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lunedì 6 giugno 2011

MAGDI EXMUSULMANO ALLAM, SAPEVATE DI QUESTO?



Atto n. 4-00314
Pubblicato il 18 luglio 2006                                                    
Seduta n. 19
MALABARBA - Al Ministro dell'interno. -
Risultando all’interrogante che:

il sig. Magdi Allam, giornalista del "Corriere della Sera", nel suo ultimo libro “Io amo l’Italia, ma gli italiani la amano?” racconta che mentre si trovava per lavoro in Kuwait, nel marzo del 2003, fu contattato dal Sisde, che gli impose di lasciare quel Paese in quanto avevano “appreso di un progetto di uccidermi [Magdi Allam, cioè] di Hamas”;

questa “condanna a morte (…) decretata ai più alti vertici dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas” è stata “ispirata, raccolta, legittimata sul piano coranico e rilanciata dai loro agenti locali affiliati all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia);

secondo quanto riferito nello stesso libro dal sig. Magdi Allam, l’Ucoii unitamente alla Iadl (Islamic Anti-Defamation League), definita quest’ultima dallo stesso sig. Allam “una sorta di tribunale dell’inquisizione islamica che opera come braccio legale dell’UCOII”, sarebbero “riusciti ad assoldare nel loro plotone di esecuzione estremisti di destra e di sinistra" nonché a “spargere veleni sulla mia [di Magdi Allam] credibilità ed onorabilità”;

il sig. Magdi Allam vive scortato da carabinieri a causa di non meglio precisate minacce, tra le quali spiccano l’apertura di un sito Internet parodistico recante il suo nome che contiene una rivisitazione del “J’accuse” di Émile Zola, la lettera di un mitomane che gli scrive di aver ricevuto l’ordine di ucciderlo da un non meglio precisato uomo di Bruxelles e qualche definizione satirica e/o caustica;

preso atto che:

le segnalazioni a mezzo stampa del sig. Allam hanno cagionato l’espulsione di alcune persone, risultate poi innocenti per i fatti loro addebitati dal giornalista e reintegrate sul territorio italiano con sentenze dei Tribunali amministrativi della Repubblica;

il sig. Allam divulga frequentemente indirizzi privati delle persone che hanno opinioni contrastanti con le proprie, mettendo a rischio l’incolumità ed il privato di queste persone;

comportamenti come quelli descritti sono suscettibili di alimentare un clima di isteria collettiva che potrebbe portare al diffondersi dell’islamofobia e dell'antislamismo, denunciati nell’ultimo rapporto dell’Unione europea sul razzismo;

considerato che:

non risulta che l’organizzazione Hamas agisca al di fuori dei Territori occupati della Palestina o dello Stato d’Israele;

l’Ucoii è stata nominata con decreto ministeriale a fare parte della Consulta per l’Islam italiano, istituita dal precedente Governo, lo stesso che ha assegnato la scorta al sig. Allam perché minacciato dall’Ucoii;

la Iadl è stata definita da un Ministro del precedente Governo, l’on. Giovanardi, in risposta ad un’interrogazione, durante la seduta della Camera dei deputati n. 724 del 22 dicembre 2005: "Per quel che riguarda l'associazione Iadl (Islamic anti defamation league), costituita nel luglio scorso e con sede a Roma, segnalo che la stessa ha fra i propri fini statutari quello di difendere, nello spirito della Costituzione italiana, i musulmani e le altre minoranze presenti nel territorio nazionale. Oltretutto, si sa benissimo che gli autori degli scritti e dei comunicati diffusi dall'associazione medesima possono far uso di pseudonimi, i quali, però, debbono trovare riscontro nei libri sociali affinché sia comunque consentita l'individuazione per fini legali.";

non risultano aperti procedimenti penali a carico dell’Ucoii o della Iadl, tanto meno per l’istigazione all’omicidio del sig. Magdi Allam o altre azioni contro l’integrità dello Stato;

lo stesso Allam ha costruito svariati articoli, che non hanno trovato conferme nella realtà, basandosi su generiche “fonti dei servizi”,

si chiede di sapere:

