Visualizzazione post con etichetta Esseri Umani ed Islam. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Esseri Umani ed Islam. Mostra tutti i post

sabato 22 gennaio 2011

Ermanno Visintainer, Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako, Vox Populi, Pergine Valsugana 2010

Cupola of the Yassawi Mausoleum in Türkistan (Turkestan). The mausoleum has been built between 1397 and ca. 1600 and still looks unfinished. However, the minor cupola presents fine tilework.

                                                                                        

Nato verso il 1100 a Sayrâm (odierno Xinjiang), Ahmed ibn Ibrâhîm ibn ‘Alî è noto con l'appellativo di Yesevî (Yassawi) dal nome della città di Yesî (odierno Kazakistan), dove fece i suoi primi studi. La sua istruzione proseguì a Bukhara, dove fu discepolo di Yûsuf Hamadânî (441/1049-535/1140); tornato a Yesî, vi morì nel 562/1166-1167. In seguito Yesî fu chiamata Türkistan, donde il titolo di Hadrat-i Turkestân attribuito ad Ahmed. Sulla sua tomba e sulla vicina moschea, lungo la riva del Sîr-Darya, nell'VIII secolo dell'Egira Tamerlano fece erigere un mausoleo a doppia cupola, che, completato nell'801/1398, divenne meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente di Uzbechi e Kazaki.
Infatti la Yeseviyye, l'ordine iniziatico fondato da Ahmed Yesevî, attraverso le sue varie diramazioni svolse un ruolo fondamentale nell'islamizzazione delle tribù turche e nell'adattamento dell'Islam all'ambiente delle steppe. Nelle pratiche del sufismo vennero integrati diversi elementi tipici della cultura centroasiatica: la partecipazione promiscua di uomini e donne alle assemblee rituali, il sacrificio di vittime animali e la consumazione del banchetto (shilen) presso i sepolcri dei santi, l'uso del turco nelle recitazioni di testi diversi dall'orazione canonica. Ibn Battuta, il quale visitò l'accampamento invernale di ‘Alâ' ad-dîn Tarmâshirîn (1326-1334), sultano della Transoxiana, riferisce (III, 36) che dopo l'orazione mattutina quest'ultimo recitava il dhikr in lingua turca.
La Yeseviyye fu una confraternita di nomadi che si diffuse su una vasta porzione dello spazio eurasiatico: dal Turkestan cinese alla regione della Volga, dalle Steppe dei Kirghisi al Khorasan, all'Azerbaigian, all'Anatolia, dove produsse uomini come Yûnus Emre (m. 1320?), il più grande santo e poeta dell'età selgiuchide.
Poeta, oltre che santo, fu d'altronde lo stesso Ahmed Yesevî, sotto il nome del quale ci è pervenuto un Dîvân-i Hikmet ("Canzoniere della Saggezza"). Composto probabilmente in una lingua vicina a quella del Qutadgu Bilik (la prima opera letteraria della cultura musulmana d'epoca qarakhanide, sec. XI), il Canzoniere ci si presenta oggi in una lingua ciagatai alquanto tarda. Undici hikmet di questo Canzoniere (componimenti articolati in quartine di versi in metrica sillabica) sono stati riportati nel testo originale, con traduzione italiana a fronte, nella monografia che Ermanno Visintainer ha intitolata a Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako. Questo saggio del turcologo trentino (preceduto da una Presentazione dell'ambasciatore della Repubblica del Kazakhstan presso la Repubblica Italiana e da una Prefazione dello scrittore Pietrangelo Buttafuoco) inquadra la "vita leggendaria" di Ahmed Yesevî in un contesto culturale, quello centroasiatico, di cui viene messa in luce la caratteristica varietà di forme tradizionali: dal monoteismo uranico precursore di quello islamico al taoismo venuto dalla Cina, dall'arcaico sciamanesimo autoctono allo zoroastrismo irradiatosi dall'Iran, dal buddhismo al cristianesimo nestoriano e manicheo.
Illustrando l'eredità spirituale di Ahmed Yesevî attraverso una rassegna delle pratiche e degli insegnamenti che furono trasmessi alle successive generazioni di discepoli, l'Autore si sofferma in particolare sulla "khalvet, la solitudine ascetica". In effetti Ahmed Yesevî attribuì grande importanza al ritiro spirituale, sicché è possibile considerare la Khalvetiyye, che si sviluppò nella regione caucasica e si diffuse in Anatolia, come un'appendice occidentale della Yeseviyye. Per quanto concerne filiazioni di questo genere e, in particolare, la questione della derivazione della Naqshbendiyye e della Bektashiyye, le due confraternite più diffuse nel mondo turco e poi irradiatesi in gran parte del continente eurasiatico, l'Autore mantiene un atteggiamento di corretta cautela: sia riguardo al rapporto tra Ahmed Yesevî e Hâjjî Bektâsh, sia riguardo alla nascita della Naqshbendiyye, che, se fosse ricollegabile alla Yeseviyye, rappresenterebbe "l'eredità spirituale del Maestro verso Oriente in senso lato, dal subcontinente indiano all'Indonesia, ma anche ad Occidente, verso il mondo anatolico" (p. 135).

Hajji BektashVeli



Inserita il 17/01/2011 alle 11:47:18                                          
Recensione scritta da Claudio Mutti
                                          *************

Hajji Bektash Veli «Der heilige Hadschi Baktāsch»; türkische Schreibweise: Hacı Bektaş Veli war ein muslimischer Mystiker (Sufi) aus Khorasan, der in der zweiten Hälfte des 13. Jahrhunderts in Anatolien lebte und wirkte. Nach ihm ist die Bektaschi-Tariqa (Bektaschi-Derwisch-Orden) benannt, die aber aller Wahrscheinlichkeit nach nicht von ihm selbst gegründet wurde. Über sein Leben ist nicht viel bekannt. Es gilt zwar als gesichert, dass eine Person mit diesem Namen existiert hat und bedeutenden Einfluss auf die Bevölkerung Anatoliens hatte. Alles weitere fällt jedoch größtenteils in den Bereich der Legende.Die Hauptquelle für das Leben Hajji Bektash Velis ist die Walāyat-Nāma aus dem späten 15. Jahrhundert. Hadschi Baktāsch wurde in Nischapur im Westen Khorasans (heute Iran) geboren. Nach der Walāyat-Nāma war er der Sohn eines gewissen SayyidImam Mūsā al-Kāẓim, des 7. Imams der Imamiten. Jedoch ist das ein ganz offensichtlicher Fehler des Autors, denn seine Angabe ist, zeitlich betrachtet, unmöglich. Ebenfalls ist es durch andere Quellen nicht nachweisbar, ob er tatsächlich aus Nischapur stammte. Die Bezeichnung "Khorasan erenleri""die Heiligen Khorasans") war bei den turkmenischen Nomaden Anatoliens ein allgemeiner Ehrentitel für viele Mystiker und religiöse Gelehrten, denn das ostpersische Khorasan war zu jener Zeit ein Zentrum der islamischen Blütezeit. Anders betrachtet ist die Bezeichnung aber auch gleichzeitig ein Indiz dafür, dass Hadschi Baktāsch wohl tatsächlich aus Khorasan stammte und mit hoher Wahrscheinlichkeit persischer, denn zur Lebzeit Hadschi Baktāschs hatte sich das Reich der Rum-Seldschuken zu einer Fluchtstätte für persische Gelehrten und Heilige entwickelt, die aus ihrer Heimat aufgrund der mongolischen Invasion fliehen mussten - das ist wohl der Kern der türkischen Redewendung. (siehe auch: Rumi, Attar) Muhammad bin Musā und, so wird behauptet, ein Urenkel des (türk. Abstammung war
Der Legende nach war er zum Zeitpunkt seiner Flucht nach Anatolien ein vierzigjähriger Derwisch der Yesevi-Tariqa und der khalifa (Stellvertreter) Ahmad Yasawis, des Begründers des Ordens. Aber auch diese Behauptung ist zeitlich betrachtet unmöglich und ist eher als eine spätere Innovation aufzufassen, welche die beiden Heiligen zusammenführen soll.
Glaubhafter ist hingegen die Annahme, dass Hajji Bektash Veli zu den Qalandari-Sufis Bābā Rassul-Allāh Eliyās Khorāsānīs (1240 hingerichtet) gehört hat. Diese Annahme wird durch frühe Chronographen der Mevlevi-Derwische indirekt bestätigt, die ihn als einen anti-orthodoxen Mystiker mit "gnostischer Illumination" beschrieben, welcher "die Scharia vollkommen ablehnte" - Eigenschaften, die für ostpersische Qalandari-Mystiker jener Zeit sehr typisch waren.
Hajji Bektash Veli ließ sich in Sulucakarahöyük (heute Hacıbektaş, Provinz Nevşehir) nieder, möglicherweise aus dem Grund, weil es dort zur damaligen Zeit wenig Tekkes gab. Sulucakarahöyük war ein entlegener Ort, weit entfernt von den Zentren Anatoliens, wo das politische Geschehen und ein reger Handel stattfanden.
Aggiunto da Janua Coeli il 21.01.2011




