lunedì 27 dicembre 2010

Henry Corbin: l'Eurasia come concetto spirituale


Henri  Corbin


Dall'Irlanda al Giappone

"Eurasia, dall'Irlanda al Giappone" (1) è, per il ventenne Henry Corbin (1903-1978), un "concetto spirituale" (2) fornito di "particolare valore" (3), che, trascendendo il livello delle determinazioni geografiche e storiche, viene a costituire la "metafora dell'unità spirituale e culturale da ricomporre al termine dell'età cristiana ed in vista dell'oltrepassamento degli esiti di questa" (4). Tali sono, quanto meno, le conclusioni di uno studioso che nell'opera corbiniana ha evidenziato le indicazioni idonee a fondare "quella grande operazione di ermeneutica spirituale comparata, ch'è la Cerca d'una filosofia - anzi: d'una sapienza - eurasiatica" (5). In altri termini, la stessa categoria geofisica di "Eurasia" altro non sarebbe che la proiezione di una realtà geosofica connessa all'Unità originaria, poiché "l'Eurasia è, nella percezione interiore, nel paesaggio dell'anima o di Xvarnah ("Luce di Gloria", nel lessico mazdaico), la Cognitio Angelorum, l'operazione autologica dell'Anthropos Téleios; o anche, infine, l'unità fra Lumen Naturae e Lumen Gloriae. Di qui la possibilità d'accostare l'Eurasia interiore alla conoscenza immaginale della Terra come Angelo" (6).

È lo stesso Henry Corbin a rievocare l'esperienza visionaria del filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner, che identificò con la figura di un Angelo il volto della Terra circonfuso di luce gloriosa, e a citare il passo concordante di un rituale avestico: "Noi celebriamo questa liturgia in onore della Terra che è un Angelo" (7). Infatti secondo la dottrina mazdaica la Terra viene percepita nella "persona" del suo Angelo, allorché l'anima, proiettando l'immagine di se stessa, instaura una Imago Terrae che la riflette. L'angelologia mazdaica traduce il mistero di questa proiezione nei termini seguenti: Spenta Armaiti, l'Arcangelo femminile dell'esistenza terrestre, è la madre di Daênâ, l'Angelo femminile che sostanzia l'Anima caelestis, il Corpo di Resurrezione. In tal modo, "la formulazione medesima della categoria geofisica di 'Eurasia' appartiene al processo della Palingenesi, ch'è la Resurrezione alla Luce della Transfigurazione" (8).

La geosofia mazdaica, intimamente connessa all'essenziale carattere sofianico di Spenta Armaiti, si riferisce in primo luogo ad una Terra celeste; applicata allo spazio terrestre, essa ci presenta un kyklos, un orbis, analogo a quello che Omero ha simboleggiato con lo Scudo di Achille e Virgilio con quello di Enea (9), ovvero, per restare in ambito iranico, a quell'attributo dell'Uomo Universale (insân-e kâmil) che è la Coppa di Jamshid. In tale raffigurazione, la Terra è circondata dall'Oceano cosmico ed è suddivisa in sette zone (keshvar) (10); al centro della zona centrale, chiamata Xvaniratha ("ruota luminosa"), "si trova Airyanem Vaejah (pahlavi Erân-Vêj), la culla o il germe degli Ariani (= Iranici). È là che furono creati i Kayanidi, gli eroi leggendari; è là che fu fondata la religione mazdea, da dove si diffuse negli altri keshvar; è là che nascerà l'ultimo dei Saoshyant che ridurrà all'impotenza Ahriman e porterà a compimento la resurrezione e l'esistenza ventura" (11). Situato al centro della superficie terrestre, l'Iran ci appare dunque come "cerniera, non solo geografica, ma anche e soprattutto spirituale" (12), dell'ecumene eurasiatica.

La raffigurazione mazdaica, successivamente rielaborata, entrò a far parte del retaggio culturale che l'Iran trasmise all'Islam. Nel Kitâb al-Tafhîm di Abû Rayhân Mohammad ibn Ahmad Bîrûnî (362/973 - 421/1030) (13) si trova uno schema in cui il cerchio centrale, l'Iran, è circondato da altri sei cerchi, tangenti fra loro, che corrispondono ad altrettante regioni: India, Arabia ed Abissinia, Siria ed Egitto, area slavo-bizantina, Turkestan, Cina e Tibet.

Oriente e Occidente

OCCIDENTE  ED  ORIENTE

Secondo la prospettiva islamica, al centro del mondo terrestre si trova la Ka‘ba, il più antico fra i templi di Dio, sorto inizialmente all'epoca di Adamo, poi edificato da Abramo nella sua forma attuale. Sulla pianta e sulla struttura di questo santuario primordiale e centrale meditò Qâzî Sa‘îd Qommî (1042/1633 - 1103/1691-'92) nel primo capitolo del Kitâb asrâr al-Hajj ("Libro dei sensi esoterici del Pellegrinaggio"), che costituisce l'oggetto di un approfondito studio di Henry Corbin (14). "Il principio - spiega quest'ultimo - è sempre lo stesso: le forme di luce (sowar nûrîya), le figure superiori, sono 'impresse' nelle realtà di quaggiù, che le riflettono come specchi (notiamo che, da un punto di vista geometrico, queste considerazioni sarebbero valide anche per la forma del tempio greco)" (15). Ora, sul piano superiore delle realtà archetipiche vi sono quattro "limiti metafisici" (16), due dei quali (l'Intelligenza universale e l'Anima universale) si trovano ad oriente della Realtà ideale, mentre gli altri due (Natura universale e Materia universale) si trovano ad occidente. In virtù della legge delle corrispondenze, gli angoli della Ka‘ba terrena si trovano disposti secondo un ordine analogo: "due di questi angoli sono a oriente, cioè quello in cui è incastonata la Pietra Nera (l'angolo iracheno) e quello yemenita; gli altri due sono a occidente e sono l'angolo occidentale e il siriano" (17). Sono questi i due orienti (mashriqayni) e i due occidenti (maghribayni) ai quali fa allusione il versetto 17 della Sura del Misericordioso, puntualmente citata da Corbin.
                                                                                                                                                        
Il versetto coranico ne richiama un altro, quello che inizia con le parole: "A Dio appartengono l'Oriente e l'Occidente" (Sura della Vacca, 115). "Gottes ist der Orient! - Gottes ist der Okzident!": così ce lo restituisce Wolfgang Goethe, del quale Corbin ci mostra in più di un'occasione la convergenza con la sapienza islamica. Ma la coppia "Oriente-Occidente" ritorna nel Versetto della Luce, parzialmente riportato in epigrafe al primo capitolo dello studio su L'uomo di luce del sufismo iraniano: "... una lampada che brucia con l'olio d'un ulivo che non è né dell'Oriente né dell'Occidente, che s'infiamma senza che il fuoco neppure la tocchi... Ed è luce su luce".

Tra l'oriente e l'occidente, come tra il settentrione e il mezzogiorno, corrono linee ideali da cui dipende non solo l'orientamento geografico, ma anche le categorie antropologiche. Nella prospettiva del simbolismo spirituale, queste direzioni orizzontali assumono un senso in base al modo in cui l'essere umano vive la dimensione verticale della sua presenza nello spazio e nel tempo; ed è un orientamento di questo genere a costituire uno dei temi principali del sufismo iraniano. "Si tratta (...) della Ricerca di un Oriente di cui ci viene detto, o di cui si comprende all'istante, che non è situato né situabile sulle nostre carte geografiche. Questo Oriente non è compreso in alcuno dei sette climi (i keshvar); è infatti l'ottavo clima. E la direzione in cui questo 'ottavo clima' va cercato non è quella orizzontale ma quella verticale. Questo Oriente mistico sovrasensibile, luogo dell'Origine e del Ritorno, oggetto della Ricerca eterna, è al polo celeste; esso è il Polo, un estremo nord così estremo da essere la soglia della dimensione 'al di là' " (18). La geografia sacra dell'Iran fa corrispondere questo Polo celeste alla montagna cosmica di Qâf, là dove inizia quel mondo di Hûrqalyâ che è illuminato dal sole di mezzanotte. È il paese degli Iperborei (19), i quali "simboleggiano l'uomo la cui anima ha raggiunto una completezza e un'armonia tali da essere priva di negatività e di ombra, anima che non è né dell'oriente né dell'occidente" (20).

Ishrâq, nome verbale che in arabo designa l'irraggiare del sole dal punto in cui esso sorge, è un termine peculiare della sapienza islamica dell'Iran. Ishrâqîyûn o Mashriqîyûn ("Orientali") sono i sapienti della Persia antica, chiamati così "non certo soltanto per la loro localizzazione geografica, ma perché la loro conoscenza era orientale, nel senso che si fondava sulla rivelazione interiore (kashf) e sulla visione mistica (moshâhadat)" (21). Tuttavia il significato dell'Oriente come Oriente illuminativo, direzione che conduce al Polo spirituale, non è un concetto che caratterizzi in maniera esclusiva il pensiero tradizionale dell'Iran. "Questo orientamento era già dato ai misti dell'orfismo. Lo troviamo nel poema di Parmenide dove, guidato dalle figlie del Sole, il poeta intraprende un viaggio verso l'Oriente. Il senso delle due direzioni, destra e sinistra, Oriente e Occidente del Cosmo, è fondamentale nella gnosi valentiniana. (...) Ibn 'Arabî (1240) innalza a simbolo la propria partenza per l'Oriente; del viaggio che dall'Andalusia lo porta sino alla Mecca e a Gerusalemme egli fa il proprio Isrâ’, omologandolo a un'ekstasis che ripete l'ascensione del Profeta di Cielo in Cielo, sino al 'Loto del limite'. Qui l'Oriente geografico e 'letterale' diviene simbolo dell'Oriente 'reale', ovvero del polo celeste" (22).

