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domenica 14 novembre 2010

L'eurasiatista a cavallo

Baron Ungern-Sternberg
Articolo di Claudio Mutti                                                    
In un discorso tenuto ad Amburgo il 28 aprile 1924, Oswald Spengler rievocò la figura del barone von Ungern-Sternberg, che quattro anni prima aveva allestito un esercito “con il quale in breve tempo avrebbe avuto saldamente in pugno l’Asia centrale. Quest’uomo – disse Spengler - aveva legato incondizionatamente a sé la popolazione di vaste regioni, e se avesse voluto prendere l’iniziativa e la sua eliminazione non fosse riuscita ai bolscevichi, non ci si può figurare come risulterebbe già oggi l’immagine dell’Asia” (1). Il barone Ungern-Sternberg era già passato alla storia. E alla leggenda.
Dal noto libro di Ferdinand Ossendowski Bestie, uomini e dèi (2) alle biografie romanzate di Vladimir Pozner (3) e Berndt Krauthoff (4), che attrassero rispettivamente l'attenzione di René Guénon (5) e di Julius Evola (6); dal film sovietico Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Aleksandr Zarchi e Josif Chejfiz (con Nikolaj Cerkasov nei panni dell'eroe negativo Ungern) ai fumetti di Hugo Pratt (7) della serie “Corto Maltese”; dai romanzi di Jean Mabire (8) e di Renato Monteleone (9) fino alla pittura dell'artista siberiano Evgenij Vigiljanskij, la leggenda del "barone sanguinario" ha continuato ad esercitare il suo fascino. Nella Russia di oggi, dove Leonid Juzefovich (10) ha pubblicato la più recente biografia del Barone, il mito di Ungern è particolarmente vivo presso le correnti eurasiatiste e neoimperiali, che guardano a questo personaggio come ad un loro precursore (11).
Secondo la Grande Enciclopedia Sovietica, Roman Fedorovic Ungern von Sternberg nacque il 10 (22) gennaio 1886 nell’isola di Dago (oggi Hiiumaa Saar, in Estonia) e morì il 15 settembre 1921 a Novonikolaevsk (oggi Novosibirsk). Alcune fonti “occidentali”, invece, lo fanno nascere il 29 dicembre 1885 in Austria, a Graz; per quanto riguarda la morte, oscillano tra il 17 settembre e il 12 dicembre del 1921 e propongono ora Novonikolaevsk ora Verkhne-Udinsk (Ulan Ude, tra la riva sudorientale del Baikal e il confine mongolo).
In ogni caso, la famiglia del barone Roman Fedorovic (imparentata tra l’altro con quella del conte Hermann Keyserling) apparteneva alla nobiltà baltica di lingua tedesca ed era presente sia in Estonia sia in Lettonia: nel 1929 un esponente della famiglia rievocava le sue vicissitudini a Riga, nel periodo dell’invasione bolscevica (12). Il Genealogisches Handbuch des Adels si occupa estesamente degli Ungern-Sternberg (13), individuandone il capostipite in un Johannes de Ungaria (“Her Hanss v. Ungernn”), la cui esistenza è attestata in un documento del 1232. Sul dato dell’origine magiara si innestarono alcune leggende: una ricollegava gli Ungern agli Unni, un’altra li faceva discendere da un nipote di Gengis Khan che nel XIII secolo aveva cinto d’assedio Buda.
E appunto dal fondatore dell’impero mongolo Roman Fedorovic avrebbe ereditato un anello di rubino con la svastica, mentre, stando ad un’altra versione, glielo avrebbe consegnato il Qutuqtu, il Buddha Vivente di Urga, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo.
Compiuti gli studi al Ginnasio di Reval, il Barone frequentò la scuola dei cadetti di San Pietroburgo; nel 1909 trascorse un breve periodo con un reggimento di cosacchi di stanza a Cita, in Transbaikalia, poi si diresse verso la Mongolia. Qui, grazie all'affiliazione buddhista che gli era stata trasmessa dall'avo paterno, Roman Fedorovic poté entrare in rapporto col Buddha Vivente. Nel 1911, quando i Cinesi vengono cacciati dalla Mongolia e il Buddha Vivente diventa il sovrano del paese, il Barone riceve un posto di comando nella cavalleria mongola. In quel periodo, un oracolo sciamanico gli rivela che in lui si dovrà manifestare una divina potenza guerriera.
Nel 1912 Roman Fedorovic è in Europa. Allo scoppio del conflitto, abbandonando Parigi per accorrere sotto i vessilli dello Zar, il Barone conduce con sé una fanciulla di nome Danielle, la quale perirà in un naufragio sul Baltico. Nel 1915 combatte in Galizia e in Volinia, riportando quattro ferite e guadagnando due altissime onorificenze: la Croce di San Giorgio e la Spada d'Onore. Nel 1916 è sul fronte armeno, dove ritrova l'Atamano Semenov, che aveva conosciuto in Mongolia. Nell'agosto del 1917, dopo essere andato a Reval per organizzarvi alcuni distaccamenti di Buriati da impiegare contro i bolscevichi, Ungern raggiunge Semenov in Transbaikalia; qui diventa il capo di Stato Maggiore del primo esercito "bianco" e organizza una Divisione Asiatica di Cavalleria (Aziatskaja konaja divizija) in cui confluiscono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi. La Divisione Asiatica di Cavalleria opera per tutto il 1918 nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria.
Dopo l'evacuazione giapponese della Transbaikalia, la successiva occupazione cinese della Mongolia e l'instaurazione di un soviet "mongolo" sotto la direzione di un ebreo di nome Scheinemann e di un pope rinnegato di nome Parnikov, il generale Ungern si dirige verso la Mongolia alla testa dei suoi cavalieri. Il 3 febbraio 1921 investe Urga, costringendo alla fuga la guarnigione cinese, facendo a pezzi un rinforzo nemico di seimila uomini e spazzando via il soviet locale. Il Buddha Vivente Jebtsu Damba, liberato dalla prigionia e reintegrato nel suo regno, conferisce a Ungern, che d'ora in poi sarà Ungern Khan, il titolo di "Primo Signore della Mongolia e Rappresentante del Sacro Monarca". Il terzo gerarca del Buddhismo lamaista riconosce in Ungern una cratofania procedente dal suo medesimo principio spirituale.
Ungern aveva dichiarato fin dal 25 febbraio 1919, alla Conferenza Panmongola di Cita, la propria intenzione di restaurare la teocrazia lamaista, creando una Grande Mongolia dal Baikal al Tibet e facendone la base di partenza per una grandiosa cavalcata verso occidente, sulle orme di Gengis Khan. Il vero scopo di Ungern Khan non era infatti una pura e semplice distruzione del potere sovietico, ma una lotta generale contro il mondo nato dalla Rivoluzione Francese, fino all'instaurazione di un ordine teocratico e tradizionale in tutta l'Eurasia. Ciò spiega da un lato la scarsa simpatia di cui Ungern godette presso gli ambienti "bianchi", dall'altro, il vivo interesse che il suo progetto suscitò anche al di fuori delle cerchie lamaiste, in particolare presso gli ambienti musulmani dell'Asia centrale.
La cattura del Barone
Rivestendo la tunica gialla sotto il mantello di ufficiale imperiale, alla testa di un'armata a cavallo che innalza come propria insegna il vessillo con lo zoccolo e lo svastica, il 20 maggio del 1921 Ungern Khan lascia Urga e penetra in territorio sovietico presso Troitskosavsk (Kiakhta), travolgendo le difese bolsceviche. Quindi impartisce l'ordine apparentemente insensato di eseguire una conversione verso occidente e poi verso sud, in direzione dell'Altai e della Zungaria. La sua intenzione, secondo quanto lui stesso dichiara al suo unico amico, il generale Boris Rjesusin, è di attraversare il Hsin Kiang per raggiungere la fortezza spirituale tibetana. "Egli -scrive Pio Filippani Ronconi- mosse solitario verso una direzione che non aveva più rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensì di ricollegarsi, prima di morire, con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo"(14).
Il 21 agosto il predone calmucco Ja lama, dopo avere ospitato Ungern nella propria yurta, lo consegna ai "partigiani dello Jenisej" di P.E. Shcetinkin. Il generale Bljucher, comandante dell'esercito rivoluzionario del popolo della repubblica dell'Estremo Oriente e futuro Maresciallo dell'URSS, cerca invano di convincerlo ad entrare nell'esercito sovietico. Il 15 settembre Ungern viene processato a Novonikolaevsk dal tribunale straordinario della Siberia. Riconosciuto colpevole di aver voluto creare uno Stato asiatico vassallo dell'Impero nipponico e di aver preparato il rovesciamento del potere sovietico per restaurare la monarchia dei Romanov, è condannato a morte per fucilazione.
L'anello con la svastica sarebbe entrato in possesso di Bljucher. Si dice che, dopo la fucilazione di quest'ultimo, avvenuta nel 1936, esso sia passato nelle mani del Maresciallo Zhukov.