quali siano le considerazioni che hanno spinto il Governo da un lato a nominare l’Ucoii nella Consulta per l’Islam in Italia e a difendere l’operato della Iadl in Parlamento e dall'altro a concedere la scorta al sig. Magdi Allam;

se il Ministro in indirizzo, alla luce dell’assenza di procedimenti penali scaturenti dalle gravissime denunce di persecuzione nei confronti del sig. Allam, giudichi ancora attuali i motivi che hanno portato all’assegnazione di tale scorta e in ogni caso quali sono gli attuali motivi di tale provvedimento;

quali siano i costi, sia in termini finanziari sia in termini di risorse umane, dell’apparato di sicurezza disposto per la protezione del sig. Magdi Allam;

visti i frequenti riferimenti negli articoli di Magdi Allam a non meglio precisate “fonti dei servizi”, e le recenti rivelazioni sull’esistenza di rapporti tra alcuni giornalisti e presunti elementi deviati del Sismi, se vi siano eventuali rapporti illeciti tra tali elementi deviati e il sig. Magdi Allam;

considerato che lo stesso Allam si vanta di aver ottenuto "fraudolentemente" il rinnovo del permesso di soggiorno, tale illecito potrebbe avere effetti sulla validità della successiva acquisizione da parte sua della cittadinanza italiana.

pubblicato da muamer hasanagic 

mercoledì 1 settembre 2010

Einladung zur Lailat ul Qadr und zum Grosses Dhikr

Audhu billahi mina shaitani rajim

Bismillahi r-Rahmani r-Rahim

As-salamu alaikum und Ramadan mubarak Liebe Brüder und Schwestern, Freunde, Bekannte und Interessierte,

Herzlich Willkommen! Welcome! Bienvenue! Hosgeldiniz! Ahlan wa sahlan!
Einladung zur Lailat ul Qadr und zum Grosses Dhikr
am kommenden Samstag, den 4. September
Wir sind alle Herzlich willkommen!!
Wie wir aus Zypern erfahren haben ist die Lailat ul Qadr von Samstag auf Sonntag also zum Grossen Dhikr - masha ´Allah

Ramadan mubarak
Ahmad Adamek
Haqqani Trust e.V. /Osmanische HerbergeVerein für neue deutsche Muslime Rinner Str. 1553925 Kall
http://de.youtube.com/ahmadmonschaui
http://www.osmanische-herberge.de/video.html

lunedì 12 luglio 2010

GUERRA CONTRO L'AFGHANISTAN DEI TALIBAN - DASHT-E LEILI

IL MASSACRO DI DASHT-E LEILI


                                                                         



Donald Rumsfeld Segretario alla Difesa durante l' invasione USA dell' Afghanistan. Nel corso delle trattative per negoziare la resa dei Talebani asserragliati a Mazar-i-Sharif, poichè si profilavano condizioni piuttosto miti per la resa, intervenne: "Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici".
Sette anni di lavaggio mentale mediatico ci hanno indotto a pensare ai Talebani come ad una banda di fanatici e semianalfabeti legati ad al-Qaeda e agIi attentati dell’ 11 settembre. In realtà, per la travagliata popolazione afgana, i talebani rappresentano coloro che finalmente, dopo 20 anni di guerre civili e di lotta contro l’ occupazione sovietica, seppero regalare al paese l’ unico periodo di stabilità e pace, interrotto clamorosamente ed ingiustificatamente dall’ aggressione americana e NATO.
Nel novembre del 2001, durante l' invasione americana dell' Afghanistan, varie migliaia di Talebani bersagliati dai bombardieri americani ed accerchiati dalle truppe dei "Signori della Guerra" dell' Alleanza del Nord, loro rivali storici che combattevano al fianco degli americani, si arresero alle truppe di Rashid Dostum, leader degli Uzbeki, temuto Signore della Guerra, che successivamente sarebbe diventato vice-ministro della difesa del governo Karzai. Dostum era assistito dagli uomini del 595 A-team delle Forze Speciali USA, da personale dell' esercito americano e della CIA. Dai 3000 ai 5000 prigionieri Talebani furono uccisi o fatti lentamente morire dopo la resa.



