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sabato 29 gennaio 2011

Guido Ceronetti celebrazione A Modo Suo Louis-Ferdinand Céline

"Ma io, filosemita, celebro Céline"

Carta di identità di L. Celine
di Guido Ceronetti                                                            

Deploro fortemente che uno scrittore come Céline sia stato tolto dal calendario delle celebrazioni per il 2011 in Francia. Un ministro della Cultura, in qualsiasi governo francese, ha sufficiente autorità per resistere ad ogni gruppo privato di pressione, sia pure benemerito, come in questo caso. Céline non è un piccolo pesce; è uno dei massimi scrittori e testimoni del secolo. Il suo cinquantenario (morì nel 1961, a Meudon, in banlieue) non sarà ugualmente dimenticato. Si capisce: la Shoah è una ferita della storia dell’uomo che il tempo non può né deve sanare, e il grido di Rachele in Ramah seguita a irrorarla di lutto. Ma la paranoia antisemita di uno scrittore che non ha versato sangue di deportati va vista come una anomalia della psiche, un’ombra del Fato, il possesso di un demone incubo. Va analizzata come malattia e non elevata a colpa. «Ha una pallottola in testa» lo giustificava Lucette. Lui, l’episodio della Grande Guerra che l’aveva fatto congedare e medagliare in fretta, non l’aveva mai taciuto: l’agitava sempre, il suo congedo di invalido permanente per il settantacinque per cento: ma sopratutto a renderlo furiosamente antisemita era stata l’ossessione che gli ebrei — tutti, in massa, banchieri o straccioni — spingessero ad una nuova spaventosa guerra con la povera Germania, che fino a Hitler non pensava minimamente a difendersene. Nel Trentasette pubblicò il suo manufatto di deliri, Bagatelles pour un massacre, pestando perché la Francia non perdesse tempo a disfarsi dei suoi ebrei, a scrostarli dai muri, a cacciarli via «che non se ne parlasse più» : una scrittura così potente come la sua attirò come miele gli antidreyfusardi, senza guadagnargli le simpatie dei nazisti; per la Gestapo, Céline era più pazzo che utile. Anche come antisemita Céline fu un isolato: i comunisti lo esecrarono dopo Mea culpa, agli antisemiti bisognosi di «razzismo scientifico» o religioso, di motivazioni monotone e piatte, quel Vajont di metafore forsennate, che finivano in pura autodistruzione spense presto il favore iniziale; inoltre, incontenibile, sotto l’occhio dei tedeschi occupanti che rigettavano e temevano il suo zelo pacifista, picchiava pubblicamente anche contro la connerie aryenne (che renderei come fessaggine, stronzaggine ariana). Non furono le sciagurate metafore celiniane dei tre saggi antisemiti a riempire i treni dei deportati da sterminare: chi li avrà mai letti tra i burocrati di Vichy? In una guerra simile contro l’essenza umana (altro che «banalità del male» !) furono senza numero i paradossi tragici. Céline nel Semmelwei, nel Voyage, in Mort à crédit, nei suoi romanzi stilisticamente ultraviolenti del dopoguerra, nei suoi viaggi al seguito del governo collaborazionista in fuga a Sigmaringen, spinse fino all’indicibile l’espressione letteraria della pietà umana; fu un moderno, e rimane, incarnatore di Buddha, un angelo pieno di cicatrici, che sfoga una pena scespiriana. Aggiungi il suo lavoro fino all’ultimo giorno di strenuo medico dei poveri, che quasi mai si faceva pagare. Lucette, a Meudon, mi mostrò la poltrona dove Céline passava la notte di insonne a vita. Il paesaggio, dalla vetrata, erano le officine della Renault-Billancourt, una fumante galera umana, non scorgevi un albero. Di là gli cadevano gocce fisse di delirio, da scavare una pietra, sul cranio della pallottola di guerra, Erinne dettatrici di insulti feroci di satirico, di maniaco di persecuzione (motivato), di aperture denunciatrici di verità crudeli, di amore per la bellezza, di sorriso in travaglio. L’insonnia, alleata del Contrasto, violenta di chiaroscuro, è «madre di tutto» . Il secolo XX ci ha lasciato tre libri, generati direttamente da una interminabile sequela di calvari umani che ha appestato e stravolto la totalità del pianeta abitato o inabitato — e i tre grandi libri mi sono indicati essere i racconti e i diari ultimi di Kafka, i racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, e il Voyage au bout de la nuit di Céline. Comparando l’antisemitismo ormai sciolto negli acidi del Tempo di Céline, e il disastro filosofico di Martin Heidegger quando fu pervaso, tra 1933 e 1935, per vanità universitaria, per credulità da debilità mentale (quantunque giovane), di zelo filonazista nascostamente antisemita— mi sarebbe più facile, dovessi fare il minosse e pronunciarmi su entrambi, mandare semiassolto (o del tutto) Céline, astenendomi dall’incolpare Heidegger esclusivamente per motivi di prescrizione. Un pensatore non aveva nessun diritto di degradarsi a quel modo. Il discorso di rettorato del filosofo di Friburgo è peggio, è più mendace, più corruttore, di Bagatelles pour un massacre. Tuttavia, se di valori si parla, Heidegger è Heidegger. Se di gloria letteraria si parla, Céline, riplasmatore del linguaggio, petite musique, affrescatore e medico delle miserie umane, è Céline. Ingiusto e ridicolo, cancellarlo dalle celebrazioni del 2011. Era un’occasione per comprendere, riscoprire, analizzare. L’odio, Spinoza dixit, non può mai essere buono.