1 O. Spengler, Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, p. 63.
2 F. Ossendowski, Bêtes, Hommes et Dieux, Plon, Paris 1924.
3 V. Pozner, Le mors aux dents, Denoël, Paris 1937.
4 B. Krauthoff, Ich befehle. Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1938. Questo libro, come pure quello di Pozner, rielabora i dati forniti da un testimone: Essaul Makejev, Bog voiny, Baron Ungern (Il dio della guerra, il Barone Ungern), Shangai 1926.
5 R. Guénon, Rec. in Le Théosophisme, Éditions Traditionnelles, Paris 1978, pp. 411-414.
6 J. Evola, Rec. in Esplorazioni e disamine. Gli scritti di "Bibliografia Fascista", vol. I, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1994, pp. 249-253.
7 Il Barone Ungern è anche uno dei personaggi principali del romanzo di Hugo Pratt Corte Maltese. Corte Sconta detta Arcana, Einaudi, Torino 1996.
8 J. Mabire, Ungern, le dieu de la guerre, Art et Histoire d'Europe, Paris 1987.
9 R. Monteleone, Il quarantesimo orso, Gribaudo, Torino 1995.
10 L. Juzefovich, Samoderzhec pustyni (L'autocrate del deserto), Ellis luck, Moskva 1993.
11 Ungern Khan: un “eurasista in sella”? Questo il titolo che Aldo Ferrari ha dato a un paragrafo del suo studio sulle correnti eurasiatiste russe, che si conclude riconoscendo come il barone Ungern-Sternberg “sia divenuto nella cultura russa post-sovietica una sorta di personaggio totemico della rinascita eurasista, perlomeno della sua tendenza radicale ed esoterica” (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 240). Aldo Ferrari cita poi queste parole dell’esponente più noto dell’eurasiatismo russo odierno, Aleksandr Dugin: “In Ungern-chan si unirono nuovamente le forze segrete che avevano animato le forme supreme della sacralità continentale: gli echi dell’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla Tradizione Orientale, il significato geopolitica della Mongolia, patria di Cingischan” (A. Dugin, Misterii Evrazii, Moskva 1996, p. 96). (Già nel 1991, con lo pseudonimo di “Leonid Ochotin”, Aleksandr Dugin aveva pubblicato sul n. 1 di “Giperboreja”, pp. 87-92, un articolo su Ungern Sternberg: Bezumny bog voiny). A paragone di questa immagine di Ungern Khan, appare alquanto infelice, perché riduttivo e banale, il titolo sotto il quale sono stati recentemente raccolti in Ungheria alcuni scritti di autori vari concernenti il personaggio in questione: Az antikommunista. Roman Ungern-Sternberg barorol. Valogatott tanulmanyok [L’anticomunista. Sul barone Roman Ungern-Sternberg. Studi scelti], Nemzetek Europaja Kiado, Budapest 2002.
12 A. v. Ungern-Sternberg, Unsere Erlebnisse in der Zeit der Bolschewiken Herrschaft in Riga vom 3. Januar bis zum 22. Mai 1919, Kommissions Verlag von Ernst Plates, Riga 1929.
13 Genealogisches Handbuch des Adels, bearbeitet unter Aufsicht des Ausschusses fur adelsrechtliche Fragen der deutschen Adelsverbande in Gemeinschaft mit dem Deutschen Adelsarchiv, Band 4 der Gesamtreihe, Verlag von C.A. Starke, Glucksburg/Ostsee 1952, pp. 457-479. Nel 1884 apparve in Germania una pubblicazione specificamente dedicata agli Ungern-Sternberg (Nachrichten uber des Geschlecht Ungern-Sternberg), che riproduceva stemmi, insegne e firme autografe dei vari membri della famiglia.
14 P. Filippani Ronconi, Un tempo, un destino, "Vie della Tradizione", n. 82, aprile-giugno 1991, p. 59.