La Kaaba in Makka
Umbilicus Terrae                                                          

Nella geografia sacra risultante dalle esplorazioni spirituali di Henry Corbin, il termine occidentale dell'Eurasia è rappresentato dalle isole britanniche. Qui i fedeli della chiesa celtica primitiva venivano designati in irlandese come céle Dé: denominazione che, resa con Amici Dei, "si ritrova nella gnosi islamica (Awliyâ’ Allâh) e nella mistica renana (Gottesfreunde)" (23). Questi Coli Dei, "stabilitisi in Inghilterra a York, in Scozia a Iona, nel Galles, in Irlanda, (...) avevano come simbolo preferito la colomba, simbolo femminile dello Spirito Santo. In questa linea non ci si stupirà di scoprire che la loro tradizione è mescolata al druidismo, e che la loro letteratura abbraccia anche i poemi di Taliesin. Così, anche l'epopea della Tavola Rotonda e la ricerca del santo Graal sono state riferite ai riti dei Coli Dei" (24). A questa stessa fratellanza spirituale viene ricondotta l'esistenza del santuario di Kilwinning, sulla montagna di Heredom, da dove si irradiò quell'Ordine regale al quale il re Robert I Bruce avrebbe affiliato i Templari, realizzando la convergenza di celtismo e templarismo.

All'altra estremità dell'Eurasia si estende la Cina, "l'estremo limite del mondo umano, del mondo cioè che può essere esplorato dall'uomo in normali condizioni di coscienza" (25). Influssi taoisti si sarebbero d'altronde esercitati sulla ierocosmologia del sufismo centroasiatico e su alcune tecniche di recitazione del dhikr adottate dalla scuola di Najm Kobrâ (26). Fra i templi che sorgono ai confini della Cina ce n'è uno, descritto nel X secolo dallo storico arabo Mas‘ûdî (27), che nella sua struttura obbedisce al paradigma architettonico dei templi sabei; lo stesso Mas‘ûdî aveva visto quello di Harrân (l'antica Carrhae), sulla soglia del quale aveva potuto leggere l'epigrafe di sapore platonico "Chi conosce se stesso è deificato" (Man 'arafa nafsahu ta'allaha). "Iscrizione di sapore platonico" (28), certo, in cui "il termine tecnico arabo è l'equivalente della theôsis dei mistici bizantini" (29); ma anche esplicazione del precetto delfico, che sarà definitivamente convalidato dal hadîth qudsî "Chi conosce se stesso conosce il suo Signore" (Man 'arafa nafsahu 'arafa rabbahu). D'altronde gli ermetisti sabei di Harrân apporteranno in dote all'Islam la loro eredità, derivante da un'antica sapienza siriaca o sirobabilonese reinterpretata alla luce del neoplatonismo.

Equidistante dalla Scozia e dalla Cina è Al-Quds, "la città santa" per antonomasia. Nel luogo da cui ebbe inizio l'Assunzione del Messo di Dio - secondo Corbin un vero e proprio Umbilicus Terrae - "assume una funzione omologa a quella della Ka‘ba" (30) la Cupola della Roccia (Qubbat al-Sakhrat). Tale edificio, correntemente chiamato Moschea di Omar, "forma un ottagono regolare sormontato da una cupola: esso fu il prototipo delle chiese templari costruite in Europa, mentre la cupola era il simbolo dell'Ordine e figurava sul sigillo del Grande Maestro" (31). Questo intreccio di linee spirituali diverse fa di Gerusalemme il simbolico condominio microcosmico in cui si rispecchia la molteplicità tradizionale del macrocosmo eurasiatico, quella molteplicità di forme che Henry Corbin ci presenta nella sua essenziale unità.

La contrapposizione radicale fra Gerusalemme ed Atene, identificate come poli emblematici rispettivamente del monoteismo e del politeismo, è il punto in cui convergono tra loro gli zeloti delle presunte "radici giudaico-cristiane" dell'Europa e certi fautori di un malinteso "paganesimo" greco. Sostenere una posizione di questo genere, che vorrebbe ridurre ad uno schemino ideologico una relazione ben più profonda, complessa e articolata di quanto non immaginino "giudeo-cristiani" e "neopagani", significa ignorare come la più rigorosa dottrina metafisica dell'Unità (il Tawhîd integrale della metafisica islamica) non escluda affatto la molteplicità connessa alla gerarchia dei Nomi divini. Tra coloro che lo hanno compreso perfettamente vi è proprio Henry Corbin, il quale, stabilendo un ideale "parallelismo tra Ibn ‘Arabî da una parte (...) e Proclo dall'altra" (32) e richiamandosi al commento dello Scolarca di Atene al Parmenide platonico, rievoca l'incontro dei fisici della Scuola Ionica coi metafisici della Scuola Italica, convenuti gli uni e gli altri nella città-simbolo di Atene per partecipare alle Panatenaiche. "Celebrare queste feste - egli scrive - significa trovare nella Scuola Attica di Socrate e di Platone la mediazione capace di elevare i due estremi ad un livello superiore" (33).

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1. Henry Corbin, La Philosophie comparée, Paris 1923, p. 62.

2. Henry Corbin, La Philosophie comparée, cit., ibidem.

3. Henry Corbin, La Philosophie comparée, cit., ibidem.

4. Glauco Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis 2004, p. 14.

5. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 221.

6. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16.

7. Sîrôza, ventesimo giorno, cit. in: Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall'Iran mazdeo all'Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 35.

8. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16, n. 25.

9. Iliade, XVIII, 478-608; Eneide, VIII, 626-728.

10. La divisione settenaria dello spazio terrestre ritorna in altre culture tradizionali: cfr. Claudio Mutti, Gentes. Popoli, territori, miti, Effepi, Genova 2010, pp. 19-20.

11. Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, cit., pp. 47-48.

12. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 22.

13. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, pp. 153-155.

14. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, pp. 79-138. Su Qâzî Sa'îd Qommî, cfr. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., pp. 343-344.

15. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., pp. 88-89.

16. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 89.

17. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 90.

18. Henry Corbin, L'uomo di luce nel sufismo iraniano, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 8.

19. Sull'Iperborea e su analoghe rappresentazioni tradizionali della settentrionale "terra di luce", cfr. Claudio Mutti, op. cit., pp. 15-23.

20. Henry Corbin, L'uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., p. 48.

21. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 211.

22. Henry Corbin, L'uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., pp. 66-67.

23. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 282 n. 217.

24. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., pp. 231-232.

25. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 11.

26. Henry Corbin, L'uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., pp. 64 e 87.

27. Mas'ûdî, Les prairies d'or, ed. e trad. Barbier de Maynard, Paris 1914, vol. IV, p. 52.

28. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 12.

29. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 52, n. 7.

30. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 240.

31. Henry Corbin, L'immagine del Tempio, cit., p. 224.

32. Henry Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 8.

33. Henry Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 13.

Inserita il 21/12/2010 alle 19:06:08  in http://wwwclaudiomutti.com/

Pubblicato da wwwjanuacoeli blogspot.com il 27.12.2010



































































sabato 25 dicembre 2010

UNA FAMIGLIA ONOREVOLE

Friday, 17 December 2010
Un Miracolo...ed un umano nacque                                               
Una Famiglia Onorevole

La famiglia di Gesù è la famiglia di ‘Imran. Fu una famiglia scelta da Allah:

“In verità, Allah ha eletto Adamo e Noè e la famiglia di Abramo e la famiglia di Imrân, al di sopra del resto del creato (genere umano e jinn del tempo), [in quanto] discendenti gli uni degli altri. Allah è audiente, sapiente.” (Corano 3:33-34)

Una madre onorevole affidata ad Allah
Quando la madre di Maria, la moglie di ‘Imran, era incinta, ella fece un voto:
“Quando la moglie di Imrân disse: “Mio Signore , ho consacrato a Te, e solo a Te, quello che è nel mio ventre. Accettalo da parte mia. In verità Tu sei Colui Che tutto ascolta e conosce!”. Poi, dopo aver partorito, disse: “Mio Signore, ecco che ho partorito una femmina”: ma Allah sapeva meglio di lei quello che aveva partorito. “Il maschio non è certo simile alla femmina! L'ho chiamata Maria e pongo lei e la sua discendenza sotto la Tua protezione, contro Satana il lapidato.” (Corano 3:35-36)
Allah accettò la sua invocazione, e nacque Maria, la quale fu affidata alle cure del Profeta Zaccaria, come Allah, il più Lodato, aveva decretato:
“L'accolse il suo Signore (Allah) di accoglienza bella, e la fece crescere della migliore crescita. L'affidò a Zaccaria e ogni volta che egli entrava nel santuario trovava cibo presso di lei. Disse: “O Maria, da dove proviene questo?”. Disse: “Da parte di Allah”. In verità Allah dà a chi vuole senza contare. “ (Corano 3:37)
Allah la scelse fra tutte le donne del suo tempo:
“E quando gli angeli dissero: “In verità, o Maria, Allah ti ha eletta; ti ha purificata ed eletta tra tutte le donne del mondo.” (Corano 3:42)
La Buona Novella
Gli angeli portarono a Maria la buona novella della nascita di una “Parola” da Allah. La Parola era Sii! Ed egli fu! Gesù, figlio di Maria:
“Quando gli angeli dissero: “O Maria, Allah ti annuncia la lieta novella di una Parola da Lui proveniente: il suo nome è il Messia, Gesù figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell'Altro, uno dei più vicini. Dalla culla parlerà alle genti e nella sua età adulta sarà tra gli uomini devoti”. (Corano 3:45-46)
La “Parola” non è Dio, ma una Parola da Dio, pronunciata da Lui; è la Parola “Sii” ed egli fu! Cioè Gesù è una creazione per Ordine di Allah: Sii! Ciò significa che non è parte di Allah. Egli, il Piu’ Lodato, non si divide in nessuna cosa e nessun essere.
Gesù: Nessun padre umano!
Adamo: Nessun padre né madre!
Una creazione miracolosa

Maria ricevette la notizia. E pose la domanda:
“Ella disse: “Come potrei avere un bambino se mai un uomo mi ha toccata?”. Disse: “È così che Allah crea ciò che vuole: "quando decide una cosa dice solo Sii", ed essa è.”(Corano 3:47)
Una nascita tanto miracolosa non ne fa il “figlio di Dio”. Adamo non aveva né padre né madre. Dunque, dovremmo dargli una “Divinità Speciale”? Nessuno lo afferma. Ci dovrebbe far riflettere cosa Allah disse nei riguardi di Adamo e Gesù, che la pace sia su entrambi:
“In verità, per Allah Gesù è simile ad Adamo, che Egli creò dalla polvere, poi disse: “Sii”, ed egli fu. [Questa è] la verità [che proviene] dal tuo Signore.” (Corano 3:59-60)
Ed Allah non procrea. Egli, L’Eccelso, dice nel Corano (19: 88-95)
“Dicono: “Allah Si è preso un figlio .” “Avete detto qualcosa di mostruoso."
"Manca poco che si spacchino i cieli, si apra la terra e cadano a pezzi le montagne”,
“perché attribuiscono un figlio al Compassionevole.”
“Non si addice al Compassionevole, prenderSi un figlio.”
“Tutte le creature dei cieli e della terra si presentano come servi al Compassionevole.”ّ“Egli li ha contati e tiene il conto,”
“e nel Giorno della Resurrezione ognuno si presenterà da solo, davanti a Lui.”

La Concezione

Maria concepì miracolosamente Gesù, e partorì un maschio sotto un albero di palma:
“(O Muhammed) Ricorda (la storia di) Maria nel Libro (cioè il Corano), quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente.” (Corano 19:16)
"Tese una cortina tra sé e gli altri. Noi Le inviammo il Nostro Spirito (angelo Gabriele), che assunse le sembianze di un uomo perfetto.” (Corano 19:17)
“Disse [Maria]: “Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole (cioè Allah, se sei [di Lui] timorato!”. (Corano 19:18)
“Rispose: “Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro”. (Corano 19:19)
“Disse: “Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?”. (Corano 19:20)
“Rispose: “È così. Il tuo Signore ha detto: "Ciò è facile per Me (Allah); Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra (Allah). È cosa (già) stabilita (da Allah)”. (Corano 19:21)
“Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano (cioè la valle di Betlemme a circa 4-6 miglia da Gerusalemme).”(Corano 19:22)
“I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: “Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!”. (Corano 19:23)
“Fu chiamata da sotto (dal bambino Gesù o da Gabriele): “Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi;” (Corano 19:24)
“scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi.” (Corano 19:25)
“Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno, di': "Ho fatto un voto al Compassionevole (Allah) e oggi non parlerò a nessuno”. (Corano 19:26)
Poi porto’ il bambino Gesù alla sua gente. Essi non credevano ai propri occhi:
“Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: “O Maria, hai commesso un abominio!” (Corano 19:27)
“O sorella di Aronne , tuo padre non era un empio, né tua madre una libertina.”(Corano 19:28)
“Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: “Come potremmo parlare con un infante nella culla?”,(Corano 19:29)
“[Ma Gesù] disse: “In verità, sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un Profeta.” (Corano 19:30)
“Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l'orazione e la decima finché avrò vita,” (Corano 19:31)
“e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento, né miserabile.” (Corano 19:32)
"Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò (dopo la sua discesa sulla terra precedente al Giorno del Giudizio) e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita (cioè la resurrezione dalla sua tomba nel Giorno del Giudizio) ”. (Corano 19:33)
Allah accentua la realtà di Gesù per tutti coloro i quali nutrono dubbi sullo stesso o sul suo Messaggio:
“Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano.” (Corano 19:34)
“Non si addice ad Allah prendersi un figlio . Gloria a Lui! Quando decide qualcosa dice: “Sii!” ed essa è.” (Corano 19:35)
A Gesù fu fatta una rivelazione (cioè i Vangeli originali) fortificata da miracoli. La gente a quel tempo credeva profondamente nei miracoli. La manifestazione dei miracoli per mano di Gesù aveva come scopo quello di portare la gente a credere che egli fosse veramente il Messaggero di Allah.
“E Allah gli insegnerà il Libro e Al-Hikmah , la Torâh e il Vangelo.” (Corano 3:48)
“E ne farà un (Gesù) messaggero per i figli di Israele [che dirà loro]: In verità, vi reco un segno da parte del vostro Signore. Plasmo per voi un simulacro di uccello nella creta e poi vi soffio sopra e, con il permesso di Allah, diventa un uccello. E per volontà di Allah , guarisco il cieco nato e il lebbroso, e resuscito il morto. E vi informo di quel che mangiate e di quel che accumulate nelle vostre case. Certamente in ciò vi è un segno se siete credenti!” (Corano 3:49)
“[Sono stato mandato] a confermarvi la Torâh che mi ha preceduto e a rendervi lecito qualcosa che vi era stata vietata. Sono venuto a voi con un segno da parte del vostro Signore. Temete dunque Allah e obbeditemi.” (Corano 3:50)
Ed un messaggio chiaro:
“In verità, Allah è il mio e vostro Signore. AdorateLo dunque: "ecco la retta via"”. (Corano 3:51)

Tradotto da Cinzia Amatullah dal testo
Some Sincere Advice To Every Christian Dr. Saleh As-Saleh
versione integrale in italiano presto disponibile su aims-co-uk
Posted by C. for friendlysisterhood at 15:00

Pubblicato su http://www.januacoeli/ blogspot.com il 25.12.2010

AN-NUR: ISRAELE CHE UCCIDE CON I SOLDI DEI CONTRIBUENTI AMERICANI. SVEGLIATEVI!!!!

AN-NUR: ISRAELE CHE UCCIDE CON I SOLDI DEI CONTRIBUENTI AMERICANI. SVEGLIATEVI!!!!

