sabato 12 novembre 2011

Il significato della morte di Gheddafi per la Russia e la sfida della Siria.

Valerij Rashkin è segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa e deputato alla Duma di Stato. Antonio Grego lo ha intervistato per noi in esclusiva l’8 novembre scorso, a margine di una tavola rotonda sul tema “La personalità e l’eredità politica di Muammar Gheddafi” svoltasi a Mosca. Rashkin ha parlato di come la guerra in Libia, la morte di Gheddafi e le minacce alla Siria pesino sulla strategia internazionale della Russia.

Valerij Rashkin
                                                                                                                

Antonio Grego – Quanto è importante la morte di Gheddafi per il vostro partito e per la Russia in generale?

Valerij Rashkin – In primo luogo penso che questa sia una tragedia. Una tragedia non solo per il popolo libico, ma una tragedia di carattere globale. Leader come Gheddafi, credo che è necessario proteggere ovunque, nell’intero globo. Bisogna studiare la sua storia, leggere i suoi scritti e maledire tutti quelli che hanno commesso questa sconsiderata aggressione e avventura. In secondo luogo si deve imparare la lezione che viene da questa esperienza ovvero che la NATO e gli Stati Uniti non amano i Paesi con una forte politica sociale e una forte rete di sicurezza sociale per i deboli e la popolazione. E in terzo luogo che tutti coloro che hanno stima di sé, un sentimento di indipendenza politica per la loro Nazione, non hanno alcun diritto di rimanere in silenzio, hanno come esempio la lotta di Gheddafi e del suo popolo per trarre le dovute conclusioni e per prevenire tali avvenimenti nei loro Paesi, in ogni caso.

A.G. – Perché, secondo lei, l’Occidente ha deciso di invadere la Libia ed eliminare Gheddafi? Quale esempio rappresentava la Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare per il mondo?

V.R. – Credo che il golpe militare, che è stato organizzato in Libia, abbia portato il Paese ad una situazione di schiavitù. Gli Stati Uniti ed il loro blocco NATO oggi sono i poliziotti internazionali. Di ciò ne parla tutto il mondo. Questo gendarme usa il suo potere di intervento ovunque a piacimento. Ecco alcuni esempi: Afghanistan. Fanno entrare le loro truppe, e rimpiazzano la Russia e altri Paesi. L’esercito americano ha preso in custodia i campi dove cresce l’oppio. Adesso l’80% della droga coltivata su questi campi finisce nel nostro Paese, in Russia. E avvelena i nostri giovani. E stiamo perdendo ogni anno 226 mila giovani di età inferiore ai 25 anni, solo a causa del consumo di droghe. L’Iraq. Gli Stati Uniti avevano bisogno per se stessi delle risorse petrolifere di questo Paese e sono andati in guerra. Con la Yugoslavia hanno usato lo stesso schema. Lo stesso metodo da gendarmi. Gli stessi bombardamenti, la stessa guerra, persino gli stessi aerei.
L’assassinio di Gheddafi lo considero certamente un atto blasfemo e un crimine assoluto contro la comunità internazionale. Il leone ferito può essere preso a calci da uno sciacallo qualsiasi. E così è successo con Gheddafi. Quando è iniziato l’intervento armato, i bombardamenti, è rimasto ferito. Poi hanno iniziato a prendersi gioco di lui. Questo non è degno di esseri umani, è inumano. Questo gesto non rientra nella tradizione di questo Paese. Ma lo hanno fatto. In tutti i regolamenti internazionali, i leader di questo livello devono essere protetti e difesi, e poi essere condotti in vita davanti ad un tribunale. Questo era un uomo di tale grandezza ed è stato ucciso in modo vile e disgustoso. Quel sistema, che era stato costruito e tenuto in vita per più di 40 anni in quel Paese, era giudicato legittimo dalle popolazioni tribali che lì vivono. Perché? Vediamo in che consiste questo sistema e perché hanno ucciso Gheddafi e distrutto il sistema di governo che aveva creato.
Facciamo un parallelo con la Russia. In Libia, l’indennità di disoccupazione era di 730 dollari a persona. Se trasferiamo nella nostra valuta, si ottiene 22 mila rubli. A chi poteva piacere questo fra coloro che odiavano Gheddafi? Andiamo al salario medio, e questo per noi è esemplare. Lo stipendio di una infermiera in Libia era di almeno 1000 dollari. In Russia, un’infermiera riceve 7.000 rubli (circa 170 euro, n.d.r.). Potete immaginare? Gheddafi ha inoltre dato le seguenti disposizioni: per i nuovi sposi che vogliono comprare un appartamento lo Stato dava 64.000 dollari, che è pari a 1,9 milioni di rubli. Se si vuole intraprendere un’attività in proprio lo Stato regalava subito 20.000 dollari per lo sviluppo del proprio business. L’istruzione e la sanità in Libia erano gratuite. Oggi, se in Russia andate in qualsiasi ospedale vi chiedono soldi.
Le famiglie con molti figli in Libia potevano comprare i generi alimentari in apposite reti di negozi. Per loro si applicava un prezzo simbolico per l’abbigliamento dei bambini e per il cibo. Qui in Russia, in un qualsiasi negozio per bambini a volte le scarpe per bambini costano più di un intero vestito di un adulto. In Libia, si forniva supporto per la crescita della popolazione e ci si preoccupava per il futuro della nazione e il futuro del Paese. Gheddafi odiava i ladri e i truffatori. Per la contraffazione di medicinali c’era la pena di morte. È una cosa rude, crudele? Se ci fosse in Russia, chi dovrebbe per primo essere fucilato per contraffazione? Ne abbiamo un sacco di gente così. In Libia, non esisteva l’affitto. A chi in Occidente piace questo ordine di cose? Qui abbiamo fino al 50% del reddito familiare che viene usato per pagare le utenze e gli alloggi. In Libia l’energia elettrica era gratuita. E bisogna considerare che in Libia non c’è l’abbondanza di fiumi e impianti idroelettrici come in Russia, ma c’era l’elettricità gratuita. I prestiti per l’acquisto di auto e casa, in Libia, erano senza interessi. In qualsiasi banca in Russia, in USA e in Occidente, non troverete prestiti senza interessi per comprare un appartamento o una macchina. Da noi il mutuo ha un tasso che va dal 13 al 24 per cento, per non parlare delle percentuali per l’acquisto dell’auto. Gheddafi riteneva che in Libia dovessero essere vietati gli agenti immobiliari, e li proibiva. Odiava gli speculatori, e questa è proprio la teoria degli speculatori, la teoria dell’Occidente, la teoria degli imbroglioni e ladri che vivono su questo.
Naturalmente, credo che chiamare Gheddafi un tiranno è una questione inutile, l’Occidente e l’America, e tutta la NATO lo hanno chiamato tiranno. Credo che i tiranni siano coloro che siedono sul gas, sul petrolio e sulle risorse naturali che vengono sottratte al popolo e date in mani private. Io credo che Gheddafi debba essere considerato un eroe per come ha gestito il suo Paese. Il Paese era tranquillo, stabile, senza guerre, e questo non piaceva agli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’America, essa si inserisce ovunque. Ovunque ci sono divisioni, vi si trova necessariamente l’America. Siano esse in Europa, in Africa o in Asia. E la causa principale di questo sono le risorse naturali, il petrolio, il gas e i metalli. Il fatto è che gli statunitensi pensano che le risorse naturali del mondo siano di loro proprietà. E se vi ricordate di Cesare, anche lui era chiamato tiranno. Ma per una sola ragione: non permetteva che i senatori rubassero.
Molti Stati hanno debiti enormi con la Libia. Gheddafi ha introdotto una tale politica cioè quella di dare in prestito denaro e petrolio. Sia la Gran Bretagna che la Francia hanno accumulato enormi debiti con la Libia. Capisco perché sono stati eliminati quelli con i quali sono stati contratti i debiti e non quelli che sono in debito. Perché? Se Gheddafi e la Libia hanno prestato soldi all’Inghilterra e all’Occidente eliminando Gheddafi e il suo Paese non c’è più bisogno di onorare il debito. Quindi il blocco NATO ha preso di mira e distrutto questo Paese e tutti i loro debiti sono stati dimenticati. Questo è uno dei motivi per cui hanno distrutto la struttura della società che era sotto Gheddafi.

A.G. – Come dovrebbe comportarsi la Russia con la Siria e l’Iran, a suo parere, affinché non si ripeta lo stesso scenario visto in Libia?

V.R. – A mio parere, in Russia (e sotto il regime attuale, del capitale oligarchico, che oggi è uno dei fondamenti del tessuto della nostra società) questo scenario non è possibile che si ripeta.
Per questo motivo la Russia deve essere il successore della grande potenza – l’Unione Sovietica – non a parole ma nei fatti. Deve essere assolutamente non sensibile alla politica, ma questo può avvenire solo con una Russia forte, con un forte esercito, in un sistema dove la gente sostiene il suo governo, vero e da lei scelto. Dopo di che, la Russia si rimetterà molto rapidamente in piedi, se il popolo ha fiducia nel governo che ha eletto, lei si alzerà immediatamente in piedi, sarà una grande potenza, e la sua parola sarà ascoltata. E quello che è successo con la Libia, non succederà con nessun altro Paese.
Per quanto riguarda l’Unione Sovietica. Se l’Unione Sovietica fosse ancora in vita, quello che è successo in Libia non sarebbe accaduto. In generale, era una grande potenza e una potenza alternativa al sistema di vita degli altri Paesi, ed era un’alternativa alla classe e al capitale. Se l’Unione Sovietica non si fosse sciolta e non ci fosse stato il golpe del 1991, la Libia avrebbe vissuto in amicizia con il popolo sovietico, e il popolo avrebbe ricevuto questi benefici. Purtroppo, la Russia non ha adempiuto alla sua missione come Stato successore dell’Unione Sovietica.
La Russia in questo caso ha svolto un ruolo negativo. Avevamo stipulato un contratto per un’enorme fornitura di armamenti. Abbiamo perso un partner di fiducia come non ce n’erano altri al mondo. Siamo ora esclusi dalle decisioni che riguardano il futuro della Libia. Avevamo il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza e non lo abbiamo sfruttato. Ed è stato un errore madornale. La Russia si mostra debole al cospetto della classe dominante colpevole della situazione che ora c’è in Libia. Credo che la Russia sia la prossima nella lista. La Libia e la NATO non sono cose a sé stanti, tutto è interconnesso. La politica internazionale sul globo, che è rotondo e piccolo, non è fatta di fenomeni che possono essere isolati. Tutti noi abbiamo risorse enormi, e questo è un bocconcino succulento per la NATO e gli Stati Uniti. Abbiamo enormi riserve di petrolio, gas, metalli, minerali, abbiamo le risorse naturali rinnovabili come legname e pesce. Il 60% dell’acqua dolce è sui nostri territori.
Oggi in Russia quello che trattiene il blocco NATO dall’aggressione è solo lo scudo nucleare che si trova sul nostro territorio, compreso dentro e intorno a Mosca. Senza di questo, quelle risorse e quelle riserve, che sono bramate dalla classe capitalistica mondiale, sarebbero prelevate dalla Russia a prezzi stracciati. Lenin aveva assolutamente ragione quando diceva che finché sulla Terra ci sarà il capitalismo, la guerra non si fermerà. E noi sappiamo dalla storia della statistica, che mentre era in vita l’Unione Sovietica, la guerra nel mondo era molto più ridotta. Perché era preso in considerazione il punto di vista del Cremlino. Avevamo il più forte esercito del mondo, con il quale doveva fare i conti il mondo intero. Per non parlare del fatto che abbiamo vinto la seconda guerra mondiale. E un contributo significativo e importante a questa vittoria lo ha portato l’Armata Rossa e il popolo sovietico. E dopo la Grande Guerra Patriottica nessun accordo, nessuna provocazione non deve essere avviato senza l’approvazione dell’Unione Sovietica. Oggi, l’opinione – che è questa Russia? È corretto dire che se vuoi la pace devi prepararti alla guerra.
Un’altra conferma che noi siamo un bocconcino succulento e che ci spetta il compito di decidere come evitare il saccheggio delle nostre risorse. Madeleine Albright ha parlato in modo chiaro, ripetendo le parole di Churchill: «Non è affatto vero che le ricchezze della Siberia debbano appartenere ad un solo Paese (cioè la Russia). Esse devono essere di proprietà di tutto il mondo». Saranno loro a decidere dove andranno le ricchezze del Kuzbass e di Novosibirsk. A chi andranno tutte le ricchezze della Siberia e dell’Estremo Oriente. Io non sono assolutamente d’accordo con loro.
Pertanto, ecco le conclusioni che si possono trarre da quanto accaduto in Libia, dove hanno scatenato una guerra, uccidendo il suo leader Gheddafi, che tra l’altro aveva più volte visitato l’Unione Sovetica e ha costantemente perseguito una politica di sicurezza sociale per il suo Paese: Gheddafi è stato un combattente indomito per la giustizia sociale e per il bene del suo popolo. Io lo rispetto profondamente, e credo che la sua morte abbia fatto risvegliare schiere di politici in questo Paese e in tutto il mondo. La sua morte ha sollevato la questione del patriottismo e il mondo oggi guarda con occhi diversi la NATO, questi gendarmi, e quello che stanno facendo in tutto il mondo.