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Trent' anni di lotte
Nel 1973 un colpo di stato rovesciò la monarchia afgana e costrinse il re Zahir Shah all’ esilio. Iniziò un periodo travagliato per il paese. Nel 1978 conquistò il potere il Partito Democratico Popolare Afgano (partito socialista filo-comunista), il governo comunista fu però incapace di assicurare la stabilità al paese e questo non tanto e non solo per la nascente resistenza islamica, ma sopratutto per contrasti interni al partito stesso le cui fazioni contrapposte erano in lotta per il potere. Nel settembre 1979, il presidente Taraki, benvoluto dal popolo, fu ucciso a seguito di una congiura interna al partito, ordita dal vice primo ministro e capo della fazione rivale, Hafizullah Amin.
I sovietici decisero di incrementare l'appoggio militare pur di mantenere il governo comunista, ma, si convinsero che Hafizullah Amin era ormai un fattore di destabilizzazione dell'Afghanistan.
Il 24 dicembre 1979 l 'esercito sovietico ricevette l'ordine di invadere l'Afghanistan, tre giorni dopo le truppe entrarono nella capitale Kabul. L' Armata Rossa attaccò il palazzo presidenziale, Amin fu arrestato e successivamente giustiziato, le truppe sovietiche assunsero il controllo completo del paese.
Con l’ ingresso dei sovietici si andò però radicalizzando l’ opposizione islamica abbondantemente sovvenzionata, armata, addestrata ed appoggiata dagli Stati Uniti. Dopo nove anni di guerra, dopo aver perso quasi 14.000 uomini, ma soprattutto a causa dell’ avvento di Gorbaciov e del mutato quadro internazionale, l’ Armata Rossa abbandonò il paese. ( Non bisogna dimenticare che il ritiro dei Russi, avviene dopo il viaggio privato del miliardiario Hammer, che da Kabul si recò poi a Mosca, e di cui la stampa successivamente  non diede più notizie, sino all'avvento di Gorbaciov!! nota di Janua Coeli)
I mujaheddin si trovarono padroni dell’ Afganistan, ma i combattimenti proseguirono, questa volta tra le differenti fazioni dei mujaheddin. Le fazioni erano divise dai personalismi dei loro capi (i “Signori della Guerra”) ma soprattutto sulla base di differenze etniche profonde. L’ Afganistan è una nazione dove s’ incontrano popoli diversissimi per lingua e per etnìa: Pashtun, Tagiki, Hazari, Uzbeki, Turkmeni, popoli fieri e guerrieri che parlano lingue diverse e con tradizioni diverse. La diversità e l’ ambizione dei “Signori della Guerra”, diede vita ad un periodo di incertezza, alla disgregazione del tessuto sociale, alla spartizione del controllo della nazione.
L'irruzione sulla scena afgana dei Talebani
Nel paese devastato, i Talebani emersero come una forza in grado di portare l’ ordine e di ricostruire la società, seppure sotto la rigida etica fondamentalista. Si racconta che nella primavera del 1994, venendo a conoscenza del rapimento e dello stupro di due ragazze a un posto di blocco dei mujaheddin in un villaggio, vicino Kandahar, il locale mullah, Muhammad Omar, già veterano della resistenza antisovietica, organizzasse trenta compagni in un gruppo di combattimento e con esso riuscisse a salvare le ragazze facendo impiccare il comandante dei mujaheddin. Dopo questo incidente, sembra che gli interventi di questi religiosi-combattenti vennero sempre più richiesti dai contadini, afflitti dai soprusi dei mujaheddin.
I Talebani erano espressione del gruppo etnico Pashtun, maggioritario nel paese, ma seppero imporsi non solo con la forza ma anche stringendo alleanze con altre fazioni. S’ impadronirono dapprima di Kandahar, poi di Herat infine cinsero d’ assedio Kabul che conquistata nel 1996, fu poi perduta e di nuovo conquistata nel corso della lotta contro i Tagiki e gli Uzbeki dell’ Alleanza del Nord. Finalmente nell’ estate del 1998 i Talebani riuscirono a liberare la maggior parte del paese, tranne le estreme regioni nord orientali in cui si erano asserragliati gli ultimi “Signori della Guerra” della Alleanza del Nord.
L’ Emirato Islamico dell’ Afghanistan venne riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita ed il paese potè ritrovare unità e pace dopo trent’ anni di guerre.
Una volta al potere, i Talebani istituirono la sharia (legge islamica), che, come noto, prevede severissime pene per alcuni reati, come ad esempio l’ amputazione di una o di entrambe le mani per il reato di furto. Inoltre, poco dopo aver conquistato il potere, i Talebani vietarono la coltivazione dei papaveri da oppio. La produzione crollò da 4000 tonnellate nel 2000 (circa il 70% del totale mondiale) a 82 tonnellate nel 2001, quasi tutte raccolte nelle parti dell'Afghanistan ancora controllate dall'Alleanza del Nord. Con l’ invasione americana, alla fine del 2001, e con l’ istituzione del governo fantoccio di Karzai (soprannominato il "sindaco di Kabul" per sottolinearne la scarsissima autorità e supporto popolare in gran parte del paese) la produzione di oppio è aumentata drammaticamente ed è tutt’ ora in aumento. (vedi in questo stesso sito l' articolo di Massimo Fini "Bugie in TV sui seguaci del Mullah Omar")

L' invasione americana dell' ottobre 2001
La credenza generale è che alla richiesta da parte di Bush di consegnare i leader di al Qaeda agli Stati Uniti, i Talebani abbiano opposto un netto rifiuto. In realtà le cose non andarono proprio così.
I Talebani, giudicando che le accuse non erano sufficientemente provate per concedere questa “estradizione forzata”, proposero, in risposta, di consegnare Bin Laden al Pakistan, (paese con cui avevano sempre avuto buoni rapporti anche per la presenza dell’ etnìa Pashtun da tutte e due le parti del confine) affinchè fosse processato in un tribunale internazionale sottoposto alle leggi della Sharia.
Il 7 ottobre, poco prima dell'inizio dell'invasione, i Talebani si dichiararono pubblicamente disposti a processare Bin Laden in Afghanistan attraverso un tribunale islamico. Gli USA rifiutarono anche questa offerta giudicandola insufficiente. Infine il 14 ottobre, iuna settimana dopo lo scoppio della guerra, i Talebani acconsentirono a consegnare Bin Laden a un paese terzo per un processo, ma sempre se fossero state fornite prove del coinvolgimento di Bin Laden negli eventi dell' 11 settembre.
In realtà pare che gli Stati Uniti avessero pianificato l'invasione dell'Afghanistan ben prima dell'11 settembre. Il 18 settembre 2001 Niaz Naik ex-Ministro degli Esteri pakistano dichiarò che a metà luglio dello stesso anno venne informato da alcuni ufficiali superiori statunitensi che un'azione militare contro l'Afghanistan sarebbe iniziata nell'ottobre seguente. Naik dichiarò anche che, sulla base di quanto detto dagli ufficiali, gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato al loro piano persino nell'eventualità di una resa di bin Laden da parte dei Talebani. ("... it was doubtful that Washington would drop its plan even if Bin Laden were to be surrendered immediately by the Taleban...)
Naik affermò anche che sia l'Uzbekistan sia la Russia avrebbero partecipato all'attacco, anche se in seguito ciò non si è verificato.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non autorizzò l'uso della forza contro l'Afghanistan in nessuna risoluzione.
Dasht-E Leili
Il 21 novembre 2001 circa 8000 tra soldati Talebani e civili di etnia Pashtun si arresero a Konduz al comandente dell' Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum. La maggior parte di loro non fu vista mai più. Il fatto non passò sotto silenzio e quasi subito sulla stampa occidentale apparvero articoli che si chiedevano cosa fosse successo e, sopratutto, quanto fossero coinvolti gli americani in quello che aveva tutta l' aria di essere un massacro ed un crimine di guerra (vedi ad esempio l' articolo sul Guardian del 2 dicembre 2001)
Il sito in cui erano stati seppelliti i corpi della gran parte dei Talebani fu sottoposto ad indagini da parte degli esperti di medicina forense dell' associazione Medici per i Diritti Umani (Physicians for Human Rights) che disseppellirono ed analizzarono alcuni corpi giungendo alla conclusione che mostravano i segni di morte per soffocamento. Physicians for Human Rights ed Amnesty International richiesero che il sito venisse preservato in modo da poter portare avanti altre indagini su quello che appariva come uno dei peggiori crimini di guerra, ma nulla accadde. (A dimostrazione della doppia morale adoperata dai media, si ricorderà che il ritrovamento di 45 corpi a Racak in Kosovo causò ampi clamori sulla stampa e quindi sull' opinione pubblica e costituì un pretesto importante per gli attacchi NATO contro la Serbia). Ma il tentativo di far cadere l' episodio nell' oblio fallì grazie al lavoro del documentarista irlandese Jamie Doran che, inseguendo le notizie del massacro, si recò nel 2002 sul posto dove ebbe modo di intervistare testimoni, partecipanti, ufficiali, sopravvissuti, nonchè specialisti di medicina forense. Nacque così un documentario che fu trasmesso in Europa ed in altre nazioni del mondo (non negli USA) nell' estate del 2002 e che fu anche trasmesso al parlamento europeo. Inoltre il regista Jamie Doran fu autore anche di alcuni articoli sulla stampa internazionale per denunciare ciò che aveva visto e la congiura del silenzio attorno il massacro di Dasht-E Leili.
Di seguito riportiamo alcuni stralci dell' articolo a firma di Jamie Doran che fu pubblicato nel settembre 2002 su "Le Monde Diplomatique" :
... Kabul cadde praticamente senza colpo ferire: i taliban fuggivano da Kokcha, a nord-est, e da Taloqan e Mazar verso sud, in direzione di Kunduz. Circa 15.000 uomini, tra cui molti venuti da altri paesi per combattere a fianco dei taliban, si troveranno intrappolati in questa città, presa d'assedio dagli effettivi due volte più numerosi dell'Alleanza del Nord. Alcuni riuscirono a fuggire attraverso uno stretto corridoio verso sud; molti passarono dall'altra parte, pur di salvare la pelle (un fenomeno molto comune nella guerra afghana). Quanto a quelli rimasti, la loro sorte era nelle mani dei negoziatori. Al centro delle trattative si trovava Amir Jhan, altro signore della guerra, che godeva della fiducia generale.
«I comandanti di Kunduz erano tutti miei commilitoni e amici: alcuni anni fa avevamo combattuto fianco a fianco. Perciò mi fu chiesto di mettermi in collegamento con i capi dell'Alleanza del Nord, per porre fine a tutto questo attraverso il negoziato piuttosto che con le armi. Alcuni di quei comandanti - tra cui Marzi Nasri, Agi Omer e Arbab Hasham - hanno convinto quelli di al Qaeda e vari gruppi di stranieri ad arruolarsi nelle nostre file».
La prima proposta di accordo con l'Alleanza del Nord prevedeva che i comandanti taliban consegnassero le armi alle Nazioni unite o a qualsiasi altra forza internazionale, in cambio di alcune garanzie.
«Ero presente quando i mullah (taliban) Faisal e Nori arrivarono insieme con altri a Kalai Janghi per incontrare i generali Dostum, Maqaq e Atta. C'erano anche alcuni americani e qualche inglese. Si è deciso che se avessero consegnato le armi, i combattenti afghani di Kunduz avrebbero potuto far ritorno alle loro case, mentre quelli di al Qaeda e gli stranieri sarebbero stati consegnati alle Nazioni unite».
L'immensa fortezza di Kalai Janghi, nei dintorni di Mazar, adottata come quartier generale prima dai taliban e poi da Dostum, sarà al centro dei successivi eventi. Mentre già si stava discutendo l'accordo intervenne il segretario alla difesa americano, Donald Rumsfeld. Lo preoccupava l'idea che la fine negoziata dell'assedio potesse consentire ai combattenti stranieri di andarsene liberamente.
«Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici». È stata più volte citata un'altra sua frase, pronunciata poco dopo: «Mi auguro che siano uccisi o catturati. Si tratta di persone che hanno commesso azioni terrificanti».
I comandanti dell'Alleanza del Nord non potevano permettersi di ignorare le dichiarazioni del loro principale alleato e finanziatore, e d'altra parte non erano particolarmente motivati per contestarle. La vendetta, che qui si chiama «Intiqaam», è come uno sport nazionale in Afghanistan.
C'era nell'aria la sensazione di un massacro imminente. La città era come investita una ventata sanguinaria.
Amir Jhan, consapevole dell'estrema gravità del momento, correva instancabilmente da un comando all'altro nel tentativo di fermare quello che ormai appariva come un epilogo inevitabile. Infine, il 21 novembre si arrivò a un accordo: tutte le forze taliban si sarebbero arrese all'Alleanza del Nord contro la promessa di avere salva la vita. Circa 470 taliban provenienti da altri paesi (alcuni dei quali sospettati di appartenere ad al Qaeda) saranno portati a Kalai Janghi e rinchiusi nei tunnel sotterranei di quell'immensa fortezza. Il 25 novembre 2001, due agenti della Cia arrivano sul posto per procedere agli interrogatori individuali. Nel frattempo scoppia una rivolta: alcuni taliban colgono di sorpresa le guardie, si impossessano delle loro armi e aprono il fuoco, uccidendo nel giro di pochi minuti l'agente della Cia Johnny «Mike» Spann e una trentina di soldati dell'Alleanza del Nord.
Segue uno scontro a fuoco, che si intensifica quando i taliban riescono a mettere le mani sul deposito d'armi del fortino che si trova - per quanto ciò possa sembrare assurdo - poco lontano dal luogo in cui erano rinchiusi i prigionieri. Le forze speciali di terra Usa chiedono un intervento aereo, mentre i britannici della Sas passano al contrattacco. Al terzo giorno di combattimenti, nella fortezza non c'è più un solo taliban in vita: una circostanza insolita, dato che al termine di qualsiasi operazione militare rimane sempre sul terreno qualche superstite, sia pure gravemente ferito. Gli eventi di Kalai Janghi monopolizzano l'attenzione dei giornalisti occidentali, richiamati in massa dalla resa di Kunduz. Da un complesso vicino relativamente al sicuro, o anche da postazioni più distanti, inviano servizi dai toni sensazionalisti, tanto più che tra gli 86 uomini rimasti nei tunnel sotterranei di Kalai Janghi si scopre un taliban americano, John Walker Lindh.
Sembra incredibile che in quel momento nessuno abbia avuto l'idea di chiedersi quale fosse stata la sorte degli altri soldati sconfitti a Kunduz. Soltanto dopo la proiezione di alcuni spezzoni del nostro documentario davanti al parlamento europeo di Strasburgo si sono levati appelli per un'inchiesta internazionale indipendente sulla sorte di quelle migliaia di uomini .... La loro fine lascerà sull'Alleanza del Nord, sui media occidentali, sull'Onu, sul governo Usa e sui militari americani un'ombra che non potrà scomparire mai più.
In un'altra fortezza, mai citata dagli organi di informazione occidentale, avrà inizio la strage di circa 3.000 prigionieri.
Ascoltiamo di nuovo Amir Jhan, che aveva preso parte ai negoziati per la resa: «Li avevo contati uno per uno: erano in 8.000. Ne rimanevano 3.015. Ma tra questi 3.015 c'erano anche molti pashtun locali, di Kunduz o delle città vicine, non compresi nel conto dei prigionieri che si erano consegnati. E gli altri, che fine avevano fatto?» La risposta a questa domanda si trova, almeno in parte, sotto quella duna lunga cinquanta metri, nel deserto di Dasht Leili.
Il conto è semplice: più di 5.000 uomini mancano all'appello. Qualcuno sarà riuscito a fuggire; qualche altro potrebbe aver ottenuto la libertà in cambio di denaro, e molti sono stati forse venduti ai servizi di sicurezza dei rispettivi paesi, per subire un destino forse peggiore della morte. Ma in maggioranza quei prigionieri, secondo vari testimoni oculari che abbiamo potuto ascoltare durante i sei mesi della nostra inchiesta, sono lì, sepolti sotto la sabbia. Nessuno dei testimoni che abbiamo interrogato ha ricevuto un soldo da noi, e tutti rischiano grosso per aver accettato di collaborare al nostro film. La tragedia inizia nella fortezza di Kalai Zeini, sulla via che conduce da Mazar a Shiberghan. Questa costruzione, immensa anche a confronto di altre enormi costruzioni afghane, è stata il campo di transito delle migliaia di uomini catturati a Kunduz. