceva testualmente - si identifica con l'appello alla potenza dell'Islam".
In tal modo Gheddafi si contrapponeva a tutti quei modernisti del mondo musulmano che, a partire dai primi anni del Novecento, avevano affermato, in maniera più o meno velata, che l'Islam aveva addormentato il mondo arabo col fatalismo, rendendolo incapace di affrontare le sfide dei tempi nuovi e causandone la decadenza. Gheddafi sosteneva una veduta diametralmente opposta: il mondo arabo era decaduto, sprofondando nell'ignavia, nell'impotenza e nella divisione, proprio perché aveva abbandonato l'Islam. "L'Islam - dice Gheddafi - è la religione che procurò ai nostri antenati la gloria dei loro tempi. (...) Ciononostante, alcuni disprezzano tutto quanto è arabo e musulmano. (...) Noi dobbiamo ritornare alle nostre radici originarie, dobbiamo incamminarci di nuovo sul retto sentiero".
Nei discorsi degli anni Settanta, Gheddafi interviene più volte sull'importanza fondamentale della religione. "La religione - dice - è un fatto basilare nella vita umana e la stabilità dell'uomo riposa sulla religione". E ancora, in una conferenza stampa del 13 maggio 1973: "Non si può immaginare un uomo senza religione, poiché un uomo del genere sarebbe un idolatra. Noi abbiamo, grazie a Dio, una religione celeste e non adoriamo né un idolo, né un pupazzo di paglia, né un Dollaro, né una macchina".
Dell'Islam, in particolare, Gheddafi dice: "L'Islam prepara l'uomo a vivere sulla terra e dopo la morte fisica. Perciò i cittadini arabi devono aderire al concetto di giustizia, al fine di mantenersi sempre sul retto sentiero. L'Arabo deve restare fedele agl'insegnamenti dell'Islam, che sono idonei a guidare l'uomo sia su questa terra sia dopo la morte. Tali insegnamenti sono quelli che Dio ci ha trasmessi attraverso il Suo ultimo Messaggero, Muhammad (benedizione e pace su di lui)". Gheddafi ribadisce inoltre la validità perenne del Corano, quindi la sua attualità: "Non ha nessuna importanza - dice - che il Corano sia stato rivelato al Profeta Muhammad (benedizione e pace su di lui) quattordici secoli or sono, poiché il Corano non è una teoria umana, ma sta al di là dello spazio e del tempo".
Infine riafferma il concetto islamico del dîn wa dawla, cioè dell'unità inscindibile di religione e politica, respingendo il principio dello Stato laico. "Nell'Islam - dice - non c'è nessuna separazione fra religione e politica. La separazione fra Stato e religione è d'origine occidentale. L'Islam non conosce una tale separazione".
Da questa proclamata adesione alla tradizione islamica nasce la "rivoluzione culturale" libica, proclamata il 16 aprile 1973. Di "rivoluzione culturale", Gheddafi aveva già parlato il 19 dicembre 1971, nel discorso pronunciato nella moschea principale di Tripoli. "La rivoluzione culturale - aveva detto - non è affatto venuta dalla Cina. L'Islam la ha preconizzata da secoli. Noi dobbiamo orientarci verso una rivoluzione spirituale e culturale, una rivoluzione che avvenga all'interno di noi stessi, in modo che ciascuno di noi possa incamminarsi sul retto sentiero". Il 13 maggio 1973 definirà la rivoluzione culturale libica come "una depurazione dello spirito arabo".
L'obiettivo della rivoluzione culturale doveva consistere, secondo le parole dello stesso Gheddafi, nel respingere tutte le ideologie d'importazione, per recuperare l'identità culturale specifica della Nazione Araba, che è intimamente legata all'Islam. In una conferenza stampa tenuta il 13 maggio 1973, Gheddafi dice: "Noi non inventiamo nulla di nuovo, ma semplicemente ritorniamo alla nostra autenticità, alla nostra identità e alle nostra vera visione del mondo, operando in tal modo un ritorno alle origini".
Cito testualmente alcuni brani del discorso del 16 aprile 1973. "Dovrà prevalere la dottrina veridica, che è quella che emerge dal Sacro Corano. Dovrà esserci spazio soltanto per quelle idee in cui si manifestano il vero arabismo, il vero Islam, così come esso fu originariamente rivelato da Dio. Quanto alle concezioni travianti e sospette importate dall'Est e dall'Ovest, concezioni settarie e reazionarie, esse dovranno venire spazzate via, poiché sono contraddittorie nella loro essenza. Dovrà prevalere soltanto il pensiero che emerge dal Libro di Dio, autentica espressione di Islam, di arabismo, di umanità, di socialismo e di progresso. (...) Noi siamo contro il capitalismo e il comunismo; basta con la putrida ideologia del capitalismo, basta col marxismo ingannatore (...) Fra noi non c'è nessuno spazio per i settari che vogliono dominare il popolo attraverso il loro partito. (...) Mai più questo popolo dovrà avere bisogno di partiti o di un demagogo che sventoli ipocritamente la bandiera del Vangelo, del Corano o di credi e ideologie capitaliste, comuniste e simili. Il popolo è stanco delle teorie di destra e di sinistra; esso ha un bisogno spaventoso di infrangere le sue catene per dare via libera alla propria volontà. (...) La libertà non deve essere monopolizzata da una classe in nome del popolo. Nemico è chi reclama la libertà per se stesso, per la sua famiglia, per la sua cricca o per gli affiliati al suo partito: un tale nemico deve essere annientato. Non ci deve essere spazio, nella nostra società, per gli iscritti di alcun partito, né per corrotti capitalisti o reazionari (...) Non ci deve essere posto per l'ipocrita, l'opportunista, il regionalista, il separatista, il membro di un partito corrotto" (5).

Dal panarabismo al panafricanismo
Consapevole del fatto che un paese con le dimensioni territoriali e demografiche della Libia può garantire stabilmente la propria libertà dal dominio straniero solamente integrandosi in una più vasta unità geopolitica, Gheddafi ha perseguito con ammirevole perseveranza il disegno dell'unificazione politica con altri paesi che condividono con la Libia l'identità araba e islamica. Nel 1972 il governo di Tripoli stipulò con quelli del Cairo e di Damasco un accordo che avrebbe dovuto realizzare una Federazione delle Repubbliche Arabe comprendente Libia, Egitto e Siria. In particolare, la Libia avviò con l'Egitto una serie di negoziati intesi ad accelerare l'unione politica tra i due paesi. Nei quindici anni successivi furono intrapresi analoghi tentativi nei confronti della Tunisia, del Ciad, del Marocco, dell'Algeria e del Sudan, ma nessuno di essi approdò a buon fine. Nel 1989, un trattato siglato da Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania dava vita all'Unione del Maghreb; ma dopo qualche anno anche questo tentativo finì in un vicolo cieco.
Dai fallimenti con cui si sono puntualmente conclusi tutti questi tentativi e dall'inettitudine delle classi politiche arabe a dare risposte chiare sulla Palestina e sull'Iraq, Gheddafi ha tratto conclusioni molto pessimistiche per quanto riguarda le istituzioni del mondo arabo. In un'intervista rilasciata nel 2002 alla televisione di Abu Dhabi, disse testualmente: "La Lega Araba non è altro che un giochetto per bambini, ed è bene ricordare che la Libia ha definitivamente rotto ogni legame con gli Arabi".
Gheddafi era ormai "Gheddafi l'Africano". " 'Gheddafi l'Africano' nasce ufficialmente nel 1999 a Sirte, con la firma del Patto istitutivo dell'Unione Africana, confermato due anni dopo nella stessa città; l'Unione Africana, passando per la comunità degli Stati sahel-sahariani, è praticamente farina del sacco di Gheddafi, passata al setaccio mentre s'infrangeva l'assedio ai suoi danni. Dalla Sirte al Capo, uno spazio sterminato in cui muoversi con maggior disinvoltura che in un mondo arabo infido e saturo di primedonne, proponendosi così come mediatore nei conflitti interafricani. Se non si tratta di una strategia estemporanea del colonnello, l'idea di unire il Continente Nero apre delle prospettive interessanti anche per l'Europa. E' qui il caso di accennare all'Eurafrica, una visione geopolitica frutto delle riflessioni coloniali italiane degli anni Trenta che, spogliata degli elementi più anacronistici, potrebbe essere aggiornata nell'interesse delle popolazioni dei due continenti, con la Libia di nuovo al centro della scena. Il vertice Africa-Europa tenutosi al Cairo il 3-4 aprile 2000 e quello dei capi di governo euro-africani che la Grecia [ha ospitato] nel 2003 sono un segnale che qualcosa in questa direzione si sta muovendo. Un fatto è innegabile: l'Africa ha restituito le luci della ribalta a Gheddafi" (6).
Tra il giugno e il luglio del 2007, nel corso di una visita ufficiale in alcune capitali africane, Gheddafi ha avanzato ripetutamente la proposta di intraprendere passi decisivi per gettare le basi di un'integrazione politica continentale. "Dobbiamo costruire un solo, potente governo africano, un esercito con due milioni di soldati, una moneta, un'identità africana, un passaporto africano. (...) L'Organizzazione dell'Unità Africana [organismo che ha preceduto l'Unione Africana] ha fallito, il consiglio dei ministri africani ha fallito, il parlamento africano è un parlamento inutile. (...) In Africa non siamo stati capaci di creare un governo unitario, né alcuno strumento che possa realizzare i nostri obiettivi. (...) Le masse popolari vogliono strade, ponti, sanità, istruzione, agricoltura, acqua ed elettricità. Come realizzare tutto ciò? Creando una vasta unione, ampi spazi, grandi mercati; anche l'Europa può assicurare la propria sopravvivenza solo grazie all'unione". Sul fenomeno migratorio: "Io vedo davanti a me dei giovani che vogliono andare in Europa transitando per la Libia. Perché volete andare in Europa? Dobbiamo decidere di vivere e morire nei nostri paesi. Tutto ciò deve finire, grazie alla creazione degli Stati Uniti d'Africa".
Nella politica africana della Libia, un ruolo particolare è stato assegnato al Portogallo, che viene considerato come il pilastro europeo per il dialogo con l'Unione Africana. Non a caso, Lisbona è una delle capitali europee in cui Gheddafi si è recato in visita ufficiale, circa un anno fa. La Libia non solo intende intensificare i suoi investimenti nel settore turistico e immobiliare portoghese; non solo si è accordata col Portogallo per dar vita a progetti congiunti nel settore petrolifero e petrolchimico. Una cosa particolarmente interessante è che la Libia intende utilizzare l'esperienza acquisita dai Portoghesi in Africa nel periodo coloniale, e ciò al fine di avviare progetti congiunti libico-portoghesi nel Continente Nero, soprattutto nei settori d'interesse comune (istruzione, sanità, infrastrutture, energia, turismo). Un ruolo analogo, a quanto pare, la Libia vorrebbe riservare alla Spagna.

Il Mediterraneo
Nel X secolo, il geografo arabo Ibn Hawkal, nell'opera Kitâb al-masâlik wa 'l-mamâlik (Il libro degli itinerari e dei regni) chiama il Mediterraneo Bahr ar-Rûm ("Mare dei Romani", cioè dei Bizantini e dei popoli dell'Europa cristiana); fino al XIX secolo, gli Arabi hanno indicato il Mediterraneo come Bahr ar-Rum, oppure come Bahr ash-Shâm ("Mare della Siria", vale a dire "della Siria e del Libano"). Nel 1848, in un'opera dello scrittore egiziano Refâ'at at-Tahtawî, Takhlîs al-ibrîz fi talkhîs Bârîs, (Raffinazione dell'oro puro nel resoconto da Parigi), compare una nuova definizione: al-Bahr al-Abyad al-Mutawassit, "Mare Bianco Intermedio". Questa denominazione araba vuole esprimere la medesima idea di centralità e di appartenenza comune che sta all'origine dell'aggettivo latino mediterraneus, -a, -um. Ci troviamo così di fronte ad un importante mutamento di prospettiva nella visione araba del Mediterraneo, che nell'Ottocento comincia ad essere considerato come un mare "che sta in mezzo" a due sponde e a due civiltà.
È stato detto che nella teoria e nella prassi politica degli Stati arabi la prospettiva mediterranea è assente e che solo paesi filoccidentali come la Tunisia di Burghiba e l'Egitto di Sadat hanno manifestato, in una certa misura, una visione mediterranea. Per spiegare questa renitenza araba a concepire una dimensione geopolitica mediterranea, sono state addotte due spiegazioni. Si è detto che i paesi arabi, essendo stati oggetto di una colonizzazione esercitata in parte da potenze mediterranee (Spagna, Francia, Italia) o comunque arrivate da nord attraverso il Mediterraneo (Inghilterra), hanno girato le spalle al Mediterraneo per riconfermare un'appartenenza continentale e un'identità culturale che li distinguessero dall'Europa. Insomma, pensarsi come mediterranei avrebbe significato, per gli Arabi, condividere una rappresentazione legata al passato coloniale. Non a caso i colonizzatori francesi dell'Algeria dicevano che "il Mediterraneo attraversa la Francia come la Senna attraversa Parigi"; e gl'Italiani, analogamente, che "la Libia è separata dall'Italia soltanto dal Mediterraneo, così come le due parti di Roma sono separate dal Tevere".
Gheddafi esprime una visione molto diversa, allorché dichiara testualmente: "La terra libica araba non è mai stata la quarta sponda dell'Italia, così come non sarà mai una parte dell'Europa" (7). Ma Gheddafi non si ferma qui. L'idea di una contrapposizione tra l'Europa e il mondo arabo viene superata dall'idea di un condominio euro-arabo del Mediterraneo, un condominio che deve essere esercitato soltanto dall'Europa e dai paesi arabi rivieraschi. "Il Mediterraneo - diceva Gheddafi una ventina d'anni fa - è un mare condiviso tra Arabi ed Europei. Quanto agli intrusi, questi lo devono abbandonare. (...) I sionisti sono degli intrusi e devono abbandonare questa regione, come pure sono degli intrusi gli americani, che devono andarsene dal Mediterraneo" (8). E ancora: "La Libia si è associata ai paesi che esigono che il Mediterraneo sia libero dalla presenza di flotte straniere, in modo che esso ridiventi un mare di pace al servizio di tutti i popoli rivieraschi" (9).

Non si può negare che Gheddafi sia stato coerente rispetto a queste dichiarazioni di oltre trent'anni fa. Nel 1995 ha rifiutato il partenariato euro-mediterraneo della Conferenza di Barcellona, perché vi era stato chiamato a partecipare lo "Stato d'Israele" e aderirvi avrebbe significato riconoscere l'occupazione della Palestina. Ancora nel luglio di quest'anno, si è pronunciato in maniera molto recisa contro la cosiddetta "Unione per il Mediterraneo" lanciata da Sarkozy. Il quale, come è noto, vorrebbe procedere all'istituzione di un partenariato euro-mediterraneo che coinvolgesse i 27 Stati membri dell'Unione Europea, quelli che aspirano ad entrarvi (Albania, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro), il Principato di Monaco, la Turchia, i Paesi arabi della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, fino alla Mauritania, nonché lo "Stato d'Israele". Ma l'Unione per il Mediterraneo, ideata da un presidente francese che ha seppellito il gollismo riportando la Francia nella NATO e la NATO in Francia, nascerebbe innervata dalle istituzioni e dalle infrastrutture militari di un'alleanza militare controllata dagli Stati Uniti.
Ebbene Gheddafi, nonostante il riavvicinamento della Libia agli Stati Uniti e nonostante l'accordo di cooperazione militare-industriale, culturale, scientifica e tecnica siglato un anno fa con la Francia (accordo che tra l'altro dovrebbe fornire alla Libia un reattore nucleare per trasformare l'acqua marina in acqua potabile), è stato molto duro nei confronti dell'iniziativa francese, individuando in essa un cavallo di Troia statunitense, con l'Europa ridotta, more solito, a un ruolo subalterno. Tra l'altro, la Libia condanna l'esclusione dell'Unione del Maghreb Arabo dal progetto di Unione del Mediterraneo e vorrebbe che fosse questo organismo unitario a rappresentare ufficialmente tutti i paesi del Maghreb nelle sedi internazionali. Una esplicita freddezza, d'altronde, e probabilmente per motivi analoghi, è stata manifestata anche dall'Algeria, nonché da un altro paese mediterraneo che si va lentamente e cautamente svincolando dalla tutela statunitense, cioè la Turchia.
Questa aspirazione alla libertà del Mediterraneo dall'intrusione straniera, con le acute tensioni che hanno contrapposto la Libia agli Stati Uniti, può contribuire a spiegare alcune passate dichiarazioni di Gheddafi che sono state intese come rivendicazioni territoriali su alcune isole dell'Italia o come tentativi di attizzarvi tendenze separatiste. "Io - diceva Gheddafi nel 1987 - sono un amico del popolo italiano e delle popolazioni di Lampedusa, della Sicilia e di Pantelleria, e mi auguro che queste isole siano indipendenti, a meno che lo Stato italiano non voglia offrire la Sicilia all'inferno americano. (...) Quanto a noi, auguriamo la pace al popolo della Sicilia, un popolo che per la sua sicurezza deve smantellare le basi americane sull'isola. Abbiamo bombardato Lampedusa con dei missili e abbiamo distrutto la stazione di telecomunicazioni appartenente alla Sesta Flotta americana perché Lampedusa è stata usata come base contro di noi". In effetti, gli USA bombardarono la Libia utilizzando Lampedusa: il coordinamento tra la Sesta Flotta e gli aerei dell'USAF decollati dall'Inghilterra venne effettuato per mezzo del sistema Beacon della base statunitense installata sull'isola.
Insomma, quelle che a volte sono sembrate rivendicazioni territoriali su alcune italiane, in realtà sono state il prodotto del rapporto conflittuale fra Libia e Stati Uniti. Come è stato fatto osservare qualche anno fa da un analista particolarmente informato, "leggendo al-Sigil al-qawmî notiamo che Gheddafi, ogni qualvolta parla dell'Italia o delle isole italiane, stabilisce un collegamento con la presenza americana o NATO sul territorio italiano. Considera insomma quelle isole come soggette all'occupazione 'atlantica' NATO" (10).
Si capisce perciò come la politica della Libia nei confronti dell'Italia non abbia potuto prescindere dalla presenza militare statunitense nella Penisola, presenza che a Tripoli viene percepita come una minaccia costante per la sicurezza libica. Come risposta a questa minaccia, Gheddafi ha dichiarato che, nel caso di un futuro scontro militare fra Libia e USA, la Libia non esiterà a bombardare le isole dell'Italia. "Il popolo della Sicilia, fratello ed amico, - disse testualmente nel 1986 - deve far smantellare le basi americane di cui l'isola è piena, basi che noi attaccheremo in caso di aggressione. (...) Agli abitanti di Lampedusa diciamo che distruggeremo totalmente l'isola in caso di aggressione americana contro di noi. Oppure siano loro, gli abitanti di Lampedusa, a costringere gli americani ad andarsene".
Al di là dei discorsi di questo tenore, lo scopo sostanziale di Gheddafi è di far in modo che il governo di Roma attenui la sua subordinazione nei confronti degli USA. Rientra in questa strategia anche la recente divulgazione, fatta da Gheddafi, del contenuto dell'articolo 4 del "Trattato di Amicizia, partenariato e cooperazione" siglato fra Italia e Libia. L'articolo 4 stabilisce che "Nel rispetto dei princìpi di legalità internazionale, l'Italia non userà o non consentirà l'uso dei propri territori nell'eventualità di un'aggressione contro la Libia" e che la Libia si impegna a fare altrettanto nei confronti dell'Italia. Gheddafi ha anche precisato che Tripoli ha chiesto all'Italia l'assicurazione che "né gli Stati Uniti né la NATO usino i territori italiani contro la Libia".
I contenuti del Trattato sono noti. L'Italia riconosce formalmente le sofferenze derivate alla popolazione libica dall'occupazione coloniale iniziata con l'impresa giolittiana del 1911 e proseguita fino al 1943 e si impegna a risarcire la Libia versandole 5 miliardi di dollari nei prossimi 25 anni. È quindi prevista una serie di investimenti italiani, grazie ai quali saranno portati a termine diversi progetti: la costruzione di una grande autostrada litoranea che ricalcherà la vecchia Via Balbia (la prima grande strada italiana in Africa, che unì la Tripolitania e la Cirenaica), la costruzione di numerose infrastrutture lungo il tragitto, la costruzione di due grandi ospedali, la predisposizione di un piano di miglioramento scolastico con borse di studio per studenti libici in Italia. Dietro tutto ciò vi sono ovviamente le grandi imprese edili ed energetiche; proprio l'anno scorso l'ENI ha ottenuto il rinnovo per 25 anni delle concessioni per l'estrazione di gas e petrolio. Altri lavori coinvolgeranno l'Impregilo e la Finmeccanica e perfino l'Università di Palermo, che ha instaurato rapporti con quella di Bengasi. Un passo avanti è stato fatto anche per la restituzione dei visti ai 20.000 coloni italiani espulsi dalla Libia. Infine, la guerra ai "mercanti di schiavi", da effettuare attraverso pattugliamenti congiunti italo-libici nel canale di Sicilia e l'intensificazione dei controlli, anche a mezzo radar, ai confini col Ciad, il Niger e il Sudan.
Non ci sarebbe nulla di cui scandalizzarsi per la clausola relativa ad un patto di non aggressione tra due Stati, anzi. E invece, da parte dell'opposizione parlamentare sono giunte richieste di chiarimenti ed esortazioni a non dimenticare che l'Italia è un paese membro dell'Alleanza Atlantica e della NATO. Alle perplessità espresse in Italia dal Partito Democratico hanno fatto immediatamente seguito alcuni avvertimenti mafiosi arrivati dall'altra sponda dell'Atlantico. Daniel Pipes, famigerato "falco" neocon e filosionista, ha subito messo in guardia il governo italiano a non indebolire il fronte occidentale. "Come Putin cerca di indurre i Paesi europei che più dipendono da petrolio e gas russi a prendere le distanze da noi [cioè dagli USA], così Gheddafi cerca di indurvi a stare dalla sua parte nel caso di un nuovo scontro con l'America. Avete firmato un accordo non solo commerciale ma politico".
Insomma, sembra di capire che i trattati sottoscritti dall'Italia nel 1949 e nel 1954 impediscano ai governi italiani di garantire che il territorio nazionale non venga utilizzato - dagli alleati della NATO o da uno di essi - per operazioni militari dirette contro la Libia. Tuttavia non mancano precedenti interessanti: nel 1986, quando gli USA, dopo le loro provocazioni nel Golfo della Sirte e l'abbattimento di due aerei libici, bombardarono Tripoli e Bengasi per vendicare un attentato attribuito ai Libici e causarono decine di vittime tra la popolazione civile libica, aerei FB-111 dell'USAF decollati dall'Inghilterra dovettero raddoppiare il percorso e la durata dei voli, perché la Francia e la Spagna, che pure aderivano al Patto Atlantico, avevano negato agli aerei statunitensi l'uso del loro spazio aereo. Non è escluso che Gheddafi, facendo cenno al contenuto dell'articolo 4 del recente Trattato, si riferisse al comportamento autonomo tenuto ventidue anni fa da Parigi e Madrid.
In maniera che potrà apparire paradossale e contraddittoria a chi attribuisca un valore sostanziale alle classificazioni basate sulle categorie parlamentari di "destra" e di "sinistra", firmando il Trattato con la Libia il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi ha preso un indirizzo che, fatte le dovute proporzioni, ricorda la politica mediterranea di alcuni uomini dei governi di centrosinistra: Moro, Andreotti, Craxi. In realtà, al di là di etichette che significano poco o nulla, il governo attuale ha ripreso una linea politica corrispondente alla posizione geografica di un Paese che, come il nostro, si trova letteralmente immerso nel Mediterraneo. D'altra parte, esiste per l'Italia la necessità di assicurarsi fonti di approvvigionamento energetico, per cui la politica italiana non dovrebbe prescindere da un oggettivo dato geografico: l'immediata vicinanza di due potenze energetiche quali l'Algeria per quanto riguarda il gas e la Libia per quanto riguarda il petrolio.
                                                               *************

1. A. Benantar, De l'existence d'un sous-système arabe, Université de Toulouse, 1998.
2. J. Hamdân, Al-jumhûrîyya al-'arabîyya al-lîbîyya: dirâsa fî 'l-jughrâfîyya al-siyâsîyya, (La Repubblica Araba Libica: studio di geografia politica), ‘Alam al-kutub, Il Cairo 1973, p. 104.
3. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu‘ammar al-Qadhdhâfî, (Registro
Nazionale, Dichiarazioni, discorsi e interviste del colonnello Muammar Gheddafi), volume annuo, n. 17, 1985- 1986, Centre Mondial des Études et Recherches du Livre Vert, Tripoli 1986, p. 961).
4. Kadhafi messager du désert, Biographie et entretiens par Mirella Bianco, Stock 1974; ed. it.
Mursia 1977.
5. Per i brani dei discorsi di Gheddafi, cfr. Gheddafi templare di Allah. La Rivoluzione Libica nei
Discorsi di Mo’ammar El-Gheddafi, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, Padova 1975.
6. Enrico Galoppini, Tripoli bel suol d'affari, "Limes", X, 5 (2002), p. 132.
7. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu'ammar al-Qadhdhâfî, cit., p. 949.
8. Al-sijil al-qawmî, Bayânât wa khutab wa ahâdîth al-'aqîd Mu'ammar al-Qadhdhâfî, cit., p. 948.
9. Kadhafi, messager du désert, Biographie et entretiens par Mirella Bianco, cit.
10. Africanus, Geopolitica di Gheddafi: realismo travestito da stravaganza, "Limes", 2/1994, p.
114).

Articolo di Claudio Mutti, tratto da http://www.claudiomutti.com/  31 Agosto 2010.

                                                               

sabato 28 agosto 2010

Lady ( Michele ) Renouf in Teheran

Invitata, senza preavviso, a tenere un discorso rivolto al Presidente Ahmadinejad e ai mille ospiti internazionali presenti alla sede presidenziale, a Teheran il 3 giugno 2010, il giorno dopo la conferenza a commemorazione dell’Imam Khomeini,
Lady (Michèle) Renouf ha voluto contribuire con le seguenti considerazioni.
(trascrizione tradotta dall’inglese)
Invited to give an impromptu address to President Ahmadinejad and a thousand international guests at the Presidential Headquarters in Teheran on 3rd June 2010, the day after the Commemoration Conference for Imam Khomeini,
Lady (Michèle) Renouf made the following comments.
(transcript below)

Eccellentissimo, Presidente – senza pari nella nostra epoca.
Ammirevoli ospiti, fortunati colleghi.

Most Excellent President – unparalleled in our time.
Our admirable hosts; and fellow lucky colleagues.

L’Imam Khomeini è il nostro modello di comportamento. E’ indubbiamente un modello di comportamento per l’Occidente, e il nostro dovere è senz’altro di far comprendere all’Occidente perché ciò sia vero. Alla domanda, che cos’è la giustizia?, l’Imam Khomeini risponde con un consiglio: “Chiedilo al Raziocinio di cui sei dotato, perché il Raziocinio è l’occhio della Giustizia.” L’Iran e l’Occidente condividono la tradizione dell’antica Grecia classica dell’approccio-vocazione scientifico: mentre l’Imam Khomeini l’ha sostenuto, l’Occidente è stato fuorviato; a causa del fenomeno che considero il linguaggio predatorio dell’inganno l’Occidente ha smarrito questa via. La tradizione classica greca si basa su Quattro Virtù inseparabili: la Temperanza, la Saggezza (accompagnata dall’approccio-vocazione scientifico), la Giustizia ed il Coraggio.
Imam Khomeini is our role model. Indeed he is a role model for the West, and it surely is our duty to make the West aware of why. For Imam Khomeini answers the question of what is Justice, to advise: “Ask your Reason, for Reason is the eye of Justice.” Iran and the West share the Ancient Classical Greek tradition of scientific attitude, which Imam Khomeini has sustained whilst the West has been led astray and fallen prey to what I call predatory ‘swindle-speak’. The Classical Greek tradition is based on the four inseparable Virtues, namely Temperance, Wisdom (with scientific attitude), Justice and Courage.

In questi due giorni mi è stata rivolta la domanda: delle qualità dell’Imam Khomeini, quale ammiro maggiormente?: se, sia per l’Iran che per l’Occidente, egli è un modello di comportamento è perché nutre tutte e quattro le Qualità virtuose, che, se scisse l’una dalla’altra, non valgono nulla. Perché, come lui ci dimostra, e come ci dimostra il Presidente Ahmadinejad – lui stesso un modello di comportamento, esemplificato nella Conferenza di Teheran del 2006, da lui voluta – “la verità storica va sostenuto con evidenze, e non emotivamente” [le parole appartengono all’ultimo vescovo cristiano coraggioso, Richard Williamson]: e, senza verità storica, non ci sarà giustizia internazionale.
In the last two days I have been asked which quality I most admire in Imam Khomeini, yet the reason why he is a role model for both Iran and the West is because he sustains all four Virtuous qualities which are useless if separated. For, as he and President Ahmadinejad - himself a role model as exemplified in his Teheran Conference in 2006 - show us, “historical truth goes by evidence not emotion” [to quote the last courageous Christian Bishop, Richard Williamson], and that without historical truth there can be no international justice.

L’Imam Khomeini era un grande difensore della Palestina: capì che la Lega delle Nazioni come la più recente ONU rappresentavano iniziative sionistiche che si scontravano con la verità storica e dunque andavano creando il privilegio del potere di veto, antidemocratico, pro-sionistico. Le fondamenta stesse dell’ONU partecipano della natura speciosa dei processi di Norimberga del 1945-1946. All’epoca, cinque giudici della Corte Suprema americana condannarono i processi come una “farsa giuridica” degna di chi cerca il “linciaggio. Questi giudici dimenticati dichiararono che le testimonianze ottenute ‘per sentito dire’ o de auditu ed altre testimonianze ottenute con la tortura non costituivano strumenti ammissibili, e che offendono la giustizia naturale quelle parti che si costituiscono congiuntamente giudice e giuria.
Imam Khomeini was a great champion of Palestine and understood that the League of Nations and later the U.N. were Zionist initiatives which defied historical truth and thereby created the anti-democratic, pro-Zionist, privileged veto. The very basis of the U.N. is the self-same specious nature of the Nuremberg Trials of 1945 and 1946. At the time five Supreme Court judges in America denounced the Nuremberg show-trials, conducted by the so-called victorious Allies, as a “judicial farce” by a “lynch mob”. These forgotten Judges declared that hearsay evidence and testimony obtained by torture are illegitimate instruments and that parties who act both as judge and jury fly in the face of natural justice.

L’Imam Khomeini vorrebbe sicuramente da noi che svelassimo le due truffe fondamentali operate da chi crea e controlla i mezzi di comunicazione di massa nonché la narrativa dei fatti che trova diffusione a livello pubblico. Le truffe si incentrano in primo luogo sul fatto che l’Entità Sionista non ha mai avuto in nessun momento alcun diritto morale di saccheggiare la Palestina; in secondo luogo, gli ebrei europei non necessitavano di una tale soluzione. Nel 1895, cinquant’anni prima della Seconda Guerra Mondiale (e dunque la Seconda Guerra Mondiale non ha nessuna rilevanza in merito) il disegno di Theodor Herzl d’uno Stato Ebraico aveva già istituito la politica di genocidio da applicarsi nei confronti dei palestinesi indigeni, che, per usare il suo eufemismo, dovevano “sparire”, cedendo il loro posto agli ebrei.
Imam Khomeini would surely wish us to make known the two fundamental swindles by those who create and control the media and public information narrative. These refer to the fact firstly that the Zionist Entity had no moral right at any time to pirate Palestine, and secondly that European Jewry had no such necessity. Half a century before World War II (and therefore making World War II irrelevant to the issue) Theodor Herzl’s 1895 blueprint for The Jewish State instituted the genocidal policy towards the indigenous Palestinians, who to use his euphemistic term were to “disappear”, to be replaced by Jews.

La politica genocida di Herzl, del 1895, ci insegna che gli ebrei non sono stati le vittime bensì i malfattori, e dunque non hanno mai avuto alcun diritto sulla Palestina. Anzi, dopo il 1928, gli ebrei europei non avevano alcuna necessità di saccheggiare la Palestina, e fino ai nostri giorni troviamo la pacifica Regione Autonoma di Birobidjan sita sulla frontiera sudorientale della Russia con la Cina, la quale regione nel fondarsi non ha espulso nessun popolo indigeno. Oggigiorno troviamo degli ebrei che dicono che si trattasse di un atto di antisemitismo da parte di Stalin quando egli ha regalato agli ebrei questa zona di 30.000 km2 (grande come la Svizzera). La verità era che Stalin voleva dare una regione autonoma ad ogni gruppo etnico dell’Unione Sovietica, e il Birobidjan non mai subìto minacce di tipo “antisemitico”. Inoltre, nel 1945, quando gli ebrei europei dicevano, “Non abbiamo patria, abbiamo bisogno della Palestina; la meritiamo”, dichiaravano, nuovamente, il falso, perché nel 1945 non c’era alcuna barriera di tipo politico che avrebbe impedito loro l’arrivo nella propria Regione Autonoma di Birobidjan, vasta e da lungo tempo consolidata.
Herzl’s 1895 genocidal policy means that the Jews were the culprits not the victims, and thus had no moral right at any time to Palestine. Indeed after 1928 European Jews had no need to pirate Palestine, and to this day a Jewish Autonomous Region called Birobidjan exists peacefully and available on Russia’s south-east border with China, having never displaced an indigenous people for its creation. Today some Jews try to claim that it was an act of anti-semitism when Stalin gave this region of 30,000 sq. km (the size of Switzerland) to Jews. The truth is that Stalin was providing every ethnic group comprising the Soviet Union with its own autonomous region, and nothing “anti-semitic” has ever endangered Birobidjan. Furthermore in 1945 when European Jews were crying “We have no homeland, we need and deserve Palestine” – again they lied, for in 1945 there was no political impediment to prevent European Jewry heading for the welcome arms of their vast and long-established Jewish Autonomous Region in Birobidjan.

Tali circostanze vigono tuttora, ma i mezzi di comunicazione, nel loro conformismo, non parlano mai di Birobidjan. Qualche rara menzione di Birobidjan arriva dalla Jewish Telegraphic Agency, e quando ne parla usa il termine volutamente falso di “distretto”. Quali distretti ci sono nel mondo grandi come la Svizzera? Invero, dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, ogni regione etnicamente autonoma ha potuto rivendicare lo status di repubblica, eppure la JTA ci informa che, a causa di ciò che si vuole chiamare la “sensibilità” nei confronti di Israele, e per non attrarre l’attenzione dei gentili, il Birobidjan rinuncia − per quest’area, la prima patria ebraica − allo status di repubblica e di stato.
The same is true today, yet in our mainstream media we hear not a word of Birobidjan. Only rarely does the Jewish Telegraphic Agency mention Birobidjan, and when it does it refers to it disingenuously as a “district”. Which district in the world is the size of Switzerland? The fact is that since the dissolution of the Soviet Union its ethnically autonomous regions have been entitled to republic status, yet the JTA lets us know that due to so-called “sensitivity” to Israel, Birobidjan has declined, due to fear of raising gentile public awareness of its existence, to acknowledge this first Jewish homeland, and all but state and republic.

E’ la mia speranza che il nostro Presidente Ahmadinejad, che con coraggio riporta la verità nella sua integrità, diffonderà notizie su, e farà conoscere, questa prima patria ebraica, e che egli chiarirà che non c’è nessun motivo per cui gli ebrei europei debbano tornare in Germania, in Polonia o in Austria quando hanno un proprio stato la cui prima lingua è l’Yiddish. Visitate il mio sito dedicato a questa prima patria: www.birobidjan.co.uk perché, nello spirito dell’Imam Khomeini, troverete a questo indirizzo una campagna per l’etica e il riarmo morale. I palestinesi – i votanti coraggiosi che democraticamente hanno eletto Hamas, un’organizzazione da lungo tempo eroica –, la cui Nakba costituisce la più grande tragedia del ventesimo secolo, meritano di vedere restituito a loro ogni pollice di quella terra sofferente, senza alcuna speciosa proposta-farsa del tipo ‘uno stato / due stati’. Attendiamo ormai da troppo tempo la partenza immediata degli ebrei europei da ogni angolo della Palestina e la compensazione erogata al popolo indigeno arabo, a chi, da più di un secolo, lotta dalla parte del Raziocinio, in prima linea, sul fronte della verità storica e della giustizia internazionale per noi tutti.
My hope is that our President Ahmadinejad, who speaks the whole truth bravely, will promote awareness of the first Jewish homeland and that there is no need for European Jews to go back to Germany, Poland or Austria when they have their own state whose first language is Yiddish. Please view my first homeland option website at www.birobidjan.co.uk for, in the spirit of Imam Khomeini, there you will find a campaign for moral and morale rearmament. The Palestinians whose Nakba constitutes the greatest tragedy of the 20th century – those brave voters who democratically elected the long heroic Hamas - deserve the return of every inch of their tormented land, and not any part in the specious “one-state two-state” farce. The immediate vacation of European Jews from all of Palestine and compensation to the indigenous Arab people is more than overdue to those who, for more than a century, continue to fight for Reason at the front line of historical truth and international justice for all of us.

Signor Presidente, grazie, sono felice di trovarmi in questa compagnia esemplare ed entusiasmante, tra i coraggiosi votanti a sostegno del Raziocinio internazionale di Khomeini e della Giustizia storica di Ahmadinejad!
Mr President, thank you, I am happy to be in this uplifting company among the courageous voters for Khomeini’s international Reason and Ahmadinejad’s historical Justice!

Oh… e Signor Presidente, dimenticavo... Ho portato con me, per Lei, un DVD che racconta dei veterani britannici che erano di servizio in Palestina nel 1945-48. La storia che raccontano è ben lontana da quella raccontata dal loro governo, oberato dai debiti di guerra, ed è ben lontana dalle bugie che ci raccontano sulla fondazione di Israele. Infatti, la loro testimonianza sta per essere rimossa dalla pagine della storia: perciò non sono mai stati invitati al cenotafio, mai hanno ricevuto le loro medaglie e hanno addirittura dovuto finanziare di tasca propria la costruzione del monumento ai loro compagni d’armi caduti. In questa breve anteprima della trilogia “Israel in Flagrante: Caught in Acts of Twist-speak” (Israele colto in flagrante mentre distorce con il proprio falso linguaggio la realtà), cito la saggezza del re Ibn Saud che prevedeva con precisione il disastro che avrebbero causato nel Medio Oriente quei terroristi ed occupanti ebraici. In quel re, Ibn Saud, i sauditi hanno un modello di comportamento, ma, purtroppo, hanno seguito la strada degli occidentali: quella della collusione e del clientelismo, alimentati dagli imbrogli dell’usuraio.
Oh and Mr President, I almost forgot to mention that I have brought a DVD for presentation to you. It is about the British veterans who served in Palestine 1945-48, who tell a very different story (unlike their war debt-mortgaged government) to the lies we hear about the founding of Israel. Indeed their witness is to be removed from the pages of history, for they were never invited to the Cenotaph, were denied their medals, and even the war memorial to their dead comrades they had to pay for themselves. In this trailer for my trilogy “Israel in Flagrante: Caught in Acts of Twist-speak”, I quote the wisdom of King Ibn Saud who predicted precisely the disaster that these Jewish terrorist occupiers have brought to the Middle East. The Saudis also have a role model in King Ibn Saud, but alas like the West they too have fallen prey to colluding and coat-tailing on the usurer’s swindlespeak.

Claudio Mutti http://www.birobidjan.co.uk/renouf-teheran-2010-italian.html

Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale, Plus – Pisa University Press, Pisa 2009


Come è noto, la Rivelazione coranica afferma (Corano, XIV, 4; XV, 10; XXII, 35; XXII, 66) che ogni comunità umana ha ricevuto un insegnamento divino per il tramite di uno o più profeti inviati da Dio. Su tale asserzione si fondò l’idea, diffusa presso l’élite intellettuale islamica, che anche l’antica sapienza ellenica provenisse dalla ‘Nicchia delle luci della profezia’ e che fosse possibile riconoscere lo statuto di profeti o comunque di sapienti divinamente ispirati anche agli theioi andres della Grecia antica e classica: da Pitagora, Empedocle, Socrate, Platone, Plotino fino a Gemisto Pletone (del quale Mehmed il Conquistatore farà tradurre in arabo i frammenti dei Nomoi scampati al bruciamento decretato dal patriarca cristiano).
Fu così che Gialal al-Din Rumi, al quale Aflaki attribuisce la frequentazione dei saggi del “convento di Platone”, poté parlare dei Greci in termini di ammirazione e di solidarietà spirituale: “I Greci sono come i sufi: senza ripetizione e libri e apprendimento essi hanno lustrato i loro cuori, ripulendoli da avidità e cupidigia, da avarizia e da malizia, rifuggendo da profumo e colore. In ogni istante, subito, vedono la bellezza” (p. 37).
Di questo “atteggiamento di straordinaria ammirazione per la cultura greca classica ed ellenistica” (p. 41) si occupa un recente lavoro di Marco Di Branco, docente di Storia bizantina e di Archeologia bizantina, che viene ad aggiungersi ai numerosi studi sulla sopravvivenza del pensiero filosofico e scientifico greco all’interno della civiltà islamica. Il lavoro in oggetto affronta il tema della storia greca e romana (nel periodo compreso tra l’età classica e il principato di Costantino) “quale essa è percepita, narrata e rappresentata nella storiografia arabo-islamica medievale fra VIII e XIV secolo d.C.” (p. 10), cioè dalla più antica storia universale di matrice islamica, quella di Ya’qubi, fino alla celebre cronaca di Ibn Khaldun.
Personaggio centrale della storia greca vista dall’Islam è Alessandro Magno, per lo più identificato col Bicorne (Dhu’l-qarnayn) della Sura della Caverna. Il capitolo relativo ad Alessandro è preceduto da una significativa citazione: i versi (verosimilmente estratti dall’Iskandarnameh) con cui il persiano Nezami di Ganje rende omaggio alla cultura greca: “Per la civiltà di quel Re amator di sapienza – la fama della Grecia s’è levata alta al cielo – ed ora che quelle contrade han richiuso il loro quaderno – l’effimero Tempo non ha loro strappato la fama eterna di Scienza”. Nella poesia, nella letteratura, nell’arte e nella stessa storiografia del mondo islamico il Macedone viene presentato non solo come alchimista e filosofo allievo di Aristotele, ma anche come “un profeta che annuncia il Dio unico ed è pronto a sostenerne la causa con le armi in pugno, [mentre] la campagna persiana si muta in un vero e proprio gihad contro gli infedeli” (p. 73).
Per quanto riguarda i Romani, il primo storico musulmano in grado di distinguere al-Yunaniyyun (i Greci) da al-Rum (i Romani) è Ya’qubi, che inizia il capitolo della storia romana a partire da Cesare e da Augusto. Il periodo monarchico e repubblicano di Roma, che occupa uno spazio alquanto ridotto anche nelle successive opere di Tabari e di Mas’udi (il primo a menzionare la leggenda di Romolo e Remo), è d’altronde trascurato dalle cronache bizantine stesse, che costituiscono la fonte degli storici arabi e persiani del Vicino Oriente. In compenso, le storie universali di Miskawayh e di Tha’alibi rivolgono una maggiore attenzione al rapporto fra Persiani e Romani: dall’epoca mitica dei primi re della terra (in cui il sovrano iranico Faridun avrebbe concesso a suo figlio Salm il potere sul paese dei Rum) fino alle vicende romano-persiane d’età costantiniana e postcostantiniana.
Che il regno di Costantino inauguri una nuova fase nella storia dei Rum è nozione condivisa da quasi tutti gli storici musulmani del periodo preso in esame dall’Autore. L’interesse di Ya’qubi per la figura di Costantino è sostanzialmente connesso all’attività religiosa di questo imperatore, il primo che “si allontanò dalle dottrine greche per quelle cristiane (…); e fu per questo che egli mosse guerra contro dei consanguinei e vide in sogno come se dei giavellotti scendessero dal cielo con su di essi delle croci” (p. 136). Tabari invece ritiene degna di nota, oltre alla conversione di Costantino, la fondazione della nuova capitale dell’Impero, la cacciata degli ebrei dalla Palestina e l’inventio crucis. Da parte sua, Mas’udi conclude il bilancio dell’attività costantiniana con una “durissima requisitoria contro la religione cristiana, responsabile della distruzione dell’antica scienza dei Greci” (p. 138).
Il disinteresse della storiografia musulmana orientale per quella parte di storia greca e romana su cui avevano taciuto le fonti bizantine viene compensato dagli storici del Maghreb e dell’Andalusia. Questo filone occidentale, che sfocia nel Kitab al-’ibar del tunisino Ibn Khaldun, ha alle proprie origini il Kitab Hurushiyush, una traduzione delle Historiae di Paolo Orosio rimaneggiata ed arricchita da notizie provenienti da altre fonti. “Non è senza emozione – scrive Di Branco – che si leggono, per la prima volta in lingua araba, i fatti della guerra di Troia e la vicenda del cavallo (…), le gesta dei difensori dell’Ellade contro i Persiani (…), il nome di Pericle (…), il racconto della Guerra del Peloponneso (…), le grandi imprese della Repubblica romana” (p. 160).
L’Autore fa notare che nell’opera di Ibn Khaldun (dove le prime due città di cui si faccia menzione sono Alessandria e Roma) le vicende dei Greci e dei Romani rappresentano “uno degli exempla storici più importanti su cui riflettere” (p. 190), in quanto danno modo di meditare sulle dinamiche politiche e costituiscono “un banco di prova per la celebre teoria halduniana dell’‘asabiyyah, lo ‘spirito di corpo’, la forza fondamentale che muove la storia umana” (p. 193). La Grecia, in particolare, viene esaltata da Ibn Khaldun come il centro da cui il sapere si è irradiato nel dar al-islam. “Dove sono le scienze dei Persiani? – egli si chiede – Dove quelle dei Caldei, degli Assiri, dei Babilonesi? Dove sono le loro opere e i loro risultati? Dove sono, prima di esse, le scienze degli Egizi? Le scienze che sono giunte fino a noi provengono da una sola nazione, la Grecia (…) Non conosciamo nulla della scienza delle altre nazioni” (p. 191).

Tratto da "Recensioni" di Claudio Mutti: http://www.claudiomutti.com/   13.08.2010
                                                         


martedì 24 agosto 2010

La Saga iraniana di Bushehr

Fonte: Strategic Culture Foundation

http://en.fondsk.ru/print.php?id=3220 20/08/2010              

Segnando la conclusione della saga che ha avuto inizio a metà del secolo XX, il 21 agosto l’Iran avrà ufficialmente avviato il reattore nucleare di fabbricazione russa della centrale nucleare di Bushehr. L’accensione del reattore nucleare è un punto culminante in qualsiasi paese, ma nel caso dell’Iran è un ulteriore fattore per la situazione, secondo cui l’avvio possa essere considerato una sconfitta della politica internazionale di Washington. Recentemente, l’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, John Bolton, provocatoriamente ha chiesto a Israele di attaccare Bushehr prima del 21 agosto, termine ultimo, quando le barre nucleari saranno caricate nel nocciolo del reattore.
J. Bolton è famoso per le sue opinioni da falco estremista. Ha sostenuto attivamente il mito scorte s delle armi di distruzione di massa di S. Hussein, nell’escalation della guerra in Iraq, e nel mese di agosto 2008, ha affermato che la Russia era l’aggressore nel conflitto con “la piccola e totalmente innocua” Georgia.
Il cinismo non è raro nelle file dei politici statunitensi. Al momento, gli Stati Uniti sostengono accuse contro l’Iran – così come contro la Russia – e cercano di convincere il mondo che, dopo l’avvio della centrale di Bushehr, avrà di fronte un nuovo mostro dotato di armi nucleari. E’ opportuno ricordare, nel contesto, le forze che hanno aiutato l’Iran ad acquisire reali ambizioni nucleari, in passato.
L’Iran guidato dello shah pro-USA si messo in contatto con gli Stati Uniti per l’accesso alle tecnologie dell’energia nucleare, ben prima dei progetti nucleari congiunti con la Russia. Nel 1957, Washington e Teheran firmarono un accordo sull’energia nucleare, in cui gli Stati Uniti avrebbero fornito materiale nucleare all’Iran e contribuito a formare ingegneri nel paese, e l’Iran, da parte sua, acconsentì agli Stati Uniti di monitorare i suoi impianti nucleari. Washington e Teheran hanno firmato un altro accordo, con l’assistenza dell’IAE, nel 1967 e gli Stati Uniti fornirono un reattore nucleare di piccola potenza (5 MW), per il centro di ricerca dell’Iran. Il reattore è stato avviato un anno più tardi che utilizzava uranio arricchito al 93% come combustibile. Successivamente, gli Stati Uniti hanno venduto all’Iran le camere per l’estrazione del plutonio dal combustibile nucleare esaurito. In netto contrasto, il combustibile nucleare (82 tonnellate) per il piano di Bushehr, che è stato fornito nel 2008 e attualmente è conservato in un sito speciale monitorato dall’IAE, è arricchito solo all’1,6-3,6%.
Per tutto il regno dello scià iraniano, gli Stati Uniti non espressero obiezioni nei confronti dell’Iran, per l’attuazione del ciclo completo del combustibile nucleare che poteva essere utilizzato per generare plutonio e, tecnicamente, poteva servire come base per la creazione di armi nucleari. Inoltre, Washington e Teheran hanno discusso la fornitura di un massimo di 8 reattori nucleari, del valore di 6,5 miliardi dollari, all’Iran. Gli Stati Uniti non hanno avuto problemi con le operazioni in Iran degli altri paesi della Nato – in particolare, con la Germania e la Francia – nel quadro del programma nucleare. L’ultimo Scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi, impostò l’energia nucleare come una priorità del suo programma di riforma. Nel 1974, l’Iran ha adottato un programma a lungo termine, volto a costruire 23 reattori nucleari con una capacità totale di oltre 20 MW, basandosi su tecnologie occidentali (e non sovietiche!). L’Iran ha firmato contratti con Stati Uniti, Germania e Francia, e in quest’ultimo caso ha anche acquistato una partecipazione del 10% nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Tricastin. L’accordo ha aperto l’accesso dell’Iran alle tecnologie di arricchimento dell’uranio, e ha dato al paese il diritto di acquistare la produzione dell’impianto.
Per quanto riguarda la centrale nucleare di Bushehr, in origine il contratto per la costruzione si concluse nel 1974 con la Kraftwerk Union. La società tedesca avrebbe costruito due reattori da 1.300 MW, addestrato gli ingegneri nucleari iraniani e organizzato la produzione e l’uso degli isotopi del sito. Il primo e il secondo reattori dovevano essere avviati nel 1980 e nel 1981.
La Francia ha avuto anche un contatto 2 miliardi di dollari per la costruzione di una centrale nucleare in Iran. Situata ad Ahwaz, doveva comprendere due reattori da 950 MW che sarebbero stati avviati nel tardo 1983 – inizio 1984. Inoltre, nel 1974 la Francia iniziò la costruzione di un centro di ricerca con un reattore nucleare sperimentale a Isfahan, in Iran, l’avvio era previsto per il 1980.
Ovviamente, l’Occidente non ha battuto ciglio sul programma nucleare dell’Iran – almeno per quanto riguarda l’Iran come un potenziale mostro dotato di armi nucleari – in un’epoca in cui il paese rimaneva nell’orbita degli Stati Uniti e della NATO. La situazione ha preso una piega diversa dopo la Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, quando il paese ruppe con l’Occidente. I contratti nucleari furono annullati e la costruzione degli impianti nucleari – congelata. Secondo diverse stime, al momento i reattori della centrale di Bushehr erano completi al 70-90% e 40-75%. Il cantiere era pronto ad Ahwaz, ma all’Iran venne rifiutato l’accesso alle tecnologie e ai prodotti dello stabilimento di Tricastin.
Per molto tempo, dopo la Rivoluzione Islamica, l’Iran ha dovuto affrontare problemi più pressanti che costruire centrali nucleari. L’incompiuta centrale di Bushehr finì sotto le bombe 9 volte, durante la lunga guerra con l’Iraq, e subì notevoli danni, di conseguenza.
Teheran rianimò il suo programma di energia nucleare dopo la guerra, ma numerosi tentativi di raggiungere accordi con la Spagna, Argentina, Brasile, Pakistan, e persino con la Cina non hanno prodotto alcun risultato. Sotto la pressione degli Stati Uniti, i potenziali partner evitarono di farsi coinvolgere da Teheran. Immune alle pressioni di Washington, nel 1992 la Russia stipulò un accordo sul nucleare civile con l’Iran, che prevedeva la costruzione della centrale di Bushehr. Il contratto russo-iraniano per costruire la sua prima unità fu – dopo degli abbastanza difficili colloqui sui dettagli – firmato il 5 gennaio 1995 a Teheran. Le società russe hanno dovuto ricostruire l’impianto per adattarlo al reattore acqua-acqua russo VVER-1000, da 1000 MW. I contratti con la Russia prevedono la costruzione di altri tre reattori a Bushehr, in futuro. Mosca e Teheran hanno firmarono un accordo con cui la Russia avrebbe fornito 2.000 tonnellate di uranio all’Iran e addestrato ingegneri iraniani negli istituti russi.
A quel tempo e al momento, il contratto di Bushehr era di grande importanza per la Russia. Il costo del primo reattore è stato fissato a 800-850 milioni di dollari, e il totale della costruzione è stato stimato a circa 1 miliardo. L’Iran avrebbe pagato l’80% dell’importo in contanti e il 20% sotto forma di forniture varie. L’elenco degli appaltatori russi conta oltre 300 imprese e il contratto ha creato 20.000 nuovi posti di lavoro. Inizialmente, il piano era che la centrale elettrica di Bushehr sarebbe divenuta operativa nel 2003, ma la scadenza è stata più volte rinviata a causa di vari motivi. Gli Stati Uniti hanno esercitato una pressione permanente su Mosca affinché quest’ultima abbandonasse il contratto, e in un certo numero di casi, l’Iran non ha rispettato il calendario dei pagamenti. Tuttavia, la saga di Bushehr, si spera si concluda il 21 agosto 2010. L’Iran avrà la sua prima centrale nucleare e la Russia dimostrerà la sua capacità di attuare importanti contratti internazionali ad alta tecnologia. Per quanto riguarda le accuse che la Russia stia giocando dalla parte di un paese aggressivo, è un punto importante che il contratto della Russia con l’Iran – in contrasto con quelli che Stati Uniti, Francia e Germania hanno firmato con il paese, in passato – non implichi il trasferimento all’Iran di tecnologie di arricchimento dell’uranio, la costruzione di un impianto autofertilizzante o per la rigenerazione di plutonio. Quello che l’Iran avrà – in piena conformità con il diritto internazionale e senza minacciare la pace e la sicurezza internazionale – è uno una semplice infrastruttura civile per l’industria elettrica. Le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, come ad esempio, le affermazioni di John Bolton mostrano chiaramente, sono poste da un altro paese.
Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/                                         

venerdì 13 agosto 2010

Pound è l’inventore della poesia cinese per la nostra epoca.- T.S. Eliot

                                          
Pound contra Huntington
Tra i manoscritti inediti di Ernest Fenollosa, consegnatigli dalla vedova del sinologo nel 1913, Ezra Pound ne trovò uno, intitolato The Chinese Written Character as a Medium for Poetry (1), che fu per lui una vera e propria folgorazione. “Il secolo scorso – scrisse Pound un paio d’anni dopo – riscoprì il Medioevo. È probabile che questo secolo trovi nella Cina una nuova Grecia. Intanto abbiamo scoperto una nuova scala di valori” (2).
Pound non si limitò a concepire una siffatta aspettativa, ma intraprese un’operazione culturale intesa a rendere accessibili tramite soluzioni originali i “valori” espressi dalla poesia cinese. E sembra proprio che ci sia riuscito, se accogliamo l’autorevole giudizio di Wai-lim Yip: “anche quando gli vengono dati i più nudi dettagli, riesce a penetrare nell’intenzione centrale dell’autore mediante quella che possiamo forse chiamare una specie di chiaroveggenza” (3).
Il primo risultato dell’incontro di Pound con la poesia cinese è, nel 1915, Cathay (4), una raccolta di traduzioni effettuate, come si legge nel sottotitolo, “for the most part from the chinese of Rihaku”, ossia dalle poesie di Li Tai-po (700-762). Vent’anni più tardi Pound pubblicherà il saggio di Fenollosa sugli ideogrammi cinesi, corredandolo di una breve Introduzione e di alcune Notes by a Very Ignorant Man (4) che testimoniano l’approfondimento dell’interesse per la scrittura ideogrammatica. “Tra i fattori che attraggono Pound verso la scrittura cinese vi è certamente la sua immaginazione di tipo visivo e l’esigenza connaturata in lui di esprimersi per immagini rispondenti a cose visivamente concrete” (5).
Nel 1928 vede la luce Ta Hio, the Great Learning (6). Il Ta Hio (o Ta Hsio, ovvero Ta Hsüeh, “Grande Insegnamento” o “Studio Integrale”) è un testo prodotto della scuola di Confucio dopo la morte del Maestro; in esso “la moralità assume funzione cosmica, in quanto l’uomo opera la trasformazione del mondo e continua, quindi, nella società, il compito creativo del Cielo” (7), rivestendo la tipica funzione “pontificale” di mediatore fra il Cielo e la Terra. A Eliot, che gli chiede in che cosa creda, il 28 gennaio 1934 Pound risponde: “Credo nel Ta Hsio”. Dall’interesse per l’insegnamento di Confucio nascono anche le versioni poundiane dei Dialoghi (Lun Yü) (8), del Costante Mezzo (Chung Yung) (9) e delle Odi (Shih) (10).
Ha così inizio quel rapporto con Confucio che indurrà Pound a rintracciare nella dottrina del Maestro cinese le risposte più adatte ai problemi dell’Europa del Novecento: “Mi pare che la cosa più utile che io possa fare in Italia sia di portarvi ogni anno un brano del testo di Confucio” (11); e a ritenere che “Mussolini ed Hitler per magnifico intuito seguono le dottrine di Confucio” (12). La dottrina confuciana, così come la scrittura cinese, corrisponde all’esigenza poundiana di precisione linguistica. Per Confucio, infatti, la decadenza della società umana è dovuta al venir meno della corrispondenza tra le cose ed i “nomi” (ming), i quali normalmente definiscono l’insieme dei caratteri di una data realtà oppure indicano una funzione morale o politica; perciò un’efficace riforma della società deve partire proprio da quell’atto di restaurazione dell’armonia che è la “rettifica dei nomi” (cheng ming). Il passo degli Analecta (XIII, 3) relativo a tale concezione viene più volte parafrasato da Pound (13), il quale traduce cheng ming con un neologismo di suo conio, “ortologia”, e chiama “economia ortologica” una scienza economica basata sulla precisione terminologica.
Secondo alcuni interpreti sembrerebbe però che il rapporto con il Maestro K’ung Fu, da cui l’opera di Pound è profondamente segnata, non debba essere ridotto a termini puramente etici e politici. “Confucio, il pensiero confuciano – è stato sostenuto – svelarono a Pound un modo nuovo di percepire il mondo. Nuovo eppure antichissimo, perché chiave di tutta la tradizione cinese che K’ung aveva voluto salvare e restaurare. Ma chiave anche di una tradizione primordiale che continuò a parlare in Occidente nei Misteri greci e poi, ancora, nell’intuizione dei grandi poeti ‘romanzi’. La percezione del mondo come circolazione della Luce. E quindi come unità. Che è poi il fondamento, l’anima stessa della civiltà cinese” (14). Insomma, prima come ministro e poi come maestro di scuola Confucio “aspirò solo a ripulire e rafforzare l’anello di connessione tra gli uomini dei suoi tempi e la tradizione degli avi” (15), sicché Pound, attraverso Confucio, si avvicinò a quella saggezza tradizionale che in Europa aveva avuto i propri esponenti in Omero, Aristotele e Dante (da lui esplicitamente citati come tali nella Nota introduttiva al Ta Hsio), ma era ormai difficilmente accessibile nell’Europa del Novecento.
Nel gennaio del 1940 appaiono i Cantos LII-LXXI (16), i cosiddetti “Canti cinesi”, chiamati inizialmente da Pound Canti degli Imperatori di Catai, del Regno di mezzo. Pound li ha composti “per spiegare il suo ideale di Utopia sociale: essi ricordano il metodo impiegato da uno Spengler o da un Toynbee, i quali citano gli esempi della storia per indicare la tendenza ad un movimento da tenere in considerazione, qualora si intenda trar profitto dal giudizio e dagli errori del passato” (17). Se il Canto XIII era il Canto di Confucio, la decade LII-LXI passa in rassegna l’avvicendarsi delle dinastie cinesi, dal terzo millennio a. C. fino al 1735 d. C., ultimo anno del regno di Yung-Cheng, ma anche anno di nascita di John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti. “Ora più che mai Pound applica la propria teoria ciclica della storia. Come nell’avvicendarsi delle stagioni, così nel loro succedersi le dinastie degli imperatori di Catai alternano pace e guerra, buon governo e mal governo, secondo un metodo espositivo che ne presenta l’operato come esempio positivo o negativo, a seconda dei casi” (18). D’altronde la fonte di Pound è costituita dall’opera del Padre De Mailla (19), il quale aveva interpretato il T’ung-chien kang-mu (“Abbozzo e dettagli dello specchio esauriente”) di Chu Hsi (1130-1200), fondatore del neoconfucianesimo. A sua volta, il testo di Chu Hsi è un sunto del Tzu-chih t’ung-chien (“Lo specchio esauriente per l’ausilio nel governo”), opera dello storiografo confuciano Ssu-ma Kuang. E lo scrittore confuciano, quando espone i fatti storici, privilegia le situazioni archetipiche: “Confucio impone questo sentimento del paradigma della storia, oltre il tempo, poiché il suo ingegno tende al giudizio morale, un genere di assoluto” (20). Ne risulta una visione della storia in cui “le figure degli imperatori si muovono e agiscono come esempi di buon governo, quando seguono le norme politiche confuciane e scelgono i loro collaboratori tra i letterati, oppure di mal governo, quando subiscono l’influenza di eunuchi, donne di palazzo, di buddhisti e taoisti” (21). Insomma, secondo la visione che Pound ha mediata da Chu Hsi l’armonia e la giustizia nell’ordine politico-sociale dipendono da una condotta conforme alla natura, mentre il disordine e la sovversione sono l’effetto della violazione delle norme naturali.
Così nell’opera di Pound la Cina diventa uno “specchio per l’Europa moderna, e per gli eterni principi di governo che altri prima di lui – uomini della statura di Voltaire – avevano avuto la certezza di vedere nella cronaca cinese” (22). La riscossione delle decime in granaglie, voluta da Yong Ching al fine di prevenire la carestia, è implicitamente paragonata alla politica degli ammassi proposta nell’Italia fascista dal ministro Edmondo Rossoni (Canto LXI), al quale Pound espose la teoria di Silvio Gesell e della moneta affrancabile; la festa offerta da Han Sieun al sovrano tartaro richiama alla mente lo spettacolo delle manovre sottomarine organizzato per il Führer a Napoli (Canto LIV) e così via.
L’adesione all’insegnamento di Confucio viene dunque esplicitamente ribadita fin dal Canto LII, che termina con l’enunciazione di due precetti confuciani. Il primo è quello della “rettifica dei nomi” (“Call things by the names”), che ricollega il Canto LII al Canto LI (ultimo della quinta decade), suggellato a sua volta con l’ideogramma cheng wing. Il secondo, desunto dallo Studio Integrale, nell’adattamento poundiano suona così: “Good sovereign by distribution – Evil king is known by his imposts”.
Anche nel Canto LIII, che sintetizza gli eventi della storia cinese compresi tra l’ illud tempus dei mitici imperatori Yu-tsao e Sui-jen e il tramonto della dinastia Chou, troviamo importanti precetti confuciani. Per esempio: “A good governor is as wind over grass – A good ruler keeps down the taxes”. In particolare, Pound rievoca il caso di un sovrano che emise direttamente la moneta e la distribuì al popolo: “(…) in 1760 Tching Tang opened the copper mine (ante Christum) – made discs with square holes in their middles – and gave these to the people – wherewith they might buy grain where there was grain”. Provvedimento esemplare per Pound, che lo menziona anche altrove: “La creazione del denaro per assicurare la distribuzione dei beni non è una novità. Se non volete credere che l’imperatore Tching Tang sia stato il primo a distribuire, nell’anno 1766 a. C., un dividendo nazionale, chiamatelo pure con un altro nome. Diciamo che sia stato un sussidio straordinario…” (23).

Nella serie degli episodi esemplari che ben evidenziano la funzione paterna dell’imperatore confuciano, spicca nel Canto LIV il proclama di Hsiao-wen Ti: “Earth is the nurse of all men – I now cut off one half the taxes – (…) Gold is inedible”. L’oro non si mangia, base della sussistenza è il pane. Perciò il Canto LV dà un notevole risalto ai provvedimenti di Wang An-shih, il quale, vedendo che i campi erano incolti, ordinò che ai contadini venisse concesso un prestito e fece batter moneta in quantità sufficiente per mantenere stabile il corso. “Nei ripetuti episodi di distribuzione gratuita di derrate e denaro al popolo Pound aveva individuato d’istinto le economie del dono, la funzione redistributiva degli antichi imperi, delle civiltà dove il mercato era ancora concepito in funzione della polis e non viceversa” (24). Una politica fiscale sbagliata è invece individuata da Pound come causa del tramonto della dinastia Sung (“SUNG died of levying taxes – gimcracks”, Canto LVI), alla quale subentrò quella mongola degli Yüan.

La Cina degli Yüan, che si estese tra il Lago Bajkal e il Brahmaputra, costituì la pars Orientis di quell’impero gengiskhanide che nel secolo XIII unificò lo spazio eurasiatico compreso tra il Mar Giallo e il Mar Nero. Primo imperatore della nuova dinastia fu Qubilai (1260-1294): “KUBLAI KHAN – that came into Empire – (…) – and mogols stood over all China” (Canto LVI). Prima di lui, era stato Ögödai (1229-1941) ad imporre il tributo ai Cinesi: “ (…) and Yeliu Tchutsai said to Ogotai: - tax, don’t exterminate – You’ll make more by taxing the blighters – thus saved several millyum lives of these chinamen” (Canto LVI). Ma i Mongoli non seguirono la legge di Confucio, e così la loro dinastia ebbe termine: “Mongols are fallen – from losing the law of Chung Ni – (Confucius) – (…) – Mongols were an interval” (Canto LVI).
L’approccio alla storia cinese attraverso un’opera basata su fonti confuciane induce Pound a vedere nei sintomi di decadenza del Celeste Impero l’effetto dell’influenza corruttrice di taoisti (taoists, taozers, tao-tse) e buddhisti (hochangs), spesso accomunati agli eunuchi, alle ballerine, ai ciarlatani e ai malfattori d’ogni sorta: “war, taxes, oppression – backsheesh, taoists, bhuddists (sic) – wars, taxes, oppressions” (Canto LIV), “TçIN NGAN died of tonics and taoists” (Canto LIV), “conscriptions, assassins, taoists” (Canto LIV), “And there came a taozer babbling of the elixir – that wd/ make men live without end – and the taozer died very soon after that” (Canto LIV), “And half of the Empire tao-tse hochangs and merchants – so that with so many hochangs and mere shifters – three tenths of the folk fed the whole empire (…)” (Canto LV), “Hochangs, eunuchs, taoists and ballets – night-clubs, gimcracks, debauchery – (…) – Hochangs, eunuchs, and taozers” Canto LVI). La dinastia Ming (1368-1644) è corrosa dai medesimi tarli: “HONG VOU restored Imperial order – yet now came again eunuchs, taozers and hochang” (Canto LVII), “HOEÏ of SUNG was nearly ruined by taozers” (Canto LVII), “OU TI of LÉANG, HOEÏ-TSONG of SUNG – were more than all other Emperors – Laoists and foéist, and came both to an evil end” (Canto LVII).
L’assimilazione del buddhismo esercitò un influsso determinante sulla vita spirituale della Cina durante l’epoca T’ang (618-907), della quale Pound ripercorre gli annali nei Cantos LIV e LV. Quanto al taoismo, che diventò qualcosa di simile ad una religione, esso subì una considerevole influenza da parte del buddhismo tantrico: “i Taoisti elaborarono insegnamenti esoterici risalenti alla più remota antichità aventi lo scopo di assicurare l’immortalità agli adepti mediante metodi simili a quelli dello Hatha-yoga indiano, e concezioni cosmologiche tratte dallo Yin-yang Chia, che in seguito furono studiate e sviluppate dai pensatori neo-confuciani” (25). In tal modo la cultura spirituale cinese si arricchì di nuovi elementi, che però erano estranei all’ambito etico e sociale cui si era tradizionalmente attenuto il pensiero confuciano. Per tutta l’epoca Sung (960-1279), che costituisce lo sfondo degli eventi evocati nella seconda parte del Canto LV e nella prima del LVI, lo stesso confucianesimo accolse e rielaborò concezioni cosmologiche di provenienza taoista.
La predicazione cattolica arrivò invece in Cina grazie al gesuita maceratese Matteo Ricci, che, giunto nel 1601 a Pechino, fu benevolmente accolto dall’imperatore Chin Tsong, nonostante i custodi dell’ortodossia confuciana, ostili alla diffusione di una dottrina che a loro appariva bizzarra, avessero espresso parere contrario all’introduzione del missionario e delle sue reliquie nella corte imperiale. “And the eunuchs of Tientsin brought Père Mathieu to court – where the Rites answered: - Europe has no bonds with our empire – and never receives our law – As to these images, pictures of god above and a virgin – they have little intrinsic worth. Do gods rise boneless to heaven – that we shd/ believe your bag of their bones? – The Han Yu tribunal therefore considers it useless – to bring such novelties into the PALACE – we consider it ill advised, and are contrary – to receiving either these bones or père Mathieu” (Canto LVIII). Il padre Ricci, che aveva recato in dono al Figlio del Cielo un orologio, diventò per i Cinesi una sorta di patrono degli orologiai; altri gesuiti, “Pereira and Gerbillon” (Canto LIX), conquistarono la fiducia dell’imperatore K’ang Hsi (1654-1722), “who played the spinet on Johnnie Bach’s birthday – do not exaggerate/ he at least played on some such instrument – and learned to pick out several tunes (european)” (Canto LIX); altri ancora, come “Grimaldi, Intercetta, Verbiest, - Couplet” (Canto LX), diedero vari contributi alla diffusione della cultura europea in Cina. Ma i rapporti tra l’Impero e i cattolici non furono facili. Anche se i gesuiti vollero identificare Shang-ti, il Signore del Cielo,, con il Dio della religione cristiana e cercarono di integrare nel cristianesimo alcuni riti confuciani, Papa Clemente XI condannò il culto degli antenati e proibì di celebrare la messa in lingua cinese: “The European church wallahs wonder if this can be reconciled” (Canto LX). Da parte loro le autorità imperiali, pur riconoscendo i meriti dei gesuiti, vietarono il proselitismo missionario e la costruzione di chiese: “MISSIONARIES have well served in reforming our mathematics – and in making us cannon – and they are therefore permitted to stay – and to practice their own religion but – no chinese is to get converted – and they are not to build any churches – 47 europeans have permits – they may continue their cult, and no others” (Canto LX). Yung Cheng, succeduto a K’ang Hsi nel 1723, mise definitivamente al bando il cristianesimo, giudicato immorale e sovvertitore delle tradizioni confuciane: “and he putt out Xtianity – chinese found it so immoral – (…) – Xtians being such sliders and liars. – (…) – Xtians are disturbino good customs – seeking to uproot Kung’s laws – seeking to break up Kung’s teaching” (Canto LXI). Di Yung Cheng, Pound elogia la saggezza, la sollecitudine per l’agricoltura e per l’erario. Di suo figlio Ch’en Lung, che regnò dal 1736 al 1795, pone in risalto l’attività letteraria, concludendo il Canto LXI con l’auspicio che ne vengano lette le poesie.
K’ang Hsi e Yung Cheng, che ritornano nei Cantos XCVIII e XCIX, furono rispettivamente il secondo e il terzo imperatore della dinastia mancese dei Ch’ing, insediatasi alla testa dell’Impero dopo il crollo dei Ming (1644). Sotto la nuova e ultima dinastia, proveniente da un popolo di cavalieri e guerrieri di lingua altaica, la Cina conobbe una grande prosperità ed ampliò le proprie frontiere, estendendole via via dal bacino dell’Amur (1689) alla Mongolia (1697) al Tian-shan (1758) al Tibet (1731): “Tibet was brought under and ’22 was a peace year” (Canto LX). La Pax Sinica instaurata dalla dinastia mancese è d’altronde già celebrata nel Canto LVIII: “we came for Peace not for payment – came to bring peace to the Empire”.
La stesura dei Cantos LXXXV-XCV (26) corona quel paideuma confuciano che Pound aveva enunciato più volte come proprio programma d’azione. “Sono assolutamente convinto – scriverà nel gennaio 1945 su “Marina Repubblicana” – che, portando in Italia una maggiore conoscenza dell’eroica dottrina di Confucio, vi porterò un regalo più utile del platonismo che Gemisto vi portò nel XIV secolo rendendovi un così gran servizio di stimolo al Rinascimento” (27). Secondo Pound, infatti, il confucianesimo presenta vantaggi superiori al platonismo, in quanto, a differenza della cultura greca, esso contiene i princìpi etici e politici necessari a fondare un impero. Questo concetto era stato da lui espresso il 19 marzo 1944 in una lettera al ministro repubblicano Fernando Mezzasoma: “L’importanza della cultura confuciana è questa: la Grecia non aveva il senso civico per la costruzione di un impero” (28). In Cina, invece, il confucianesimo ha consolidato l’edificio imperiale: “La Cina con 400 milioni IN ORDINE – dice Pound in un radiodiscorso del 24 aprile 1943 - sarebbe di certo un elemento di stabilità mondiale. Ma quell’ordine deve EMERGERE IN CINA. In 300 o più anni di storia, anzi attraverso tutta la storia che conosciamo di quel Paese, l’ordine deve emergere internamente. La Cina non ha mai vissuto la pace quando è stata nelle mani di un governo guidato dall’estero sul capitale mutuato” (29).
Non è dunque un caso, se il teorico dell’imperialismo statunitense ha individuato nella civiltà confuciana un sistema di valori e di istituzioni irriducibile alla cultura dell’Occidente: “parsimonia, famiglia, lavoro, disciplina (…) il comune rifiuto dell’individualismo e il prevalere di un autoritarismo ‘morbido’ o di forme molto limitate di democrazia” (30). L’araldo dello “scontro di civiltà” è esplicito: “La tradizione confuciana della Cina, con i suoi valori portanti come quelli di autorità, ordine, gerarchia e supremazia della collettività sull’individuo, crea ostacoli alla democratizzazione” (31). L’ostacolo maggiore all’instaurazione dell’egemonia statunitense sull’Asia e all’imposizione del modello occidentale sarebbe dunque rappresentato dalla paventata alleanza tra l’area confuciana e i paesi musulmani, alleanza che Huntington definisce nei termini di un “asse islamico-confuciano”. (Un concetto, questo, che potrebbe avere ispirato il bizzarro sintagma “Asse del Male”, impiegato da Bush in relazione alla terna Iran-Iraq-Corea del Nord). D’altra parte, prima di Huntington era stato un Gheddafi non ancora del tutto addomesticato a lanciare un appello in questo senso. “Nuovo ordine mondiale – aveva detto il Colonnello il 13 marzo 1994 – significa che ebrei e cristiani controllano i musulmani; se possono fare ciò, domani eserciteranno il loro dominio anche sul confucianesimo e sulle forme tradizionali dell’India, della Cina e del Giappone (…) Oggi cristiani ed ebrei sostengono che l’Occidente, dopo avere distrutto il comunismo, deve distruggere l’Islam e il confucianesimo. (…) Noi ci schieriamo dalla parte del confucianesimo; alleandoci con esso e combattendo al suo fianco in un unico fronte internazionale, sconfiggeremo il nostro nemico comune. Perciò, in quanto musulmani, aiuteremo la Cina nella lotta contro il nemico comune”.
Pound non ha omesso di indicare i presupposti dell’Asse paventato da Huntington. Il denominatore comune del confucianesimo e dell’Islam egli lo ha individuato negli ideali del buon governo, della solidarietà comunitaria, dell’equità distributiva, della sovranità monetaria. Per quanto riguarda l’Islam, nelle norme sciaraitiche fissate dagli Imam Shafi’i e Ibn Hanbal circa la precisione del conio monetario Pound ha colto il pendant islamico dell’”ortologia” confuciana; nel diritto esclusivo della funzione califfale ad emetter moneta ha visto il fondamento della sovranità politica; nella destinazione della quinta parte del bottino - la “parte di Dio e del Profeta” - all’assistenza delle categorie di bisognosi previste dal Corano e dalla Sunna, Pound ha individuato l’istituzione caratteristica di un sistema di tassazione esemplare. Una fitta sintesi di questa prospettiva poundiana dell’Islam è contenuta nella pagina iniziale del Canto XCVII, che riprende il tema – già presente nel XCVI – del Califfo omayyade ‘Abd el-Malik, il quale nel 692 fece coniare una moneta aurea su cui era impresso il profilo della Spada dell’Islam e, applicando un’indicazione del Profeta, stabilì che il rapporto tra l’argento e l’oro fosse di 6,5 a 1: “Melik & Edward struck coins-with-a-sword, - ‘Emir el Moumenin’ (Systems p. 134) – six and ½ to one, or the sword of the Prophet, - SILVER being in the hands of the people – (…) Shafy and Hanbal both say 12 to 1, - (…) – and the Prophet – set tax on metal – (i.e. as distinct from) & the fat ‘uns pay for the lean ‘uns, - said Imran, - (…) – AND in 1859 a dhirem ‘A.H. 40’ was – paid into the post-office, Stanboul. – Struck at Bassora – 36.13 English grains. – ‘I have left Irak its dinar’, - & one fifth to God.” (Canto XCVII). La misura di ‘Abd el-Malik, introdotta nei territori europei soggetti a Bisanzio, “avvantaggiò i ceti popolari, che possedevano argento, mentre una classe dirigente ormai esausta possedeva soprattutto oro (…) i Musulmani ribaltarono il ciclo della storia, rimettendolo sulla direzione giusta” (32).
L’Islam, come è noto, ha emesso una assoluta ed inequivocabile condanna del prestito a interesse e della speculazione sull’oro e sulla valuta. “Quelli che si nutrono di usura non risorgeranno, se non come risorgerà colui che il diavolo avrà paralizzato insozzandolo col suo contatto. Questo perché essi dicono: ‘In verità il commercio è come l’usura’. E invece Iddio ha permesso il commercio e ha vietato l’usura” (33). Secondo un hadith, l’usura raggiunge il medesimo grado di abominio della fornicazione commessa con la propria madre all’ombra della Ka’ba. Concetti, questi, che sembrano riecheggiare nel Canto XLV, dove l’Usura è vista come pestilenza (“Usura is a murrain”), incesto (“CONTRA NATURAM”), profanazione (“They have brought whores for Eleusis”).
Attraverso questa convergenza di obiettivi del Confucianesimo e dell’Islam noi vediamo dunque esemplificato non lo “scontro delle civiltà”, ma, al contrario, quella superiore ed essenziale unità che lega tra loro le civiltà storicamente configuratesi nel continente eurasiatico. Di tale unità ha partecipato in passato anche la civiltà romana (e romano-cristiana), tant’è vero che Pound enumera una serie di sovrani e di legislatori europei i quali, istituendo leggi giuste e regolando la monetazione, hanno garantito ai loro popoli la possibilità di convivere in relativa pace e prosperità: “that Tiberius Constantine was distributist, - Justinian, Chosroes, Augustae Sophiae, - (…) – Authar, marvelous reign, no violence and no passports, - (…) – and Rothar got some laws written down – (…) – DIOCLETIAN, 37th after Augustus, thought: more if we tax ‘em – and don’t annichilate (…) – Vespasiano serenitas… urbes renovatae – under Antoninus, 23 years without war… (…) – HERACLIUS, six, oh, two – imperator simul et sponsus” (Canto XCVI).
Se uno scontro esiste, si tratta allora del conflitto insanabile che contrappone le civiltà, le vere civiltà, alla barbarie, ossia al tipo di vita contra naturam in cui il vantaggio economico individuale prevale sul bene comune, l’Usura stronca la creatività e la Banca soppianta Eleusi.
                                                                    ************  
1. E. Fenollosa, L’ideogramma cinese come mezzo di poesia, Introduzione e note di E. Pound, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960. Cfr. G. E. Picone, Fenollosa – Pound: una ars poetica, in AA. VV., Ezra Pound 1972/1992, a cura di L. Gallesi, Greco & Greco, Milano 1992, pp. 457-480.
2. E. Pound, The Renaissance, “Poetry”, 1915, p. 233.
3. Wai-lim Yip, Ezra Pound’s Cathay, New York 1969, p. 88.
4. E. Pound, Cathay, Elkin Mathews, London 1915.
5. Laura Cantelmo Garufi, Invito alla lettura di Pound, Mursia, Milano 1978, p. 57.
6. E. Pound, Ta Hio, the Great Learning, University of Washington Bookstore, Seattle 1928; Stanley Nott, London 1936.
7. Pio Filippani-Ronconi, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino 1964, p. 52.
8. E. Pound, Confucius Digest of the Analects, Giovanni Scheiwiller, Milano 1937.
9. E. Pound, Ciung Iung. L’asse che non vacilla, Casa Editrice delle Edizioni Popolari, Venezia 1945. Questo libro “fu distrutto per grossolana ignoranza dai vincitori alla fine della guerra, perché ne scambiarono il titolo antichissimo con un’allusione all’asse Roma-Berlino” (Giano Accame, Ezra Pound economista. Contro l’usura, Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 135).
10. E. Pound, The Classic Anthology Defined by Confucius, Harvard University Press, Cambridge 1954; Faber & Faber, London 1955. Ristampato col titolo The Confucian Odes, New Directions Paperbook, New York 1959.
11. E. Pound, Carta da visita, Edizioni di Lettere d’Oggi, Roma 1942, p. 50.
12. E. Pound, Confucio filosofo statale, “Il Meridiano di Roma”, 11 maggio 1941; rist. in: E. Pound, Idee fondamentali, Lucarini, Roma 1991, p. 73.
13. “Se la terminologia non è esatta, se non corrisponde alla cosa, le istruzioni governative non saranno esplicite; se le disposizioni non sono chiare e I nomi non si adattano, non potrete svolgere correttamente gli affari. (…) Ecco perché un uomo intelligente cura la propria terminologia e dà istruzioni convenienti. Quando i suoi ordini sono chiari ed espliciti, possono essere posti in esecuzione” (E. Pound, Guida alla cultura, Sansoni, Firenze 1986, p. 16).
14. Andrea Marcigliano, L’ideogramma di Luce del Mondo, in: AA. VV., Ezra Pound perforatore di roccia, Società Editrice Barbarossa, Milano 2000, p. 87.
15. A. Marcigliano, op. cit., p. 83.
16. E. Pound, Cantos LII-LXXI, Faber & Faber, London e New Directions, Norfolk, Conn. 1940.
17. Earle Davis, Vision fugitive – Ezra Pound and economics, The University Press of Kansas, Lawrence/London 1968, p. 98.
18. L. Cantelmo Garufi, op. cit., pp. 114-115.
19. Père Joseph Anne Marie de Moyriac De Mailla, Histoire générale de la Chine, Paris 1777-1783, 12 voll.
20. J. Levenson – F. Schurmann, China : An Interpretative History from the Beginnings to the Fall of Han, University of California Press, Berkeley – Los Angeles 1969, p. 49.
21. L. Cantelmo Garufi, op. cit., p. 116.
22. Hugh Kenner, L’età di Pound, Il Mulino, Bologna 2000, p. 565.
23. E. Pound, What is Money for?, Greater Britain Publ., London 1939.
24. G. Accame, op. cit., p. 113.
25. P. Filippani-Ronconi, op. cit., p. 157.
26. E. Pound, Section: Rock-Drill 85-95 de los cantares, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1955; New Directions, New York 1956; Faber & Faber, London 1957.
27. Tim Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Press, London 1991, p. 252.
28. T. Redman, op. cit., p. 252.
29. E. Pound, Radiodiscorsi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1998, pp. 203-204.
30. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 152.
31. S. P. Huntington, op. cit., pp. 351-352.
32. Robert Luongo, The Gold Thread. Ezra Pound’s Principles of Good Government & Sound Money, Strangers Press, London-Newport 1995, pp. 71-72.
33. “alladhîna ya’kulûna ‘l-ribà lâ yaqûmûna illâ kamâ yaqûmu ‘lladhî yatakhabbatuhu ‘l-shaytânu min al mass. Dhâlika bi-annahum qâlû: Innamâ ‘l-bay’u mithlu ‘l-ribà; wa ahalla Allâhu ‘l-bay’a wa harrama ‘l-ribà“ (Corano, II, 275)

Articolo scritto da Claudio Mutti il 17.04.2006                                               
Le frasi in neretto e corsivo sono di Janua Coeli.







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