Fonte: Corriere della sera, 26/01/2011.



giovedì 9 dicembre 2010

Otium e Culto

09/12/10
Josef Pieper, "Otium" e culto
Cantagalli Siena 2010
pp.86, €12































































“Otium e culto" di J.Pieper                                                        














La Cantagalli ha appena licenziato un breve ma prezioso saggio di Josef Pie­per dal titolo “Otium e culto”. Nel 2009 l’editrice senese aveva pubblicato dello stesso autore “Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa”. Così come nella gestazione di questo saggio, Pieper si era confrontato con le tesi di Johan Huizinga, in “Otium e culto” sono le idee di “Der Arbeiter” (“L’operaio”) di Ernst Jünger a fornire lo spunto. I fondamenti della civiltà occidentale non sono l’attivismo o il mondo della produzione come aveva sostenuto il funereo e disperante marxismo, ma l’otium, ovvero la “vita contemplativa”, e il culto come “distensione”, “assenza di fatica”, l’eccellenza della funzione del “procurarsi otium”, come da sempre proclama il cristianesimo. Questa la tesi. Il testo costituito da poco più di 50 pagine e lungamente e sapientemente prefato da Raffaele Iannuzzi, è scritto con efficace semplicità e senza le solite contorsioni retoriche tipiche di certi filosofi di professione e il cui unico scopo è quello di impressionare un certo milieu accademico. Pieper appartiene infatti a quella schiatta nobile di pensatori e maestri cattolici che hanno a cuore innanzitutto la verità del cristianesimo e la sua proclamazione chiara e diretta; non il suo oscuramento sintattico e semantico -a là Rahner, per intenderci. D’altronde, Pieper, che in Germania è considerato quasi un “Padre della Chiesa”, si è sempre abbeverato alle fonti cristalline e pure del magistero tomistico, riuscendo così a prendere le giuste distanze da quelle anfibologie heideggeriane che sono “croce e delizia” di tanti moderni teologi.
Salutiamo dunque questa nuova pubblicazione di Pieper che per lo stile e i contenuti ci ha ricordato certe pagine del nostro migliore Attilio Mordini, con vera soddisfazione e auspichiamo di vederne presto tradotta in italiano l’opera omnia.
A.L.F.



