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venerdì 29 ottobre 2010

il Ramayana e il Mahabharata

Le perle dell’epica indiana: il Ramayana e il Mahabharata

di Fabrizio Legger - 07/10/2009
Fonte: Arianna Editrice                                                                 

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Tra i capolavori della letteratura indiana antica, affascinante e ricchissima, spiccano due vere e proprie gemme del Parnaso indù, sorto all’ombra del Kailasa, la vetta himalayana sacra al dio Shiva e a suo figlio Ganesh, protettore di scultori e di poeti: mi riferisco al Ramayana di Valmiki e al Mahabharata di Vyasa, i due colossali poemi epici (ma anche filosofici e teologici) che più di ogni altra opera costituiscono la “base culturale” di ogni sincero e devoto indù. Di fronte alla incantevole poesia di questi due poemi, di fronte al fascino, alla fantasia, al misticismo e alla devozione che spirano da questi due pilastri della cultura indù, non è possibile non restarne sedotti: si tratta di due capolavori non soltanto della poesia indiana, ma della letteratura mondiale, e in quanto tali sono stati letti, studiati e apprezzati anche in Occidente.Il Ramayana, ovvero il “Cammino di Rama” è un poema suddiviso in tre kanda (ossia, libri), composti di 675 sarga (cioè, canti), per un totale di ventiquattromila strofe, composto dal grande poeta Valmiki tra il I e il II secolo dopo Cristo, il quale si ritirò in eremitaggio e si dedicò all’ascesi proprio per scrivere il Ramayana.Questo lunghissimo poema narra la storia del principe Rama, avatar (cioè, incarnazione) del dio Vishnu, figura eroica ed emblematica, che costituisce la più nobile rappresentazione della virilità guerriera e della benevolenza del “dio azzurro” (Vishnu, appunto), sempre pronto ad incarnarsi e ad accorrere in difesa dell’umanità quando questa è in pericolo. Lo si potrebbe definire come una sorta di “cronaca mitologica” che descrive le azioni del grande eroe divino che si incarna per amore e che diventa un esempio di virtù, dedizione e sacrificio per l’intera umanità.Tutto il poema è incentrato sulla lotta all’ultimo sangue tra il potente Rama, figlio di Dasaratha, re di Ayodhya, e il terrificante Ravana dalle cento teste, il Re dei demoni che ottenne dal dio Brama il dono di poter essere ucciso da un solo uomo: Rama.Rama, innamorato della bella Sita, è costretto a fuggire dal regno di suo padre, alla morte di questi, in quanto Kaikeyi, la sua matrigna, riesce a fare eleggere re di Ayodhya suo figlio Barata, malvagio e vizioso. Rama, suo fratello minore Laksmana e la dolce Sita, fuggono dal regno e si nascondono nelle foreste. Ivi si imbattono in Surpanaka, lasciva demonessa che si invaghisce di Rama e vuole uccidere Sita: ma Rama la affronta e la ferisce mutilandola. Allora Surpanaka chiede aiuto a suo fratello Ravana, il quale accorre dall’isola di Lanka con un’orda di demoni. Veduta Sita se ne invaghisce perdutamente e la rapisce, nonostante Rama e suo fratello lottino audacemente per difenderla, e la conduce seco nella lontana Lanka.Disperato, Rama si imbatte in Hanuman, il dio-scimmia, acerrimo nemico di Ravana, il quale, appresa notizia del rapimento di Sita, mette a disposizione di Rama il suo esercito di scimmie-guerriere. Dopo un lungo viaggio irto di pericoli e di lotte contro orchi e mostri, ma anche di incontri con asceti e saggi, attraversata tutta l’India, Rama, Laksmana, Hanuman e l’esercito delle scimmie raggiungono l’oceano, attraversano il braccio di mare che separa l’India da Lanka e approdano sull’isola. Al termine di un’epica battaglia tra le scimmie-guerriere e i demoni raksasa dell’esercito di Ravana, Rama affronta in un sanguinoso duello il Re dei demoni e lo uccide, liberando Sita dalla prigionia. Questa, però, viene sottoposta alla prova del fuoco, per dimostrare di non aver tradito Rama durante il periodo in cui è vissuta prigioniera di Ravana. Tornato ad Ayodhya con l’esercito delle scimmie e posto in fuga Barata, Rama può sedersi sul trono di suo padre. Ma i sudditi diffidano della virtù di Sita e costringono Rama a bandirla nella foresta. Nella selva, Sita muore dopo aver partorito due gemelli, avuti da Rama. Quando Rama apprende la notizia, sopraffatto dal dolore, muore, e lo spisrito divino che albergava in lui risale al cielo per riprendere l’aspetto originario del dio Vishnu.Il Mahabharata, cioè il “Grande racconto delle guerre di Bharata”, è un poema ancora più vasto del Ramayana: suddiviso in diciotto libri, è costituito da cento parvan (ovvero, canti) per un totale di centomila strofe.L’autore di questo poema (probabilmente il più lungo del mondo) è un asceta di nome Vyasa, vissuto, pare, nel IV secolo avanti Cristo, il quale, come è sostenuto da molti studiosi indiani, non riuscì a completarlo del tutto, e fu terminato forse da altri poeti in epoche successive.I Bharata, dal nome del capostipite, erano i membri di una antica stirpe guerriera dell’India settentrionale. Il poema, una sorta di “Iliade indiana”, racconta la terribile guerra tra i principali discendenti di Bharata: la famiglia dei cento Kuru (o Kaurava) e quella dei loro cinque cugini spodestati, i Pandava.Costretti