Intervista dell'8 Novembre 2011 in esclusiva per la Rivista di Geopolitica Eurasia rilasciata al Prof. Antonio Grego. Pubblicata www.eurasia-rivista.org 

giovedì 3 novembre 2011

TAWERGHA LIBIA - ORA DISABITATA

Neri catturati in Tawergha
Fonte: “Nena News”                                                           

Denunce inascoltate fin da giugno. Gli ex “ribelli” di Misurata hanno espulso, derubato (con molte uccisioni) gli abitanti di un’intera città nera vicino Misrata. E a metà settembre Jibril aveva dato via libera

Roma, 01 novembre 2011, Nena News – Insieme a Sirte assediata e distrutta, Tawergha, la città dei neri libici, diventa il simbolo della Libia “liberata” grazie alla Nato. Situata a qualche decina di chilometri da Misurata, Tawergha contava circa 30mila abitanti, in gran parte libici di pelle nera: nacque nel XIX secolo come città di transito nel traffico degli schiavi. E “schiavi” (abeed) è l’insulto che più ricorre sui muri della città dopo la conquista in agosto da parte delle truppe dei “ribelli della Nato” provenienti da Misurata. Il suo nome è stato cancellato sul cartello stradale e sostituito da “Nuova Misurata”.
Tawergha è ora disabitata (e molte case incendiate e saccheggiate): i suoi abitanti sono scappati altrove all’avvicinarsi delle forze anti-Gheddafi due mesi fa; le ultime centinaia sono state espulsi in seguito dalle milizie. A decine di migliaia sono adesso sparsi presso parenti e soprattutto in campi profughi improvvisati; di tanti si sono perse le tracce. In molti sono stati arrestati ai check-point o addirittura prelevati dagli ospedali e scomparsi. Non si contano gli assassinati in questa pulizia etnica nella quale l’odio razziale si è mescolato all’accusa ai tawerghani di essere stati pro-Gheddafi e suoi “mercenari” (ma sono libici), perché da quella zona l’esercito libico lanciava gli attacchi contro Misurata.



Risale agli inizi del conflitto la demonizzazione (e molte uccisioni anche con decapitazioni) dei neri libici, combattenti e non, accusati senza prove di crimini e stupri. Tawergha è il genocidio di un’intera città. Il primo a lanciare l’allarme, inascoltato, era stato il…IbrahWall Street Journal il 21 giugno (“Libyan City Thorn by Tribal Feud”; http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304887904576395143328336026.html): uno suo reporter, Sam Dagher, aveva intervistato i comandanti militari di Misrata (schierati con i “ribelli” e la Nato): im al-Halbous, per esempio, diceva con chiarezza che una volta conquistata la cittadina, i suoi abitanti avrebbero dovuto fare fagotto, perché “Tawergha non esiste più, c’è solo Misrata”. Altri “ribelli” raccomandavano di impedire ai tawerghani di lavorare e mandare i bambini a scuola a Misrata. Dagher parlava dell’esplodere di un “razzismo che prima del conflitto era latente”. Fra le due città, sui muri le scritte pro-Gheddafi erano state sostituite da moniti tipo “siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri”. Allarmato, il reverendo nero statunitense Jesse Jackson a giugno chiese – ovviamente invano – un’indagine della Corte penale internazionale.
La situazione di Tawergha precipita in agosto. Ricostruiva la vicenda l’inchiesta “Ethnic Cleansing, Genocide and the Tawergha”, di Human Rights Investigation (http://humanrightsinvestigations.org/2011/09/26/libya-ethnic-cleansing-tawargha-genocide/), un piccolo gruppo di ricercatori indipendenti nel campo dei diritti umani, da non confondere con la ben più nota Human Rights Watch – il cui rapporto su Tawergha è del 30 settembre, v. oltre). Grazie ai bombardamenti aerei della Nato e ai missili Grad degli alleati “ribelli”, Tawergha viene presa il 13 agosto (e la Bbc intervista il solito comandante al-Halbous ma “dimentica” di parlare del colore della pelle degli tawerghani). Al Jazeera stessa mostra case distrutte, prigionieri messi in un container di ferro (ma viene impedito di filmarli), un ferito in abiti civili portato via chissà dove e armati che obbligano gli ultimi abitanti a partire. Quando Telesur si reca sul posto “non c’è più nessuno, salvo nella parte antica dove i ‘ribelli’ non ci hanno lasciati entrare; pare che là ci sia ancora qualcuno, e quando escono in cerca di cibo o acqua li catturano”.
HRI richiama la convenzione Onu per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio: all’art. 2 definisce genocidio uno dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, uccidendone membri, danneggiandoli fisicamente o psicologicamente, infliggendo loro condizioni di vita distruttive (…).
A fine agosto Amnesty International (http://www.amnesty.org.uk/news_details.asp?NewsID=19674) denuncia il fatto che decine di migliaia di tawerghani non possono tornare a casa per paura di essere arrestati come è successo a molti, perfino prelevati negli ospedali e poi scomparsi. Anche nei campi dove sono ospitati, si susseguono arresti e sparizioni. Denunce credibili anche di stupri ai danni di donne di Tawergha e di esecuzioni di soldati e volontari arrestati. L’organizzazione indica nei Tawergha un gruppo particolarmente vulnerabile che abbisogna di protezione. Chiede anche ai nuovi governanti di farla finita con l’impunità. Questi ultimi fanno orecchio da mercante su Tawergha.

Il CNT APPROVA LA PULIZIA ETNICA

Intanto, sempre il Wsj riferisce che l’autonominato Primo Ministro Mahmoud Jibril il 18 settembre in un incontro pubblico a Misurata dà il via libera alla cancellazione della città: “Su Tawergha, ritengo che nessuno debba interferire, salvo la popolazione di Misurata. Non possiamo riferirci alle teorie della riconciliazione nazionale usate in Sudafrica, Irlanda o Europa dell’Est”. Grandi applausi e urla “Allah u Akbar”. In quei giorni molte case della cittadina venivano incendiate, “per evitare che ritornino”, spiegava un “ribelle”.
Il 30 ottobre Human Rights Watch (Hrw) riepiloga la tragedia della città nel suo rapporto “Beatings, Shootings, Deaths in Detention of Tawerghans [ 82710 ]” (http://www.hrw.org/news/2011/10/30/libya-militias-terrorizing-residents-loyalist-town). “Le milizie di Misurata terrorizzano gli sfollati da Tawergha –abbandonata, saccheggiata e in parte bruciata – e assicurano che quelli non ritorneranno mai”. Hwr ha intervistato decine di sfollati in tutto il paese, e fra questi 26 detenuti a Misrata e nei dintorni e 35 sfollati a Tripoli, Heisha e Hun. Le denunce, “credibili”, parlano di ferimenti o esecuzioni di persone disarmate, arresti arbitrari e torture su detenuti, fino alla morte in alcuni casi. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, i 15mila tawerghani sono fuggiti in gran parte nella regione Jufra. Nella città di Hun erano arrivate agli inizi di ottobre quattromila persone, ospitate in tre campi, e molte altre nella città di Sokna e nelle campagne circostanti. In seguito circa 5mila persone si sarebbero spostate verso Bengasi o Tripoli, altre a Tarhouna, Khoms o nel Sud.
Il 25 ottobre Hrw è stata testimone, nella Tawergha spopolata, di un saccheggio totale e il giorno dopo ha visto diverse case date alle fiamme, sotto gli occhi delle brigate di armati di Misurata.
Muhammad Grarya Tawergi, un ex coltivatore di datteri, ottant’anni, ha detto a Hrw che i “ribelli” arrivati a Tawergha in agosto hanno obbligato anche le persone non armate a lasciare la casa.
Molti abitanti di Tawergha sostenevano Gheddafi, e centinaia di loro si erano arruolati fra marzo e maggio, durante l’assedio a Misurata. Dopo il cambio di regime è stato un susseguirsi di abusi, arresti arbitrari e persecuzione dell’intera comunità. Il 20 agosto, è stato riferito a Hrw, nella prigione di Misurata un conducente del camion dell’immondizia, Amhamid Muhammad Shtaywey, è stato torturato perché confessasse di aver commesso stupri e alla fine è morto per le torture. Nena NEWS





mercoledì 26 ottobre 2011

Il linciaggio di Gheddafi e l’etica tribale dell’Occidente



Scritto sulla Libia di:
Claudio Moffa :::: 26 ottobre, 2011 ::::                                    

«Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica che non sia utile per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico. Per i finanzieri “che sanno, la spedizione di Jameson fu un colpo molto vantaggioso, come si può accertare da un confronto dei titoli tenuti….»