sabato 18 dicembre 2010

PANTA REI




Panta  Rei
Pubblicato il 17 dicembre 2010 da Stefano su Il Derviscio                 

L’identità territoriale e il viaggio a Ixtlan

Quando ero bambino,
alla fine dell’anno scolastico si andava dal calzolaio a comprare un paio di zoccoli con i colori della squadra di calcio del cuore che avremmo portato per tutta l’estate. Le giornate erano scandite dai sapori di avventure incredibili per i campi, lungo le rogge e nei boschetti fuori dal paese. Non solo non c’erano PC, iPod, WiFi e simili, ma anche la TV dei ragazzi spariva dal nostro programma quotidiano per lasciare il posto alla scoperta di mondi e impressioni fantastiche.
La geografia del paese, nonostante le vie e le piazze avessero già nomi altisonanti come Roma, Garibaldi, Verdi e Cavour, per noi si divideva in Contrada del Guasto, Angolo Pizzi, i cortiletti, la corte grande. Sul piazzale della Chiesa vecchia ormai sconsacrata c’erano tre osterie che la domenica si riempivano di uomini adulti che discutevano molto rumorosamente della loro settimana passata al lavoro nei campi. Gli operai erano una rarità e godevano di un rispetto quasi reverenziale, per le donne e i bambini, l’osteria era un tabù.
Poi, una delle osterie chiuse e al suo posto si stabilì una pizzeria. La presenza di questo corpo estraneo alla tradizione e alla storia del paese fu per mesi tema di accese discussioni e frequentare la pizzeria divenne sinonimo di ribellione e di appartenenza a un mondo oscuro misto di malaffare e di comportamenti immorali.
Sono passati gli anni.
La vecchia chiesa e il campanile sono stati abbattuti per fare posto a una banca e una gelateria, i cortiletti sono stati trasformati in ricercati appartamenti moderni, le osterie e anche la pizzeria sono sparite, la piazza e tutto il centro sono diventati una grande isola pedonale, le vecchie case e i cortili una volta popolati da famiglie di contadini, hanno lasciato il posto a boutique dove un paio di scarpe costa quanto un’utilitaria ai tempi del boom economico. Sono tornato a trovare un paio di amici e, seduto ai tavolini della gelateria, ho osservato il via vai sulla piazza riconoscendo a mala pena una decina di persone delle centinaia intente a commentare la prima pagina dei giornali prima di far ritorno a casa in tempo per il pranzo domenicale.
È questo il paese che ho lasciato più di trent’anni fa per iniziare la mia odissea di Sinbad alla scoperta di mondi nuovi?
Certamente no. Nemmeno le poche persone che credevo di conoscere sono rimaste le stesse. Panta rei, tutto scorre, tutto cambia.
Non solo le piazze, le strade, le osterie, anche le donne e gli uomini che sono rimasti non sono più gli stessi e credere a un’eredità culturale legata al territorio o alle tradizioni, è un’illusione. Anche ripetere cerimonie, liturgie, gesti come abbiamo fatto ogni anno il giorno di Sant’Antonio o di San Giuseppe, non riporta in vita situazioni e sentimenti passati, niente è più uguale. Non lo sono i protagonisti, non lo sono le circostanze, non lo sono le conseguenze.
Carlos Castaneda nel suo libro “Viaggio a Ixtlan” riporta un discorso di don Juan Matu, uno sciamano dell’America centrale che racconta della sua nascita a Ixtlan e dell’impossibilità di farci ritorno poiché tutto ciò che crediamo possa riportarci in luoghi o circostanze nelle quali siamo già stati, altro non è che illusione, o, come dice don Juan, fantasmi.
Alcuni degli amici o dei conoscenti che ho rincontrato hanno passato ore a raccontarmi di come tutto sia cambiato “per colpa” dei nuovi arrivati. I nuovi arrivati sono, secondo i miei interlocutori, “gli albanesi, i rumeni, i negri, i musulmani, i cinesi” a secondo del contesto.
Ai miei tempi la fonte di tutti mali era la pizzeria. Panta rei.
Noi che torniamo a intervalli più o meno lunghi sui luoghi nei quali abbiamo passato parte della nostra vita ci rendiamo conto che non “loro” hanno cambiato qualcosa ma che il cambiamento è nella natura stessa delle cose e che quella della continuità di usi e tradizioni è un’illusione alimentata da poche circostanze esteriori quali una processione alla festa del Santo, una manifestazione il giorno della liberazione, il matrimonio in Chiesa e il percorso mesto sul viale del cimitero ogni volta che un nostro caro ci lascia.
Eraclito scriveva che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume e aveva ragione perché in questo momento l’acqua che mi passa davanti non è più quella di un secondo fa e tutto quello che mi circonda, non è più allo stesso posto di prima. Il vento ha cambiato la posizione di ogni singola foglia, gli uccelli non si sono fermati nel cielo ma hanno continuato il loro volo, i pesci nell’acqua continuano a lottare contro la corrente che nonostante una parvenza di costanza nel suo agire, è solo approssimativamente definibile nella sua forza, velocità e direzione. Panta rei.
Che significato hanno allora parole come “padroni a casa nostra”, “noi”, “loro”?
In realtà nessuno.
Casa nostra non esiste, siamo nati casualmente in un luogo geografico definibile in parole e cifre e una maggioranza relativa di persone non si allontanerà mai molto da lí, ma ciò non lo fa diventare “nostro” anche perché “quel” luogo dove siamo nati non esiste più. Non esiste più l’attimo in cui abbiamo visto la luce di questo mondo e quel momento non sarà più ripetibile come non lo è qualunque altro momento della nostra vita. Panta rei.
È il Panta rei o il viaggio a Ixtlan, ogni altro racconto è illusione.
Ognuno faccia di questo quello che vuole, il mio sforzo personale è quello di avvicinarmi a una Verità che contenga tutto ciò che ho descritto fin qui, tutto ciò che ho fin qui vissuto e sperimentato e che non so descrivere e a tutto ciò che non potrò descrivere mai.
Per fare questo ho bisogno di un punto d’appoggio o di riferimento perché il tempo a nostra disposizione è poco e la possibilità di percorrere strade fallaci è grande quanto è grande l’angolo d’azione della nostra mente.
Il Sublime Buddha Gautama disse che la probabilità di incontrare un Maestro è simile a quella di una tartaruga nell’oceano che, venuta a galla per respirare, infila la testa nella ciambella di salvataggio perduta da una nave.
Ecco, nel mio girovagare alla ricerca di nuovi mondi, ho infilato per caso la testa in una ciambella di salvataggio che mi permette di lasciarmi trascinare dalla corrente del fiume senza paure, senza farmi prendere dal panico se a ogni istante il paesaggio dietro la sponda è diverso, senza lasciarmi prendere dalla voglia di afferrare una radice o un ciuffo d’erba sulla riva alla ricerca di una sicurezza falsa e menzognera.
In tutto questo non c’è merito alcuno, non ho fatto qualcosa di eccezionale o di particolarmente buono, non sono mai stato né un santo né un devoto, è semplicemente accaduto.
Se dovessi descrivere in poche parole la sostanza di questo percorso di vita che non posso dire di aver scelto, dovrei dire che Allah è pietoso e misericordioso verso le sue creature.
Ogni altro tentativo di descrizione sarebbe arroganza


giovedì 9 dicembre 2010

Otium e Culto

09/12/10
Josef Pieper, "Otium" e culto
Cantagalli Siena 2010
pp.86, €12































































“Otium e culto" di J.Pieper                                                        














La Cantagalli ha appena licenziato un breve ma prezioso saggio di Josef Pie­per dal titolo “Otium e culto”. Nel 2009 l’editrice senese aveva pubblicato dello stesso autore “Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa”. Così come nella gestazione di questo saggio, Pieper si era confrontato con le tesi di Johan Huizinga, in “Otium e culto” sono le idee di “Der Arbeiter” (“L’operaio”) di Ernst Jünger a fornire lo spunto. I fondamenti della civiltà occidentale non sono l’attivismo o il mondo della produzione come aveva sostenuto il funereo e disperante marxismo, ma l’otium, ovvero la “vita contemplativa”, e il culto come “distensione”, “assenza di fatica”, l’eccellenza della funzione del “procurarsi otium”, come da sempre proclama il cristianesimo. Questa la tesi. Il testo costituito da poco più di 50 pagine e lungamente e sapientemente prefato da Raffaele Iannuzzi, è scritto con efficace semplicità e senza le solite contorsioni retoriche tipiche di certi filosofi di professione e il cui unico scopo è quello di impressionare un certo milieu accademico. Pieper appartiene infatti a quella schiatta nobile di pensatori e maestri cattolici che hanno a cuore innanzitutto la verità del cristianesimo e la sua proclamazione chiara e diretta; non il suo oscuramento sintattico e semantico -a là Rahner, per intenderci. D’altronde, Pieper, che in Germania è considerato quasi un “Padre della Chiesa”, si è sempre abbeverato alle fonti cristalline e pure del magistero tomistico, riuscendo così a prendere le giuste distanze da quelle anfibologie heideggeriane che sono “croce e delizia” di tanti moderni teologi.
Salutiamo dunque questa nuova pubblicazione di Pieper che per lo stile e i contenuti ci ha ricordato certe pagine del nostro migliore Attilio Mordini, con vera soddisfazione e auspichiamo di vederne presto tradotta in italiano l’opera omnia.
A.L.F.



Cenni biografici
Nato a Rheine (Elte) il 4 maggio 1904, Josef Pie­per può essere considerato uno dei più famosi filoso­fi cristiani del ventesimo secolo. Dopo aver frequen­tato il rinomato "Gymnasium Paulinum" di Münster, dove imparò ad apprezzare Tommaso d'Aquino e Kierkegaard, studiò filosofia, giurisprudenza e socio­logia nelle università di Münster e di Berlino. Il suo primo libro, elaborato per il dottorato in filosofia, era intitolato La realtà e il bene: derivava dallo sti­molo di un corso di Romano Guardini e dallo studio delle opere dell'Aquinate, la cui lettura Pieper non abbandonò mai, neppure negli anni dell'arruolamen­to nell'esercito tedesco. Sin dagli inizi degli anni trenta, si interessò attivamente ai problemi sociali, anche sulla spinta dell'enciclica Quadragesimo anno, e scrisse diversi saggi sulla questione sociale. Poi si dedicò soprattutto a temi etici e antropologici, a cominciare da una serie di studi su ciascuna delle virtù cardinali e teologali. Insegnò nell'istituto di ma­gistero di Essen e in seguito assunse la docenza di Antropologia filosofica nella "Westfälichen Wilhelms­Universität" di Münster. Tra le altre onorificenze rice­vute, nel 1981 gli venne conferito il Premio Balzan per la filosofia, perché, secondo la motivazione, ave­va «aperto nuovi orizzonti nel riproporre i temi eter­ni della filosofia cristiana, congiungendo i pensieri della saggezza greca col messaggio del Vangelo in un linguaggio adatto a svegliare una coscienza filo­sofica dei problemi ultimi dell'esistenza nel pubblico in tutto il mondo».

Morì il 6 novembre 1997 a Münster (Westfalia). Le sue opere, tradotte in molte lingue, sono state rac­colte in dieci volumi e pubblicate dalla casa editrice Felix Meiner (Hamburg), a cura di Berthold Wald.




Pubblicato da Janua Coeli il 9 dicembre 2010

domenica 5 dicembre 2010

C.I.A. e MATTEI

Terrorismo, globalizzazione, U.S.A., wikileaks
Pubblicato il 5 dicembre 2010 da Stefano

Lo scontro mercantile trasformato in scontro di civiltà.                        
Proviamo a fare un percorso inverso,

La C.I.A. su Mattei

cioè, invece di continuare a smascherare come bufale e complotti i singoli episodi di terrorismo per scoprire inevitabilmente la mano di servizi segreti interessati e armate Brancaleone, proviamo una volta a dare un’occhiata a documenti e studi ufficiali di Governi e Ministeri, anche senza wikileaks, e vedere quali conseguenze questi studi hanno poi avuto sulla realtà.
Prendiamo un paio di esempi dal già molto abusato “Rebuilding American’s Defenses”.
Redatto nel settembre del 2000 da Robert Kagan, Devon Gaffney Cross, Bruce P. Jackson, John R. Bolton e Gary Schmitt (ho messo i Link per gli interessati).
Nelle circa novanta pagine del documento, oltre ad auspicare una nuova Pearl Harbour (pag. 51) per dare agli Stati Uniti la possibilità di schierare sullo scacchiere internazionale una serie di tecnologie e strategie militari avanzate (cosa avvenuta dopo l’undici settembre), elenca una serie di cambiamenti necessari nella strategia internazionale.
Alcuni esempi: cancellare il progetto Joint Strike Fighter, troppo costoso e non più adatto alle nuove tattiche di guerra asimmetrica (terrorismo). Benché i redattori siano tutti conservatori che hanno poi servito Bush nella sua avventura in Afganistan e Iraq, la cancellazione del progetto è stata definitivamente siglata da Obama.
Lo spiegamento di uno scudo spaziale sopra l’America e i paesi alleati (viene usato per la prima volta il nome Homeland Defense). Anche qui, il progetto non si ferma ai confini del partito di Bush e a realizzarlo è chiamato il partito di Obama.
La riduzione delle portaerei, l’aumento della spesa militare, l’alto impiego di nuove tecnologie e la possibilità di agire su più teatri di guerra contemporaneamente. Tutte cose avvenute e realizzate dopo la nuova Pearl Harbour dell’undici settembre.
Un altro documento interessante è senza dubbio il „Rapporto 2020 – Le scelte di politica estera“ realizzato dall’unità di Analisi e di Programmazione – Gruppo di riflessione Strategica del Ministero degli Affari Esteri Italiano con la prefazione di Massimo D’Alema.
Nel rapporto si fa un’analisi accurata di alcune caratteristiche dell’economia italiana e della sua dipendenza dalle forniture di energia. Interessante l’analisi per quel che riguarda le forniture di gas: le riserve di gas naturale sono piuttosto abbondanti. Tre soli paesi – la Russia, l’Iran e il Qatar – ne controllano oltre il 55%. Quasi l’80% del gas producibile nei prossimi decenni si trova in Russia e nelle ex-Repubbliche Sovietiche, in Medio Oriente, nell’Africa settentrionale e in Nigeria. Il gas naturale soddisfa all’incirca il 40% del fabbisogno energetico italiano, quasi il doppio rispetto al resto d’Europa e alla media mondiale. La dipendenza dal gas si traduce per il nostro paese in una profonda dipendenza energetica da un ristretto numero di paesi terzi, prevalentemente extra-europei. Nel caso dell’Italia, gli approvvigionamenti di gas provengono da un numero esiguo di grandi produttori in grado di raggiungere il paese via gasdotto: Russia, Algeria, Libia e Norvegia coprono all’incirca l’80% delle importazioni italiane. La situazione per l’intera Unione Europea è molto simile: Russia, Norvegia e Algeria coprono l’80% delle importazioni continentali. Questo ci obbliga a una politica di multilateralismo che preoccupa molto gli alleati d’oltre oceano.
La contrarietà dell’etablissement americano nei confronti delle politiche ispirate da Mattei è ormai storia (la foto sopra è parte del documento della C.I.A. NLK-99-71E #7) e la continuazione di tale contrarietà è probabilmente alla base dell’attentato di Nassiriya, dove i nostri carabinieri erano impiegati alla protezione degli impianti E.N.I.
Cosa ci insegna tutto questo e a quali considerazioni ci può portare?
La prima considerazione è che oggi, all’indomani della fine della guerra fredda, si scontrano due modelli di rapporti internazionali.
Uno basato sull’antica concezione mercantile che prevede quindi la superiorità di un modello o di una nazione sopra le altre. Nel progetto per il nuovo secolo americano è scritto: ”È nostro obiettivo è supportare la causa per la leadership globale americana … la storia di questo secolo deve averci insegnato di abbracciare la causa di una leadership americana”. Per questo é necessario di tanto in tanto definire “paesi canaglia” quei paesi che non si sottomettono alla pax americana come è necessario di tanto in tanto esportare la democrazia e invadere paesi lontani alla ricerca di ex agenti della C.I.A. improvvisamente passati dall’altra parte e in grado di minacciare la sicurezza mondiale, come nei film di James Bond.
L’altro modello è quello multilaterale o globale che, con le dovute correzioni, presuppone un’ulteriore apertura e liberalizzazione dei mercati internazionali e significa che gli attuali squilibri finanziari riusciranno a essere corretti nel momento in cui si troverà una soluzione condivisa per il forte disavanzo degli Stati Uniti e il corrispondente surplus dei maggiori paesi asiatici e di quelli esportatori di petrolio. Una soluzione senza trucchi finanziari come quello di stampare miliardi di dollari (600) senza contropartite o di propaganda contro un fantomatico “terrorismo internazionale” che minaccia la nostra civiltà e che si manifesta ogni volta che la nostra attenzione deve essere distratta da problemi che danneggiano l’immagine di un paio di nazioni occidentali.
Senza fare del complottismo, quando gli Stati Uniti manderanno in pensione gli agenti che in questi anni hanno diretto le operazioni di guerra asimmetrica su tutto il globo, avremo un mondo più pacifico e potremo tornare a dormire sonni tranquilli

Pubblicato su Il Derviscio di Stefano

giovedì 2 dicembre 2010

Dante e l'Islam nel Cuore di Guido De Giorgio Commento inedito al V° Canto

Guido De Giorgio e il suo commento ai primi cinque canti della Divina Commedia


[ Testo base di una conferenza tenuta alla sezione di Mondovì della società Dante Alighieri nell’ottobre del 1987, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Guido De Giorgio (1890-1957) dal suo allievo, discepolo e amico Filippo Ladon (1923 – 1996) ].



                                                                     ********* 
Sono trascorsi ormai trent’anni da quando s’è chiusa la vita terrena di Guido De Giorgio, vita tormentata e tormentosa per sé e per tanti che gli furono vicini e cari.
Per quel suo non adeguarsi al mondano, per quel suo spregio per la modernità, il progresso, il quotidiano, per quel suo modo di amare in attesa sempre che l’amato desse il meglio, il tutto di sé, pena il disprezzo verbale, temperato tuttavia sempre da un’ironia appena percettibile, sofferse e fece soffrire purificandosi e purificando.
Nato nel 1890 a San Lupo nel Sannio Beneventano, studiò a Napoli e, ancora giovanissimo, in Tunisia ebbe la ventura di entrare in contatto con i maestri dell’esoterismo islamico.
Fu dopo il ritorno dalla Tunisia ed un lungo intervallo in Francia ed in Liguria – a Varazze – che prese a frequentare queste montagne ed esse lo spinsero a scegliere Mondovì come rifugio. Qui, tra via di Vasco, via Vico (che prese poi il nome di Havis De Giorgio dal figlio medaglia d’oro in A. O. I.), Fiamenga ed infine Sant’Anna di Montaldo trascorse una trentina d’anni.
Lo spregiato - amato Julius Evola così ne parla: “… era una specie di iniziato allo stato selvaggio e caotico, aveva vissuto con gli arabi, aveva conosciuto il Guenon e dal Guenon era stato tenuto in alta stima. Possedeva una cultura eccezionale… la sua insofferenza per il mondo moderno era tale che egli si era ritirato a vivere fra i monti… Fui in contatto con D.G. con cui mi incontrai anche due volte sulle Alpi, soprattutto nel breve periodo della vita della mia rivista “La Torre”.
Verso la fine degli anni trenta ed all’inizio degli anni quaranta D.G. collaborò al “Diorama Letterario” del quotidiano “Regime Fascista” di Cremona ed attese alla stesura della sua opera fondamentale “La tradizione romana” uscita postuma nel 1973 presso l’editore Flamen di Milano.
Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e sino alla fine del 1957, anche se non trovò mai quiete nella contemplazione, s’accostò con singolare fervore al Cattolicesimo più profondamente ortodosso. Ricordo nel suo sacco da montagna un libretto con le opere del Manzoni “Osservazioni sulla morale cattolica” e “Sentir Messa”. Ricordo un suo scritto percorso da lampi di fede e speranza, da mistiche fulgurazioni di amore “Ciò che mormora il vento del Gargano” ed il suo allontanarsi da tutti – pur senza nulla rinunciare del pensiero tradizionale, pur fedele al principio dell’unità di tutte le religioni nella Trascendenza – per essere più aderente al pensiero ed alla liturgia della Chiesa Romana così come anche il Guenon gli aveva suggerito, Guenon che, avendo trovato rifugio nella tradizione islamica, lo invitava a restare nel solco in cui era nato, per quella “salvezza” che trascende vita e morte.
Per De Giorgio la ricerca intellettuale si conclude ed esprime compiutamente col momento della Preghiera che non appartiene, come sembra rimproverargli Evola “ad una specie di Cristianesimo vedantizzante”, ma si ispira all’unità nel Cristocentrismo di San Gregorio Palamas – ricordo che ottenne il volume della Philocalia uscito in Francia nel 1953 dopo lunghe ricerche.
Se il cammino intellettuale di D.G. da quando scrive su “Le voile d’Isìs” di Chacornac o su “La Torre” di Evola con lo pseudonimo di ZERO quasi a qualificarsi quale “animatore invisibile del foglio”, a quando tiene una nutrita corrispondenza con Guenon il quale lo tratta con profonda amicizia; che umile pellegrino cerca la confessione e la benedizione di Padre Pio; che raduna intorno a sé i giovani in una scuola in cui offre un sapere durevole, ci rivela una potente personalità individuale, molte cose del di lui spirito e del suo atteggiamento culturale restano oscure se non si inquadra la sua figura in quella vasta corrente di pensiero che, in particolare nel periodo fra le due guerre mondiali, esprime l’inquietudine europea di fronte all’imponente sviluppo tecnico e industriale.
Sono gli “spiriti liberi” europei, secondo la definizione dello storico Delio Cantimori, che prendono in esame i sintomi del declino spirituale dell’Occidente che sta divenendo ateo, scientista e materialista. Sono letterati come Valery, Mann, Musil o Drieu La Rochelle, saggisti come Spengler, Benda o Huizinga, filosofi come Ortega y Gasset, Berdiaef o Simone Weil, tradizionalisti come Guenon, Evola o Schuon.
Come si vede essi non hanno la stessa matrice culturale, sono mistici, irrazionalisti, democratici ardenti o aristocratici, per il Fronte popolare in Francia o contro, per Franco in Spagna o contro, alcuni finirono nei campi nazisti, altri di fronte al plotone d’esecuzione dei liberatori.
Le fughe di questi personaggi sono nel passato; il Medioevo rappresenta per alcuni la logica antitesi del presente, le fughe di questi personaggi sono nei grandi spazi: per Hermann Hesse sarà l’India e i suoi misteri, per Malraux la Cina; per Paul Nizan, Guenon, Schuon l’Islam quasi ad esorcizzare od a prepararsi al futuro del profeta Joseph de Maistre:
“… oggi più che mai dobbiamo occuparci di queste alte speculazioni, perché dobbiamo tenerci pronti per un avvenimento enorme nell’ordine divino, verso il quale stiamo avviandoci ad una velocità sempre più forte che deve impressionare tutti coloro che la osservano…”
In verità questa pienezza dei tempi è giunta, il destino della sapienza umana è consumato questo pensano gli ultimi rappresentanti della “Tradizione” fra i quali è De Giorgio profondo conoscitore di quella occidentale. La Tradizione per lui, non ammette definizioni che potrebbero snaturarne il significato e consiste “… nella trasmissione innata ed immanente di principi di ordine universale … una filiazione spirituale fra maestro e discepolo”.
L’unità dei principi e delle origini spiega come sussistano legami profondi fra le Tradizioni succedutesi nel tempo e nello spazio, poiché tutte si richiamano a quella primordiale e, nella trascendenza convergono nell’Unità, così come è per le religioni.
Grazie ai simboli, ponti fra i sensi e lo spirito, è consentito rendere palpabili, tangibili i concetti intellegibili, attraverso la varietà delle interpretazioni, che ciascuno può dare a seconda del suo grado di iniziazione, della sua capacità intellettuale, si giunge a:
un “enteder non entendiedo / toda sciencia tracendiendo” (San Giovanni Della Croce).
Poiché l’iniziazione è indispensabile viene concessa attraverso quello che in India è chiamato “guru”, fra gli ortodossi “geron”, nell’Islam “sceicco” quasi un padre spirituale per questa seconda nascita.
Qualcuno forse si chiederà se esiste un metodo per questa forma di conoscenza. Metodo (il termine filosofico è noto per Cartesio) è concetto troppo moderno perché possa essere accolto. Si può tutt’al più rilevare che là dove il mistico “accetta”, l’iniziato “prende” aggiungendo che v’è una via per il contemplativo mentre ve ne sono infinite, quanti sono gli stati dell’essere, per chi si pone sulla strada dell’iniziazione.
Il punto di partenza del cammino iniziatico, sotto la guida del padre-maestro viene, in quasi tutte le tradizioni, indicato come “la discesa agli inferi” che, esaurendo certe infime possibilità dell’essere, rappresenta un ruolo di purificazione che non avrebbe più ragione d’essere nelle fasi successive.
Se poniamo mente a queste premesse, tenendo conto che per lui ebbero un senso di effettiva concretezza, possiamo comprendere che De Giorgio guarda a Dante non per un’esperienza letteraria, non per meri valori poetici, senza riguardo alla ricerca estetica, ma per trovare conferma che l’Alighieri esprime, attraverso la costruzione dell’Opera, le similitudini ed in particolare i simboli, le sacre verità, i valori della tradizione trascendente senza tempo.
Non ci sono più seicento anni fra il Poeta ed il suo interprete poiché la perennità della Tradizione rende il linguaggio eterno ed attuale, la conoscenza immediata e totale.
Altri nell’ottocento e nei primi anni del novecento hanno sperimentato un singolare incontro con Dante, ma nessuno di essi offre la stessa sensazione di partecipazione, di adesione, di amore per il poeta-teologo come De Giorgio.
Gabriele Rossetti, che guarda al Medioevo con mentalità illuminista, esagera l’eterodossia di Dante e l’opposizione di Lui al Papato anticipando in parte le interpretazioni dell’Aroux e più tardi del Peladan i quali spiegano la Divina Commedia secondo i riti ed i simboli massonici.
Il Perez, nella “Beatrice svelata” pubblicata a Palermo nel 1865, ha visioni sorprendenti sulla conoscenza intellettuale, sulla diffusione della cultura araba ai tempi di Dante, sul senso ed il peso della vita contemplativa, ma attribuisce troppa importanza alle allusioni politiche antiguelfe in cui ritiene si siano cullati l’Alighieri e Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti.
Al Pascoli, alle sue monumentali opere sulla Divina Commedia, create in un particolare ambiente culturale, si può rimproverare di avere troppo ragionato per far coincidere le allegorie e le strutture dantesche con gli schemi immaginati. E’ il rimprovero opposto a quello che all’opera pascoliana mosse il Croce “ di non industriarsi di persuadere ragionando”, ma come rileva De Giorgio, la ragione è mediazione nella conoscenza non fonte di conoscenza trascendente.
Per quel che riguarda il Valli ed il Ricolfi, ispirati dal Rossetti e dallo stesso Pascoli, si può dire che, nonostante le felici intuizioni, si perdono nella ricerca di un’interpretazione sistematica che non lasci luoghi oscuri, mentre, dal punto di vista della dottrina tradizionale, il simbolismo iniziatico non si può ridurre a formule più o meno strettamente sistematiche, poiché il suo ruolo è di servire da supporto a concezioni le cui possibilità sono veramente senza limiti.

Con De Giorgio, il Sacro del poema dantesco si illumina, allegorie e simboli si pongono in una nuova dimensione.

Attraverso il Boccaccio del commento e del “Trattatello in laude di Dante” De Giorgio chiarisce come, secondo la tradizione, Dante sia poeta e teologo, cammini sulle orme dello Spirito Santo, sia ispirato perciò dallo Spirito di Dio e come dice appunto Boccaccio (Tr.123) segue la teologia che “niun’altra cosa è che una poesia di Dio”.
Qualche confronto potrà servire a chiarire il diverso atteggiamento nei confronti del Poema.
Ecco la morte mistica in Pascoli: (Da “Sotto il velame”)
“Ora noi vediamo che Dante con aperte parole dice di morire anche avanti la concupiscenza e anche avanti la malizia; di morire di quella morte che è un rivivere, e che quindi non sapremmo dire se sia vita o morte. Non sapremmo dir noi, né sa dir esso, il poeta”.
Ed in De Giorgio:
“… è più morte della morte perché cosciente, integrale, voluta. La morte corporale si subisce a passivamente, fatalmente; quella mistica si prepara, si vuole, si cerca attivamente, volontariamente poiché tutto muore nel mistico anima e corpo. Intendiamo qui l’anima, l’anima non lo spirito, l’anima individuale non quella profonda di Dio che è in noi e che la maggior parte degli uomini ignora… La morte mistica è il trionfo di Dio sull’uomo, è la Croce volontariamente assunta … l’uomo nella morte mistica calca il teschio di Adamo, si aderge sull’alto della Croce ridonando a Dio tutto se stesso”.
Virgilio in Pascoli è simbolo mutevole: prima Ragione, poi Studio ed Amore o ancora l’Umanità con l’Impero, ma avanti la Redenzione; per De Giorgio è il maestro dei piccoli misteri, conosce le insidie dell’Oltretomba, non è poeta nel senso normale della parola, ma “un famoso saggio” un centro spirituale di irradiazione.
Se accompagna Dante nella prima parte del “viaggio” è che fin là si limitava l’insegnamento tradizionale di cui Virgilio è la personificazione, insegnamento che comprende una fase assai estesa, ma pur sempre limitata che Dante completa associandola a quella cristiana attuando così una “cattolicizzazione” tradizionale.
Dopo queste premesse si può forse più facilmente comprendere che l’incontro di De Giorgio con il poema di Dante ha dato frutti con carattere di schietta originalità.
Né si deve pensare che l’esegesi abbia la pretesa o l’intento di sciogliere i cosiddetti “passi misteriosi” del poema (come il famoso “pape satan” del VII canto) che anzi la novità germoglia proprio in quei luoghi dei quali apparentemente ogni senso è già stato indagato e svelato.
In apertura del Primo Canto la “selva selvaggia e aspra e forte” “selva erronea … di questa vita” come ripete Dante nel Convivio (IV, 24,12) , labirinto del peccato è per De Giorgio “ ὕλη” che, oltre il significato generale di selva e di materia ha anche quello più speciale di “faex” di “sedimentum” quindi “precipitato, residuo” quindi vera e propria vegetazione residuale, una florescenza d’ombra soggetta ad una legge di sviluppo parassitario.
E’ la “νῆσος δενδρήεσσα (1,v.51) di Omero, circondata dalle acque, l’ omφαλος θαλασσησ, Ogigia; e proprio in Omero abbiamo accomunate le due caratteristiche iliche: la pluralità – alberi selva – illusoria e l’elemento umido che l’avvolge.
Altrove De Giorgio ritorna sulla caratteristica di “sedimentum” dei luoghi infernali. La concrezione – egli chiarisce – si fa più terribile a misura che si discende, che si penetra nelle viscere della terra, che si sprofonda nell’elemento più spesso, quello che si ammassa sui dannati, quasi a significare che l’elemento somatico può fecondare solo la materia, il regno della morte; per mostrare che l’uomo si nutre di morte.
Il peccato vero e proprio è nella negazione di Dio, nel non riconoscere il fuoco dell’Amore-Spirito, dopo aver negato la Potenza-Padre e la Sapienza-Figlio. Al limite estremo è Cocito, il fiume rappreso di gelo, che segna il silenzio terribile della morte totale. A questa “precipitazione”, impedimento spirituale personificato dalle tre fiere, De Giorgio ritorna parlando del Veltro che “è certamente l’essere privilegiato, nutrito di sapienza, d’amore e di virtù che domerà la lupa” e la “scoverà da ogni ripostiglio del cuore” la caccerà per ogni villa” e la riporrà nel mondo dell’eternità buia, subterrestre.
Il Veltro sdegnerà la gloria del mondo, sarà un povero, un fakir, un sufi (tra feltro e feltro) nel senso assoluto, non si nutrirà di alcun cibo terreno, terreno temporale e darà “salute” all’umile Italia terra della tradizione latina.
Nel secondo canto De Giorgio propone il tema della “gihad” la guerra, la grande guerra santa che l’Islam oppone alla “piccola guerra santa” puramente esteriore; quella guerra è “sì del cammino e sì della pietade” implica cioè sforzo, travaglio sulla via della liberazione ed esercizio continuo di pietas, dedizione espiatoria con assentimento assoluto della coscienza. E’ la pietas che assicura la purificazione dell’animo che ascende per i gradi dell’eternità ed è la condizione principale senza la quale sarebbe impossibile intraprendere il “grande combattimento” contro la “propria sventura di non essere santi”.
Altro tema del secondo canto è quello delle tre donne benedette che si curano di Dante nella “corte del cielo” e sono qui simboli dell’Amore divino. La donna gentile che “duro giudicio là sù frange” richiama uno dei nomi divini di Allah nell’esoterismo islamico: Djemâl opposto a Djelâl, o per meglio dire aspetto differente dello stesso Principio nel senso generale di “Bellezza” “Dolcezza” opposto a “Rigore”; questi due aspetti, qui, avrebbero un prima rispondenza in quanto “duro Giudicio” richiama Djelâl mentre donna gentile “che lo frange richiama Djemâl.

Per la tradizione cristiana è Maria “la donna gentil” l’influenza spirituale discendente, la grazia divina. Lucia e colei che dà la luce, la grazia illuminante.

Rachele è la teoria degli Angeli ascendente nella Scala di Jacob, è la sorella di Lia che “mai non si smaga – dal suo miraglio” la vita contemplativa: l’una e l’altra corrispondono al jiva e all’atma i due uccelli del simbolismo upanishadico, di cui l’uno, l’atma tace non agisce, l’altro il jiva l’azione, mangia i frutti dell’albero. Sono questi i simboli della virtù conoscitiva, che sorgono all’inizio dell’ascesa, all’appello disperato:
“Non odi tu la pièta del suo pianto?
Non vedi tu la morte che’l combatte
su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto?”
e tracciano, per tramite di Virgilio e Dante la via di salvazione attraverso la Commedia.

Nel terzo canto, varcata la soglia, le parole di “colore oscuro” mostrano a Dante l’inflessibilità del divenire umano secondo la legge dello Spirito Santo che retribuisce nella misura della verità la quale sola è bene…
Si palesa così il modo della Giustizia divina che è assolutamente al di là di ogni morale umana, poiché il bene è l’adeguazione dell’uomo a Dio nella molteplicità e varietà delle realizzazioni.
Dopo gli ignavi, l’Acheronte ed il tema dei fiumi infernali considerati come passaggio a ordini differenti e progressivi in serie discendente verso il punto della più profonda “concrezione”
che è rappresentata da Cocito.
E’ in un raptus che Dante traversa l’Acheronte e l’altra riva è il Nirvana, lo stato dell’essere che si sta affrancando dalla morte, e lo confermano i versi del quarto canto:
“e l’occhio riposato intorno mossi
dritto levato,…”
Qui, due temi: il primo riguarda la discesa di Cristo nel mondo infero per liberare l’uomo dall’Inferno così come, con la sua morte, lo libero dalla morte… il Cristo eterno ed eterno liberatore e chi è in Lui è l’eterno liberato, poiché la liberazione avviene non localiter et temporaliter – secondo la dizione della Scolastica, ma per essentiam.
E’ questo il senso profondo della discesa di Cristo nel mondo infero: l’asse verticale della Croce è la discesa del Padre–Cielo nel Figlio–Terra, l’Inferno essendo un prolungamento della terra, attraverso la mediazione dello Spirito Santo che estende orizzontalmente ogni possibilità divina.
Cristo libera dal Limbo, coloro che hanno vissuto in Lui pur essendo vissuti prima della manifestazione cristiana palese. Gli altri nel Limbo sono coloro che hanno raggiunto la purezza della realizzazione e costituiscono “la bella scuola” che non è soltanto un gruppo di poeti. Infatti:
“…Così andammo infino alla lumera
parlando cose che ‘l tacere è bello,
sì com’era il parlar colà dov’era.”
Dal IV canto comincia la discesa “ove non è che luca”, nella exitialis nox, nell’ ατερπεα χωρον, la terra senza gioia lontano dalla terra di Beatitudine, dalla dimora dei vivi.
Nell’esegesi del V canto De Giorgio annota la Sim-patia fra Dante e Francesca, simpatia che ritroveremo per altri personaggi dell’Inferno, poiché quello è il luogo delle complesse aberrazioni, delle inutili vittorie, delle fallaci conquiste, è la necropoli dei vivi-morti, di coloro che nella contemplazione e nell’azione hanno abusato di forze non perfettamente conosciute e domate che li hanno travolti.
Dramma d’amore quello di Francesca? E’ pensabile che Dante cada in deliquio per il racconto di un episodio che induce pietà più che orrore. Se invece l’amore a cui allude Francesca, martellato nelle note terzine “Amor ch’al cor gentil” .. “Amor ch’ a nullo amato” .. “Amor condusse noi ad una morte” è esperienza mistica, ricerca errata del divino, fatale, allora si intende come Dante, che deve avere tentato più d’una via per giungere a Dio, provi un’impressione profonda al racconto di un pericolo che egli stesso inavvertitamente può aver corso. Di qui quel suo cadere improvviso che corona tutta l’ansia con cui ha ascoltato le fasi di quel mistico dramma.
Di questo canto va ancora richiamato quanto De Giorgio, in fogli sparsi notò sul verso 136 “la bocca mi baciò tutto tremante” e sul fatto che Dante parli della “bocca” nel cap. XIX della Vita Nova : “La bocca la quale è fine d’amore” “gli occhi li quali son principio d’amore” e “ ‘l saluto di questa donna, lo quale era delle operazioni della bocca sua”, e poi nel canto XXXI del Purgatorio ai versi 136 e segg.