Inserita il 12/10/2005  in http://www.claudiomutti.com






Pio Filippani Ronconi ed il Barone Ungern - Sternberg

                                                                           
Il barone baltico (ma nato a Graz, in Austria, il 22 gennaio 1886) Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg è uno di quei personaggi che sembrano usciti dalla fantapolitica o da un fumetto di Hugo Pratt (cosa, quest’ultima, realmente avvenuta), nel senso che, in essi, la realtà storica pare abbia superato la fantasia di un romanziere.
Buddista, nemico giurato del bolscevico, nel caos della guerra civile russa si mise a capo di un esercito mongolo con l’obiettivo di ricacciare i Rossi non solo da Urga (oggi Ulan Bator), ma, possibilmente, dall’intero Estremo Oriente, se non da tutta la Siberia; e finì tragicamente, sconfitto e fucilato, il 15 settembre del 1921, al termine di una epopea travolgente e rapidissima che pare uscita dalle saghe degli antichi Mongoli di Gengis Khan.
Se sono relativamente pochi i lettori comuni che hanno letto le imprese di von Ungern-Sterbnerg sui libri di storia, visto che la sua vicenda riguarda un episodio tutto sommato marginale di una vicenda pochissimo conosciuta in Occidente, in compenso non sono pochi i cultori di esoterismo che si sono imbattuti nel suo nome leggendo il classico libro di Ferdinand Ossendovskij «Bestie, uomini, déi», nel quale il “Barone Nero” - così veniva significativamente chiamato - compare in veste di risoluto capo militare investito di una missione religiosa e quasi mistica: spazzare via il bolscevismo dall’Asia e restaurare la gloria e la potenza perdute dell’Impero mongolo.
Personaggio assolutamente impresentabile nel salotto buono della cultura politicamente corretta, il barone von Ungern-Sternberg. Figuriamoci: perfino gli storici di parte borghese lo hanno sempre trattato da sadico pazzo; si può solo immaginare come lo abbiano descritto quelli di sinistra e specialmente quelli della parrocchia marxista.
Se poi si aggiunge che Ungern-Sternberg carezzò, ad un certo punto, il progetto di restaurare la dinastia Quing sul trono del Celeste impero cinese e che, per soprammercato, era un convinto antisemita e pensava, pare seriamente, ad una «soluzione finale» “ante litteram” del problema ebraico in Estremo Oriente e in tutta l’Asia, si avrà un quadro abbastanza terrificante dell’effetto che fa pronunciare anche solo il suo nome tra studiosi “perbene”.
Sadico e pazzo? Può darsi. Ma, in quanto al sadismo, non si dimentichi che, nella guerra civile russa, si videro altri capi di eserciti, e non solamente “bianchi” ma anche “rossi”, macchiarsi di ogni sorta di atrocità: dall’impalamento dei prigionieri al “passatempo” di gettarli, ancor vivi, nelle caldaie accese delle locomotive. E, in quanto alla pazzia, era proprio sano di mente (e, se sì, peggio ancora) l’ebreo Grigorij Zinoviev, braccio destro di Lenin, allorché calcolava doversi eliminare fisicamente un dieci per cento della popolazione russa, vale a dire una decina di milioni di persone, prima di poter stabilire in quel Paese il Paradiso marxista?
Ma la storia, si sa, la scrivono i vincitori; e: «Vae victis!», «Guai ai vinti!», ammonivano già gli antichi Romani, che di queste cose se ne intendevano parecchio. I Bianchi sono stati sconfitti e con loro i Kolčak, i Semënov e gli Ungern-Sternberg: dunque, perché mai non gettare sulle loro spalle tutta intera la responsabilità della guerra civile del 1918-21 e anche di tutte le belluine atrocità che, nel corso di essa, vennero perpetrate da ogni parte?
Per esempio, il liberale Nathaniel Peffer, già docente alla Columbia University (in: «L’Estremo Oriente»; titolo originale: «The Far East», University of Michigan Press, 1958; traduzione italiana di Gianfranco Faina, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 281), così si esprime:
«L’alternativa [al dominio cinese sulla Mongolia Esterna] si presentò nella persona del barone von Ungern-Sternberg, un nobile russo bianco, letteralmente pazzo: una figura pazza e macabra, con tratti pronunciati di sadismo. Si considerava un moderno Gengis Khan, destinato alla sacra missione di estirpare il bolscevismo e, al tempo stesso, di stabilire un nuovo impero mongolo. Di Gengis Khan Ungern aveva il talento di massacratore e di torturatore, ma non il suo genio militare, la capacità amministrativa e l’intelligenza. Dopo un fortunato attacco contro i cinesi, il russo si impadronì di Urga dove stabilì la sua base, aiutato dai mongoli, che non conoscendo ancora Ungern, lo preferirono ai cinesi. Ungern iniziò il suo governo punteggiandolo di assassinii indiscriminati: finché venne catturato dalle forze bolsceviche e condannato a morte.»
Una presentazione, come si vede, quasi caricaturale, che ricorda più l’enfasi drammatica di un moralista come Tacito (o, in versione più moderna, di un Émil Cioran) che la pacata analisi politica di Erodoto o, in genere, di uno storico che voglia realmente comprendere i meccanismi profondi degli eventi e non si accontenti di tracciare sulla tela del proprio racconto qualche pennellata ad effetto, sempre gradita a quel consumatore di emozioni forti che si annida anche in fondo al più razionale appassionato di storia…
Bene; ma se questo è l’atteggiamento della cultura “comme il faut” nei confronti di Ungern-Sternberg, c’è qualcosa che ha il potere di mandare ancora più in bestia gli intellettuali politicamente corretti, specialmente quelli di casa nostra: abituati - per una lunghissima tradizione che risale almeno a Francesco Petrarca - a mangiare nella greppia dei potenti e a dire e scrivere solo ciò che fa loro piacere.
E questo qualcosa è che un serio cultore italiano di orientalistica, un eminente studioso di sanscrito e di culture dell’India antica, abbia levato addirittura un elogio alla figura e alle gesta del “barone pazzo”; e che, nella propria vita, abbia cercato, in certo qual senso, di farne rivivere lo spirito, arruolandosi volontario, con l’animo assolutamente “puro” di un crociato medievale, nelle SS hitleriane durante la seconda guerra mondiale.

PIO   FILIPPANI   RONCONI
                                                                                  

Un personaggio così è tanto politicamente scorretto, che sembra quasi impossibile sia esistito veramente e che non sia, piuttosto, il parto di una surriscaldata fantasia dadaista o surrealista. Invece è esistito davvero ed è stato, lo ripetiamo - piaccia o non piaccia ai signori intellettuali, tutti rigorosamente progressisti e antifascisti - uno dei nostri maggiori indologi e storici delle religioni orientali: Pio Filippani-Ronconi.
Le sua foto giovanile, che lo ritrae in uniforme delle SS, con l’elmetto tedesco sopra lo sguardo ascetico, perso in chissà quali rarefatte, mistiche lontananze, è quanto di più politicamente imbarazzante si possa immaginare: roba da far saltare sulla sedia e da far venire i capelli bianchi a tutto il severo coro dei censori e moralisti di casa nostra. Anche e soprattutto per l’evidente idealismo dell’ancor giovanissimo personaggio: perché, se non era un pazzo criminale (come il suo idolo Ungern-Sternberg), allora vorrebbe dire che perfino tra le “Schutzstaffeln” non vi erano solo dei pazzi criminali, ma anche degli idealisti.
E ciò contrasta irrimediabilmente, insopportabilmente con la Vulgata culturale del Pensiero Unico, secondo la quale mai come nella seconda guerra mondiale si sono visti così nettamente separati i torti e le ragioni: con tutti i “buoni” da una parte (guarda caso, quella che ha vinto e che ancora oggi scrive i libri di storia) e tutti i “cattivi” dall’altra…
Se così non fosse, allora bisognerebbe rivedere non solo i fatti, ma anche tutte le categorie di giudizio finora riconosciute; bisognerebbe ammettere, niente di meno, che non tutti i “buoni” erano veramente buoni, e che forse non tutti i “cattivi” erano proprio così perfidamente cattivi: con buona pace della categoria marxista di ciò che si definisce come ”oggettivamente” progressista o reazionario, e che non ammette alcuno spazio per le intenzioni ideali dell’individuo, ma giudica ogni atto politico con il metro esclusivo e impersonale della lotta di classe e degli effetti evidenti “a posteriori”.
Del resto, non è stato in questo modo che il Partito Comunista ed i suoi volonterosi intellettuali, tipo Concetto Marchesi, hanno sempre sostenuto la perfetta liceità dell’assassinio politico di un vecchio filosofo inerme, che tanto si era adoperato per salvare Ebrei e partigiani arrestati dai nazifascisti: quel Giovanni Gentile che, nella livida Firenze del 1944, si ostinava a parlare di riconciliazione nazionale e chiamava gli Italiani a raccolta, al di là delle barriere ideologiche, per fronteggiare tutti insieme l’immensa sciagura della doppia invasione straniera e della catastrofica sconfitta, e per cercare le strade della ricostruzione morale e materiale?
Ed ecco il ritratto di von Ungern-Sternberg delineato da Filippani-Ronconi; lo proponiamo anche perché il lettore possa stabilire un confronto con il precedente e per trarne da sé le proprie conclusioni (ne riportiamo la sola parte iniziale, tratta dal sito di Arianna Editrice, in data 03/01/2007):  
«Sessantasei anni fa, all’alba del 17 settembre 1921, cadeva fucilato a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo, il comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Roman Fiodorovic Ungern-Sternberg, ultimo difensore della Mongolia “esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la morte del “Barone pazzo” nulla più si opponeva al dilagare dell’esercito sovietico di Blücher nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della Rivoluzione si concludeva.
L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione non ebbero, in fondo, un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della Guerra Civile, specialmente dopo il crollo dell’esercito bianco di Kolcak che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente cessato di esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito, formato da Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari Tibetani e Guardie Bianche di ogni provenienza,era soprattutto di natura spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una corrente tantrica facente capo allo Hutuktu di Ta-kuré e suo braccio militare durante l’anno in cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio, cioè sin dalla Conferenza pan-mongola di Cita del 25 febbraio 1919, dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore dell’Asia, “affinché da lì partisse la vasta liberazione del mondo”. La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile. Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente, oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsing-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si sarebbe attuata la rigenerazione del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”). Shambhala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba- Bzan-po e i suoi 24 successivi eredi perpetuavano il segreto insegnamento del Kalacakra, la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500 anni fa.
2500 anni fa è esattamente la metà del ciclo di 5000 che, secondo la tradizione, separa l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre, Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo Maitreya, figura probabilmente mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore” (difatti l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe “seduto al modo barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso Hutuktu di Urga, che Ungern liberandolo dai Cinesi, aveva ristabilito sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato quale proiezione fisica (sprul-sku) di Maitreya, prefigurazione, quindi, del Buddha venturo. Ungern, consapevole nonostante questa vittoria della sua fine imminente, si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale”del divenire della storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino in basso. Pertanto, nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio all’11 luglio 1921) cercò di tramutare questo istante in un “periodo senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera spirituale, liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la Cina dei “Signori della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva inarrestabile dal Nord, dalla Siberia…»
Ecco una lettura “diversa” da quella banalmente politico-militare, cui fanno riferimento pressoché tutti gli storici, di destra e di sinistra, che si sono occupati, in genere assai distrattamente, della vicenda di Ungern-Sternberg, vista come una semplice appendice della più vasta guerra civile tra Bianchi e Rossi nell’ex Impero zarista.
Si potrà dissentire fin che si vuole; si potrà obiettare che Filippani-Ronconi idealizza e sopravvaluta il suo beniamino; si potrà osservare che non tiene in alcun conto i fattori economici e sociali della lotta e che si abbandona a delle fumisterie mistico-esoteriche. Sta di fatto, però, che, nella sua lettura del “fenomeno” Ungern-Sternberg, si tenta, almeno, uno sforzo di comprensione profonda del personaggio e del suo movimento, oltrepassando la semplice descrizione esteriore, meramente psicologica e, al limite, psichiatrica, di cui abbiamo fornito un esempio nel brano di prosa di Nathaniel Peffer sopra riportato.
Il minimo che si possa dire, infatti, di un approccio puramente politico-militare alla vicenda di Ungern-Sternberg, è che esso pecca di povertà interpretativa e di schematizzazione ideologica. Che cosa significa, ad esempio, affermare - come ha fatto Peffer - che «… Dopo un fortunato attacco contro i cinesi, il russo si impadronì di Urga dove stabilì la sua base, aiutato dai mongoli, che non conoscendo ancora Ungern, lo preferirono ai cinesi»? Possibile che i Mongoli lo abbiano accolto come un liberatore e che lo abbiano sostenuto, semplicemente perché «ancora non lo conoscevano», cioè non conoscevano la sua follia e il suo sadismo? Via, questo non è un ragionare da storico, ma un fraseggiare da romanziere.
Il fatto è che la visione materialistica e razionalistica della storia si preclude da se stessa l’intima comprensione della dimensione spirituale di essa; e, così come riduce la storia delle religioni a mera psicopatologia delle folle e a mistificazione deliberata dei preti, parimenti non riesce a vedere, in figure religiosamente ispirate come quella di Ungern-Sternberg, che l’aspetto esteriore, magari sconcertante o grottesco, sicché le sfuggono le intime motivazioni e le profonde dinamiche della connessione tra storia politica e storia dello spirito.
Vogliamo piuttosto avere l’onestà intellettuale di dire che, a molti di noi, non piace quel tipo di religiosità, perché difforme dai comodi schemi occidentali che, ormai da tanto tempo, ci siamo costruiti in proposito, sempre nella pretesa di spiegare tutto e razionalizzare tutto?
E vogliamo avere l’onestà intellettuale di dire che, davanti a uno studioso come Pio Filippani-Ronconi, molti di noi proprio non riescono a digerire l’idea che nel 1943, per un giovane poco più che ventenne, l’arruolamento volontario nelle SS hitleriane possa essere scaturito da un sincero, per quanto discutibilissimo, atto di fede spirituale?
Solo così si spiega la bigotta gazzarra che alcuni lettori de «Il Corriere della Sera» scatenarono nel gennaio 2001, quando uno di loro scoprì che Filippani-Ronconi, chiamato a collaborare con un paio di articoli a quella testata, aveva militato nelle SS tedesche quasi sessant’anni prima. Nulla da dire, peraltro, sulle onorate firme di decine di ex scribacchini fascisti che nel 1945, con il “salto della quaglia”, passarono senza batter ciglio nella stampa e nell’editoria democratiche e progressiste, il più delle volte all’ombra dello staliniano Partito Comunista d’Italia.
A ben guardare, la vicenda politica di Ungern-Strernberg e quella intellettuale di Filippani-Ronconi hanno una cosa in comune: la ribellione contro la modernità e la ricerca, nelle profondità dello spazio euroasiatico (simboleggiato dal mito dei Shambhala, sede del guénoniano “Re del Mondo”), di una alternativa spirituale al suo dilagare.
È una chiave interpretativa che può non piacere, ma che ha una sua plausibilità e, soprattutto, una sua dignità intellettuale e spirituale.
In fondo, come diceva Julius Evola, non si tratta forse, in questo scorcio oscuro della modernità, di “cavalcare la tigre”, ovvero di lottare nel cavo fra due onde della storia, allo scopo di isolare un istante fuori del tempo su cui fare perno per ridestare le assopite, ma sempre intatte, energie spirituali, che giacciono in corrispondenza dell’Axis Mundi?
Francesco Lamendola

martedì 2 novembre 2010

ZARATHUSTRA E IL MAZDEISMO

Pio Filippani Ronconi
Pio Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo, Irradiazioni, Roma 2007


Pio Filippani Ronconi ci presenta l'esordio della "leggenda di Zarathustra" sullo sfondo di un Iran che, secondo una prospettiva squisitamente spirituale, corrisponde alla "terra centrale": quel settimo karshvar della geografia sacra mazdaica che la tradizione iranica identifica col mitico Airyanem Vaêjô. "La tradizione religiosa - egli avverte - non poteva ammettere la nascita, o la rivelazione, del Profeta, in altro luogo sulla terra che in un sito sacerrimo e puro, una specie di umbilicus mundi, ove gli archetipi divini immediatamente si riflettessero nella realtà terrena" (p. 56). In casi come questo, spiega ulteriormente l'Autore, la terminologia neopersiana ricorre all'espressione "luogo del senza-dove" (na-kojâ âbâd), tipica di una "geografia dell'anima" in cui il reperimento di regioni e contrade "è soprattutto un atto di orientamento spirituale" (p. 58). Da questa originaria sede degli Ariani, bagnata dalle acque paradisiache, il messaggio profetico primordiale si diffonderà nel territorio storico dell'Iran, fulcro del primo grande impero eurasiatico, esteso fra la Tracia ed il Turkestan.
Ad illuminare il significato metapolitico di questo impero è la stessa dottrina mazdaica. In base ad essa, le generazioni persiane successive a quelle di Ciro II e di Dario figlio d'Istaspe "ravviseranno nel Gran Re (xshâyathiya vazraka), Re dei Re (xshâyathiya xshâyathiyânâm), l'immagine riflessa sulla terra e attualizzata nel presente" (p. 82) di Yimô Xshaêtô. E' questi il Re Primordiale, epifania vivente del principio solare che discende sulla terra, il cui mito costituisce per l'Iran il fondamento della morale e della politica: "la primordiale condizione di vita celeste in terra che il mito ario attribuisce a Yimô Xshaêtô" (p. 201) è lo scopo delle lotte e delle sofferenze affrontate con animo eroico dall'uomo consapevole e responsabile. La possibilità di realizzare sulla terra l'originaria natura celeste è simboleggiata dalla figura paradigmatica del Re, il quale deriva la propria saggezza e forza dall'aureola di gloria (hvarenô) che Ahura Mazdâh gli conferisce, dopo averla tratta dalle Luci Infinite. Questo trascendente principio di luce è "la forza motrice del mondo, incarnatasi con particolare purezza nella persona del re, e, come particella divina, presente in ogni uomo" (p. 144).
Fu proprio con Zarathustra che la religione ario-iranica sviluppò "un orientamento energicamente monoteistico" (p. 191). Fra i testi avestici, infatti, sono proprio le Gâthâ (i "Canti" in cui consiste la parte più autentica del messaggio zoroastriano), quelli in cui scompare ogni residua menzione della pluralità degli dèi. Ciò consentirà all'Islam di annoverare Zarathustra nel novero dei profeti e l'Avesta tra i libri rivelati prima del Corano, sicché l'Iran ci attesta in maniera caratteristica la possibilità della Sophia perennis di esprimersi attraverso la molteplicità delle sue forme storiche.

Inserita il 21/09/2010 alle 11:48:50 http://www.claudiomutti.com/
Pubblicato su Janua Coeli il 2 Novembre 2010

sabato 13 febbraio 2010

In memoriam Pio Filippani Ronconi

12/02/10
In memoriam Pio Filippani Ronconi
Pio Filippani Ronconi
(Madrid, 10 marzo 1920 – Roma, 11 febbraio 2010)


E' stato uno storico delle religioni, conoscitore di tradizioni mistiche del vicino e dell'estremo oriente e di numerose lingue orientali (fra cui, il sanscrito, l'arabo e molti dialetti dell'India). Nato da famiglia aristocratica (Patrizi Romani e Conti del Sacro Romano Impero), allo scoppio della guerra civile spagnola rimase orfano della madre, fucilata dai repubblicani. Tornato in Italia con la famiglia, si dedicò allo studio universitario delle lingue indoeuropee e di altre lingue quali il turco, l'arabo, l'ebraico e il cinese e per questo fu più tardi impiegato all'EIAR come lettore dei radiogiornali in lingua straniera. Intanto i suoi interessi spirituali lo portarono alla pratica del Tantra e alla conoscenza di Julius Evola e di altri personaggi del Gruppo di Ur.
Allo scoppio della II guerra mondiale si arruolò volontario tra gli Arditi, e combatté in Libia. Venne ferito due volte e ricevette alcune onorificenze. Dopo la caduta di Mussolini e la fondazione della Repubblica Sociale Italiana, si arruolò con il grado di Obersturmführer ("comandante superiore assaltatore", corrispondente al grado di tenente) nella Legione SS Italiana, formazione appartenente alle Waffen SS europee e per il suo impegno nella difesa del fronte a Nettuno ricevette dal comando tedesco la Croce di Ferro.
Dopo la II guerra mondiale, fu impiegato all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio. Conobbe in questo periodo Massimo Scaligero attraverso il quale si avvicinò agli scritti di Rudolf Steiner, ma negli anni seguenti elaborò una propria visione dell'antroposofia, depurata dei suoi aspetti cristiani e focalizzata invece sugli antichi paganesimi indoeuropei, anche se in effetti già durante la guerra aveva dichiarato alle autorità militari tedesche di essere pagano (Heiden).
Nel 1959 iniziò la carriera accademica all’Istituto Universitario Orientale di Napoli dove fu assistente di Giuseppe Tucci e più tardi docente egli stesso. Della sua attività di traduzione di testi e saggi sulle tradizioni orientali resta fondamentale il volume sul canone buddhista. Parallelamente alla sua attività accademica, Filippani pone le sue capacità al servizio delle istituzioni italiane lavorando come crittografo presso il Ministero della Difesa e traduttore di lingue orientali.
Verso la fine degli anni novanta fu interrogato dalla magistratura italiana per la strage di piazza Fontana a causa di un suo intervento al convegno dell'Hotel Parco dei Principi dove lesse un suo scritto sulla controrivoluzione che si sospettava fosse stato in qualche modo utilizzato per pianificare una strategia della tensione, ma le indagini ne esclusero qualsiasi forma di coinvolgimento.
Ha anche ricevuto la laurea Honoris Causa in teologia e Scienze dell’Islam all’Università di Teheran e quella in Filosofia della Storia nell’Ateneo di Trieste. Quale docente e storico delle religioni, ha sviluppato ricerche sulle sette gnostiche in India e Tibet e sui movimenti mistici ed eterodossi nell’Islam orientale, specialmente in Persia. Ha indirizzato i propri interessi verso la fenomenologia religiosa, dello Yoga e dello Sciamanesimo, argomenti sui quali ha pubblicato vari scritti. Fra le sue attività, si ricorda la sua partecipazione alla spedizione in Marocco, promossa dalla Fondazione Ludwig Keimer, che portò alla scoperta dell’antica città di Sigilmassa.
Nel 2000 ha collaborato con il Corriere della Sera scrivendo articoli sulle filosofie orientali, ma il rapporto si interruppe quando un lettore denunciò al giornale la militanza di Filippani Ronconi durante la seconda guerra mondiale.
E' ritenuto il massimo orientalista e storico delle religioni del Novecento italiano.

Opere:
* Storia del pensiero cinese. Torino, 1964.
* Ismaeliti ed Assassini. Basilea, 1973.
* Magia, religioni e miti dell'India. Roma, 1981.
* Le vie del buddhismo. Genova, 1988.
* Vak. La parola primordiale. Quattro saggi
sui tantra. Marina di Patti, 1988.
* Il buddhismo, storia e dottrina. Roma, 1994.
* L'induismo. Roma, 1994.
* Ismaeliti ed "Assassini". Storia mistica e
metafisica di una setta che fece tremare il
Medio Oriente, Il Cerchio, Rimini 2004.
* Zarathustra e il mazdeismo. Roma, 2007.



Ha curato anche la traduzione di alcuni testi delle religioni orientali:

* Nasir-i Husraw - Il libro dello scioglimento e
della liberazione. Napoli, 1959.
* Sadi - Il roseto. Torino, 1965.
* Ummu'l-Kitab. Napoli, 1966.
* Upanisad antiche e medie, Torino, 1968.
* Canone buddista: così è stato detto (Itivuttaka).
Milano, 1995.
* Buddha: La via per la saggezza. Dhamma-Pada e discorsi. Roma, 2006, Newton


Pubblicato da Aldous a 20.35 su Il Corriere Metapolitico

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Pio Filippani Ronconi (10.3.1920 - 11.2.2010)

Pio Filippani Ronconi
Am 11. Februar verstarb Graf Pio Filippani Ronconi im 90. Lebensjahr.





Conte Pio Filippani Ronconi war einer der bedeutendsten Orientalisten Italiens, der den Lehrstuhl für Indologie an der Universität von Neapel innehatte, Fachmann für Buddhismus, Hinduismus und schiitische Gnosis (er übersetzte das berühmte Umm al-Kitâb, siehe auch: Iranische und islamische Spuren des Grals ).

Sein Standardwerk über die Ismaeliten, "Ismaeliti e "assassini": storia, mistica e metafisica di una setta che fece tremare il Medio Oriente", wurde vor wenigen Jahren wiederveröffentlicht (Il cerchio, 2004). Ende 2008 erschien in dem Band "Imperi della steppe da Attila a Ungern Khan" sein Beitrag "Un tempo un destino. Il fato singolare del barone-generale Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg".

In dem Erinnerungsband an Julius Evola "Testimonianze su Evola" berichtete unter dem Titel "Julius Evola: un destino" über seine erste Begegnung mit Evola bereits im Alter von 14 Jahren durch dessen Tantrabuch "L'Uomo come Potenza". In dem Band der Fondazione Julius Evola "Julius Evola un pensiero per la fine del millennio" (Rom 2001) war er darüberhinaus mit dem Beitrag "Julius Evola: per una impersonalità attiva" vertreten.

Bis zum Jahr 2000 schrieb er für die führende bürgerliche Tageszeitung "Corriere della Sera", bis das Bekanntwerden seiner Tätigkeit als SS-Obersturmführer der 1. Sturmbrigade der Italienischen Freiwilligen Legion zu öffentlichen Angriffen und einem inszenierten Skandal führte. Danach erschienen öfters Beiträge von ihm in "La Cittadella", der römisch-traditionalistischen Zeitschrift.



Eine ausführliche italienische Würdigung anläßlich seines Ablebens:

In onore del Conte Pio Filippani Ronconi

Zitat (unsere Übersetzung):

Er war nicht nur ein italienischer Meister der Orientalistik und der Religionsgeschichte des 20. Jahrhunderts, und ein heldenhafter Kämpfer gegen die materialistische Subversion, sowohl mit den Waffen wie mit der Feder, sondern vor allem eine große und noble Gestalt eines Meisters der Tradition und ein unsterbliches Beispiel eines aufrechten Menschen inmitten der Ruinen der modernen Welt.

Und ein Nachruf in "Il Giornale":
Pio Filippani Ronconi
Dal nazismo a Buddha: storia dello studioso che ha fatto scandalo
di Luigi Mascheroni

Grande orientalista e storico delle religioni, Pio Filippani Ronconi aveva 90 anni. Nel 2001 fu cacciato dal "Corriere" per il suo passato nelle SS.
 La sua vita fu avvolta dalle leggende, e così lo è oggi la sua morte. Tra le tante che aleggiavano attorno alla sua figura di guerriero mistico, si tramandava quella che avesse già scelto la liturgia del proprio funerale. Voleva che la bara fosse avvolta nella bandiera del Terzo Reich. È morto Pio Filippani Ronconi: l’ultimo nazista.
Probabilmente si tratta soltanto di una leggenda nera. Ma quella bandiera, se anche non ne avvolgerà la morte, avvolse buona parte della sua vita, e la memoria del suo nome da qui fino a quando sarà ricordato.
Pio Filippani Ronconi, nato a Madrid nel 1920, un «italiano all’estero» come si definiva, era un orientalista e storico delle religioni, uno dei più grandi del nostro Novecento. Un maestro che conosceva una quarantina di lingue, un accademico di rango, uno studioso che pubblicò una ventina di libri sulle culture e filosofie orientali, un «iniziato» che tradusse dal sanscrito le Upanishad. Ma era ricordato, e lo sarà sempre, perché da giovane indossò la divisa delle SS. Una scelta che non può essere cancellata da alcun percorso culturale successivo. Seppur brillantissimo. Sono scelte estreme, che si pagano, magari anche mezzo secolo dopo, come pagò Filippani Ronconi.
Anzi, il conte Pio Filippani Ronconi, nato da famiglia aristocratica, patrizi romani e conti del Sacro Romano Impero. Il padre passò la vita tra l’Italia, l’Inghilterra, i Caraibi fino in Patagonia. La madre fu fucilata dai repubblicani, in Spagna, durante la guerra civile, finita la quale il giovane caballero che in quel momento conosceva già lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il turco... tornò in Italia. Nella Seconda guerra mondiale, a vent’anni, volontario negli Arditi, è già a combattere in Africa. Durante il conflitto si copre di gloria e di almeno un paio di ferite. La più grave subito dopo l’otto settembre 1943. «Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo», ricordò in un’intervista. Ossia? «Lavare l’onta del tradimento».
Pio Filippani Ronconi per lavare l’onta si arruola con il grado di Obersturmführer - «comandante superiore assaltatore» - nelle Waffen SS italiane. Durante lo sbarco Alleato è a Nettuno, «serve» nel Battaglione degli Oddi, sotto il comando del conte Carlo Federico degli Oddi, già ufficiale delle camicie nere. Andavano a tagliare i reticolati, ci passavano sotto, sgozzavano il nemico col coltello, arma nella quale Filippani Ronconi eccelle. «Era un compito duro, non pensavamo alla gloria... era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte». Per il suo eroismo nella difesa del fronte a Nettuno riceve dal comando tedesco la Croce di Ferro. Il Léon Degrelle italiano.
E finita la guerra - durante la quale continua a studiare e (così si sussurra) avvicina anche le mitiche SS tibetane - le leggende continuano. Si interessa all’antroposofia e agli antichi paganesimi indoeuropei, approfondisce la storia delle religioni. Negli anni arriverà a conoscere anche il persiano, il pali, il cinese, lo svedese, il norreno, l’aramaico. Pratica boxe, judo, aikido. Nel 1959 inizia una carriera accademica che lo porta all’Istituto orientale di Napoli. Insegnerà Lingua e letteratura sanscrita, Dialettologia iranica, Filosofie dell’estremo oriente. Scrive e traduce testi ancora oggi fondamentali, tra i quali il volume sul canone buddhista.
Intanto, è impiegato come traduttore all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio. E collabora come crittografo con il ministero della Difesa. Ufficialmente. Ma si dice - tutta la sua vita è un «si dice» - in realtà lavori per i Servizi segreti. Non è fascista, né neofascista. Lui si è sempre chiamato «guerriero». Però nel ’65 partecipa all’Hotel Parco dei Principi di Roma al famigerato convegno sulla «guerra rivoluzionaria» organizzato dall’Istituto Pollio, centro di studi strategici dietro cui si celavano i servizi di sicurezza dello Stato. È per via del suo intervento sulla controrivoluzione che Pio Filippani Ronconi negli anni Novanta viene interrogato dalla magistratura per la strage di piazza Fontana. Le indagini ne escludono qualsiasi coinvolgimento. Ma lo spettro dell’eversione nera (e delle mai fino in fondo chiarite finalità del circolo «Urri», l’Unione rinnovamento ragazzi d’Italia, da lui fondato per occuparsi di «archeologia e controguerriglia») non lo abbandonerà mai.

Il passato, soprattutto certo passato, non passa mai. E quando Pio Filippani Ronconi, ormai riconosciuto orientalista, nel 2000 inizia a collaborare con il Corriere della sera, i fantasmi nazisti riappaiono sulla sua strada: un lettore (è la versione ufficiale, ma forse si tratta di un giornalista interno) riporta alla luce via e-mail i trascorsi SS della celebre firma. È il gennaio 2001. Sotto la direzione di Ferruccio de Bortoli, il komintern di redazione chiede la testa del «nazista» e del responsabile delle pagine culturali, Armando Torno (che già lo aveva chiamato a collaborare al Sole 24Ore insieme a Geymonat, Fortini, Cases... senza alcun problema).
Pochi mesi prima Pio Filippani Ronconi aveva ricevuto una laurea honoris causa a Trieste controfirmata dal ministro dell’Istruzione del governo Prodi, Luigi Berlinguer. Così ricorderà Pio Filippani Ronconi la polemica che per giorni tenne banco sui giornali: «L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani... sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti».

L'11 febbraio, sulla soglia dei novant'anni, è passato ad altra vita Pio Filippani Ronconi.

Combattente d'Africa e poi SS italiana si coprì di gloria sul fronte di Nettuno dove guadagnò la Croce di Ferro.
Fu insigne studioso di lingue indoeuropee, di lingue e culture orientali e di religioni, in particolare lo zoroastrismo.
Ebbe una vita costantemente esemplare e retta, un uomo di una tempra che non c'è più.
La sua anima arde nel fuoco dello Spirito.
"Sono gli Dèi che ci hanno spinto a nascere in questo momento in questa cultura e in questo popolo. E dobbiamo, in un certo modo, restituire a Loro la grazia che Essi ci hanno dato. È necessario far rinascere la nostra razza, perché la nostra razza è stata sovente confusa con una razza animale. Noi non siamo degli animali. E anche se avessimo il volto di pellirossa o di persiani o di polinesiani, noi siamo Romani, perché abbiamo, prima di nascere, eletto di essere Romani. Altrimenti non saremmo nati Romani. E anche non parlo di Roma come città, ma dico Roma come realtà spirituale."


...Ero ferito, debole, depresso: mi serviva ordine. Mi stufai di contemplare le placide acque del Lago di Garda da Salò, andai da Barracu e gli dissi: "Eccellenza, io sono un gentiluomo, il mio dovere e mestiere è fare la guerra, mi faccia raggiungere il fronte". Volevo andare in Russia. Mi incamminai verso Verona, carico di libri; un generale delle Waffen mi diede un passaggio e mi incaricò come suo ufficiale, poi anche lì dovetti insistere per combattere, con un bel discorso romantico di quelli che piacciono ai tedeschi, i quali sono semplici come dei contadinotti: "Sono un patrizio romano, devo lavare la vergogna della resa...". Entrai nel gruppo del conte Carlo Federico degli Oddi.
"Al centro di queste unità combattenti esisteva un Ordine, come quello dei Cavalieri Teutonici... Il senso terribile di devotio, di offerta spirituale di sé, era accresciuto da una vena di insegnamento esoterico, in parte derivante dalla Thule Gesellschaft, in parte dalle discipline meditative riportate in Europa dalle varie missioni delle SS in Tibet alla fine degli anni Trenta. Del resto il simbolo della doppia runa della vittoria indicava l'aspirazione verso la vittoria su se stesso e sul mondo esterno. (..)
Il battaglione aveva un organico di 653 uomini. A Nettuno perdemmo il sessanta per cento degli uomini: eravamo seicentocinquantatré, ritornammo in centoquarantasei..."


[..]perché o si vive o si muore, ma se si vive bisogna darsi un po’ da fare. Esercitarsi col fisico, esercitarsi con la mente, esercitarsi con lo spirito.

Peccato che non abbia abbracciato l'Islam pur avendolo onorato ed ammirato, i Fratelli Bosniaci lo avrebbero accolto con tripudio! (Janua Coeli - L.Abdul Nûr Cabrini).

Eines seiner letzten Interviews:
Ho avuto la possibilità di vivere la poesia. Intervista al prof Pio Filippani Ronconi.



Ein Text, erschienen in "La Citadella" (PDF): 

Pio Filippani-Ronconi, Agni-Ignis. Metafisica del Fuoco Sacro, scaricabile dall'originale in Eiserne Krone. 

Eingestellt von kshatriya um 20:04, riprodotto da Eiserne Krone

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