John Atkinson Hobson, Imperialism: a Study¸1902





Gheddafi e Antonio Cassese: un accostamento forse scomodo, ma simbolicamente rappresentativo della doppia morte del Diritto Internazionale
La morte di Gheddafi segna l’apoteosi del peggiore Occidente e della sua etica tribale: una “etica” criminale, usuraia e scristianizzata, alimentata dal mainstream mediatico e dai direttori di tutte le grandi testate internazionali “progressiste” e non. Prima di essere orribilmente linciato da un gruppo di ribelli-fantocci (1) imbeccati dall’ “ultimo” e risolutivo bombardamento NATO del convoglio in fuga da Sirte, Gheddafi è stato linciato giorno dopo giorno dai mass media che hanno condotto per mesi una accurata campagna di disinformazione e destabilizzazione della Jamahiriya libica: nessuno è sfuggito a questa regola, nemmeno la stampa pro-Berlusconi, artefice dell’accordo del 2008 e ospite di Gheddafi a Roma appena un anno fa. Non basta certo la pubblicazione di un articolo postmortem sull’ “onore delle armi” alla Guida, o un “cosiddetti ribelli” colto al pur migliore TG 1, o la distribuzione da parte de il Giornale del Libro Verde di Gheddafi – l’estate scorsa – a rendere questo frontemigliore dell’altro.
La specifica contraddizione, plateale e primaria, di tutta la stampa di centrodestra non è solo quella pur sussistente del “tradimento”, ma alla radice, da un punto di vista fattuale e logico, il non aver mai ragionato e fatto ragionare i lettori – già bombardati dal veleno fallaciano profuso per anni dall’ala antislamica-per-principio del suo giornalismo – in termini di garantismo giuridico-internazionalista. Sacrosanta la protesta contro i difetti e le parzialità del sistema giudiziario italiano, e verità incontrovertibile la spudorata “attenzione” di certi PM contro il premier: autolesionista e schizofrenico il silenzio sui “difetti” del sistema giudiziario e ONU sul piano delle relazioni internazionali, mai rotto nemmeno per contrastare intelligentemente la concorrenza quotidiana e a tutto campo (oltre cioè lo specifico capitolo Gheddafi) del Presidente Napolitano. La guerra di Libia – dalla rapina dei beni statali alla delega del comando militare a una organizzazione di parte; dalla no-fly-zone in difesa di una rivolta armata, ai bombardamenti NATO sulle popolazioni civili (2)- non ha avuto nemmeno un barlume di legittimità: è stata un atto di banditismo internazionale malcelato dal silenzio omertoso della stragrande maggioranza dei giuristi internazionalisti, e di cui si deve essere probabilmente accorto anche Antonio Cassese, in punto di sua morte avvenuta poche ore dopo la diffusione planetaria del video-horror della Sirte.Né possono oggi – a assassinio compiuto – farsi vanto di “proteste” e puntualizzazioni fittizie, Ban Ki Moon e la Corte Penale Internazionale: al primo Gheddafi aveva ripetutamente richiesto una commissione di inchiesta per verificare la situazione sul terreno: la risposta fu il silenzio (3) . La seconda (denunciata da Gheddafinel 2009 per la sua parzialità in Africa: sostanziale inazione di fronte alle stragi degli invasori tutsi di Paul Kagame ai danni di centinaia di migliaia di Hutu e alleati “etnici” del Congo orientale; e dall’altra parte, il mandato di cattura per Al Bashir, per una guerra civile nel Darfur sostenuta da Israele) è stata attiva solo nel richiedere un altro mandato di cattura internazionale contro il leader libico, già nel giugno scorso, e sulla base dei “de relata” mediatici (4): pazzesco, i magistrati della giustizia internazionale che rinunciano a una indagine cognitiva autonoma e si affidano alle patacche del New York Times, dell’Economist e di Al Jazira (5).

Il segno sionista della guerra di Libia, dal colpo di mano Sarkozy al linciaggio di Gheddafi

Questo detto, una sommaria puntualizzazione sul prima e dopo la fine di Gheddafi è opportuna: come è stato ripetuto da più parti, la guerra di Libia è scoppiata e il regime di Tripoli rovesciato, non perché il reddito della popolazione fosse mediamente basso, come nel caso di altri paesi sconvolti dalla “primavera araba”, ma al contrario perché la Jamahiriya era un paese mediamente benestante, ricco di petrolio da esportazione, caratterizzato da una struttura economica satisfattiva delle esigenze di base dei suoi cittadini – dai servizi alla proprietà della casa, ai redditi più che sufficienti (6) –sorretta dal gigantismo degli interventi strutturali messi in opera dalla genialità del rais – primo fra tutti il grandioso acquedotto “manmade-river” (7) – e capace di una politica estera sia politica che economico-commerciale dinamica e per molti versi vincente. In Africa innanzitutto – attenzionata e coltivata da Gheddafi dopo la sua rottura con i “fratelli arabi”: fu lui a fondarel’Unione Africana (8) – ma anche in Europa, con massicci investimenti probabilmente mirati. Una presenza libica che in Italia risale addirittura al 1978 – le azioni della Fiat, una Fiat in cui non si era ancora risolto, o forse non era ancora emerso, il conflitto tra pro-cattolici, pro-musulmani (Edoardo Agnelli e la sua oscura morte (9) ) e pro-ebrei , oggi stravincenti – e che sicuramente ha dato molto fastidio ai soliti poteri forti occidentali.
Per questo la Jamahiriya è stata aggredita, facendo leva come da classica guerra imperialista sull’antica contrapposizione – di cui parlava già Erodoto (10) – tra Cirenaica e Tripolitania, megaregioni di un paese nel quale, sotto la bandiera verde della rivoluzione pan-nazionale gheddafista permanevano peraltro anche altre sedimentate divisioni etno-regionali, quelle oggi sempre più evidenti.La struttura bancaria statale libica, in una fase di scatenamento selvaggio della finanza “laica” mondiale e di sopravvivenza di una finanza islamica ancora in parte memore dei versetti del Corano di condanna dell’usura; la politica di (media) potenza di Tripoli tale da dar fastidio persino alla Cina in terra d’Africa; e il risveglio antisionista di Gheddafi dopo il lungo tunnel del caso Lockerbie, con le dichiarazioni di fuoco contro Israele e la “sua” CPI dell’agosto del 2009, di fronte agli ospiti stranieri riuniti per festeggiare il quarantennale della rivoluzione: questi sono i tre momenti simbolo che spiegano più di ogni altra cosa – più del petrolio, fattore logicamente e “cronologicamente” secondario- l’aggressione alla Libia. Una guerra, dunque,in cui il sionismo internazionale – quello a-territoriale, la grande finanza mondialista; e quello territoriale, lo stato ebraico “offeso” dalle parole “antisemite” del rais, e alla ricerca di una rivalsa dopo le sconfitte della guerra del Libano del 2006 e della invasione di Gaza due anni dopo – ha avuto sicuramente un ruolo centrale, tanto centrale quanto occultato dal mainstream mediatico, “autorevoli “siti in rete compresi.Sìsì, è vero, non c’è il solo sionismo a opprimere i popoli del mondo: i finanzieri e i razzisti sono anche sauditi, indiani, cristiani, musulmani, americani wasp e francesi doc.E poi ci sono i padroncini di Barletta a 3 e 95 euro l’ora, lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” è binario.
Ma la centralità e la supremazia della capacità di fuoco sionista rimane: trovate una altra combinazione-convergenza dentro uno stesso gruppo di potere lobbistico di finanza, mass media, comunità diasporiche. Non c’è: non esistono direttori di giornali sauditi in Occidente o se esistono sono rari come le mosche bianche. Al massimo ti infilano un bravo e simpatico professionista nero in qualche TG, uno solo per piazzarne altri dieci di affiliazione diversa e più affine. Il potere delle lobbies islamiche in Europa o nel mondo è poi minore, anche laddove esistono forti comunità di immigrazione: di immigrazione recente, non plurisecolare e plurimillenaria, con i suoi effetti a cascata grazie alla capacità, capillare, sorretta da una “base di massa” , di insinuarsi in ogni dove se vuole, persino in rete, persino tra i cosiddetti “rivoluzionari” di destra, di sinistra e rossobruni; persino tra i siti di “analisi” geopolitica, che abdicano all’abc della professionalità occultando sistematicamente il fenomeno e nel caso specifico – la Libia – il segno sionista dell’aggressione della NATO e dei suoi ribelli-fantoccio.
Segno dimostrato per finire – anche questo aspetto è stato taciuto da quasi tutti, fino all’invenzione-patacca di una preminenza degli USA nella guerra a Gheddafi da parte della solita coglioneria marxista e postmarxista – dal ruolo trainante e centrale nel conflitto dei due leader più sionisti dell’Unione Europea: Sarkozy, il “primo presidente ebreo della Repubblica francese” (11), e Cameron, anche lui scopritore di vere o presunte sue radici ebraiche e protagonista di una campagna elettorale all’insegna della fedeltà a Israele (12). L’inizio della guerra di Libia è stato il colpo di mano del presidente francese del 19 marzo, il via libera ai bombardamenti mentre ancora era in corso il vertice di Parigi incaricato (da lui stesso) di implementare la risoluzione dì ONU di due giorni prima. La conclusione è stata il linciaggio di Gheddafi, che stando alle cronache di stampa, sarebbe stato opera della “tribù di Misurata” “discendente dagli ebrei turchi” (13) : di Salonicco cioè, la stessa città di origine della famiglia di Sarkozy? (14) Ed è questo il motivo vero, talmudista, della violenza bestiale e criminale dei linciatori, che solo a crimine compiuto hanno attribuito a due neri-un giovane in un filmato, un adulto in un’altro: quest’ultimo sembrerebbe essere quasi stato minacciato – del crimine compiuto ai danni del legittimo Capo di stato libico? Il tutto comunque il 20 ottobre scorso, data fortunata per il marito di Carlà, sfortunata per i suoi molteplici nemici e le loro memorie storiche: nascite e stragi di bambini, sempre tutti innocenti per tutta l’umanità, tranne che per certi razzisti. Canaglie. Vera o non vera la storia degli “ebrei turchi”, la sua esternazione mediatica è la firma finale sulla guerra, qualcosa che ricorda la visita improvvisa- anch’essa dubbia, e a cui venne dedicato solo qualche trafiletto – di Sharon a Saddam in carcere , nel 2004 …

Il futuro della Libia e le sue incognite

Del resto, di segno sionista rischia di essere anche la prospettiva che si intravvede in questi primi giorni postgheddafiani: la paventata balcanizzazione del paese di cui si parla con tanto di richiamo al tentativo postbellico degli anglo-francesi di dividere l’ex colonia italiana in Fezzan, Cirenaica e Tripolitania – tentativo fallito grazie all’Italia democristiana di De Gasperi – è assolutamente coerente con l’ideologia sionista, tendenzialmente di acciaio al suo interno, ma ultradifferenzialista nei confronti dei popoli gentili. Le nazioni in pace invase dall’immigrazione selvaggia, se non violi i “diritti umani” (Louise Arbour, all’indomani dell’accordo italo-libico del 2008. Per inciso, la Arbour è la stessa che persegui’, anzi perseguitò Milosevic fino al suo assassinio in carcere: di nuovo emerge l’assenza di coerenza nel garantismo giuridico del centrodestra) e le guerre e le “autodeterminazioni” altrettanto selvagge per distruggere paesi uniti e sedimentare odi interetnici di lunga durata. Il modello è quello di Oded Ynon, sulla rivista Kivunim dell’Organizzazione Sionista Mondiale nel 1982 (15) : la divisione del Medio Oriente secondo linee etno-religiose, come nel caso del federalismo economico in Iraq, come è stato ripetutamente tentato in Libano, come si tenta in questi mesi in Siria, e come sta emergendo con gli attentati oscuri in Egitto che scatenano l’odio tra copti e musulmani. Un dejavu, vedi l’attentato al mercato di Serajevo in Bosnia, falsamente attribuito ai Serbi e prodromo della disgregazione finale della vecchia Federazione jugoslava di Tito .
Si dirà: ma che giovamento può trarre l’Occidente dalla balcanizzazione della Libia, e dal perdurare degli odi interetnici scatenati dal conflitto? La risposta è: dipende, c’è Occidente e Occidente, come nel caso dell’Iraq. Per George Bush – proclamatosi ridicolmente vincitore ai primi di aprile del 2003 nel suo discorso “storico” sulla portaerei USA – la guerra contro Saddam si è tradotta in un disastro – circa cinquemila soldati americani morti durante l’occupazione del paese – ma per Israele, il paese che ha spinto in tutti i sensi la Casa Bianca dello psicolabile figlio di Bush senior, verso la “guerra infinita”, sfruttando l’attentato dell’11 settembre, facendo leva sui neocons ben inseriti nell’Amministrazione, e su Cheney e Rumsfeld, la questione si pone in modo diverso. Il sionismo e il suo retroterra finanziario hanno bisogno del caos altrui – di qualsiasi segno, dalle BR “comuniste” a Al Qaeda “islamica” – per sopravvivere e rafforzarsi. Non soltanto perché così indebolisce e sconfigge i suoi nemici (e l’Iraq baathista e la Libia gheddafista , lo erano), non soltanto perché dalle guerre può trarre – come ricordava già Hobson, L’imperialismo, 1902 – lauti profitti di borsa, ma anche perché grazie al caos permanente in Medio Oriente e nel mondo, lo Stato ebraico può continuare a fare quello che gli pare e piace in Palestina, all’insegna del diritto biblico e in violazione costante delle più elementari norme di Diritto internazionale, lo jus gentium, il diritto dei popoli gentili. Più si creano nuovi terreni di attenzione operativa della “diplomazia internazionale”, più il rischio di dover alla fine cedere (ma quando mai?) alle “pretese” della comunità internazionale si allontana. Forse non ha sempre funzionato così, ma negli ultimi anni la cronologia parla chiaro: nel 2006 Hezbollah riesce ad infliggere una storica sconfitta allo esercito israeliano; due anni dopo, l’obbiettivo dell’ “annientamento” di Hamas non viene raggiunto; per intanto, fin dal 2004-2005, falliscono tutti i tentativi israeliani di trascinare gli Stati Uniti in un attacco contro l’Iran. L’assedio di Gaza suscita tra l’altro l’indignazione internazionale, e ancora più l’assalto armato alla flottilla turca. Si profila dunque il pericolo di un accerchiamento diplomatico dello Stato ebraico, soprattutto grazie a Putin (discorso di Monaco del 2008 pro-multilateralismo) e ai suoi alleati e interlocutori primari nel mondo mediorientale e in Occidente. Si paventa in particolare, a Tel Aviv, il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese, a favore del quale erano già stati in procinto di pronunciarsi, esattamente l’11 settembre 2001 , gli Stati Uniti, con un già programmato discorso al’ONU di Colin Powell, poi saltato a causa dell’attentato “islamico” alle Torri. Dieci anni dopo, il pericolo si ripresenta, ed ecco la reazione israeliana su due piani: l’uso delle primavere arabe per colpire mortalmente i suoi nemici dall’interno, a cominciare dall’anello più debole, il paese più isolato di tutti nella Lega regionale, la Libia; e l’attentato di Oslo, contro eventuali impennate di una Unione europea ormai ingranditasi rispetto al vecchio nucleo storico occidentale, a rischio dunque di cosiddetto “antisemitismo”, e al cui interno la Norvegia laburista era  diventata la punta di diamante della battaglia per la difesa dei diritti del popolo palestinese.

Primo dovere, il parlar chiaro

Tutto questo non vuol dire che la tendenza messa in moto dalla guerra di Libia sia irreversibile: in Libia, la manifestazione di ieri di “gioia popolare” sulla Piazza verde e l’annuncio della  svolta “democratica” ha palesato sullo schermo televisivo molti spazi vuoti, una folla ogni tanto rada e chissà se di veri tripolini e veri libici, oppure anche e soprattutto di falsi arabi dei servizi anglo-francesi e di libici di altre regioni. Sul piano internazionale, i paesi che ostacolano la peraltro impossibile normalizzazione sionista sono ancora molti, e non c’è bisogno di elencarli. Anche coloro che hanno taciuto e hanno tradito Gheddafi. La partita è dunque ancora aperta, i diritti del popolo palestinese e di tutti i paesi del mondo a sviluppare le loro economie, industria nucleare a scopi civili inclusa, ancora sul terreno di battaglia. Così come, a fronte dell’aggressione finanziaria ai paesi europei, un nodo su cui riflettere è quello dell’ autonomia della Politica dai poteri bancari e monetari, che coinvolge tutte le tendenze e che non dovrebbe risolversi però in un anatema contro tutto e tutti.
Nella difficile fase segnata da forti incertezze, quel che è sicuro è che chi segue solo dall’esterno, come osservatore, giornalista o politologo o storico che sia, gli sviluppi geopolitici dello scacchiere mediorientale e delle sue proiezioni nelle altre regioni del mondo, dovrebbe mantenere un profilo di professionalità il più alto possibile: non si tratta di pretendere ovviamente l’ “infallibilità” – tutti possono sbagliare nelle valutazioni, a partire il sottoscritto – ma di esigere l’onestà nel parlar chiaro sul chi è contro chi nelle guerre e nelle crisi internazionali, battendosi contro l’ “occultamento della storia” e abbandonando schemini consunti e auto gratificanti – a cominciare dall’americocentrismo: Wall Street ha aggredito anche Obama – che non possono che produrre danno e confusione. Su questo terreno, il tatticismo è solo autolesionista, e solo la scelta della chiarezza è all’altezza della fase storica che stiamo attraversando.

* Claudio Moffa, africanista, è docente all’Università degli Studi di Teramo




1) Secondo dottrina, gli Stati-fantoccio – così definiti per essere totalmente dipendenti da un altro Stato al momento della loro presa in considerazione – non possono godere di uno status internazionale. Credo che analogo attributo sia applicabile, nell’ambito della giuridico-internazionalista teoria degli insorti, anche ai ribelli libici, insorti vincitori della guerra civile senza alcuna autonomia dalla NATO e da questa – come dai servizi segreti francesi e britannici – completamente dipendente. Ovviamente, quanto appena detto, riguarda gli otto mesi di guerra di Libia e non, per forza di cose, il futuro. Nella lunga duyrata della storia, il diritto è sempre espressione di rapporti di forza, come ricordava Marx, e finisce per negare se stesso riesumandosi come legge della giungla, edulcorata e rappresentata dai cortigiani farisei dei nuovi potere come nuovo, appunto “diritto”.

2) Le violazioni specifiche del Diritto internazionale nella guerra di Libia riguardano principalmente1) l’interferenza negli affari interni di uno Stato – vietata dalla Carta dell’ONU, art. 2 – ovvero l’uso della forza dell’ONU come forza di interposizione in guerre tra Stati e non tra parti di uno stesso Stato (come avviene ad es. in Libano); 2) la non gestione diretta dell’azione militare da parte del Consiglio di Sicurezza e dei Caschi Blu, con tanto di delega addirittura a una organizzazione per statuto di parte come la NATO (Capitolo VII della Carta). Il fatto che la guerra di Libia abbia avuto in questo senso dei significativi precedenti nell’ultimo ventennio posibipolare non cambia la sua antiteticità rispetto ai principi codificati dall’ONU nel 1945. Di più, la stessa no-fly-zone – misura ultronea rispetto al diritto internazionale quale praticato dalle Nazioni Unite dal 1945 al 1990 – è innovativa e illegittima anche rispetto a quella inventata per la prima volta dagli anglo-americani per l’Iraq postguerra del 1991, alle prese con le insorgenze curde e sciite contro il governo centrale: lì, in Iraq, la no fly-zone riguardò infatti solo le zone di effettiva insorgenza – dunque non la regione centrale di Bagdad, saldamente sotto controllo del regime baathista. In Libia invece è stata estesa fin da subito anche alla Tripolitania e alla capitale, nonostante il consenso della popolazione locale a Gheddafi. Una “protezione di civili” che mirava fin da subito e direttamente – non indirettamente come nel caso iracheno del 1991-2 -alla destabilizzazione e all’aggressione diretta del governo legittimo libico. 3) il bombardamento anche di civili, che rende teoricamente imputabili di crimini di guerra la NATO e il segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon.

3) Già il 7 marzo 2011: http://www.tradingonlinefree.it/crisi-libica-gheddafi-favorevole-ad-una-commissione-dinchiesta-delle-nazioni-unite-1355.html. Diverse anche successivamente le profferte di dialogo da parte di Gheddafi stando alle cronache: http://www.asianews.it/notizie-it/Gheddafi-accetta-il-piano-di-pace-





5) La più grande patacca mediatica della guerra di Libia è forse quella della manifestazione di un partito indiano rubricata da Al Jazira del 20 o 21 agosto 2011 come “Tripoli” – il popolo festeggia la liberazione di Tripoli. Vedi http://www.iemasvo.it/.,  l’intervento di Pino Cabras al convegno “La Libia allo scanner. Economia, mass media, legittimità dell’intervento”, Assisi, 12 ottobre 2011.ì



6) Tra i tanti interventi, ricordo quello recente di Bruno Amoroso al già citato convegno di Assisi “La Libia allo scanner …” del 12 ottobre 2011, E prima ancora, dello stesso Professore emerito dell’Università di Roskilde, Capitali congelati, un furto «umanitario», su il manifesto 26/3/11



7) http://www.iemasvo.it/index_iemasvo/index%20-%20libia_allo_scanner.html, fornisce una sommaria visione delle caratteristiche e delle strutture dell’opera.



8)Istituita formalmente nel 2002, l’Unione africana nacque con la Dichiarazione di Sirte in Libia, il 9 settembre 1999. Gheddafi ebbe un ruolo centrale, ma su Wikipedia italiana nemmeno viene citato e la fondazione a Sirte dell’Unione Africana viene relegata in secondordine rispetto alla fondazione ufficiale dell’UA nel 2002.

9) Ho appreso di questa lotta intestina alla Fiat, e del caso Agnelli in particolare, in Iran, durante un colloquio con un iraniano all’epoca – inizi anni Ottanta – studente a Roma


10) In Sallustio, De bello Iugurthino, 19, 79, il racconto della gara dei Fileni, due fratelli che parteciparono alla corsa per stabilire il confine tra la regione orbitante attorno a Cartagine, e quella posseduta da Cirene.



11) Così il presidente dell’Alliance franco-israélienne Georges Frêche,all’indomani dell’elezione di Sarkozy alla Presidenza della Repubblica : « je suis ravi que les Français aient élu un juif président de la République au suffrage universel direct. […] On avait déjà eu Léon Blum et Mendès France premiers ministres, mais on n’avait jamais eu un juif élu au suffrage universel. Et en plus, avec Kouchner comme ministre des Affaires étrangères, qu’est-ce qu’on veut de plus ?”« Et je vais dire à mon ami Kouchner : et quand c’est que tu reconnais Jérusalem, capitale d’Israël ? » Discorso tenuto a Montpellier il 24 giugno 2007, in occasione della « Journée de Jérusalem », nel quadro del gemellaggio tra la sua città e Tiberiade. Sulla collocazione di Sarkozy, Le Figaro avrebbe scritto che il presidente francese era stato “un espion du Mossad!: Press TV, citée par Salem-News.com, 17 mars 2011 Sarkozy Was a Mossad Agent? Le Figaro prétend que les fonctionnaires français de police ont réussi à garder secrète une lettre qui exposait les activités d’espionnage pour le Mossad de Sarkozy

12) Rimando ai miei precedenti scritti in rete e sui miei siti, sulla guerra di Libia.

13)http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=305&ID_articolo=118&ID_sezione=693:  “Gheddafi ucciso dalla trubù di Misurata”: 





14) Sulla biografia e carriera politica di Sarkozy, vedi Eric Blanrue, Sarkozy, les Juifs, Israel, Paris 2009

15) Il saggio di Oded Ynon è citato tra l’altro in Claudio Moffa (a cura di), Quaderni Internazionali, 3, La questione nazionale dopo la decolonizzazione. Per una rilettura del ‘principio di autodecisione dei popoli’, Quaderni Internazionali, 2-3, 1988. [6] In realtà l’articolo non conteneva riferimenti alla Libia, ma lo schema era lo stesso: dividere gli stati esistenti secondo linee etniche, regionali, religiose.



Altri articoli sulla morte del colonnello M. Gheddafi:



Le ultime volontà di Mu’ammar Gheddafi (Redazione)

L’ultimo messaggio di Gheddafi all’Italia (Redazione)

Il prossimo Nobel per la pace (Daniele Scalea)

Il “prezzo del sangue”: perché Gheddafi è stato ucciso (ma la guerra non finirà lo stesso) (Matteo Finotto)

Brevi considerazioni dopo la morte di Muammar Gheddafi (Costanzo Preve)

Il linciaggio di Muammar Gheddafi (Thierry Meyssan)

Per approfondire (dalla rivista “Eurasia”):

Geopolitica dell’energia: l’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo (Dario Giardi)

La politica estera italiana nel Vicino Oriente (Pietro Longo)

La nostra Africa (Fabio Mini)

Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo (Claudio Mutti)

L’Africa nella politica estera italiana (Daniele Scalea)

L’Italia tra l’Europa e il Mediterraneo (Daniele Scalea)

Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (Alberto B. Mariantoni)

L’Europa e l’area euro-mediterranea (Costanzo Preve )                   












































lunedì 24 ottobre 2011

Sunday 23 october 2011 7 23 /10 /Ott /2011 16:14 Il testamento di Gheddafi

In nome di Dio Clemente e misericordioso                              

Questo è il mio testamento, di Mouammar Bin Mohammed Bin Abdessalam Bin Humaïd Bin Aboumeniar Bin du Naïl Al Fohsi Al Kadhafi.

Io testimonio che non vi è altro Dio che Allah e che Maometto è il suo Profeta

Le mie ultime volontà sono:
•Che io non sia lavato alla mia morte e che sia interrato secondo il rito Islamico ed i suoi insegnamenti, con i vestiti che portavo al momento della mia morte.
•Che sia interrato nel cimitero di Sirte, a lato della mia Famiglia e della mia Tribù
- Che i miei familiari siano ben trattati, soprattutto le donne ed i bambini.
- Che il Popolo Libico salvaguardi la propria identità, le sue realizzazioni, la sua storia e l’immagine degli antenati e dei suoi eroi, e che non sia attaccato in nell’essenza di Uomini Liberi.
•Che continui la resistenza a tutte le aggressioni straniere subite dalla Jamahiriya, oggi, domani e sempre.
•Che si convincano gli uomini liberi della Jamahiriya che noi avremo potuto realizzare, con la nostra causa, una vita migliore, stabile e sicura. Noi abbiamo avuto tante proposte in merito, ma noi abbiamo scelto d’essere al fronte per dovere ed onore.E anche se noi non vinciamo oggi, noi offriamo una lezione alle generazioni future perché esse possano vincere, poiché la Nazione ha scelto l’onore ed il vendersi sarebbe stato un tradimento che la Storia testimonierà e giudicherà
Che sia trasmesso il mio saluto ad ogni membro della mia famiglia ed ai fedeli della Jamahiriya, nonché ai fedeli che ovunque nel mondo ci hanno sostenuti con il loro cuore.
Che la pace sia con voi tutti.


Mouammar El Kadhafi
Sirte, 17/10/2011    Sirte                                                               


SIRTE
                                                                                  

sabato 22 ottobre 2011

GIAMAHIRIA



pubblicata da Fabio Falchi il giorno venerdì 21 ottobre 2011 alle ore 17.51.

Per una analisi storica e politica della Giamahiria vi sarà tempo. Quel che è certo è che nulla di simile ci si deve aspettare dalla stampa italiana: nessun tentativo di capire per quale motivo le "forze occidentali" abbiano aggredito uno Stato sovrano o perché gran parte del popolo libico non abbia appoggiato i cosiddetti "ribelli". Attenti ai particolari personali e pronti a diffondere qualsiasi bufala pur di fare notizia, ma senza disturbare il manovratore, per i gazzettieri non c'è colore che non sia una sfumatara di grigio : Gheddafi come Saddam o addirittura come Mussolini. La retorica della libertà, si sa, è una macchina semplificatrice, benché potente. D'altronde, quel che conta è che la libertà e la democrazia made in Hollywood facciano un buon incasso. Insomma, che la "fiction " sia produttiva. E che i "semplici" ci credano.
Nondimeno, è lecito e perfino necessario fare una - sia pur brevissima - considerazione sulla fine della "Repubblica delle masse" (che non necessiamente significa la fine della resistenza del popolo libico contro i "collaborazionisti di Bengasi"). Indipendentemente dal fatto che la Libia è uno Stato tribale, che presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da qualsiasi Paese europeo, è evidente che per giudicare la Giamahiria si deve tener conto che Gheddafi, allorché prese il potere nel lontano settembre 1969, si trovò di fronte al calssico problema di chi, per difendere i diritti del proprio popolo, deve combattere sia contro nemici interni, sia contro nemici esterni. Ovvero contro gli "agenti" del grande capitale e della potenza capitalistica predominante. Ed è ben difficile che si possano mutare i rapporti di potere esistenti con il "mercato democratico". La stessa socialdemocrazia scandinava, che pure pareva poggiare su basi storiche e culturali solidissime, appena cambiato il vento della storia è stata spazzata via come un castello di carte. Quindi, anche Gheddafi , a cui ovviamente si possono muovere non poche critiche, è logico che si sia dovuto confrontare con tale questione ed abbia cercato di risoverla secondo la tradizione culturale del suo popolo; ma è comunque indubbio che progressi sociali ed economici ci siano stati. Quanto alla accusa di aver finanziato il "terrorismo internazionale" , molto dipende da che cosa si intende per terrorismo, dato che gli angloamericani e gli israeliani, che pure praticano il terrorismo su scala globale, sembrano considerare terroristi tutti coloro che contrastano la loro politica di potenza. Paradossalmente, ma è un paradosso solo in apparenza, l'errore più grave di Gheddafi, come è stato osservato, è stato di aprire, in questi ultimi anni, il Paese all'Occidente, senza avere la capacità politica e militare per difendersi da un attacco degli "occidentali", tanto più previdibile, considerando anche il forte impegno della Libia in Africa, proprio quando il continente africano, anche a causa della presenza cinese, ha acquisito un ruolo geostrategico del tutto nuovo e di estrema inportanza, e quando il Leviatano, proprio perché ferito, è più che mai pericoloso e sembra puntare tutto sulla "geopolitica caos". Al riguardo, Giuseppe Germinaro, collaboratore del blog "Conflitti e strategie" ha scritto: "Resta una grande amarezza, ma la quasi certezza che l'attuale strategia americana sia molto rischiosa; troppi fronti aperti. Dovessero crearsi due/tre intoppi il castello vacillerebbe pericolosamente. Stiamo attenti all'Italia". E' un giudizio che non si può non condividere . E il riferimento al nostro Paese non è affatto retorico o esagerato. Vero che, se il lupo perde il pelo ma non il vizio, allora non può destare meraviglia che i nostri governanti, pur di salvare sé stessi, non abbiano esitato a stracciare il Trattato di Bengasi e a mordere la mano che avevano addirittura baciato. Ma a pagarne le conseguenze sarà il popolo italiano. Anzi, le sta già pagando. E si è solo all'inizio.
In ogni caso, non è possibile non provare nausea per gli articoli di coloro che ficcano le dita nel corpo insanguinato di Gheddafi e nei corpi della centinaia di migliaia di civili massacrati dagli americani e dai loro sicari in questi ultimi 20 anni. Ma sono proprio loro, i gazzettieri occidentali, a essere in una buca. E gli occhi dei bambini iracheni, dei bambini afghani, dei bambini palestinesi , dei bambini libici e di tutte le altre vittime del terrorismo occidentale, di cui sono complici, li guardano e continueranno a guardarli. Questa è la loro condanna. Non quella di Gheddafi, che nel momento più drammatico della storia del suo Paese era tornato ad essere il giovane ufficiale nasseriano che aveva messo fine alla monarchia di re Idris, ovvero ad un protettorato angloamericano, e che aveva saputo dar vita alla Giamahiria. Oggi invece la canaglia al servizio della "North Atalantic Terrorist Organization" festeggia. Tuttavia, il seme, se cade in terra buona, porta frutto e nulla è perduto, finché non tutto è perduto.