“Per grazia fa’ noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna                                                          
la seconda bellezza che tu cele!”

Nella Vita Nova la bocca dà saluto, salute, salvezza, suggella l’unione mistica; nel Purgatorio è simbolo della seconda bellezza, quella più occulta, più profonda come lo stesso suggello della realizzazione contemplativa, la sostanza della stessa beatitudine per cui dalla contemplazione che è ancora dualità, si trascorre ad un “inesse” che è unità e compiutezza.
Negli stessi fogli una nota riguarda “Galeotto – nocchiero – veicolo” Lancelot colui che ama Ginevra, la donna di Re Artù, fondatore della Tavola rotonda – i Fedeli d’Amore fisi in modo equidistante come i punti di una circonferenza, al Centro. Galeotto, Fedele d’Amore guida Ginevra a Lancelot e gli consente di realizzare la Regina che è la dama di Grazia e di Salute.
Lo stesso verso “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse” non sembra avere quel tono imprecatorio che comunemente gli si attribuisce, poiché l’Amore – se pur profano – ha potuto congiungere i due spiriti ed essi non possono certo maledire quanto è stato loro palesato, forse uno spiraglio di Paradiso, come anche i versi sembrano sottintendere:

“… Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria…”

In un lungo frammento dedicato ai Fedeli d’Amore, nel commento ai versi 106 e segg. del canto VI, De Giorgio illustra gli aspetti ed in parte le ragioni dell’esoterismo.
La teologia procede “rationaliter” e questa e la sua limitazione, la fede procede “absurde” quindi ciecamente e questa è la sua precarietà. Non è quindi strano che nelle religioni (ebraica), cristiana e nell’Islam sorgano scuole esoteriche il cui compito interno e preciso è di collegare la tradizione religiosa a quella integrale risolvendo teologia e fede in intuizione metarazionale e realizzazione ascetica, il cui scopo è di mantenere intatta l’ortodossia tradizionale. Dante appartiene appunto ad una di queste scuole; il suo cattolicesimo integrale gli impone di andare oltre il punto di vista religioso per restare fedele alla Grande Tradizione. La sua adesione ai Fedeli d’Amore chiarisce il senso della Vita Nova – hic incipit vita nova – da quando cioè il bisogno, naturale nell’uomo, di verità lo spinge a seguire un insegnamento dottrinale segreto per integrare fede e dogma.
Successivamente il lui si rafforza l’ortodossia ed abbiamo il passaggio dalla Vita nova alla Commedia, dal simbolismo esoterico alla tradizione pura.
Perciò nella Commedia ogni spiegazione dottrinale è interrotta là dove la teologia diventa muta, cioè dove il punto di vista religioso è oltrepassato, là dove la comunicazione scritta diventa impossibile.
Non tutto ciò che è stato detto può essere trasmesso per iscritto, la voce mette in opera, nelle parole vibrazioni ed inflessioni che integrano il messaggio e che sono assolutamente inesistenti nell’espressione scritta che cristallizza e tronca la comunicazione.
La voce produce una vera com-unione in forza della magia interna della parola e dell’udito che tradizionalmente è come il vaso in cui si contengono e vibrano le sillabe sante, i mantra – AUM AMN ALLAH HOU – che con la guida del maestro diventano respiro, fuggono alla schiavitù dell’alfabeto poiché, come dice Eckhart “l’anima esigente non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome”.
E’ stato detto dello stile del fondatore della mistica cristiana, lo pseudo Dionigi, che il suo linguaggio è pieno di echi che esortano alla comunione col divino, che vogliono avviare alla contemplazione. Lo pseudo Dionigi, nella sua spregiudicatezza antiletteraria usa la parola come un seme che, affondato nel terreno, sparisce per lasciare che esca alla luce il frutto di cui egli era misteriosamente il portatore.
Così, in questa sua dedizione al testo di Dante, senza chiedere dove sia poesia, senza preoccupazioni di ordine estetico o letterario, nella consapevolezza che la ricerca della bellezza coincide con quella della sapienza del Santo Spirito, sta il segreto del rapporto fra De Giorgio e la Divina Commedia.

Ottobre 1987, Filippo Ladon

Pubblicato da Janua Coeli su gentile concessione del figlio dell'Autore.



                                                                          *********

1

Un inedito di Guido De Giorgio
[Havismat]
Commento al V Canto della Divina Commedia

Minos, a guardia del secondo cerchio,
legislatore e giudice, rappresentante
di un ciclo tradizionale a
Creta dove si celebravano i misteri
di Cibele è qui il distributore delle
gerarchie infernali, e il cingersi la
coda per significare l’ordine di […?]
può intendersi come l’immagine di
una involuzione del sapere che determina
l’assegnamento a tale o
tal’altro cerchio. Perciò egli è il
“conoscitor de le peccata” cioè
dell’ignoranza. La bufera infernale
agita coloro “che la ragion sottomettono
al talento” ciò che, generalmente,
può indicare l’opzione incosciente
della via di salvezza che
determina “cadute” irreparabili, metodi
deviatorï più che risolutivi: la
pena è infatti un non mai stare, un
non mai toccare la meta, esattamente
il contrario della pax profunda
che caratterizza l’acquisizione degli
stati superiori. I nomi: Semiramide,
Didone, Elena, Achille, Paris, Tristano
tutti, il terzo e il quarto soprattutto,
allusioni a complessi mutamenti
nell’ordine contemplativo e
attivo e queste sono anime
“ch’Amor di nostra vita dipartì”
frase che può dare a riflettere se è
Amore, nel senso mistico, che […?]
spinta ad abbandonare la vita (e sarebbe
da vedere se quel “nostra”
non sia anch’esso iniziatico). Ma,
più giù, troviamo
Poscia ch’io ebbi il mio
dottore udito
nomar le donne antiche
e’ cavalieri
pietà mi giunse e fui
quasi smarrito
Le donne antiche e i cavalieri sono
curatori d’Amore, anche se deviati
nella loro ricerca. L’ultimo senso
mostra la meraviglia di Dante di-
nanzi alla pena inflitta a dei cercatori
di verità.
L’episodio di Francesca permette
molti più dubbi nella realtà d’una
tragedia d’amore: o per meglio dire
è una vera tragedia dell’Amore che
Dante espone; metodi di realizzazione
imperfetti. “Amor ch’al cor
gentile atto s’apprende” è il desiderio
della conoscenza che anima ogni
“cor gentile”, cioè disposto a
svilupparla. “Amor ch’a nullo amato
amar perdona” è l’opzione di un
metodo, probabilmente magico,
che impedisce a chi vi s’è consacrato
di recedere, le pratiche avendo
un carattere di “fatalità”. “Amor
condusse noi ad una morte”: qui
s’accenna alla “caduta” che segue
un metodo tanto più pericoloso
quanto è più violento: e il “doloroso
passo” è l’acme di questa tragedia
d’Amore, la precipitazione nel
mondo infero di chi ha mal tentato
la scalata del Paradiso. Che possa
trattarsi di una vera e propria tragedia
iniziatoria lo dimostra il riferimento,
nel racconto di Francesca, a
Lancelot, cavaliere della tavola rotonda,
e a Gallehault “principe delle
isole lontane” (qui forse si allude a
Thulé, “isola dei Beati” o tutt’altra
dimora nell’estremo nord come riferimento
a un centro tradizionale,
a una qibla, simbolicamente,e forse
geograficamente, posta in una solitudine
inaccessibile pei profani.
Gallehault serve d’intermediario tra
Lancelot e Ginevra, che è la Donna
amato cioè al conquista della saggezza,
e il libro letto da Francesca
serve egualmente d’intermediario
nell’amore di Paolo per Francesca.
Questo libro del ciclo è palesemente
un romanzo di cavalleria a contenuto
simbolico, quindi iniziatorio:
ora è appunto in questo libro che
leggono Paolo e Francesca e la lettura,
dice Francesca, “scolororci il
viso” cioè dette vertigini di conquiste
di stati superiori familiari a chi è
al corrente di certe cose. Ma è un
“punto” che determina questa specie
di dramma mistico, quando
Lancelot suggella la conquista di
uno “stato d’unione” – “il disiato
[?] — con un possesso reale: a questo
punto, [?] il racconto di Francesca
in un modo particolarmente
suggestivo: si allude nel verso “quel
giorno più non vi leggemmo avante”
alla realizzazione effettiva che
segue una preparazione dottrinale
(il libro?)? In ogni modo il verso
“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”
non sembra avere nessun tono
imperatorio come comunemente
s’intende, perché se l’amore, sia pure
profano, congiunge così strettamente
questi due spiriti, essi non
possono maledire ciò che questo
amore ha palesato. Le parole precedenti
di Francesca “Nessun maggior
dolore – che ricordarsi del
tempo felice – ne la miseria” sembrano
proprio alludere a quelle “cadute”
fatali e irrimediabili nel sentiero
della liberazione che fanno in-
travedere il Paradiso con conseguente
precipitare nelle regioni inferiori. 
(Trascrizione da un manoscritto inedito)

Pubblicato da Janua Coeli il 6 Dicembre 2010
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