Cenni biografici
Nato a Rheine (Elte) il 4 maggio 1904, Josef Pie­per può essere considerato uno dei più famosi filoso­fi cristiani del ventesimo secolo. Dopo aver frequen­tato il rinomato "Gymnasium Paulinum" di Münster, dove imparò ad apprezzare Tommaso d'Aquino e Kierkegaard, studiò filosofia, giurisprudenza e socio­logia nelle università di Münster e di Berlino. Il suo primo libro, elaborato per il dottorato in filosofia, era intitolato La realtà e il bene: derivava dallo sti­molo di un corso di Romano Guardini e dallo studio delle opere dell'Aquinate, la cui lettura Pieper non abbandonò mai, neppure negli anni dell'arruolamen­to nell'esercito tedesco. Sin dagli inizi degli anni trenta, si interessò attivamente ai problemi sociali, anche sulla spinta dell'enciclica Quadragesimo anno, e scrisse diversi saggi sulla questione sociale. Poi si dedicò soprattutto a temi etici e antropologici, a cominciare da una serie di studi su ciascuna delle virtù cardinali e teologali. Insegnò nell'istituto di ma­gistero di Essen e in seguito assunse la docenza di Antropologia filosofica nella "Westfälichen Wilhelms­Universität" di Münster. Tra le altre onorificenze rice­vute, nel 1981 gli venne conferito il Premio Balzan per la filosofia, perché, secondo la motivazione, ave­va «aperto nuovi orizzonti nel riproporre i temi eter­ni della filosofia cristiana, congiungendo i pensieri della saggezza greca col messaggio del Vangelo in un linguaggio adatto a svegliare una coscienza filo­sofica dei problemi ultimi dell'esistenza nel pubblico in tutto il mondo».

Morì il 6 novembre 1997 a Münster (Westfalia). Le sue opere, tradotte in molte lingue, sono state rac­colte in dieci volumi e pubblicate dalla casa editrice Felix Meiner (Hamburg), a cura di Berthold Wald.




Pubblicato da Janua Coeli il 9 dicembre 2010

martedì 20 aprile 2010

LA RUSSIA CHIAVE DI VOLTA DEL SISTEMA MULTIPOLARE.

                                          La Russia chiave di volta del sistema multipolare

1/2010 gen-mar :::: Tiberio Graziani :::: 19 aprile, 2010 ::::     
[Editoriale del numero 1/2010]

Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale
Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.
Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni
Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.
La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.
La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:
1.le politiche di modernizzazione;
2.le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;
3.la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.
Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.
In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).
Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.
Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).
L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.
Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).
Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.
Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole
I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.
Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.
È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.
Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.
Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.
A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia
La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.
Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:
1.riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;
2.contenimento delle spinte secessionistiche;
3.uso “geopolitico” delle risorse energetiche;
4.politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;
5.costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;
6.tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;
7.costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.
La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.
Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.
                                                                ****************

1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.
2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.
3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.
4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.
5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.
6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.
7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.
8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.
9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.
10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.
11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).
12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.

Scritto da Tiberio Graziani sulla Rivista geopolitica Eurasia, Editoriale 1/2010









mercoledì 31 marzo 2010

ISLAM SOL INVICTUS

30.03.2010                                                                           
Sicherlich der Fehler ist ein Übel, ein Übel, das in den letzen Jahrhunderten in alle teilen der Welt hat sich verbreiten und den Eindruck dass es nicht aus him heraus zu gegeben ist. Das ist das große Zeichen, dass etwas verloren gegangen ist.

Certes l'erreur est un mal, un mal qui s'est répandu depuis quelques siècles dans toutes les parties du monde au point de donner l'impression qu'il n'y a plus rien hors de lui. C'est bien là le signe extrême que quelque chose a été perdu.

Di certo l'errore è un male, un male che si è espanso dopo qualche secolo in tutte le parti del mondo al punto di dare l'impressione che non ci sia più niente all'infuori di lui. È proprio questo il segno estremo che qualcosa è andato perduto.

Veröffentlicht von Mahdi Red bei 13.33 Uhr sur le Blog: La Fin des Temps Modernes.


                                                                                                                              

venerdì 5 marzo 2010

PETRU CULIANU - IL ROTOLO DIAFANO


Che cos'è realmente il rotolo diafano, il cui mistero è a lungo inseguito dal protagonista senza nome del libro? Ci sono verità nascoste, o semplicemente dimenticate, che attraversano il tempo rimanendo celate alla coscienza dei più, ma vengono comunque tramandate per vie occulte.