Fabio Falchi, http://www.cpeurasia.eu/                                                 







domenica 31 luglio 2011

BREIVIK IL SIONISTA di M. Blondet

BREIVIK IL SIONISTA di M. Blondet


.pubblicata da Claudio Mutti il giorno sabato 30 luglio 2011 alle ore 19.21.Lunedì 18 luglio, ad Oslo, il ministro degli Esteri Jonas Gahr Store ha ricevuto Mahmoud Abbas, il capo dell’Autorità Palestinese, rendendo chiara e definitiva la volontà del governo norvegese di riconoscere la Palestina come Stato. Al rappresentante palestinese in Norvegia è stato ricoinosciuto lo status di ambasciatore.
È una mossa a cui Israele è estremamente ostile. Benchè l’aspirazione della Palestina a dichiararsi unilateralmente Stato sia appoggiata da molti Paesi del Terzo Mondo e dell’America Latina, la Norvegia è l’unico Stato europeo a farlo. Il 19 luglio, martedì, Eskil Pedersen, il leader del movimento giovanile del partito laborista norvegese (AUF) rilascia dichiarazioni che il giornale Dagbladet pubblicherà il giorno dopo, mercoledì 20:







Eskil Pedersen insieme al primo ministro norvegese Stoltenberg durante i funerali



«È giunto il momento di attivare misure più severe contro Israele» per il suo trattamento dei palestinesi, dice Pedersen: «Il processo di pace non va da nessuna parte, il mondo intero aspetta che Israele si degni di conformarsi, ma non lo fa. Perciò noi della Gioventù Laburista vogliamo un embargo economico unilaterale della Norvegia contro Israele».



Il movimento giovanile norvegese, spiega Dagbladet, ha attivamente promosso la campagna internazionale di boicottaggio contro Israele (per le atrocità commesse a Gaza). Adesso, nel suo ultimo congresso, ha chiesto al governo norvegese di imporre un embargo unilaterale, più stretto di prima.



«So che è una misura drastica», dice Pedersen, «ma secondo me dà un chiaro segnale che siamo stanchi del comportamento israeliano». (Dialog nytter ikke, Jonas)



Il 22, venerdì, Anders Behring Breivik fa esplodere un potentissimo ordigno alla libanese presso i palazzi governativi di Oslo, e poco dopo, armato di mitragliatore militare e chili di proiettili, compie il suo massacro sull’isola di Utoya, sterminando quella gioventù laburista così esplicita nella denuncia della doppiezza e crudeltà israeliane.



Come anti-islamico, Breivik avrebbe potuto fare una strage in una moschea: del resto era proprio venerdì. Invece ha usato il suo armamento bellico per massacrare i membri del partito inviso ad Israele.



Breivik si è comportato come un perfetto Manchurian Candidate, attivato da un qualche segnale. Ma si sa, i candidati manciuriani, che una manipolazione cerebrale ha reso robot letali pronti a scattare dopo anni di normalità, esistono solo nei film. Non siamo complottisti, suvvia, non facciamoci deridere.







Gilad Atzmon



È per me motivo di ammirazione e d’onore constatare che il primo a sfidare la derisione, e a ventilare nell’eccidio norvegese una risposta israeliana alla decisione filo-palestinese del governo di Osllo, è stato Gilad Atzmon. Sappiamo chi è Atzmon: musicista di livello, saggista, nato in Israele, ha scelto di vivere a Londra avendo aperto gli occhi sulla natura anti-umana dello Stato ebraico, e dove cerca di aprire gli occhi a tutti noi. È stato anche soldato d’Israele, conosce i metodi e i machiavelli del sistema, e dunque ha sùbito visto nella strage norvegese la mano ebraica.



«Da ammiratore di Israele qual è, Behring Breivik sembra aver dato ai suoi compatrioti lo stesso trattamento che l’Israeli Defense Force riserva ai palestinesi», ha scritto. (Was the Massacre in Norway a reaction to BDS?)



Filo-ebreo entusiasta, Breivik si manifesta in più parti del suo verboso testamento ideologico (1.500 pagine) in inglese:



«Quando qualcuno mi chiede se sono un nazional socialista, sono profondamente offeso. Se c’è una figura storica che odio è Adolf Hitler (...)».



E come mai Breivik odia Hitler? Ecco la sua risposta:



«Hitler aveva le capacità militari per liberare Gerusalemme dall’occupazione islamica. Avrebbe potuto giungere ad un accordo con il Regno Unito e la Francia per liberare le antiche terre giudeo-cristiane allo scopo di restituire agli ebrei la loro culla ancestrale... Gli ebrei avrebbero guardato ad Hitler come ad un eroe, per aver ridato loro la terra santa».



Pù avanti:



«Coloro che disapprovano il diritto di Israele ad esistere sono o antisemiti, o sono disennati. Chi ha un po’ di senno dovrebbe sostenere il sionismo (nazionalismo israeliano) che è il diritto di autodifesa di Israele contro il Jihad».



Una frase che potrebbe essere uscita dalla penna di Fiamma Nirenstein. O forse dalla centrale di propaganda che indottrina l’uno e l’altra.



Ma ecco i consigli di Breivik a chi vuol essere un vero conservatore:



«Studiate Otto von Bismarck, non Adolf: il primo è stato il precursore della destra moderna, il secondo della sinistra. Studiate il Risorgimento italiano (che fu un vasto movimento di rinascita nazionale e non il complotto di una piccola elite, come dicono i libri) e un’alleanza fra la destra aristocratica (il conte di Cavour e re Vittorio Emanuele) e la Sinistra rivoluzionaria (Garibaldi). Guardate alla rinascita della Turchia per opera di Ataturk... Irlanda e Israele hanno avuto le lotte nazionaliste da cui possiamo imparare molto: in ciascun caso, un pugno di visionari ha sollevato intere nazioni, dopo secoli, o anche millenni di oppressione... Dunque combattiamo insieme ad Israele, a fianco dei nostri fratelli sionisti contro tutti gli anti-sionisti, contro tutti i marxisti-multiculturalisti». (The Norway Shooter's Support for Zionism: In His Own Words)



Chi sa da quali logge fu ideato e sostenuto il Risorgimento, e chi sa che i nazionalisti turchi di Ataturk erano in realtà Donmeh cripto-ebraici (come ho modestamente documentato nel mio Cronache dell’Anticristo) può intuire quali ambienti abbiano indottrinato il giovanotto. E ha imparato con profitto, essendo in grado di ripetere praticamente a memoria il verbo ufficiale sulla spontaneità dei nazionalismi europei del 19° secolo (lo stesso che ripete, per dire, Napolitano o Ciampi)... Evidentemente, il pluriassassino non ha frequentato la Loggia Soilene di Oslo solo per farsi fotografare col grembiulino e stringere relazioni d’affari.



Atzmon ci informa che Breivik è sicuramente stato un lettore di un blog norvegese, documentato, «che è diretto da Hans Rustad, un ex giornalista di sinistra. Runstad è ebreo, sionista sfegatato, e continuamente lancia l’allarme contro la islamizzazione, la violenza e gli altri problemi sociali che secondo lui sono dovuti all’immigrazione musulmana».



Anche questa biografia è consueta. Quanti ne abbiamo conosciuti in questi anni, di ebrei di sinistra, troztkisti spesso, che sono diventati di destra (in coincidenza col passaggio a destra della maggioranza israeliana, una volta laborista) e ogni giorno ci incitano a difendere «la civiltà occidentale», a riscoprire «le nostre radici giudeo-cristiane» e dunque ad arruolarci alla crociata contro l’Islam che minaccia di fare dell’Europa una Eurabia?



In America sono l’influente legione dei neocon, dei Kagan e dei Kristol (figli o nipoti di trotzkisti russi fuoriusciti) gli Horowitz, i Wolfowitz, i Muravchik, i Perle, i membri dell’American Enterprise; in Italia basterà fare i nomi di Giuliano Ferrara – figlio del numero 2 del PCI sovietizzato, oggi ateo devoto – e della stessa Nirenstein: da giovane, se l’avesse avuta vinta, avrebbe portato l’Italia nella sfera sovietica, oggi organizza Amici di Israele nel Parlamento italiano su posizioni a destra di Netanyahu.



Atzmon ci informa che questa rete è ancora più grande: cita per esempio siti e riviste come FrontPage Magazine, il britannico Harry’s Place, Daniel Pipes, e molti altri che diffondono il verbo dell’islamofobia e della crociata per l’Europa cristiana; e non si limitano a scrivere e a parlare: cercano di fare adepti e di infiltrarsi nelle file dell’estrema destra marginale, che in Europa è fatta di gruppi piccoli, ma sempre pronti a passare all’azione violenta.







Julian Kossoff



Julian Kossoff, giornalista ebreo britannico, deplora e denuncia sul Telegraph l’infiltrazione di militanti sionisti nella English Defense League e nel National Front: nella prima, si sarebbe formata persino una «divisione ebraica» che partecipa alle manifestazioni dei fascistelli inglesi, e alle angherie che questi gruppi compiono contro gli immigrati musulmani, con le bandiere di Israele. Kossof si domanda cos’hanno da spartire degli ebrei con questi «teppisti da tifoseria»: ingenuo snob. Si può ricavare molto manipolando dei teppistelli che nulla capisono delle operazioni astute ed acute indotte dal Mossad.



Ed evidentemente, è giunto un ordine generale di abbandonare lo snobismo ebraico, turarsi il naso e affiancare (e forse pagare) questi teppisti, utili idioti anti-islamici. (The English Defence League, the Jewish division and the useful idiots)



Ora si sa che Breivik aveva degli agganci a Londra, in quei precisi ambienti infiltrati dai sionisti di destra. (Hunt for Britons linked to Norway killer Anders Behring Breivik)



Il tomo di 1.500 pagine scritto da Breivik in inglese, e da lui spedito via e-mail a 5.700 persone poche ore prima di compiere la strage, è del resto datato London 2011. E si apprende che Breivik era in continuo e cordiale contatto web e personale con almeno 150 esponenti dello English Defense League. La divisione ebraica? (Norway killer Anders Behring Breivik had extensive links to English Defence League)







Isaak Nygren



Ora, i giornali svedesi rivelano che un’ora prima di sterminare, Breivik ha inviato una mail a tale Isaak Nygren, esponente di spicco degli Sweden Democrats, movimento anti-islamico in crescita politica. Nygren, guarda caso, è ebreo. Brevik apparentemente era un suo buon amico, anche se Nygren, raggiunto dai giornalisti svedesi in un kibbutz israeliano dov’è andato in vacanza militare, lo nega. (Tidigare SD-medlem chockades av mejlet från mördaren)







David Horowitz



Gilad Atzmon riferisce inoltre di un furente articolo anti-norvegese, che David Horowitz, esponente neocon americano molto influente, ha scrittro e postato sul suo sito FrontPage un giorno prima che il Manchurian Candidate si attivasse per lo sterminio. L’articolo appare una giustificazione preventiva dell’eccidio. Il titolo già dice il tono: I Quisling di Norvegia.



Svolgimento: «Appoggiando la richiesta di Abu Mazen di riconoscere la Palestina come Stato, il governo norvegese si è comportato come Quisling, il capo di governo filo-hitlerianno che negli anni ‘30 portò la Norvegia a fianco del Terzo Reich. Un governo ‘antisemita’», infuria Horowitz, «che ha capeggiato la campagna di disinvestimento e di boicottaggio economico contro Israele…». (Massacre in Norway-- More About the Jewish Right Wing Connection)



Un governo multiculturalista, influenzato dagli immigrati islamici, che merita una punizione.



Una posizione che è riecheggiata da un sito israeliano, in ebraico, e di cui Gilad Atzmon ci traduce qualche commento: (http://rotter.net/forum)



«I criminali di Oslo hanno pagato».



«È stupidità e malvagità non desiderare la morte per coloro che invocano il boicottaggio di Israele».



Ed infine un commento illuminante:



«Anche i membri della Gioventù Hitleriana uccisi nei bombardamenti della Germania erano innocenti. Piangiamo pure sui terribili bombardamenti messi a segno dagli Alleati... ma qui abbiamo una banda di odiatori di Israele che si riuniscono in un Paese che odia Israele in una conferenza che appoggia il boicottaggio. Sicchè non è bello l’atto in sè, e noi lo condanniamo... ma piangere per loro? Suvvia. Noi ebrei non siamo cristiani. Nella religione ebraica non c’è alcun obbligo di amare il nemico».



Ottima spiegazione del perchè il concetto di giudeo-cristianesimo è un falso ideologico, diffuso a scopi propagandistici dalla nota centrale – e che anche in Vaticano si sono bevuti. Ma forse, solo per scongiurare un attentato islamico di Al Qaeda in Vaticano?



Resta il fatto che in Israele ci sono tutti i mezzi, e tutta la mentalità, non solo per desiderare la morte dei boicottatori, ma anche di provocarla attivamente, magari per mezzo di un Manchurian Candidate.



Gordon Duff, che è un ex marine, sostiene nel suo blog che «una auto-bomba reca sempre la firma di una agenzia di intelligence». (The Second Tragedy is the Lies)



Gilad Atzmon definisce Beivik un «Sabbath Goy». Così vengono chiamati, in Israele e nel talmudismo, i gentili di basso livello sociale che vengono assoldati come servi dai pii ebrei per compiere i modesti lavoretti che un pio ebreo non può fare di sabato.



«Nella realtà sionizzata in cui tragicamente viviamo, il Sabbath Goy uccide per conto dello Stato ebraico. E può farlo persino volontariamente», conclude Atzmon.



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giovedì 23 giugno 2011

L'Uno è tutte le cose (dalle Enneadi di Plotino)



PLOTINO
                                                              


I. L'Uno è "tutte le cose" e al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non è "tutte le cose" in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si troveranno.
...E tutto torna ad Allah! Come possono allora derivare dalla semplicità dell'Uno, mentre in una pura identità non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna piegatura, quale che sia, assolutamente? Orbene, proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per questo, dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi, affinché l'essere sia, per questo Egli non è "essere", ma solo il genitore dell'essere; e questa che vorrei chiamare "genitura" è primordiale.Il Corano,Sura CXII. La Sura del culto sincero: Nel Nome di Allah, Clemente e Misericordioso! Dì: "Egli.Dio, è Uno, Dio, l'Eterno, Non generò nè fu generato, e nessuno Gli è pari!" Questo concetto Plotino non riesce a chiarirlo usando un linguaggio equivoco. Mi spiego; perfetto com'è, giacché nulla ricerca, nulla possiede, di nulla ha bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e la sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l'essere così generato si rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento verso l'Uno crea l'Essere; la contemplazione che l'Essere volge a se stesso crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere. Così, dunque, l'Essere è un "secondo Lui" e perciò crea ciò che gli è simile, versando fuori la sua forza esuberante; ma, immagine, anche questa, dell'Essere corrisponde a Colui che già prima dell'Essere s'effuse. E questa forza operante che sgorga dall'Essere è "Anima" che diviene quello che è, mentre lo Spirito è fermo; poiché anche lo Spirito sorse mentre "Ciò che era prima di Lui" perseverava nell'immobilità. Questi ultimi concetti sono spiegati in modo eccelso,nelle sue Opere, da 'Ibn el Arabi.
L'Anima però non è immobile nel suo creare; tutt'al contrario, ella generava la sua immagine, allorché aveva già subito il movimento. Ora, finché ella guarda lassù donde nacque, si riempie di Spirito; ma se avanza su un'altra ed opposta direzione, genera - immagine di se stessa - la sensibilità e, nelle piante, la potenza vegetativa. Nulla, peraltro, è separato, nulla è scisso da ciò che precede. Sotto questo rispetto, sembra persino che l'anima umana s'inoltri, pur essa, sino alle piante: vi si inoltra, intendiamoci, in questo senso che la potenza vegetativa ch'è nelle piante appartiene all'Anima; certo, ella non è, tutta quanta, nelle piante, ma se è nelle piante è in questo senso ch'ella è procedura sino a tal punto, nel basso, da creare un essere novello in quel suo processo e in quella sua premura del "peggiore". Del resto, anche la sua parte superiore, quella sospesa allo Spirito, lascia che se ne stia quieto e fermo lo Spirito che è in essa.Questi concetti dovevano essere sicuramente chiariti oralmente!
II. ...Tutte queste gradazioni sono Lui e non sono Lui: sono Lui poiché da Lui derivano; ma non sono Lui, poiché Egli, fermo in se stesso, non ha fatto altro che dare. Concludendo, gli è come un corso lento di vita che si protenda in lunghezza: ognuno dei tratti successivi è "un diverso", ma il tutto è compatto in se stesso e se, per via di differenze, ogni cosa sorge perennemente nuova, l'antico però non si perde nel nuovo.Quest'ultimo concette si rispecchia chiaramente con la Dottrina della Shakti nel Vedanta Advaita Tantra.
Enneade V, 2 - I - II (Laterza - 1944)
I. Se c'è "qualcosa" ulteriormente al Primo, necessità vuole ch'esso o derivi da Lui, immediatamente, o si rifaccia a Lui per via di intermediari; esiste, così, un ordine di "cose di secondo grado" e un ordine di "cose di terzo grado": l'uno risale al Primo - è il secondo, s'intende -, il terzo poi risale al secondo.
Io intendo: deve esser di una semplicità anteriore a ogni altra, questo nostro Primo e, precisamente, Egli è diverso da tutto ch'è dopo di lui, esistente in sé, non mescolato con le cose da Lui derivanti e capace tuttavia di star dentro alla sua volta, in un modo tutto suo, nelle altre cose, uno che è veramente Uno (non come se questo "è" fosse una cosa diversa e poi gli si applicasse l'Uno) uno, insomma di cui già l'espressione "è Uno" suona falsa; uno di cui non si ha né concetto, né scienza; uno, in definitiva, di cui usa dire che "è al di là dell'essere".
Infatti, se non fosse semplice, scevro di ogni casualità e composizione e veramente e propriamente uno, Egli non sarebbe principio; e solo per il fatto che è semplice, ha sovrano indipendenza e primato su tutte le cose; poiché il "non - primo" ha bisogno di ciò che lo precede e il "non semplice" ha bisogno degli elementi semplici contenuti in lui, a che ne sia costituito.
Sì, ciò che è di tal natura non può esser altro che Uno; ché, se ve ne fosse un "altro" di simigliante natura, l'uno e l'altro coinciderebbero. Corano, Sura CXII: ....e nessuno Gli è pari! Qui, beninteso, noi non ci riferiamo a due corpi, né diciamo che l'Uno è il primo corpo! In verità, nulla che sia semplice può essere corpo; e il corpo, poi, è qualcosa che diviene, ma non può mai esser principio; il principio, per contro, è ingenerato. Se, dunque, quell' "altro" non è corporeo ma è realmente uno, esso coincide col Primo. E allora, se dopo il Primo, ha da esserci qualcosa di diverso, mai più questo sarà semplice; sarà, di conseguenza, "uno-molti".
Orbene, donde nasce questo "secondo"? Dal Primo. Certo non potrebbe nascere a caso, perché allora non sarebbe più "principio di tutte le cose" quel nostro Primo! Ma in qual maniera, allora, il secondo nasce dal Primo? Ecco, se il Primo è perfetto, anzi il più perfetto al mondo, se esso è la primordiale forza operante, urge, allora, che esso sia, tra gli esseri tutti, il più perfetto e che tutte le altre forze operanti, a tutto potere, imitino Lui.
Qualsiasi, tra le restanti cose, giunta che sia alla sua piena maturità, genera - noi lo vediamo - e non sopporta una immota solitudine, in se stessa; ma crean tutti un essere novello, non solo chi abbia una volontà consapevole, ma quelli ancora che, senza volontà consapevole, vegetano semplicemente, e persino gli esseri inanimati cedono altrui, di sé, tutto quello che possono: ad esempio, il fuoco riscalda e la neve raffredda e le medicine esercitano una efficacia corrispondente alla loro propria natura su di un essere diverso: tutte le cose, assolutamente, sono copie più o meno fedeli che si dispiegano in eternità e in bontà.

E allora come potrebbe starsene inerte in se stesso il perfettissimo e il primo Bene, quasi fosse avaro di se stesso ovvero impotente, Lui che è la potenza del tutto? E come potrebbe essere tuttora principio? Sì, "qualcosa" anche da Lui deve pur nascere, direttamente, se è vero peraltro che "qualcosa" deve esistere; e, del resto, tutte le altre cose traggono da lui l'esistenza: che la traggano da lui, voglio dire, è una necessità.
In verità, dev'essere sovranamente venerabile Colui che genera le cose seguaci; così, anche il frutto di tale generazione dev'essere venerabile al sommo, e, precisamente, in un grado ch'è secondo dopo di lui ma superiore a tutto il resto.
II. Ora, se il generante fosse lui stesso Spirito, il generato dovrebbe riuscire più manchevole dello Spirito, sempre però abbastanza vicino e somigliante allo Spirito. Poiché invece il generante è al di là dello Spirito, il generato dev'essere, necessariamente, Spirito.
E perché non è generante lo Spirito, quello Spirito il cui atto è pensiero? Ma il pensiero contempla l'oggetto dello Spirito ed è volto su di questo e da questo è come perfezionato e compiuto: tale pensiero è indefinito come il vedere, e viene definito solo dall'oggetto dello Spirito! Perciò poi fu anche detto: "dalla dualità indefinita" e dall'Uno escono le Idee e i numeri: vale a dire lo Spirito. Ecco perché lo Spirito non è semplice ma è "molte cose" e rivela già una composizione di natura spirituale, s'intende - e contempla oramai la pluralità. Certo, egli è anche, in se stesso, oggetto di pensiero e, nondimeno, altresì soggetto pensante: e quindi comporta già una dualità; ma vi è ancora dell'altro: la realtà spirituale che viene dopo di Lui.
Ma in qual modo questo nostro Spirito deriva dall'Uno, oggetto del suo pensiero? L'Uno, quale oggetto di pensiero, fermo in se stesso e immune dal bisogno cui è invece soggetto il Contemplante e il Pensante (bisognoso, però, io intendo il Pensante solo in rapporto dell'Uno) non è, per così dire, un Inconscio; no, ma tutto il suo contenuto non solo è in Lui ma è anche con Lui; Egli discerne perfettamente se stesso; c'è vita in Lui; c'è tutto, anzi, in Lui; e persino la sua contemplazione - ch'è Lui stesso - si accompagna a non so qual sentimento in una fissità eterna e in un'attività spirituale che non ha che fare col pensiero dello Spirito.

Orbene, se qualche cosa nasce mentre Egli persevera in se stesso, questa nasce da Lui proprio allora che l'Uno sia alla vetta suprema del suo essere; se Egli quindi perdura nel suo proprio modo di essere, il generato nasce, si, da Lui, ma nasce senza ch'Egli esca dalla sua immobilità. Pertanto, poiché Quello persevera come oggetto di pensiero, il divenire s'avvera come pensiero; ma, pensiero qual è e traendo il contenuto del suo pensiero da Colui donde sorse (ché non ha altro) diviene Spirito; così ha, vorrei dire, un nuovo oggetto di pensiero, che s'assomiglia quasi a quello di prima ed è una immagine e una figura di Lui.Qui nel tentativo di dare una spiegazione logica dello sprigionarsi dall'Uno,quella che noi oggi chiamiamo Creazione,il pensiero diviene più oscuro,nel brano che segue spiega a parole ciò che la raffigurazione artistica della Chakti abbracciata a Shiva illumina ogni Fedele: Shiva che è l'Uno dal quale procede ogni creazione a mezzo del movimento sinuoso della Chakti, la Sua Potenza! 
Ma come - Lui fermo si svolge il divenire? In virtù della forza operante. La quale è duplice: l'una è chiusa nell'essere; l'altra sgorga al di fuori dell'essere particolare di ciascuna cosa; e, precisamente, quella che appartiene all'essere è proprio quella singola cosa in atto; quella che sgorga fuori, da esso, e che deve necessariamente tener dietro ad ogni cosa, è diversa da quella singola cosa. Tant'è, per esempio, nel fuoco: vi è, da un canto, il calore che entra di pieno diritto nella sua essenza; e v'è, d'altro canto, il calore che nasce già come derivato dell'essenza, allora che il fuoco, in quel semplice perseverare come fuoco, esercita la forza operante chiusa nativamente nel suo essere.
Proprio così è anche nel mondo superno; lassù, anzi, a più forte ragione: mentre l'Uno persevera nel suo proprio modo di essere, la forza operante, nata com'è dalla perfezione e dalla congiunta forza operosa ch'è in Lui si ipostatizza appunto perché sorge da una potenza enorme - la suprema, certo, tra tutte - e giunge sino alla vetta dell'essere e dell'essenza; poiché l'Uno era al di là dell'essenza. Precisiamo: l'Uno è la potenza del Tutto; il generato, invece, è già il Tutto. Ma se questo è il Tutto, Quegli è al di là del Tutto; di conseguenza, al di là dell'essere. Inoltre, se lo Spirito è tutto, l'Uno invece è anteriore a tutto e non ha quindi una unità di misura comune con tutte le cose e così, anche per questa considerazione, Egli vuol essere al di là dell'essenza; tant'è dire al di là pure dello Spirito. Si conclude che al di là dello Spirito c'è "qualcosa". Francamente, l'essere non è un cadavere e neppure una "non-vita" e neppure "uno che non pensi". Così Spirito ed Essere coincidono. Mi spiego: tra le cose e lo Spirito non corre lo stesso rapporto che c'è tra la sensazione e i sensibili - i quali la precedono -; no, ma lo Spirito coincide con le cose, dal momento che le loro forme ideali non sono acquisite ma immanenti; poiché donde potrebbero acquistarsi? Qui solamente, tra questi oggetti dello Spirito, regna una vicendevole identità ed unità. Del resto, anche la scienza delle cose immateriali, presa nel suo complesso, si identifica col suo contenuto reale.
Enneade V, 4 - I - II - Ibid.

XI. Ma se uno di noi - mal riuscendo a vedere se stesso - ghermito dal dio superno, trasporta al di fuori la visione per poter vederla, egli allora trasporta al di fuori anche se stesso e guarda semplicemente una abbellita immagine di sé. Ma se lascia cadere tale immagine, per bella che sia, e giunge a unificarsi con se stesso senza spezzarsi più, egli è uno e tutto a un tempo, in compagnia di quel dio che è lì presente, nel silenzio, e allora egli se ne sta con Lui, sino al limite del suo potere e della sua brama. Se, per contro, egli si volge indietro e ricade nella dualità, fino a che resti puro, egli è sempre in immediata vicinanza con Lui, sì da rientrare ancora - in quel modo trascendente - proprio nel suo essere, purché solo si rivolga, di bel nuovo, a Lui; comunque, da quel suo volgersi indietro, egli ha tratto il seguente guadagno: al principio, egli acquista una percezione di se stesso, fino a che sia distinto da Lui; ma allora egli si affretta a entrare nel suo interno e riguadagna il tutto, tanto che, facendo getto della percezione, torna indietro, per paura di esser diverso da Lui, e ritorna così uno, lassù. Se però egli brama vederlo come un diverso, egli rende esteriore pure se stesso. Chi però fermo in una qualche traccia di Lui lo va scoprendo, deve anzitutto a furia di cercare, vagliarne la cognizione; ma, dopo avere così saggiato, con la prova dovuta, il valore della cosa in cui deve entrare - come, cioè, entri in una somma beatitudine - egli deve oramai abbandonarsi al suo intimo e tramutarsi alfine, risplendendo di pensieri, da "veggente" in "visione", la visione, voglio dire, di un altro Contemplante, com'è Colui che ci si fa incontro di lassù. Questo concetto viene splendidamente chiarito con il Mito di Narciso.
Ora, come può uno essere nel bello e tuttavia non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello come altro da sé, non è ancora nel bello costui; se invece è divenuto bello, allora soltanto, egli si trova, al più alto grado, nella bellezza. Se pertanto il vedere si riferisce a ciò che sta fuori, non vuol essere visione, questa, se non sia tale da identificarsi con la cosa vista: ma questa è, per così dire, intelligenza e coscienza di sé, e qui si deve fare attenzione a che non si corra il rischio di allontanarsi da se stesso, proprio mediante una più intensa coscienza! Occorre pure riflettere al fatto che le percezioni di cose cattive ci colpiscono più violentemente e indeboliscono la conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce; la sanità invece, benché tranquilla compagna, sa farsi avvertire di più poiché essa sta in noi, come a casa sua, al primo posto, anzi s'unifica con noi, mentre la malattia è un'estranea e non è appropriata al nostro essere ed è visibilissima proprio per questo che si manifesta violentemente diversa dal nostro essere.
Pure, su ciò che rientra nel nostro "io" e sullo stesso nostro "io", noi non rivolgiamo normalmente la nostra avvertenza; ma proprio così, più che mai, noi siamo consci di noi, in quanto abbiamo operato l'unità tra il nostro sapere e il nostro "io". Lassù pertanto, allorché il nostro sapere corrisponde nel grado più alto allo Spirito, abbiamo l'impressione di non saper nulla, poiché attendiamo l'impronta della coscienza, la quale dice di non aver visto nulla; in realtà essa non ha visto nulla né potrebbe mai vedere cose siffatte. Così, la fonte del dubbio è la coscienza: tutt'altro, invece, è Colui che vede; o, se dubitasse lui pure, non dovrebbe neppure credere a se stesso. Mai e poi mai, in verità, lo Spirito potrebbe trasferire se stesso al di fuori e guardarsi con occhi corporei come se fosse un oggetto sensibile.

Enneade V, 8 - XI - Ibid.
XII. [...] Ma almeno ciò, che è in senso assoluto quello che è - Essere in sé - e non è distinto dalla sua essenza, in questa situazione è proprio quello che è, vale a dire padrone di sé e privo di ogni ulteriore orientamento su altrui, in quanto è e in quanto è essenza. A lui, d'altronde, fu dato esser padrone di sé su la via ov'Egli è "Colui che è il Primo". Su la via che conduce all'Essere. Ora, Quegli che rende libera l'essenza, Quegli che ha insita, con piena evidenza, nella propria natura, l'opera della liberazione sino ad essere detto "creatore di libertà", a chi mai dovrebbe far da servo? Purché non sia già sacrilegio esprimersi così persino in una maniera generale! Forse alla sua propria essenza? Intanto, anche questa è libera solo in grazia di Lui ed è posteriore a Lui; e poi non ha essenza, Lui! Chi vede la Creazione dal punto di vista di Shiva!
Così, se c'è in Lui qualcosa sul tipo dell'atto e noi vogliamo far consistere Lui in tale atto, neppure per questa via Egli riuscirebbe diverso da sé, e non sarebbe padrone di sé Colui donde l'atto scaturisce, poiché non sono cose diverse l'atto e Lui stesso. Ma se non vogliamo proprio ammettere che ci sia un atto, in Lui; se dobbiamo, per contro, riconoscere che solo le altre cose si attuano intorno a Lui e conquistano così l'esistenza, a maggior ragione ancora non dobbiamo ammettere lì, nell'Uno, né un elemento che domina né un elemento dominato; a rigore, anzi, non gli concederemo neppure l'attributo "padrone di sè" non perché un altro sia padrone di Lui ma perché noi assegnammo il dominio di sé all'Essere e collocammo invece Lui in un grado più alto di quel che corrisponde a questo auto-dominio.
Ora, che significa questa espressione "in un grado più alto di quel che è padrone di sé"? Ecco: lì, in seno all'Essere, essenza ed atto sono, in un certo senso, dualità - dall'atto stesso ognuno poté trarre l'idea dell' "esser padrone" (quest'atto, beninteso, è identico all'essenza) -; proprio per questo fatto fu preso separatamente "l'esser padrone", e, l'Essere fu detto "padrone di sé". Allorché, invece, non c'è una dualità in valore di unità ma proprio l'unità in se stessa - cioè o esclusivamente atto o qualcosa che non è neppure atto - anche l'espressione "padrone di sé" non è giustificata.
XIII. Frattanto, se è necessario introdurre queste espressioni che si applicano in modo inesatto all'oggetto della nostra ricerca, si ribadisca ancora una volta che ben a ragione si afferma l'esigenza di non renderlo dualità neppure per successiva astrazione mentale; per il momento, però, solo per destare la persuasione, c'indurremo persino ad uscire dal retto cammino della logica, nel nostro discorso....

Enneade VI, 8 - XII - XIII – Ibid.
Da: http://www.montesion.it/_montesion/Montesion.html


LE  NOTE  IN   ROSSO SONO DI JANUA COELI
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