all’esilio con l’inganno, i Pandava decidono di tornare dal re Duryodhana per chiedergli che restituisca loro il regno, ma l’usurpatore non solo glielo nega, ma li caccia in malo modo. Allora i Pandava radunano un immenso esercito, avvalendosi anche dell’aiuto di molti re non indiani che inviano loro le proprie truppe, e muovono contro Duryodhana. Dopo una serie di tremende battaglie e alterne vicende guerresche, giunge il giorno dello scontro decisivo: i Pandava affrontano i Kuru nella battaglia di Kuruksetra, dove trovano la morte seicentottanta milioni di uomini, tra cui tutti i Kuru, in quanto costoro non riconoscono la natura divina di Krishna, altro avatar del dio Vishnu, il quale combatte a fianco del principe pandava Arjuna, svolgendo il duplice ruolo di scudiero e di maestro. Con la vittoria dei Pandava, la morte di Duryodhana e l’ascesa al trono di Arjuna, il Mahabharata ha termine: nelle ultime strofe si assiste al ricongiungimento di Krishna con Vishnu e il suo ritorno al cielo, mentre il vecchio e saggio re Yudhisthira, padre di Arjuna, anch’egli morto, giunge al cospetto delle divinità celesti per il Giudizio Finale.Si tratta di due opere molto vaste e complesse, veri e proprio gioielli della poesia indiana. Ma mentre il Ramayana è essenzialmente un poema epico-popolare, che esalta la figura di Rama ponendo in rilievo come questo avatar di Vishnu sia capace di sacrificarsi per amore, affrontando i demoni delle Tenebre ma anche morendo di dolore quando apprende che la sua amata Sita è morta dando alla luce i suoi figli, il Mahabharata è un poema assai più cosmogonico e teologico, infarcito com’è di insegnamenti filosofici, di speculazioni metafisiche, di sermoni etici, di afflati mistici e di introspezione psicologica. Si tratta, in sostanza, di una vera e propria “summa” del pensiero indù, tanto che di questo poema, comunemente si dice che “Tutto ciò che non è nel Mahabharata, non esiste”, quasi a voler rimarcare come in questo poema l’indù possa trovare tutto, ma proprio tutto ciò che gli serve per la sua vita interiore, culturale, speculativa, etica e religiosa. Un poema che si rivela, in fin dei conti, un grande simbolo del dramma cosmico, con le forze oscure dei Kaurava che bandiscono i virtuosi Pandava (rappresentanti della bontà di carattere e del retto agire) e che ben testimoniano come il mondo degli uomini sia costantemente vittima del Male. Dunque, una vera e propria “epica di vita” in cui si illustra che l’esistenza umana altro non è che un difficile viaggio verso un’altra vita, e il suo significato sta nella pratica del Dharma. E, alla fine, la virtù trionfa e il vizio è sconfitto dalla Giustizia Universale.Inoltre, occorre rilevare che, nel Mahabharata, è contenuto uno dei testi più popolari dell’induismo, vale a dire la Bhagavad Gita, ovvero il “Canto del Beato”, una sorta di poemetto lirico, inserito nel ben più ampio poema, sotto forma di dialogo tra il divino Krishna e il principe Arjuna.Si tratta di un’opera composta intorno al 200 avanti Cristo, forse non da Vyasa, ma comunque in perfetta sintonia con il suo stile e con lo spirito del Mahabharata. In questo poemetto, così popolare tra gli indù tanto da essere denominato il “Vangelo dell’India”, Krishna insegna ad Arjuna (e quindi all’intero genere umano) lo Yoga della Conoscenza, costituito da due discipline: lo “yoga dell’azione” (adatto per i guerrieri, che esorta gli uomini di azione a non sfuggire ad essa, qualunque siano le conseguenze della medesima) e lo “yoga dell’amore di Dio” (particolarmente adatto agli asceti, che esorta gli esseri umani a liberarsi di tutte le loro brame e di tutte le loro ambizioni, trovando la piena libertà in una esistenza consacrata unicamente alla meditazione, alla preghiera, all’ascesi e all’amore incondizionato verso Dio).Commentata, nel corso dei secoli, da migliaia di filosofi, mistici e maestri spirituali, la Bhagavad Gita è un tesoro che rifulge all’interno di quel ben più ampio scrigno di tesori poetici, filosofici, mitologici e teologici che è il Mahabharata.Nelle letterature occidentali non esiste opera che possa eguagliare questi poemi per ispirazione poetica, estro, ingegno, armonia e ricchezza culturale e spirituale grazie alle quali i popoli di un intero subcontinente si riconoscono in esso attraverso i millenni. Da essi si sprigiona un fascino irresistibile che continua a sedurre non solo i popoli dell’India di religione induista, ma anche gl’intellettuali, i filosofi e i mistici dell’Occidente che hanno riconosciuto l’immenso valore poetico, filosofico e religioso contenuto in questi due strabilianti poemi che oggi, nell’era della cinematografia e della televisione, hanno conosciuto anche una fortuna eccezionale attraverso la divulgazione cinematografica e televisiva, giungendo a toccare i cuori e le menti di oltre un miliardo di indù.Ecco perché, oggigiorno, non è possibile non conoscere il Ramayana e il Mahabharata, i due principali capolavori della cultura indiana, vere e proprie perle di poesia, di filosofia, di mitologia, di saggezza e di sapienza che brilleranno per sempre come soli nel vasto e variegato cielo del Parnaso dell’India, la magica terra degli Eroi e degli Dei!

                                                                             



domenica 6 giugno 2010

L'Ascolto profondo

Elogio dell'ascolto profondo
                                                                            

Che l'uomo occidentale moderno viva in condizioni alienate è generalmente e
superficialmente riconosciuto. In tempi in cui tutto viene ridotto a moda e a
consumo, anche il contestare, la volontà di evadere dalla prigione, il ricercare
autenticità e verità non fanno eccezione: tali istanze, debitamente banalizzate,
vengono assimilate nell'intruglio ipnotizzante che oggi i mass media
propongono –o meglio, impongono– come cultura. Per esempio, il movimento
degli hippie, che in sé conteneva una forte carica di purificazione dall'ipocrisia e
di aspirazione alla Realtà, è stato fatto passare per una mera questione di capelli,
vestiti, droghe o politica utopistica di bassa lega e in tal modo reso
insignificante. Non a caso, nella celebre summer of love del '68, a San Francisco,
gli hippie celebrarono il proprio funerale, rigettando l'etichetta che
l'establishment imponeva loro. Essi, avendo preso coscienza di essere già stati
ridotti a merce, diedero il via ad una silenziosa diaspora, invisibile agli occhi
degli ottenebrati che pretendono di possedere il segreto del mondo e del cuore
umano.
Oggi, dunque, tra le numerose tendenze di cui si cibano le masse, spicca il
conformismo dell'anticonformismo: il lamento reiterato viene accettato e persino
incoraggiato purché l’Intelligenza resti negletta, e non si risvegli l’uomo nobile,
il solo capace di estirpare alle radici il “male di vivere”. In ambito “alternativo”,
la propria appartenenza al movimento ecologico di sinistra o alla visione New
Age viene sbandierata ai quattro venti, ma le strutture mentali negative del
mondo che si pretende di contestare rimangono inalterate. Si parla di angeli, di
ecologia, di olismo, di tecnologie ecocompatibili, invece che di telenovelas o di
sport, si mangiano costosi cibi biologici invece che il solito scatolame inquinato,
si ascoltano melodie melense mescolate a suoni della natura, sincretismi caotici
di suoni etnici (world music) o persino bhajan e mantra hinduisti o buddhisti
manipolati elettronicamente (trance), invece delle pretenziose canzonette di
Sanremo o della più becera pop o disco music, ma la litigiosità, la vanità,
l’infantile tendenza ad assolutizzare la propria opinione-doxa, e l'insopprimibile
bisogno di rinchiudere l’Ineffabile in definizioni perdurano. Quanto sopra vale
anche per certe correnti contestative di segno opposto.
Occorre dirlo apertis verbis: qualunque cieca immedesimazione, foss’anche
nella bontà, nella giustizia o nella bellezza orizzontali, darà inevitabilmente la
stura a guai di ogni genere. Il saggio sa che è indispensabile fondarsi
sull’Insegnamento perenne, il quale invita a non identificarsi, a resistere, a
restare liberi come la vita stessa; ciò non equivale ad abbassarsi alla
pusillanimità di quelli che rifiutano le responsabilità che lo svadharma (il
dharma soggettivo) esige. La Tradizione educa a combattere senza odiare, ad
agire senza attaccamento –ovvero ad “agire senza agire” (wu-wei)–, ad «essere
nel mondo ma non del mondo». «[L’Anima] è al di sopra della legge, / Ma non
contro la legge»1, scrive Margherita Porete, illuminata francese arsa sul rogo
come eretica nel 1310, sintetizzando in poche parole la vera libertà spirituale.
Del resto, se proprio volessimo porci con onestà di fronte a noi stessi,
dovremmo ammettere che l'unica verità di cui si ha certezza è di essere l’Essere.
In che cosa poi tale identità consista, non lo si può esprimere: alla ragione è dato
soltanto indicare la Via, e non spiegarla. Folle è pretendere di ridurre in schemi
concettuali esaustivi il risveglio alla Realtà.
Da tali considerazioni si possono trarre alcuni spunti per tentare di comprendere
lo stato dell’ascolto profondo. Vivere o ascoltare profondamente non vuol dire
assumere atteggiamenti imitativi o cambiare semplicemente la scorza esterna, il
vestito, bensì attingere al suono-voce-soffio innato che in noi permane (nella
nullità abissale –abgrund, direbbe Eckhart– dell'individualità apparente) quando
tutte le sovrastrutture, sedimentatesi karmicamente, sono state riconosciute,
smascherate e risolte. La già citata Margherita Porete, nella sua opera Miroir des
simples ames, nota: «Quest’Anima, dice Amore, non compie più opere né per
Dio, né per sé, e neppure per il suo prossimo [...]; se vuole, le faccia Dio, che le
può fare; e se lui non vuole, a lei non importa né dell’uno né dell’altro: essa è
sempre in un unico stato». Le parole d’Amore, aggiunge, «sono difficili da
capire per chi non sa intenderne il senso profondo»; gli «smarriti», le «pecore»,
le «bestie» sono quelli che lasciano il grano e prendono la paglia.2 Immergersi
nella profondità significa pertanto svuotarsi (kénosis) d’ogni presunzione ed
attaccamento, rigettare le pretese dell’io individuale inesistente, e penetrare la
sinderesi in ogni sua accezione. Ciò vale in tutti gli aspetti della vita e in tutti i
campi del sapere o dell'arte, anche nella musica. Il suono che sgorga dal
profondo non può essere còlto se la mente duale, elaborante senza soluzione di
continuità le più svariate industriae ed accidentalità, occupa interamente il
campo della coscienza.
Bisogna, innanzitutto, imparare a non assecondare il consueto ribollire di
automatismi psicofisici, calmare i vortici (vritti) che agitano la sostanza mentale
(citta), smascherandone la transitorietà, e rilassarsi. Questo sacrum facere
implica un processo di chiarificazione, di autocontrollo inteso come svelamento
di un tesoro, non come privazione, e di accurata autoconoscenza psicologica; le
molte strade che lo caratterizzano –yoga, riflessione filosofica, studio,
solitudine, meditazione, contemplazione della Bellezza, arte, ecc.– sono in realtà
affluenti di un unico fiume, sfumature di un’unica Via, il Tao.
In pieno Kali-yuga, il sentiero stretto, in salita (apofatico) sembrerebbe
percorribile con maggiori difficoltà rispetto al passato; ma probabilmente ciò
non è del tutto vero: più larga è la schiena, più grande la faccia, recita un adagio
popolare che Georges Ohsawa (Nyoiti Sakurazawa), il padre della Macrobiotica,
menzionava spesso. In ogni caso, la vita quotidiana dell’uomo contemporaneo
ha raggiunto un livello talmente parossistico di identificazione nella
contingenza, da rendere oltremodo urgente sottrarsi al plagio di idee vuote quali
“sviluppo”, “evoluzione” o “progresso”. In ambito musicale alcuni volenterosi
continuano a percorrere la via della Conoscenza-Amore, sia creando musica
propedeutica al silenzio, sia imparando ad ascoltare con la massima attenzione,
dopo aver preparato le condizioni esteriori ed interiori adatte affinché l’essenza
sovramondana dei suoni diventi intelligibile. Zolla, nel suo saggio Comprendere
la liberazione in vita, ci offre un impeccabile elogio dello star desti: «La
possibilità di definire l’attenzione pura come essere consustanziale alla
coscienza di essere, rovescia nel non essere tutto ciò che attenzione pura non sia.
Soltanto essa è. Ogni fatto, atto o persona che non sia assorto in attenzione pura
non è, perché si proietta nel nulla...».3 Buddha e Gesù esortano entrambi a
vigilare, a passare svegli attraverso i cancelli del sonno-morte.
Secondo la Tradizione vedica, il suono più profondo e reale in assoluto è il
Pranava, la sacra sillaba OM; essa è composta dai suoni-lettere A, U ed M
indicanti, nell’essere individuale (jiva) come nell’essere universale (Ishvara), tre
precisi stati di coscienza –veglia, sonno con sogni, sonno profondo senza sogni–,
le tre qualità (guna) fondamentali del Principio manifestatore (tamas, rajas,
sattva), e infine i tre corpi rivestenti l’Atman-Brahman: denso, sottile e causale.
Tutti i suoni, i colori, le vibrazioni, i numeri, le idee sfociano nell'OM che a sua
volta, nella nasalizzazione della “M”, sfuma nell'Ineffabile (Nir-guna = senza
attributi).4
Il Penguin Dictionary of Indian Classical Music spiega: «Nella cosmologia
Hindu, Om è quel suono che si crede pervadere il silenzio dell’universo.
Rappresenta l’Assoluto ed è spesso chiamato nada-brahma. Se emesso dalla
voce umana, riassume la totalità delle vibrazioni percepite dall’orecchio e dai
sensi sottili dello spirito».
La dottrina di cui sopra, rintracciabile in diverse formulazioni presso tutte le
Tradizioni, è stata compresa da alcuni compositori contemporanei i quali,
mettendo a frutto, tra l’altro, le esperienze psichedeliche e spirituali degli anni
Sessanta e Settanta, hanno fatto del Pranava il perno intorno a cui ruota la loro
musica. In proposito, mi limito a citare come paradigmatico il brano “OM”, di
David Parsons, posto ad introduzione di Dancing to the flute, un bellissimo CD
dedicato alla musica classica, vocale e strumentale, del Nord India. Il mantra
intonato in questo brano è la Gayatri («Meditiamo su quella eccelsa luce del
divino Sole; illumini Egli la nostra mente»)5; esso è accompagnato da
conchiglie, campane, dal sarangi, uno strumento capace più di ogni altro di
imitare le sottigliezze della voce umana, e dalla tampura, la madre di tutti gli
strumenti indiani rappresentante la Shruti, la Gnosi direttamente udita, la Voce
dell’Eternità.
Nominando il Gayatri mantra –che si recita al sorgere del sole ed assume un
ancor più alto valore se il dvija (il due volte nato) lo salmodia a Kashi (Benares),
mentre il sole si innalza dalle acque della Ganga– non si può fare a meno di
rammentare i seguenti versi di Dante, riferiti a San Francesco d’Assisi: «Di
questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole, /
come fa questo tal volta di Gange» (Paradiso XI, 49, 51). Vi è dunque una
stretta relazione tra la Gayatri e San Francesco, il cantore della bellezza della
Creazione-Manifestazione. Tale sorprendente coincidenza ci sembra rimandare a
quell’“Unità trascendente delle Religioni” alla quale Frithjof Schuon dedicò un
libro dal titolo omonimo.
È ovvio che la musica sacra, risultando fastidiosa agli ascoltatori profani, non
potrà mai riscuotere vasti consensi, né venire facilmente commercializzata. Ed è
altrettanto ovvio che chi si dedichi ad essa sarà necessariamente un devoto del
profondo. È opportuno, tuttavia, data la straordinaria abilità dei mass media a
banalizzare cose sublimi, vigilare affinché il profondo non venga scambiato con
l'imitazione parodistica di esso. Le vestigia che alla Presenza del Reale
conducono sono riconoscibili da quelli che la consapevolezza del sublime hanno
già in Sé. Perciò va ribadito che è da insensati tentare di sistematizzare
l’avvicinamento al Reale; un’insensatezza sino ad un certo punto proficua, forse
(Nagarjuna considerava la dottrina buddhista dell’abhidharma un «errore
utile»6). Chiedersi come mai alcuni lo realizzino e altri no è superfluo. Nella
Postfazione di Maurizio Barracano a Il suono filosofale -Musica e alchimia, di
Bruno Cerchio, si legge: «La ragione (lat. ratio da reor, "soppeso") così come il
pensare (lat. penso da pondus, "peso") non possono essere utilizzati per
conoscere la natura delle cose, la loro qualità, ma semmai per misurarne la
quantità».7
L’opera testé citata si rivolge ai lettori-ascoltatori che abbiano intuito in qualche
modo le potenzialtà trasmutatorie e sapienziali dell’arte in generale e in
particolare della musica, la forma artistica più diretta ed immediata.
Nell’Introduzione, l’Autore sottolinea la differenza tra la concezione moderna
dell’arte e la visione tradizionale o arcaica; quest’ultima, per essere rettamente
compresa, non va esaminata sotto gli aspetti storicistico, filosofico o esteticoedonistico,
bensì sub specie interioritatis. Il percorso lungo il quale si muove la
ricerca del Vero in sé è di tipo catabatico-anagogico ed è sostanzialmente
identico a quello dell’armonia musicale e delle sue divine proporzioni. «Se la
natura del mondo è musicale –nota Cerchio– e se le trasformazioni di questa
natura sono alchemiche, l’alchimia è musica e la musica è alchimia».8
Raro è incontrare persone con le quali condividere quantomeno l’aspirazione
alla profondità e tratti del percorso alchemico. Pullulano invece i fantasmi, gli
alienati e i “falsi profeti” (sedicenti scienziati, pseudo-guru, politici falsi o
incapaci, ecc.) intenti a giocare col fuoco sacro della vita. Non si tema dunque di
abbandonare le vie larghe, adatte alla canea. Meglio avere due o tre buoni amici,
piuttosto che intrattenere relazioni con frotte di plagiati presuntuosi. Ezra Pound
si addormentava quando i giornalisti lo intervistavano: le loro domande erano
troppo superficiali e noiose. L’ascolto profondo è affilato come la lama di una
spada: consuma i sostegni sensibili e lascia la coscienza priva di oggetto; si
fonda sul non-sapere ed è inaccessibile persino ai dotti; nessuna scienza, nessuna
tecnica, nessun corso, nessuna pseudo-iniziazione lo svelano. In quanto “io”
empirici non lo si può condividere con nessuno, non lo si può trattenere, né
suscitare. Locuzioni quali “attenzione senza oggetto”, “Coscienza cosmica”,
“Voce del Silenzio”, “Intelligenza del Cuore” o “Sommo Bene” rimandano tutte
ad un Unicum: l’“esperienza” dell’Ineffabile, mai iniziata, mai conclusa, più
vicina a noi del nostro stesso pensiero, più vicina del respiro. È in conseguenza
del suo nunc stans –per dirla con Boezio9–, che il disattento la trascura. Chi la
realizza è libero e sa la pace-shanti.
Giuseppe Gorlani
                                                                                                                                               
Note
1) Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, Ed. San Paolo, Cinisello
     Balsamo, ‘94, p. 439.
2) Ibidem, pp. 309 e 319.
3) Elémire Zolla, La filosofia perenne, Mondadori, Milano, ‘99, p. 144.
4) Sul significato del Pranava e, più in generale, dei termini sanscriti, cfr.
    Glossario sanscrito, Ediz. Asram Vidya, Roma, ‘88.
5) Cfr. M. e J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ubaldini Ed., Roma, ‘80.
6) Nagarjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Ed. Boringhieri, Torino, ‘68,
    cap. I.
7) Bruno Cerchio, Il suono filosofale -Musica e alchimia, Libreria Musicale -
    Italiana Editrice, Lucca, ‘93, p. 134.
8) Ibidem, p. 8.
9) La sintetica espressione latina è citata da Mircea Eliade in una sua definizione
    del liberato in vita; e tale definizione viene riportata da Elémire Zolla in op. cit.,
    p. 137. Per un approfondimento del concetto di Liberazione nell’hinduismo, si
    consiglia la lettura di Vidyaranya, La Liberazione in vita -Jivanmuktiviveka, a c.
    di Roberto Donatoni, Adelphi, Milano, ‘95.

Il quadro in basso rappresenta "La Musica" di Klimt
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