Una di queste riguarda l'origine del linguaggio umano e il linguaggio della stessa Creazione. Attraverso una serie di episodi collegati tra loro, in cui ritornano un misterioso smeraldo e l'ombra di una figura femminile salvifica e insieme inquietante, Ioan Petru Culianu (1950-1991) disegna un ritratto enigmatico e affascinante di alcuni passaggi segreti della storia dell'umanità fino a oggi. Pubblicato originariamente da Jaca Book con il titolo "La collezione di smeraldi" e qui presentato in una nuova traduzione e con testi narrativi pressoché sconosciuti come il profetico e bellissimo "Sul linguaggio della creazione", "Il rotolo diafano" è un libro che combina la forza coinvolgente propria della forma narrativa con le suggestioni dotte e arcane di un sapere iniziatico e magico che continua a vivere attraverso i secoli e arriva a noi suscitando interrogativi spiazzanti e mostrando vie di conoscenza segrete e inaspettate.


Culianu Ioan P., Il rotolo diafano, Ed. Elliot, pg. 238, 14 euro.
Pubblicato da Aldous a 18.23 - 02.03.2010.

lunedì 1 marzo 2010

Claudio Mutti, Gentes,Popoli, territori,miti.


Di Tiberio Graziani. Presentazione del nuovo libro di Claudio Mutti

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ClaudioMutti, Gentes.Popoli,territori,miti                                          
Effepi, Genova 2010
pp. 112 € 15,00

"Possa questo modo di vedere i popoli superare qualunque tempesta d’odio di razza e di classe, soprattutto tra i sostegni del futuro"

Karl Ernst Haushofer

                                                                           *****

Uno dei temi che contraddistinguono il dibattito contemporaneo è certamente quello riguardante l’identità dei popoli e delle nazioni. Se ne discute a vario titolo, ad esempio nell’ambito delle indagini sociologiche ed economiche in riferimento ai processi migratori ed ai loro effetti sulle relazioni interculturali, intraculturali e, ovviamente, socio-economiche; oppure nei settori degli studi storici e politici, in relazione alla costruzione delle odierne nazionalità europee o all’analisi dei vari “comunitarismi” di nuova formazione; o ancora, nel campo delle guerre interetniche e interreligiose che si svolgono in gran parte del pianeta.
L’argomento dell’identità dei popoli non è nuovo. È noto, infatti, che ogni popolo, fin dall’antichità, nelle sue manifestazioni culturali e religiose, in particolare in quelle espresse attraverso la narrazione dei miti di fondazione, ha sempre evidenziato una propria specificità e ascendenza al fine anche di differenziarsi dalle popolazioni con cui veniva a contatto. Per alcuni versi ed in via del tutto generale, si può affermare che tali tipi di narrazioni costituiscono non soltanto un elemento per l’affermazione dei caratteri di un dato gruppo culturale o etnoculturale, ma anche uno dei molteplici fattori che concorrono alla sua stessa “creazione” come popolo. La narrazione mitica, infatti, fissa, in un “tempo astorico” (in illo tempore) una particolare fase dell’etnogenesi, ritenuta pertanto caratteristica per quel particolare gruppo umano. In termini pratici la narrazione opera una scelta di tradizioni cui dovrebbe ispirarsi “quel” popolo nel corso della sua storia successiva.
In connessione con le ricerche sull’origine dei popoli e in conseguenza dell’utilizzo dei nuovi apparati analitici messi a disposizione dalle indagini filologiche, archeologiche ed etnografiche, il tema dell’identità e del carattere dei differenti gruppi umani ha avuto uno straordinario sviluppo nel corso dei secoli XVIII e XIX. L’interesse per l’origine e la fisionomia dei popoli, protrattosi fino agli anni Quaranta del XX secolo, è da mettere in relazione anche ai peculiari scopi politici e culturali perseguiti dai movimenti nazionalisti sorti in varie parti dell’Europa e sviluppatesi, sul piano ideologico, a partire dagli ideali della Grande Rivoluzione francese.
Come noto, la propagazione nel corso dell’Ottocento dell’ideologia della ”liberazione nazionale”, promossa e sostenuta principalmente, a livello locale, dai ceti borghesi e, a livello continentale, dall’Inghilterra, contribuì alla distruzione delle unità imperiali dell’Europa centro orientale e dell’Impero ottomano, ed alla coeva edificazione di gran parte delle attuali nazioni europee.
Il particolarismo nazionale non fu, però, soltanto una delle leve che determinarono lo smembramento delle precedenti entità multirazziali e pluriculturali e la costruzione della nuova Europa, lungo linee artificiali tracciate sulle fragili fondamenta di opinabili rivendicazioni storiche o su quelle di più certi e quantificabili gradi di omogeneità etnica e linguistica, ma, in sinergia con lo sviluppo industriale, tecnologico e commerciale, esso costituì uno degli elementi essenziali per l’affermazione e l’evoluzione dell’imperialismo europeo ottocentesco.
Nondimeno, l’esaltazione del principio dell’autodeterminazione nazionale, cioè, del particolarismo nazionale, ha condizionato le classi dirigenti europee al punto di farle concorrere – attraverso le esiziali alleanze con la Gran Bretagna e gli USA – alla disintegrazione dell’Europa ed alla sua eliminazione quale attore mondiale nel volgere di appena tre decenni, dal 1914 al 1945, ciò a dimostrazione del fatto che la naturale vocazione geopolitica dell’Europa è continentale e non nazionale. Oggi, l’Europa sconta ancora quella pesante eredità; infatti, invece di svolgere un’autonoma e naturale funzione geopolitica in quanto penisola della massa continentale euroafroasiatica, costituisce un tassello della strategia anglostatunitense per il controllo dell’Asia e dell’Africa.
Le cause che hanno dato avvio all’attuale riproposizione della questione identitaria risalgono, con ragionevole certezza, ad almeno due processi, tuttora in corso di svolgimento: a quello che va sotto il nome di globalizzazione (o mondializzazione) ed a quello connesso alla riconfigurazione degli spazi geopolitici dopo la destrutturazione della ex-URSS. I due fenomeni, pur distinti e procedenti da origini diverse – l’accelerato sviluppo tecnologico degli ultimi due decenni e l’evoluzione neoliberale dei processi economici determinata (e, per alcuni versi, guidata) dalle nazioni e dai centri di potere finanziario ed economico, per quanto riguarda la globalizzazione; i nuovi rapporti di forza tra gli attori globali, per quanto concerne il quadro geopolitico contemporaneo – incidono nelle dinamiche sottese ai mutamenti del costume, alle trasformazioni socio-economiche, nonché alla riformulazione e riclassificazione delle ideologie del secolo scorso.
Considerando il processo di globalizzazione da un punto di vista geopolitico, notiamo che esso rappresenta una specifica manifestazione dell’ espansionismo economico e finanziario degli USA. Tale espansionismo è assicurato dalla particolare prassi statunitense per il controllo del pianeta che, esplicandosi tramite l’azione di frammentazione degli spazi geopolitici oggetto delle mire di Washington, utilizza ad arte le tensioni causate dalle differenze culturali, etniche e religiose delle popolazioni che vi risiedono.
Accanto al wilsoniano principio di autodeterminazione nazionale quale potente strumento ideologico per indebolire le unità geopolitiche da soggiogare, gli USA hanno sviluppato, sul finire del secolo scorso, la dottrina dello scontro di civiltà e riattivato con vigore, allo stesso scopo, la religione dei Diritti Umani.
Il trittico dell’armamentario politico-culturale sopra menzionato agisce sinergicamente su tre distinti livelli. Un primo livello è quello pertinente alla sovranità politica di società complesse (multietniche e pluriculturali) che gli USA e con essi l’intero sistema geopolitico occidentale mirano a depotenziare e frammentare, mediante l’esaltazione delle ideologie nazionaliste autonomiste ed emancipatrici e, dunque, la contrapposizione frontale dei diversi gruppi nazionali ed etnici. Un secondo livello riguarda l’incremento delle tensioni all’interno di gruppi etnici omogenei con la pratica dello scontro di civiltà. Infine, il terzo livello che attiene all’individuo in quanto tale, facendo strame di ogni contesto e sensibilità culturale non in ordine con i principi etici e le norme di stampo occidentale, mediante la diffusione della retorica dei “diritti umani”. Gli esempi certo non mancano a proposito. Si pensi alla ex Jugoslavia, ove i nazionalismi tribali, le religioni prima e la mistica dei “diritti umani” alla Otpor in seguito hanno contribuito – nel quadro delle guerra d’aggressione anglo americana – alla disintegrazione geopolitica della penisola balcanica. Oppure alla campagna diffamatoria portata avanti dai mezzi di informazione occidentali rispetto alla presunta mancanza dei “diritti umani” nella Russia di Medvedev e Putin; od anche, alla continua demonizzazione del governo cinese riguardo alle minoranze nazionali uigure, mongole e tibetane e a quella del governo del Myanmar per la questione karen.
L’evidente nesso tra le pratiche destabilizzatrici (la geopolitica del caos) degli USA per la supremazia mondiale e la strumentalizzazione delle tensioni endogene tra le differenti popolazioni impone una riflessione a tutto campo sul divenire e l’essenza dei popoli dell’intero pianeta. La conoscenza approfondita della propria rappresentazione culturale psicologica (nel senso esplicitato dal geopolitico francese Yves Lacoste) infatti costituisce uno dei principali fattori di cui ogni popolo dispone al fine di trovare la propria funzione nel contesto mondiale, e pertanto il perimetro entro cui coltivare le proprie vocazioni ed ambizioni.
Un tentativo volto a far chiarezza sui caratteri che definiscono gli agglomerati umani nei termini etnoculturali è a nostro parere intrapreso proprio dalla raccolta di saggi che compongono Gentes.
Dopo aver trattato della sovranità e dello spazio in due precedenti raccolte, rispettivamente in Imperium. Epifanie dell’idea di Impero (Effepi, Genova 2005) e ne L’unità dell’Eurasia (Effepi, Genova 2008), Claudio Mutti ci offre ora, con metodologie varie, da quelle proprie all’antichista (vedi i saggi Hyperborea, Aethiopia, Bachofen e il popolo licio, Traci ed Etruschi nell’epica antica), a quelle più tipiche dell’antropologo culturale o dell’analista geopolitico (vedi Un blocco militare nella Grecia del V secolo, Gli uiguri tra l’impero e il separatismo, I letterati e l’indio americano, Il nomos dei senza terra, Chi sono gli antenati degli ebrei?), un’ampia rosa di temi che si ricollegano a ciò che determinano la forma e dunque la coscienza dei gruppi umani che solitamente qualifichiamo col termine generico ed onnicomprensivo di popoli.
Nei brevi ma densi saggi che qui presentiamo tutto ruota infatti, direttamente o indirettamente, attorno al popolo, inteso quale entità ad un tempo creatrice di nuove forme di civiltà e depositaria storica di precedenti stratificazioni culturali, psicologiche ed etniche.
Una particolare attenzione è rivolta alla riflessione metastorica presente sia nella letteratura classica, riguardo allo spazio recepito in senso mitico, sacrale, come nel caso delle pagine dedicate agli Iperborei e agli Etiopi, sia in quella letteratura moderna e contemporanea (rappresentata ad es. da romanzi come L’uomo a cavallo di Pierre Drieu La Rochelle, cui l’Autore fa riferimento nel saggio I letterati e l’indio americano) che sembra concepire lo spazio al pari del paesaggio spengleriano con un suo proprio genius loci, quale fattore codeterminante una particolare etnogenesi. A tal proposito, molto opportunamente Mutti osserva che “a determinare il senso di identità non è tanto l’origine razziale, quanto l’appartenenza ad un ambiente dominato dal genius loci”.
Il rapporto tra lo spazio, l’autorappresentazione come specifico gruppo etnoculturale e la relativa origine ai fini della forma che goethianamente caratterizza una data comunità è ripreso ed analizzato nel caso di altri, come gli Zingari e gli Ebrei. Per quanto riguarda gli Zingari – un popolo itinerante e non nomade, secondo l’originale interpretazione avanzata da Mutti sulla scorta di considerazioni filologiche, sociologiche e storiche – due sono gli elementi che sembrano costituire la cifra che meglio li definirebbe: la mobilità, vissuta come una sorta di peregrinazione sacrale, e il particolare tipo di coesistenza con i sedentari, che l’Autore ritiene approssimarsi al concetto di chimera così come definito dall’etnologo ed eurasiatista sovietico Lev Gumilev.
Nel saggio Chi sono gli antenati degli ebrei?, dopo aver enunciate le varie difficoltà relative allo studio delle origini del popolo ebraico, che solo in parte può ritenersi appartenente alla famiglia semitica, viene ricordato che all’etnogenesi della componente sefardita avrebbero contribuito, nell’antichità, come testimoniato dalla Bibbia e da riscontri storici (Mutti cita in proposito l’importante opera di Maurice Fishberg, The Jews: A Study of Race and Environment) elementi etnici di varia provenienza, cui in epoche successive, a causa della diaspora, se ne aggiunsero altri, mentre riguardo alla componente aschenazita – che costituisce i nove decimi dell’ebraismo mondiale -, si fa riferimento all’origine cazara, sostenuta con dotte argomentazioni da autorevoli studiosi, tra cui Arthur Koestler, Peter Golden, Kevin Alan Brook.
La complessità dei gruppi etnoculturali che hanno concorso alla formazione di un dato popolo è presentata in rapporto all’antico popolo romano nello scritto intitolato Traci ed Etruschi nell’epica antica. Qui Mutti ci fornisce elementi utili per meglio comprendere come il popolo romano abbia potuto costituire, nel suo sviluppo storico, una sintesi etnoculturale (il tipo romano) operata mediante una scelta di tradizioni i cui tratti caratterizzanti paiono essere il costante richiamo alla religiosità delle origini ed il culto dello Stato. Scelta di tradizioni e riferimenti ad ascendenze culturali diverse vengono esposti anche nelle schematiche pagine dedicate al popolo licio, nella cultura politica del quale, osserva l’Autore, l’elemento etnolinguistico indeuropeo corrisponde all’istituto, tipicamente indoeuropeo, senatoriale, “mentre dal sostrato preindoeuropeo proviene quell’aspetto matriarcale che non era sfuggito all’osservazione di Erodoto”.
Oltre la scelta di tradizione attualizzata dai popoli presi in considerazione, nella presente raccolta di studi l’Autore non manca di esaminare i diversi orientamenti ideologici che emergono anche in ambiti etnoculturali sufficientemente omogenei. Nel saggio Un blocco militare nella Grecia del V secolo, ad esempio, viene ripercorsa la contrapposizione ideologica tra gli Spartani, “garant(i) della libertà delle pòleis” e gli Ateniesi, sostenitori della democrazia, cioè del “predominio (kràtos) violento e liberticida della massa del volgo (dêmos)”, in rapporto alle alleanze egemoniche ed alla luce degli specifici interessi geopolitici delle due città greche. Nello studio dedicato agli Uiguri viene posta in evidenza, invece, la strumentalizzazione – recentemente orchestrata da Washington – del particolarismo religioso (l’Islam) ai fini del ridimensionamento della sovranità che Pechino esercita legittimamente sul territorio della Repubblica Popolare.
Il valore di questa rassegna di saggi risiede, a nostro avviso, non soltanto negli elementi che Claudio Mutti porta alla nostra attenzione ai fini di una maggior comprensione dell’essenza e del divenire dei popoli, ma anche nel metodo e nei criteri analitici adottati. Essi saranno sicuramente utili a chiunque voglia cimentarsi sullo stesso argomento.


Pubblicato su Janua Coeli il 1 Marzo 2010

martedì 22 dicembre 2009

ABBONAMENTO NATALIZIO AD EURASIA, LA RIVISTA DI STUDI GEOPOLITICI








Su richiesta della Direzione di Eurasia,
Pubblichiamo questo spot pubblicitario. Janua Coeli

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Karl Haushofer, Italia, Germania e Giappone, pp. 27, € 5,00 (-10% = € 4,50) [I sostenitori lo riceveranno gratuitamente]

Karl Haushofer, Lo sviluppo dell'idea imperiale nipponica, pp. 64, € 6,00 (-10% = € 5,40) [Gratis ai sostenitori]

Johann von Leers, L'Inghilterra. L'avversario del continente europeo, pp. 61, € 6,00 (-10% = € 5,40)

Martino Conserva, Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, pp. 83, € 9,00 (-10% = € 8,10)

Alessandro Lattanzio, Terrorismo sintetico, pp. 184, € 20,00 (-10% = € 18,00)

Yves Bataille, Alessandro De Rienzo, Stefano Vernole, La lotta per il Kosovo, pp. 160, € 18,00 (-10% = € 16,20)

Karl Haushofer, Il Giappone costruisce il suo impero, pp. 445, € 23,65 (-10% = € 21,28)

Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, pp. 142, € 15,00 (-10% = € 13,50)

Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, pp. 192, € 20,00 (-10% = € 18,00)

François Thual, Il mondo fatto a pezzi, pp. 130, € 15,00 (-10% = € 13,50)

Per quanti rinnovano l'abbonamento, lo sconto del 10% sarà esteso all'intero catalogo.

Grazie a speciali convenzioni, gli abbonati di “Eurasia” godranno d'agevolazioni anche presso altre imprese, in particolare:

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Tenetevi aggiornati su queste promozioni tramite la pagina: http://www.eurasia-rivista.org/offerte-e-promozioni


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“Eurasia” non è una rivista commerciale, bensì scientifica. È una rivista “impegnata”, perché il suo scopo non è quello di far soldi, bensì quello di sostenere un'idea – senza però pregiudiziali ideologiche. La missione di “Eurasia” è promuovere in Italia lo studio della geopolitica, la conoscenza delle dinamiche internazionali ed il dibattito informato sulla politica estera. In tal senso, si può dire che “Eurasia” svolga un servizio civico per il nostro paese. E chi ci sostiene, lo svolge assieme a noi.

Dal 2004 ad oggi “Eurasia” ha pubblicato 17 volumi, e proprio in questi giorni sta uscendo il diciottesimo. Centinaia sono stati i contributi usciti sulle sue pagine. Tra le molte personalità che hanno offerto il proprio contributo ricordiamo, solo a titolo di esempio, i nomi di Sergej Baburin, Vishnu Bhagwat, Franco Cardini, Noam Chomsky, Michel Chossudovski, Stefania e Vittorio Craxi, Alì Daghmoush, Alain De Benoist, Henry De Groussouvre, Aleksandr Dugin, William Engdahl, Vagif Gusejnov, Trad Hamade, Vladimir Jakunin, Khaled Mashaal, Fabio Mini, Sergio Romano, Israel Shamir, Gennadij Zjuganov, Danilo Zolo e molti altri accademici, politici, militari, giornalisti ed intellettuali che sarebbe troppo lungo elencare.

In questi cinque anni abbondanti d'attività, “Eurasia” ha raccolto la stima e la considerazione di numerosi lettori ed addetti ai lavori. Molte delle previsioni avanzate sulle pagine di “Eurasia” in tempi non sospetti si sono nel frattempo avverate: dal raffreddarsi dei rapporti tra Turchia e Israele, pronosticato quando ancora apparivano saldamente alleati, alla “nuova guerra fredda” tra Mosca e Washington, fino alla crisi economico-finanziaria degli Stati Uniti d'America. Il mondo multipolare, di cui scrivevamo quando la potenza unipolarista degli USA era al suo apice, è oggi chiaramente distinguibile all'orizzonte, se non già una realtà presente. Alcuni dei cambiamenti auspicati dalle pagine della nostra rivista sono nel frattempo effettivamente avvenuti nella politica estera italiana. Tutto questo ci rafforza nella convinzione di essere sulla giusta strada e nella speranza d'essere utili alla cultura ed alla politica italiane.

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Ogni lettore si può fare anche promotore della rivista, raccomandandola ad amici e colleghi; se è un giornalista o un blogger può parlarne nella sua pubblicazione, e se è un libraio venderla nel suo negozio.

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I più volenterosi possono anche proporsi per collaborazioni dirette con la rivista. Chiunque possieda competenze scientifiche, giornalistiche, editoriali, cartografiche, linguistiche o informatiche può essere molto utile ad “Eurasia”, e collaborando con noi potrà arricchire il suo bagaglio d'esperienze ed il suo curriculum.

Il mondo sta cambiando, con o senza di noi; assieme, possiamo far sentire la nostra voce!

L'Editore, la Direzione e la Redazione di “Eurasia”

17 dicembre 2009











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sabato 19 dicembre 2009

EDIZIONI ALL'INSEGNA DEL VELTRO

In riferimento all'articolo di Claudio Mutti su Hamvas e Kerenyi ecco i tre volumi apparsi nelle Edizioni " del Veltro":














Per ordinare inviare un messaggio al seguente indirizzo:  insegnadelveltro1@ tin.it  dove siano chiaramente riportate le seguenti indicazioni:



1) Autore, titolo, prezzo e quantità dei libri che si desiderano acquistare.


2) Recapito a cui spedire gli articoli.


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