domenica 9 gennaio 2011

I paradisi di Luca Abdullah

Mer Nov 11, 2009 5:47 pm    Oggetto: I paradisi di Luca Abdullah

Luca Abdullah Nûr
 Storia di una conversione: da Cristo a Maometto                            




Professore di latino e greco nei licei classici, Luca de Martini ha deciso di allungare il suo nome un giorno qualunque di sei anni fa. Si è convertito all’islam valutando in meditata solitudine tutte le conseguenze del caso. Adesso si chiama anche Abdullah (che vuol dire servitore di Dio) e Nur (che vuol dire luce). È già andato in pellegrinaggio alla Mecca. Si propone di essere un musulmano «coerente e rigoroso, onesto e retto».

Significa fondamentalista?

«Sì, se il termine non avesse un’accezione offensiva. Dunque non mi dichiaro fondamentalista».

Integralista è meglio?

«Neppure. Sa di esasperato rigore e il mio islam non è affatto così. Non amo gli eccessi, non rifiuto il progresso, prendo dalla cultura e dalla tecnologia degli altri quello che ritengo buono».

Cagliaritano, figlio unico di un insegnante, trentacinque anni, esperto di linguistica sarda, Luca dice di non vestire «sempre di nero». Lo puntualizza perché all’appuntamento per l’intervista si presenta con un copricapo nero, un lunghissimo camicione nero, pantaloni neri, stivali neri, folta barba da frate cappuccino (o da imam, se preferite). Laureato in Lettere antiche, specializzato in Russia, è sposato «con una cittadina straniera» ed è padre d’una bimba di un anno.

Qual è la strada che un borghese occidentale deve battere per arrivare all’islam? La curiosità altrui lo lascia indifferente e se accetta di spiegare su un giornale come la pensa è solo perché «in giro c’è troppa confusione, qualche volta troppa malafede». E precisa meglio: «Storicamente, per un milanese è straniero anche un napoletano, figuriamoci un pakistano o un senegalese».

Non vuole e non intende rappresentare una religione ma semplicemente offrire una storia personale, la storia di un ragazzo che perde pian piano i legami col cattolicesimo ed entra in un’altra dimensione. Dove sostiene di aver trovato finalmente serenità e coerenza, soprattutto. «Non ho mai capito come si possa dire d’essere cattolici ma non praticanti. Che senso ha?». La regola della fedeltà all’idea non prevede sconti nemmeno per lui. Tantomeno dubbi. «Il dubbio è la radice della miscredenza».

Il professor de Martini è un giovane asciutto, d’una certa eleganza fisica, chiude e spalanca mani bianchissime per sottolineare i concetti importanti. Sospetta diffidenza (ma non lo rivela), si prepara a domande provocatorie mantenendo una calma assoluta salvo, ogni tanto, un leggero tremolìo degli occhi e il discorso che si fa d’un tratto spezzato. Il suo cammino religioso è simile a quello di Cat Stevens, popstar degli anni ‘70 ma con una differenza-chiave: «Non ho avuto maestri. Sono un autodidatta. Ho semplicemente studiato, studiato, studiato».
Prega cinque volte al giorno, nei limiti del possibile cura l’alimentazione evitando il maiale, alcolici e comunque la carne di animali che non siano stati macellati secondo il precetto musulmano. Racconta che i genitori hanno seguito questa sua lenta trasformazione con un misto d’attesa e perplessità. Se la madre lo invita a cena si salva in corner con menu di compromesso: pizza, pasta, verdura, pesce. Del mondo di ieri, quello dell’adolescenza e di una verdissima gioventù, non rimpiange niente. «Non ho nostalgia di quello che sono stato».

Quanto pesa il passato cattolico?

«Sono stato battezzato, ho fatto Prima comunione e Cresima. Durante la visita di leva ho scoperto che lo Stato italiano mi considera cattolico per il solo fatto d’essere stato battezzato. Singolare, no? Nessuno me lo aveva chiesto. In ogni caso, sbattezzarmi non mi interessa».
Cosa non le piace del cattolicesimo?

«Il discorso sarebbe lungo. In sintesi, non condivido il modo di essere della Chiesa di Roma e la teologia. Una dottrina che non fa per me».

Le è rimasto un amico cattolico?

«Non vedo più quelli che frequentavo un tempo. Comunque sì, ho conoscenti cattolici».
Amici o conoscenti?

«Conoscenti».

Com’è avvenuta la conversione?
«Leggendo sull’islam. Pensi che la Shahada, la formula di adesione alla fede, l’ho fatta in assoluta solitudine. Senza maestri, senza suggeritori. Credo di essere stato l’unico sardo presente alla Mecca tre anni fa».
C’è stato un episodio folgorante?
«Direi di no. Non sono un fanatico: sono approdato all’islam dopo aver riflettuto con me stesso. C’è tuttavia una vicenda che mi ha colpito: mi trovavo in Russia per ragioni di studio quando le armate di Putin hanno decimato il popolo ceceno. Un genocidio».

Che bisogno aveva di cambiare nome?

«Non l’ho cambiato. Ho soltanto aggiunto Abdullah Nur al mio, che resta tale e quale all’anagrafe. È un modo per rafforzare la fratellanza islamica. Fermo restando che ogni musulmano deve rispettare le leggi dello Stato che lo ospita, a patto che non violino i principi fondamentali della fede».

C’è una corrente religiosa nella quale si riconosce?
«Quella della tradizione. Seguo le regole delle prime tre generazioni di musulmani».
E da lì non si sposta.
«Da lì non mi sposto, anche perché non posso dire sempre e comunque quello che penso».

Chi glielo vieta?

«Ho il dovere di proteggere la mia famiglia. Se dico di essere un musulmano moderato sono considerato soltanto un bugiardo. Se mi dichiaro più combattivo, allora vengo etichettato come estremista. Le parole hanno un peso, l’interpretazione delle parole un altro: questa è l’Italia».

Nel liceo dove insegna ha avuto problemi?

«No, mai. Mai nessun problema coi colleghi, credo abbiano considerazione di me. Passo per un docente serio ed esigente».
E con gli alunni?

«Neppure. A fine lezione è capitato qualcuno che mi abbia chiesto di sapere di più. Ma l’insegnamento, per quel che mi riguarda, è un pubblico servizio. Quando sono in cattedra non rappresento alcun partito e nessuna fede».
Sarà felice il ministro Gelmini.

«La scelta religiosa è privata, intima. Non può in alcun modo sfiorare le materie che insegno».

D’accordo ma se una sua allieva mettesse il burka?
«Non avrei niente da dire. Così come non ho niente da dire quando arrivano in audacissime minigonne. Non mi pare ci siano imposizioni precise per l’abbigliamento in classe. Difatti mi lascia perplesso l’atteggiamento di quei colleghi, soprattutto colleghe, che pretendono di spiegare alle alunne come devono venire vestite a scuola».

Secondo i suoi principi, le donne dovrebbero portare addirittura i guanti.

«Non è un obbligo. Certo, se una donna ha mani bellissime coprirle può servire ad allontanare l’attenzione morbosa di un uomo. Intendiamoci, le migliori musulmane sono quelle coperte ma non è detto che quelle coperte siano poi le musulmane migliori. Mi sono spiegato?»

Dev’essere dura per uno come lei vivere nel Paese delle veline.

«Misuro il progresso e la civiltà di una nazione dalla Scuola e dalla Sanità, che devono essere servizi rigorosamente pubblici, assolutamente efficienti e indiscutibilmente aperti a tutti, non solo ai ricchi. L’Italia non mi entusiasma ma è un Paese migliore di tanti altri».

Vota?

«Non sempre. Quando mi è capitato di farlo, ho scelto liste indipendentiste antiglobalizzazione. È il sistema centralista e accentratore che non funziona, paghiamo ancora a carissimo prezzo il modello sociale imposto da quel carnefice che si chiama Napoleone Bonaparte».

Se sua figlia dovesse innamorarsi di un ragazzo d’altra religione?

«Per noi la famiglia è molto, molto importante. Avere una buona educazione islamica significa capire e far capire che uomini e donne hanno ruoli diversi e uguale dignità».

Va bene, ma se sua figlia…

«Vorrebbe dire che sta tradendo i principi e che io non sono stato in grado di darle una buona educazione».

E in conclusione?

«In conclusione non darei il mio assenso».

Se invece tutto questo lo facesse un figlio maschio?

«A un maschio è consentito a patto che si congiunga con una ragazza di fede monoteista. In ogni caso, si tratterebbe della scelta peggiore».
Però è tollerata.

«Sì».



Sbagliano gli intellettuali che vi accusano di vivere in culture arcaiche?

«Quanto più il progresso scientifico avanza tanto più si rafforza l’islam. Nell’Occidente c’è scontro tra fede e scienza, da noi no. Nel Corano è stato scritto 1.400 anni fa che inizialmente l’universo era una nebulosa di massa gassosa. Figuriamoci se il progresso può preoccuparci».
Relativista o assolutista?
«Relativista nello studio delle civiltà, assolutista sul fronte della fede. Gliel’ho detto: il dubbio è la radice della miscredenza».
Se sua moglie la tradisse…
«Il musulmano distingue tra fornicazione e adulterio…».
La domanda è un’altra.
«L’adulterio è un peccato grave, molto grave».
Che prevede la lapidazione.
L’islam è un sistema di vita onnicomprensivo. Ha regole chiare su economia, diritto matrimoniale, alimentazione…».

La domanda: favorevole o contrario alla lapidazione?

«Non sono un giurista, quindi non so se una condanna come questa possa essere commutata in altro».

D’accordo ma se sua moglie…

«Ho aderito alla legge islamica e ne osservo i precetti».
Le punizioni sono autentica ferocia.

«Non sono d’accordo con questa valutazione».
La proposta di legge contro l’omofobia: che ne pensa?

«L’Occidente considerava l’omosessualità una malattia fino a poco tempo fa, ora non più. L’islam condanna i rapporti sodomitici e quelli anali in assoluto, cioè anche fra uomo e donna. Non conosco nei dettagli la proposta di legge bocciata in Parlamento ma, in linea di massima, siamo per il dialogo».
L’omosessualità però resta una malattia.

«Per noi non c’è dubbio. Siete voi che avete cambiato idea».

La comunità ebraica lamenta intolleranza.

«Noi abbiamo rispetto per la cultura e per la religione ebraica. Non ne abbiamo per personaggi come Riccardo Pacifici, rabbino di Roma, sionista che incita all’odio. Pacifici dovrebbe almeno cambiare cognome».

Sbagliano o no a dire d’essere perseguitati?

«Perseguitati gli ebrei in Italia? Oggi il clima non è facile in questo Paese. Il musulmano è identificato come immigrato pericoloso. Se viene arrestato uno di noi i giornali precisano subito la religione: musulmano; se arrestano un rumeno non precisano che è di fede cristiano ortodossa. Come mai? Vogliamo chiarire questo aspetto una volta per tutte?»
Chiariamolo.

«Un buon musulmano non commette reati. Deve comportarsi da onesto cittadino e in cambio chiede libertà d’abbigliamento, appositi luoghi di culto, cimiteri, mense nelle scuole e nelle prigioni. A Cagliari nel camposanto di San Michele c’è giusto un’aiuola con un cartello che dice acattolici . Vi sembra rispettoso?»



C’è qualcosa dell’islam che non le va a genio?

«No, altrimenti torniamo al discorso del sono cattolico ma non praticante. Un buon musulmano deve seguire la legge islamica e non dubitare, mai».

Altrimenti è un traditore.

«Altrimenti viola le sacre leggi del Profeta».


MACHALLAH....ALLAHU AKBAR

_________________

“La ilaha illa Allah, Muhammad rasoulu Allah (salla allahu 3alaihi wa sallama)”

“Non esiste vero dio se non Dio (Allah), e Mohammed è il messaggero (Profeta) di Dio.”

giovedì 2 dicembre 2010

Dante e l'Islam nel Cuore di Guido De Giorgio Commento inedito al V° Canto

Guido De Giorgio e il suo commento ai primi cinque canti della Divina Commedia


[ Testo base di una conferenza tenuta alla sezione di Mondovì della società Dante Alighieri nell’ottobre del 1987, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Guido De Giorgio (1890-1957) dal suo allievo, discepolo e amico Filippo Ladon (1923 – 1996) ].



                                                                     ********* 
Sono trascorsi ormai trent’anni da quando s’è chiusa la vita terrena di Guido De Giorgio, vita tormentata e tormentosa per sé e per tanti che gli furono vicini e cari.
Per quel suo non adeguarsi al mondano, per quel suo spregio per la modernità, il progresso, il quotidiano, per quel suo modo di amare in attesa sempre che l’amato desse il meglio, il tutto di sé, pena il disprezzo verbale, temperato tuttavia sempre da un’ironia appena percettibile, sofferse e fece soffrire purificandosi e purificando.
Nato nel 1890 a San Lupo nel Sannio Beneventano, studiò a Napoli e, ancora giovanissimo, in Tunisia ebbe la ventura di entrare in contatto con i maestri dell’esoterismo islamico.
Fu dopo il ritorno dalla Tunisia ed un lungo intervallo in Francia ed in Liguria – a Varazze – che prese a frequentare queste montagne ed esse lo spinsero a scegliere Mondovì come rifugio. Qui, tra via di Vasco, via Vico (che prese poi il nome di Havis De Giorgio dal figlio medaglia d’oro in A. O. I.), Fiamenga ed infine Sant’Anna di Montaldo trascorse una trentina d’anni.
Lo spregiato - amato Julius Evola così ne parla: “… era una specie di iniziato allo stato selvaggio e caotico, aveva vissuto con gli arabi, aveva conosciuto il Guenon e dal Guenon era stato tenuto in alta stima. Possedeva una cultura eccezionale… la sua insofferenza per il mondo moderno era tale che egli si era ritirato a vivere fra i monti… Fui in contatto con D.G. con cui mi incontrai anche due volte sulle Alpi, soprattutto nel breve periodo della vita della mia rivista “La Torre”.
Verso la fine degli anni trenta ed all’inizio degli anni quaranta D.G. collaborò al “Diorama Letterario” del quotidiano “Regime Fascista” di Cremona ed attese alla stesura della sua opera fondamentale “La tradizione romana” uscita postuma nel 1973 presso l’editore Flamen di Milano.
Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e sino alla fine del 1957, anche se non trovò mai quiete nella contemplazione, s’accostò con singolare fervore al Cattolicesimo più profondamente ortodosso. Ricordo nel suo sacco da montagna un libretto con le opere del Manzoni “Osservazioni sulla morale cattolica” e “Sentir Messa”. Ricordo un suo scritto percorso da lampi di fede e speranza, da mistiche fulgurazioni di amore “Ciò che mormora il vento del Gargano” ed il suo allontanarsi da tutti – pur senza nulla rinunciare del pensiero tradizionale, pur fedele al principio dell’unità di tutte le religioni nella Trascendenza – per essere più aderente al pensiero ed alla liturgia della Chiesa Romana così come anche il Guenon gli aveva suggerito, Guenon che, avendo trovato rifugio nella tradizione islamica, lo invitava a restare nel solco in cui era nato, per quella “salvezza” che trascende vita e morte.
Per De Giorgio la ricerca intellettuale si conclude ed esprime compiutamente col momento della Preghiera che non appartiene, come sembra rimproverargli Evola “ad una specie di Cristianesimo vedantizzante”, ma si ispira all’unità nel Cristocentrismo di San Gregorio Palamas – ricordo che ottenne il volume della Philocalia uscito in Francia nel 1953 dopo lunghe ricerche.
Se il cammino intellettuale di D.G. da quando scrive su “Le voile d’Isìs” di Chacornac o su “La Torre” di Evola con lo pseudonimo di ZERO quasi a qualificarsi quale “animatore invisibile del foglio”, a quando tiene una nutrita corrispondenza con Guenon il quale lo tratta con profonda amicizia; che umile pellegrino cerca la confessione e la benedizione di Padre Pio; che raduna intorno a sé i giovani in una scuola in cui offre un sapere durevole, ci rivela una potente personalità individuale, molte cose del di lui spirito e del suo atteggiamento culturale restano oscure se non si inquadra la sua figura in quella vasta corrente di pensiero che, in particolare nel periodo fra le due guerre mondiali, esprime l’inquietudine europea di fronte all’imponente sviluppo tecnico e industriale.
Sono gli “spiriti liberi” europei, secondo la definizione dello storico Delio Cantimori, che prendono in esame i sintomi del declino spirituale dell’Occidente che sta divenendo ateo, scientista e materialista. Sono letterati come Valery, Mann, Musil o Drieu La Rochelle, saggisti come Spengler, Benda o Huizinga, filosofi come Ortega y Gasset, Berdiaef o Simone Weil, tradizionalisti come Guenon, Evola o Schuon.
Come si vede essi non hanno la stessa matrice culturale, sono mistici, irrazionalisti, democratici ardenti o aristocratici, per il Fronte popolare in Francia o contro, per Franco in Spagna o contro, alcuni finirono nei campi nazisti, altri di fronte al plotone d’esecuzione dei liberatori.
Le fughe di questi personaggi sono nel passato; il Medioevo rappresenta per alcuni la logica antitesi del presente, le fughe di questi personaggi sono nei grandi spazi: per Hermann Hesse sarà l’India e i suoi misteri, per Malraux la Cina; per Paul Nizan, Guenon, Schuon l’Islam quasi ad esorcizzare od a prepararsi al futuro del profeta Joseph de Maistre:
“… oggi più che mai dobbiamo occuparci di queste alte speculazioni, perché dobbiamo tenerci pronti per un avvenimento enorme nell’ordine divino, verso il quale stiamo avviandoci ad una velocità sempre più forte che deve impressionare tutti coloro che la osservano…”
In verità questa pienezza dei tempi è giunta, il destino della sapienza umana è consumato questo pensano gli ultimi rappresentanti della “Tradizione” fra i quali è De Giorgio profondo conoscitore di quella occidentale. La Tradizione per lui, non ammette definizioni che potrebbero snaturarne il significato e consiste “… nella trasmissione innata ed immanente di principi di ordine universale … una filiazione spirituale fra maestro e discepolo”.
L’unità dei principi e delle origini spiega come sussistano legami profondi fra le Tradizioni succedutesi nel tempo e nello spazio, poiché tutte si richiamano a quella primordiale e, nella trascendenza convergono nell’Unità, così come è per le religioni.
Grazie ai simboli, ponti fra i sensi e lo spirito, è consentito rendere palpabili, tangibili i concetti intellegibili, attraverso la varietà delle interpretazioni, che ciascuno può dare a seconda del suo grado di iniziazione, della sua capacità intellettuale, si giunge a:
un “enteder non entendiedo / toda sciencia tracendiendo” (San Giovanni Della Croce).
Poiché l’iniziazione è indispensabile viene concessa attraverso quello che in India è chiamato “guru”, fra gli ortodossi “geron”, nell’Islam “sceicco” quasi un padre spirituale per questa seconda nascita.
Qualcuno forse si chiederà se esiste un metodo per questa forma di conoscenza. Metodo (il termine filosofico è noto per Cartesio) è concetto troppo moderno perché possa essere accolto. Si può tutt’al più rilevare che là dove il mistico “accetta”, l’iniziato “prende” aggiungendo che v’è una via per il contemplativo mentre ve ne sono infinite, quanti sono gli stati dell’essere, per chi si pone sulla strada dell’iniziazione.
Il punto di partenza del cammino iniziatico, sotto la guida del padre-maestro viene, in quasi tutte le tradizioni, indicato come “la discesa agli inferi” che, esaurendo certe infime possibilità dell’essere, rappresenta un ruolo di purificazione che non avrebbe più ragione d’essere nelle fasi successive.
Se poniamo mente a queste premesse, tenendo conto che per lui ebbero un senso di effettiva concretezza, possiamo comprendere che De Giorgio guarda a Dante non per un’esperienza letteraria, non per meri valori poetici, senza riguardo alla ricerca estetica, ma per trovare conferma che l’Alighieri esprime, attraverso la costruzione dell’Opera, le similitudini ed in particolare i simboli, le sacre verità, i valori della tradizione trascendente senza tempo.
Non ci sono più seicento anni fra il Poeta ed il suo interprete poiché la perennità della Tradizione rende il linguaggio eterno ed attuale, la conoscenza immediata e totale.
Altri nell’ottocento e nei primi anni del novecento hanno sperimentato un singolare incontro con Dante, ma nessuno di essi offre la stessa sensazione di partecipazione, di adesione, di amore per il poeta-teologo come De Giorgio.
Gabriele Rossetti, che guarda al Medioevo con mentalità illuminista, esagera l’eterodossia di Dante e l’opposizione di Lui al Papato anticipando in parte le interpretazioni dell’Aroux e più tardi del Peladan i quali spiegano la Divina Commedia secondo i riti ed i simboli massonici.
Il Perez, nella “Beatrice svelata” pubblicata a Palermo nel 1865, ha visioni sorprendenti sulla conoscenza intellettuale, sulla diffusione della cultura araba ai tempi di Dante, sul senso ed il peso della vita contemplativa, ma attribuisce troppa importanza alle allusioni politiche antiguelfe in cui ritiene si siano cullati l’Alighieri e Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti.
Al Pascoli, alle sue monumentali opere sulla Divina Commedia, create in un particolare ambiente culturale, si può rimproverare di avere troppo ragionato per far coincidere le allegorie e le strutture dantesche con gli schemi immaginati. E’ il rimprovero opposto a quello che all’opera pascoliana mosse il Croce “ di non industriarsi di persuadere ragionando”, ma come rileva De Giorgio, la ragione è mediazione nella conoscenza non fonte di conoscenza trascendente.
Per quel che riguarda il Valli ed il Ricolfi, ispirati dal Rossetti e dallo stesso Pascoli, si può dire che, nonostante le felici intuizioni, si perdono nella ricerca di un’interpretazione sistematica che non lasci luoghi oscuri, mentre, dal punto di vista della dottrina tradizionale, il simbolismo iniziatico non si può ridurre a formule più o meno strettamente sistematiche, poiché il suo ruolo è di servire da supporto a concezioni le cui possibilità sono veramente senza limiti.

Con De Giorgio, il Sacro del poema dantesco si illumina, allegorie e simboli si pongono in una nuova dimensione.

Attraverso il Boccaccio del commento e del “Trattatello in laude di Dante” De Giorgio chiarisce come, secondo la tradizione, Dante sia poeta e teologo, cammini sulle orme dello Spirito Santo, sia ispirato perciò dallo Spirito di Dio e come dice appunto Boccaccio (Tr.123) segue la teologia che “niun’altra cosa è che una poesia di Dio”.
Qualche confronto potrà servire a chiarire il diverso atteggiamento nei confronti del Poema.
Ecco la morte mistica in Pascoli: (Da “Sotto il velame”)
“Ora noi vediamo che Dante con aperte parole dice di morire anche avanti la concupiscenza e anche avanti la malizia; di morire di quella morte che è un rivivere, e che quindi non sapremmo dire se sia vita o morte. Non sapremmo dir noi, né sa dir esso, il poeta”.
Ed in De Giorgio:
“… è più morte della morte perché cosciente, integrale, voluta. La morte corporale si subisce a passivamente, fatalmente; quella mistica si prepara, si vuole, si cerca attivamente, volontariamente poiché tutto muore nel mistico anima e corpo. Intendiamo qui l’anima, l’anima non lo spirito, l’anima individuale non quella profonda di Dio che è in noi e che la maggior parte degli uomini ignora… La morte mistica è il trionfo di Dio sull’uomo, è la Croce volontariamente assunta … l’uomo nella morte mistica calca il teschio di Adamo, si aderge sull’alto della Croce ridonando a Dio tutto se stesso”.
Virgilio in Pascoli è simbolo mutevole: prima Ragione, poi Studio ed Amore o ancora l’Umanità con l’Impero, ma avanti la Redenzione; per De Giorgio è il maestro dei piccoli misteri, conosce le insidie dell’Oltretomba, non è poeta nel senso normale della parola, ma “un famoso saggio” un centro spirituale di irradiazione.
Se accompagna Dante nella prima parte del “viaggio” è che fin là si limitava l’insegnamento tradizionale di cui Virgilio è la personificazione, insegnamento che comprende una fase assai estesa, ma pur sempre limitata che Dante completa associandola a quella cristiana attuando così una “cattolicizzazione” tradizionale.
Dopo queste premesse si può forse più facilmente comprendere che l’incontro di De Giorgio con il poema di Dante ha dato frutti con carattere di schietta originalità.
Né si deve pensare che l’esegesi abbia la pretesa o l’intento di sciogliere i cosiddetti “passi misteriosi” del poema (come il famoso “pape satan” del VII canto) che anzi la novità germoglia proprio in quei luoghi dei quali apparentemente ogni senso è già stato indagato e svelato.
In apertura del Primo Canto la “selva selvaggia e aspra e forte” “selva erronea … di questa vita” come ripete Dante nel Convivio (IV, 24,12) , labirinto del peccato è per De Giorgio “ ὕλη” che, oltre il significato generale di selva e di materia ha anche quello più speciale di “faex” di “sedimentum” quindi “precipitato, residuo” quindi vera e propria vegetazione residuale, una florescenza d’ombra soggetta ad una legge di sviluppo parassitario.
E’ la “νῆσος δενδρήεσσα (1,v.51) di Omero, circondata dalle acque, l’ omφαλος θαλασσησ, Ogigia; e proprio in Omero abbiamo accomunate le due caratteristiche iliche: la pluralità – alberi selva – illusoria e l’elemento umido che l’avvolge.
Altrove De Giorgio ritorna sulla caratteristica di “sedimentum” dei luoghi infernali. La concrezione – egli chiarisce – si fa più terribile a misura che si discende, che si penetra nelle viscere della terra, che si sprofonda nell’elemento più spesso, quello che si ammassa sui dannati, quasi a significare che l’elemento somatico può fecondare solo la materia, il regno della morte; per mostrare che l’uomo si nutre di morte.
Il peccato vero e proprio è nella negazione di Dio, nel non riconoscere il fuoco dell’Amore-Spirito, dopo aver negato la Potenza-Padre e la Sapienza-Figlio. Al limite estremo è Cocito, il fiume rappreso di gelo, che segna il silenzio terribile della morte totale. A questa “precipitazione”, impedimento spirituale personificato dalle tre fiere, De Giorgio ritorna parlando del Veltro che “è certamente l’essere privilegiato, nutrito di sapienza, d’amore e di virtù che domerà la lupa” e la “scoverà da ogni ripostiglio del cuore” la caccerà per ogni villa” e la riporrà nel mondo dell’eternità buia, subterrestre.
Il Veltro sdegnerà la gloria del mondo, sarà un povero, un fakir, un sufi (tra feltro e feltro) nel senso assoluto, non si nutrirà di alcun cibo terreno, terreno temporale e darà “salute” all’umile Italia terra della tradizione latina.
Nel secondo canto De Giorgio propone il tema della “gihad” la guerra, la grande guerra santa che l’Islam oppone alla “piccola guerra santa” puramente esteriore; quella guerra è “sì del cammino e sì della pietade” implica cioè sforzo, travaglio sulla via della liberazione ed esercizio continuo di pietas, dedizione espiatoria con assentimento assoluto della coscienza. E’ la pietas che assicura la purificazione dell’animo che ascende per i gradi dell’eternità ed è la condizione principale senza la quale sarebbe impossibile intraprendere il “grande combattimento” contro la “propria sventura di non essere santi”.
Altro tema del secondo canto è quello delle tre donne benedette che si curano di Dante nella “corte del cielo” e sono qui simboli dell’Amore divino. La donna gentile che “duro giudicio là sù frange” richiama uno dei nomi divini di Allah nell’esoterismo islamico: Djemâl opposto a Djelâl, o per meglio dire aspetto differente dello stesso Principio nel senso generale di “Bellezza” “Dolcezza” opposto a “Rigore”; questi due aspetti, qui, avrebbero un prima rispondenza in quanto “duro Giudicio” richiama Djelâl mentre donna gentile “che lo frange richiama Djemâl.

Per la tradizione cristiana è Maria “la donna gentil” l’influenza spirituale discendente, la grazia divina. Lucia e colei che dà la luce, la grazia illuminante.

Rachele è la teoria degli Angeli ascendente nella Scala di Jacob, è la sorella di Lia che “mai non si smaga – dal suo miraglio” la vita contemplativa: l’una e l’altra corrispondono al jiva e all’atma i due uccelli del simbolismo upanishadico, di cui l’uno, l’atma tace non agisce, l’altro il jiva l’azione, mangia i frutti dell’albero. Sono questi i simboli della virtù conoscitiva, che sorgono all’inizio dell’ascesa, all’appello disperato:
“Non odi tu la pièta del suo pianto?
Non vedi tu la morte che’l combatte
su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto?”
e tracciano, per tramite di Virgilio e Dante la via di salvazione attraverso la Commedia.

Nel terzo canto, varcata la soglia, le parole di “colore oscuro” mostrano a Dante l’inflessibilità del divenire umano secondo la legge dello Spirito Santo che retribuisce nella misura della verità la quale sola è bene…
Si palesa così il modo della Giustizia divina che è assolutamente al di là di ogni morale umana, poiché il bene è l’adeguazione dell’uomo a Dio nella molteplicità e varietà delle realizzazioni.
Dopo gli ignavi, l’Acheronte ed il tema dei fiumi infernali considerati come passaggio a ordini differenti e progressivi in serie discendente verso il punto della più profonda “concrezione”
che è rappresentata da Cocito.
E’ in un raptus che Dante traversa l’Acheronte e l’altra riva è il Nirvana, lo stato dell’essere che si sta affrancando dalla morte, e lo confermano i versi del quarto canto:
“e l’occhio riposato intorno mossi
dritto levato,…”
Qui, due temi: il primo riguarda la discesa di Cristo nel mondo infero per liberare l’uomo dall’Inferno così come, con la sua morte, lo libero dalla morte… il Cristo eterno ed eterno liberatore e chi è in Lui è l’eterno liberato, poiché la liberazione avviene non localiter et temporaliter – secondo la dizione della Scolastica, ma per essentiam.
E’ questo il senso profondo della discesa di Cristo nel mondo infero: l’asse verticale della Croce è la discesa del Padre–Cielo nel Figlio–Terra, l’Inferno essendo un prolungamento della terra, attraverso la mediazione dello Spirito Santo che estende orizzontalmente ogni possibilità divina.
Cristo libera dal Limbo, coloro che hanno vissuto in Lui pur essendo vissuti prima della manifestazione cristiana palese. Gli altri nel Limbo sono coloro che hanno raggiunto la purezza della realizzazione e costituiscono “la bella scuola” che non è soltanto un gruppo di poeti. Infatti:
“…Così andammo infino alla lumera
parlando cose che ‘l tacere è bello,
sì com’era il parlar colà dov’era.”
Dal IV canto comincia la discesa “ove non è che luca”, nella exitialis nox, nell’ ατερπεα χωρον, la terra senza gioia lontano dalla terra di Beatitudine, dalla dimora dei vivi.
Nell’esegesi del V canto De Giorgio annota la Sim-patia fra Dante e Francesca, simpatia che ritroveremo per altri personaggi dell’Inferno, poiché quello è il luogo delle complesse aberrazioni, delle inutili vittorie, delle fallaci conquiste, è la necropoli dei vivi-morti, di coloro che nella contemplazione e nell’azione hanno abusato di forze non perfettamente conosciute e domate che li hanno travolti.
Dramma d’amore quello di Francesca? E’ pensabile che Dante cada in deliquio per il racconto di un episodio che induce pietà più che orrore. Se invece l’amore a cui allude Francesca, martellato nelle note terzine “Amor ch’al cor gentil” .. “Amor ch’ a nullo amato” .. “Amor condusse noi ad una morte” è esperienza mistica, ricerca errata del divino, fatale, allora si intende come Dante, che deve avere tentato più d’una via per giungere a Dio, provi un’impressione profonda al racconto di un pericolo che egli stesso inavvertitamente può aver corso. Di qui quel suo cadere improvviso che corona tutta l’ansia con cui ha ascoltato le fasi di quel mistico dramma.
Di questo canto va ancora richiamato quanto De Giorgio, in fogli sparsi notò sul verso 136 “la bocca mi baciò tutto tremante” e sul fatto che Dante parli della “bocca” nel cap. XIX della Vita Nova : “La bocca la quale è fine d’amore” “gli occhi li quali son principio d’amore” e “ ‘l saluto di questa donna, lo quale era delle operazioni della bocca sua”, e poi nel canto XXXI del Purgatorio ai versi 136 e segg.

“Per grazia fa’ noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna                                                          
la seconda bellezza che tu cele!”

Nella Vita Nova la bocca dà saluto, salute, salvezza, suggella l’unione mistica; nel Purgatorio è simbolo della seconda bellezza, quella più occulta, più profonda come lo stesso suggello della realizzazione contemplativa, la sostanza della stessa beatitudine per cui dalla contemplazione che è ancora dualità, si trascorre ad un “inesse” che è unità e compiutezza.
Negli stessi fogli una nota riguarda “Galeotto – nocchiero – veicolo” Lancelot colui che ama Ginevra, la donna di Re Artù, fondatore della Tavola rotonda – i Fedeli d’Amore fisi in modo equidistante come i punti di una circonferenza, al Centro. Galeotto, Fedele d’Amore guida Ginevra a Lancelot e gli consente di realizzare la Regina che è la dama di Grazia e di Salute.
Lo stesso verso “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse” non sembra avere quel tono imprecatorio che comunemente gli si attribuisce, poiché l’Amore – se pur profano – ha potuto congiungere i due spiriti ed essi non possono certo maledire quanto è stato loro palesato, forse uno spiraglio di Paradiso, come anche i versi sembrano sottintendere:

“… Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria…”

In un lungo frammento dedicato ai Fedeli d’Amore, nel commento ai versi 106 e segg. del canto VI, De Giorgio illustra gli aspetti ed in parte le ragioni dell’esoterismo.
La teologia procede “rationaliter” e questa e la sua limitazione, la fede procede “absurde” quindi ciecamente e questa è la sua precarietà. Non è quindi strano che nelle religioni (ebraica), cristiana e nell’Islam sorgano scuole esoteriche il cui compito interno e preciso è di collegare la tradizione religiosa a quella integrale risolvendo teologia e fede in intuizione metarazionale e realizzazione ascetica, il cui scopo è di mantenere intatta l’ortodossia tradizionale. Dante appartiene appunto ad una di queste scuole; il suo cattolicesimo integrale gli impone di andare oltre il punto di vista religioso per restare fedele alla Grande Tradizione. La sua adesione ai Fedeli d’Amore chiarisce il senso della Vita Nova – hic incipit vita nova – da quando cioè il bisogno, naturale nell’uomo, di verità lo spinge a seguire un insegnamento dottrinale segreto per integrare fede e dogma.
Successivamente il lui si rafforza l’ortodossia ed abbiamo il passaggio dalla Vita nova alla Commedia, dal simbolismo esoterico alla tradizione pura.
Perciò nella Commedia ogni spiegazione dottrinale è interrotta là dove la teologia diventa muta, cioè dove il punto di vista religioso è oltrepassato, là dove la comunicazione scritta diventa impossibile.
Non tutto ciò che è stato detto può essere trasmesso per iscritto, la voce mette in opera, nelle parole vibrazioni ed inflessioni che integrano il messaggio e che sono assolutamente inesistenti nell’espressione scritta che cristallizza e tronca la comunicazione.
La voce produce una vera com-unione in forza della magia interna della parola e dell’udito che tradizionalmente è come il vaso in cui si contengono e vibrano le sillabe sante, i mantra – AUM AMN ALLAH HOU – che con la guida del maestro diventano respiro, fuggono alla schiavitù dell’alfabeto poiché, come dice Eckhart “l’anima esigente non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome”.
E’ stato detto dello stile del fondatore della mistica cristiana, lo pseudo Dionigi, che il suo linguaggio è pieno di echi che esortano alla comunione col divino, che vogliono avviare alla contemplazione. Lo pseudo Dionigi, nella sua spregiudicatezza antiletteraria usa la parola come un seme che, affondato nel terreno, sparisce per lasciare che esca alla luce il frutto di cui egli era misteriosamente il portatore.
Così, in questa sua dedizione al testo di Dante, senza chiedere dove sia poesia, senza preoccupazioni di ordine estetico o letterario, nella consapevolezza che la ricerca della bellezza coincide con quella della sapienza del Santo Spirito, sta il segreto del rapporto fra De Giorgio e la Divina Commedia.

Ottobre 1987, Filippo Ladon

Pubblicato da Janua Coeli su gentile concessione del figlio dell'Autore.



                                                                          *********

1

Un inedito di Guido De Giorgio
[Havismat]
Commento al V Canto della Divina Commedia

Minos, a guardia del secondo cerchio,
legislatore e giudice, rappresentante
di un ciclo tradizionale a
Creta dove si celebravano i misteri
di Cibele è qui il distributore delle
gerarchie infernali, e il cingersi la
coda per significare l’ordine di […?]
può intendersi come l’immagine di
una involuzione del sapere che determina
l’assegnamento a tale o
tal’altro cerchio. Perciò egli è il
“conoscitor de le peccata” cioè
dell’ignoranza. La bufera infernale
agita coloro “che la ragion sottomettono
al talento” ciò che, generalmente,
può indicare l’opzione incosciente
della via di salvezza che
determina “cadute” irreparabili, metodi
deviatorï più che risolutivi: la
pena è infatti un non mai stare, un
non mai toccare la meta, esattamente
il contrario della pax profunda
che caratterizza l’acquisizione degli
stati superiori. I nomi: Semiramide,
Didone, Elena, Achille, Paris, Tristano
tutti, il terzo e il quarto soprattutto,
allusioni a complessi mutamenti
nell’ordine contemplativo e
attivo e queste sono anime
“ch’Amor di nostra vita dipartì”
frase che può dare a riflettere se è
Amore, nel senso mistico, che […?]
spinta ad abbandonare la vita (e sarebbe
da vedere se quel “nostra”
non sia anch’esso iniziatico). Ma,
più giù, troviamo
Poscia ch’io ebbi il mio
dottore udito
nomar le donne antiche
e’ cavalieri
pietà mi giunse e fui
quasi smarrito
Le donne antiche e i cavalieri sono
curatori d’Amore, anche se deviati
nella loro ricerca. L’ultimo senso
mostra la meraviglia di Dante di-
nanzi alla pena inflitta a dei cercatori
di verità.
L’episodio di Francesca permette
molti più dubbi nella realtà d’una
tragedia d’amore: o per meglio dire
è una vera tragedia dell’Amore che
Dante espone; metodi di realizzazione
imperfetti. “Amor ch’al cor
gentile atto s’apprende” è il desiderio
della conoscenza che anima ogni
“cor gentile”, cioè disposto a
svilupparla. “Amor ch’a nullo amato
amar perdona” è l’opzione di un
metodo, probabilmente magico,
che impedisce a chi vi s’è consacrato
di recedere, le pratiche avendo
un carattere di “fatalità”. “Amor
condusse noi ad una morte”: qui
s’accenna alla “caduta” che segue
un metodo tanto più pericoloso
quanto è più violento: e il “doloroso
passo” è l’acme di questa tragedia
d’Amore, la precipitazione nel
mondo infero di chi ha mal tentato
la scalata del Paradiso. Che possa
trattarsi di una vera e propria tragedia
iniziatoria lo dimostra il riferimento,
nel racconto di Francesca, a
Lancelot, cavaliere della tavola rotonda,
e a Gallehault “principe delle
isole lontane” (qui forse si allude a
Thulé, “isola dei Beati” o tutt’altra
dimora nell’estremo nord come riferimento
a un centro tradizionale,
a una qibla, simbolicamente,e forse
geograficamente, posta in una solitudine
inaccessibile pei profani.
Gallehault serve d’intermediario tra
Lancelot e Ginevra, che è la Donna
amato cioè al conquista della saggezza,
e il libro letto da Francesca
serve egualmente d’intermediario
nell’amore di Paolo per Francesca.
Questo libro del ciclo è palesemente
un romanzo di cavalleria a contenuto
simbolico, quindi iniziatorio:
ora è appunto in questo libro che
leggono Paolo e Francesca e la lettura,
dice Francesca, “scolororci il
viso” cioè dette vertigini di conquiste
di stati superiori familiari a chi è
al corrente di certe cose. Ma è un
“punto” che determina questa specie
di dramma mistico, quando
Lancelot suggella la conquista di
uno “stato d’unione” – “il disiato
[?] — con un possesso reale: a questo
punto, [?] il racconto di Francesca
in un modo particolarmente
suggestivo: si allude nel verso “quel
giorno più non vi leggemmo avante”
alla realizzazione effettiva che
segue una preparazione dottrinale
(il libro?)? In ogni modo il verso
“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”
non sembra avere nessun tono
imperatorio come comunemente
s’intende, perché se l’amore, sia pure
profano, congiunge così strettamente
questi due spiriti, essi non
possono maledire ciò che questo
amore ha palesato. Le parole precedenti
di Francesca “Nessun maggior
dolore – che ricordarsi del
tempo felice – ne la miseria” sembrano
proprio alludere a quelle “cadute”
fatali e irrimediabili nel sentiero
della liberazione che fanno in-
travedere il Paradiso con conseguente
precipitare nelle regioni inferiori. 
(Trascrizione da un manoscritto inedito)

Pubblicato da Janua Coeli il 6 Dicembre 2010

venerdì 19 novembre 2010

I MENNONITI TRA BIBBIA E CORANO

28/01/2004


LA  BIBBIA
Fra Bibbia e Corano                                                                        

Una coppia canadese impara il Corano nella Città Santa dell’Iran
Due coniugi cristiani mennoniti , Wally e Wevely Shellenberger, si trovano a Qom in Iran grazie ad un programma di scambio di un istituto islamico di Educazione e Ricerca, finalizzato alla costruzione di rapporti di conoscenza e di collaborazione tra cristiani e musulmani.
Le persone della comunità centrale mennonita che sono tornate a casa non riescono a capire perché Wally e Wevely abbiano invece deciso rimanere nella città santa iraniana di Qom altri tre anni.
Tra le moschee turchesi dalle cupole d’oro ed i seminari cintati da mura, la coppia divide con predicatori barbuti e donne avvolte in chador neri le strade polverose di questa austera città, che è il principale centro del sapere religioso scita-musulmano nell’Iran ed una delle principali destinazioni dei pellegrini.
Non ci sono bar, fast-food o negozi di video cassette a Qom.
Gli occidentali sono noti solo per la loro assenza dalla città.
Qom fu l’epicentro ideologico della rivoluzione islamica del 1979. “La gente comune, una volta tornata a casa, pensa che sia un luogo pericoloso in cui vivere, ma in realtà è probabilmente un posto sicuro quanto ogni altro al mondo” dice il dottor Shellenberger, uno psichiatra in pensione, dalla voce piacevole con un'ordinata barba bianca senza baffi. “Siamo trattati molto bene, come ospiti.”
Fu una tragedia umana di ingenti proporzioni a causare il primo contatto tra l’Iran e la Comunità centrale mennonita (Mcc), un’organizzazione della Chiesa mennonita degli Stati Uniti e del Canada, coinvolta in opere di soccorso e di collaborazione.
La Mcc inviò degli aiuti alla Mezzaluna rossa iraniana nel 1990, dopo che un terremoto di magnitudo 7.7 colpì il nordovest dell’Iran, uccidendo trentacinquemila persone.
La relazione è continuata, con gli aiuti inviati per soccorrere la popolazione anche quando la terra tremò di nuovo, e si estese all'assistenza dei rifugiati iracheni in Iran.
Gli scambi fra studenti dell’Mcc ed Iran, finalizzati alla creazione di contatti faccia-a-faccia ed incoraggiando il dialogo tra cittadini americani ed iraniani, iniziarono nel 1998 e furono regolati sull’esempio di un progetto simile, esistente nei paesi dell’Europa orientale durante la guerra fredda.
Il soggiorno in Iran dei coniugi Shelleberger è coinciso non solo con l’attentato alle torri gemenlle dell’11 settembre, ma anche con le guerre condotte dagli Stati Uniti contro due paesi musulmani direttamente confinati con l’Iran: l’Afghanistan e l’Iraq.
A dispetto delle impressioni occidentali, gli iraniani si sono dimostrati molto meno anti-americani di tanti altri loro avversari . Per gli Shellenberger “Gli iraniani sono meravigliosi. Sono ospitali, amichevoli e servizievoli. Sono sinceri nella loro fede e li sento miei fratelli”, come dice Wally. La vita semplice praticata dai Mennoniti, ha evitato uno shock culturale agli ospiti occidentali. L’alcool in Iran è proibito, e questo non è stato un problema per i mennoniti che non bevono.
I coniugi Shellenberger non conducono una vita spartana a Qom. Come altri volontari del Mcc, che lavorano all’estero, avrebbero voluto vivere come gli abitanti del paese ospitante, ma l’istituto iraniano in cui studiano, che era responsabile della loro sistemazione, ha organizzato tutto alla grande. La loro casa è stata uno spazioso appartamento con soffitti ornati.
La coppia ha trascorso gran parte del primo anno e mezzo imparando il Farsi. Poi, lettura del Corano, con l’aiuto di un professore dell’Istituto di Educazione e Ricerca, l'Imam Khmeini, quattro volte la settimana.
Wally senza l'aiuto di nessuno, sta adesso divorando i lavori di Hafiz, un mistico sufi del XIV secolo e grande poeta lirico medioevale dell’Iran.
Ad Evelyn non dispiace indossare il copricapo ed il lungo soprabito, vesti obbligatorie, ma non si è mai sentita a suo agio nel chador , un indumento completamente coprente indossato dalle donne iraniane devote e conservatrici, che lei deve indossare durante le visite all’istituto.
Donne  iraniane
La parola chador letteralmente significa tenda: “ È una cosa ingombrante da indossare e poi non ha bottoni” spiega il marito.                                                                     
I coniugi credono che i cristiani possano imparare molto dall’Islam, con cui sono entrati in contatto in Iran. “C’è più stabilità familiare nella Repubblica Islamica e meno persone egoiste” egli afferma. La gente comune iraniana è sorpresa, quando scopre che gli Shallenberger hanno scelto di approfondire la loro conoscenza dell’Islam a Qom, per promuovere una migliore comprensione di questa fede una volta tornati a casa.
Alcuni iraniani chiedono loro se hanno intenzione di convertirsi all’islamismo. “No” racconta educatamente il signor Shellenberger, aggiungendo: “Comprendere meglio l’Islam mi aiuta ad essere un cristiano migliore.”

MOSCHEA
     Tratto da Peace Reporter                                                                                   

domenica 12 settembre 2010

LE ORIGINI SUFICHE DEL GRAAL



Farid alDìn Attar, è uno dei più grandi maestri
del sufismo che visse nel
Khorasàn tra il XII e il XIII secolo.
A lui si deve il libro “ Il detto degli uccelli “. Si                         
tratta di un libro di iniziazione sufi,
che trae ispirazione direttamente dal Santo
Corano ( An-Naml : 22,25 ).

Quando un sufi dice di parlare il linguaggio degli
uccelli, si tratta dei concetti di
quella cerchia di sufi emblematizzati da trenta
uccelli (si morg) che vanno
alla ricerca del mitico Simorg o Simurgh (araba
fenice, o santo Graal).
Ma torniamo all’opera di Attar
Il motivo di tanto interesse poetico nel viaggio
degli uccelli è che tali animali rappresentano il
simbolo dell'anima che, impigliata nei legacci del
corpo, anela il ritorno all'Unità originale. E il
linguaggio degli uccelli è la lingua esoterica per
eccellenza, alla quale lo stesso Corano,come
dicevo, dedica una citazione mettendola sulla
bocca di Salomone (sura XXVII).
Nel Poema di Attar, si narra di un folto gruppo
di uccelli ai quali l'upupa, che per la sua cresta                                     
sembra cinta di corona nobile, si rivolge
esortandoli a raggiungere Simurgh, il loro mitico
re, che dimora in terre lontane e sconosciute.
Nel Corano, ancora, l'upupa è messaggera di
Salomone presso la regina di Saba e non può
sfuggire l'analogia con la guida di Dante,
Virgilio, nel suo viaggio ultraterreno. Trattandosi
di un viaggio sconosciuto e misterioso non può
essere compiuto senza qualcuno che conosca la
strada. Gli uccelli incarnano gli attributi della
personalità umana e ciascuno di loro, infatti,
muove obiezioni all'invito dell'upupa, trova
scuse e pretesti per mostrarsi esitante.
L'upupa risponde con pazienza alle loro spesso
ipocrite argomentazioni. Alla fine lo stormo
partirà ma, altro simbolismo, solo trenta uccelli
su centomila arriveranno alla meta. Simurgh
significa 'trenta uccell' e raggiungere Simurgh si
configura, quindi, come l'approdo allo specchio
della verità essenziale dei trenta superstiti.
Il viaggio si conclude con la scoperta della
identità e unità dell'anima con il Principio
Universale
Il ritorno all'origine comporta quindi una strage
di egoismi e falsi attributi umani. Il viaggio si
realizza, come l'upupa aveva annunciato e
descritto, attraversando sette ardue valli, e ciò
che sopravvive deve annichilirsi per poter
rinascere ad una vera Coscienza. Le valli,
simbolo delle tappe dell'evoluzione interiore,
sono quelle della Ricerca, dell'Amore, della
Conoscenza, del Distacco, dell'Unificazione,
dello Stupore, della Povertà. I dialoghi sono
inframmezzati da racconti aneddotici che
rinforzano il carattere didascalico e sapienziale
del poema.
Riporto brevemente qualche passo solo per dare
una idea del suo tenore.
Parla l'upupa:                                                                                      
"Amici uccelli, in verità io sono il messaggero
del divino, l'inviato dell'invisibile…io ebbi
udienza un giorno da Salomone e per questo
divenni eminente tra i suoi sudditi…noi abbiamo
un re senza rivali che vive oltre la montagna di
Qaf. Il suo nome è Simurgh ed è il sovrano di
tutti gli uccelli. Egli ci è vicino ma noi siamo ad
una distanza infinita da lui… La sua dimora è
protetta da gloria inviolata. Il suo nome non è
accessibile a ogni lingua… Se vi avrò come
compagni sarete a corte i più intimi confidenti
del re. Liberatevi dalla vostra miope
presunzione! Chi mette in gioco la vita per lui si
libera da se stesso, sulla via dell'amato egli va al
di là del bene e del male. Abbandonate la vostra
vita e iniziate il cammino, avvicinatevi a quella
corte a passo di danza!
I pretesti di tutti gli uccelli:
Noi che siamo una turba di deboli e inetti, privi
di penne e di ali e di corpo e di spirito, come
potremo giungere sino al nobile Simurgh se non
in virtù di un miracolo? Quale relazione può
esistere tra noi e lui? Se davvero esistesse un
rapporto tra noi, non dovremmo forse desiderare
di cercarlo? Egli è come Salomone, noi siamo
miserabili formiche: considera attentamente il
suo rango e commisuralo al nostro. Una formica
precipitata nel fondo di un pozzo può forse
giungere a Simurgh contando sulle sue forze? E
perché mai un principe dovrebbe divenire amico
di un miserabile?
L'upupa così rispose.
O inconcludenti! Da cuori a tal punto inariditi
come potrà stillare autentico amore? Miserabili
creature, fino a quando durerà la vostra ignavia?
Passione e aridità non possono coesistere e
chiunque aprì gli occhi all'amore andò a giocarsi
la vita a passo di danza.
Ecco, le immagini del Popolo Migratore,
mostrano che questi antichi poeti, sapevano
osservare la Natura molto bene, al punto da
trarne simbologie universali. Sapevano molto
bene che il cuore umano, in quanto contenente
un atomo di assoluto, va osservato come
fenomeno naturale.
Il viaggio è una prova davvero dura", dice la
voce narrante mentre le immagini mostrano
scene di abbattimenti da cacciatori e carcasse
scheletrite nel deserto. Le danze rituali delle gru
e degli altri uccelli riempiono i luoghi delle loro
soste, lungo le rotte del viaggio, come chi si sia
affidato alla forza naturale dell'amore. La
classica formazione di volo a cuspide delle oche,
che l'operatore riesce a farci seguire come se
fossimo uno di loro, toglie ben poco alla fatica
meccanica del viaggio ma dona tutto dal lato
essenziale dell'energia solidale del gruppo che
avanza verso una meta di un altro continente.
Quando al fine le oche ritornano al luogo da
dove sono partite la voce narrante dichiara: "La
promessa del ritorno è stata mantenuta". Non
tutte sono tornate. Forse sono più di trenta su
centomila e viene spontaneo chiedersi se noi,
esseri evoluti, siamo in grado di riconoscere e
mantenere le promesse verso il nostro destino,
affrontando decimazione e morte simbolica.
Attar vuole ricordare a tutte le genti delle epoche
susseguenti che l'uomo ha un destino naturale
più arduo, percepibile solo con il cuore, che non
può non affrontare.
Le sue promesse sono state pronunciate in altri
luoghi.
Il popolo dell'uomo ha itinerari lungo altri
mondi.
Il popolo dell'uomo vola con le ali del cuore.
La meta del suo ritorno è tra le stelle.
Chi ha avuto la fortuna di leggere il capolavoro
di Wofram von Eschenbach, non può fare a
meno di
non collegare Simurgh con Anfortas : anche se in
maniera non del tutto identica, la matrice è più
che
evidente, oltre che all’esoterista, anche ad un
attento osservatore.
Ma permettetemi di parlare ancora del poema di
Attar, pieno di immagini su fiche che riempiono
le sue pagine con aneddoti di antichi saggi,
includendo altresì il famoso Khidr, la guida
nascosta dei sufi.
Gli uccelli, che rappresentano l’umanità,
vengono raggruppati da un’upupa, il sufi, che
propone loro di partire alla ricerca del loro
misterioso re. Questi, come abbiamo detto si
chiama Simurgh e vive sulla montagna di Qaf ( e
qui possiamo fare riferimento a Montsalvage di
Wolfram V.E. nel Parzival ).
Ogni uccello, dopo l’iniziale accettazione del
sapere dell’esistenza del re, inizia ad avanzare le
proprie scuse perché lo esonerino dal prendere
parte al viaggio per cercare il re nascosto.
L’upupa, dopo aver ascoltato le lamentele di
tutti, replica con una favola che illustra come sia
inutile preferire quello che si ha o si può avere a
quello che si dovrebbe avere.
Tornando quindi alle radici del Graal, oltre a
quanto abbiamo detto finora, non va dimenticato
il fratello di Parzival, che suo padre ebbe in
Oriente…né va dimenticato altresì che nell’opera
di Wolfram, il Graal è una pietra, che le frequenti
traduzioni chiamano ( in modo storpiato ) “ lapsit
exillis “. E’ in virtù di questa pietra che la fenice
si riduce in cenere, ma dalla cenere rinasce alla
vita; è grazie a questa pietra che la fenice si
trasforma per riapparire in tutto il suo splendore,
più bella che mai….”Questa pietra ( dice
Wolfram ) dà all’uomo una tale forza che le sue
ossa e la sua carne ritrovano subito la loro
giovinezza : Viene anche chiamata Graal “ .
Non posso fare a meno perciò, di proporvi questi
passi così attinenti a quanto abbiamo detto, tratti
appunto dal Parzival di 
Wolfram Von Eschenbach :

“ Vive là una schiera armata,
vi dirò del loro cibo.
E' una pietra che li nutre,
di una specie molto pura.
Se voi nulla ne sapete                                                   
vi dirò come si chiama:
è il suo nome lapsit exillis.
Per virtù di quella pietra
la fenice si distrugge
e rinasce dalle ceneri.
Così muta la fenice
e risplende molto chiara
ed è più bella di prima.
Non c'è un uomo sì malato
che un dì guardi quella pietra
e che muoia in sette giorni.
Per lui resta fermo il tempo,
il suo aspetto più non cambia,
e se guarda quella pietra,
fosse anche per due secoli,
poi rimane esteriormente
come era in gioventù,
solo che incanutisce.
Questo avviene a donne e a uomini.
Quella pietra dona all'uomo
una forza così grande
che il suo corpo resta giovane.
E' una pietra il Santo Graal:
vi discende un messaggero
che le dà virtù sublime.
Ecc…

Qui è facilmente ipotizzabile che la definizione
originaria fosse “ lapis e coelis “, cioè “ pietra
caduta dal cielo “, secondo un’etimologia
riconducibile alla tradizione della Cabala e della
Mecca.

di Mario Madia - tratto dal N° 6 di Lex Aurea



Powered By Blogger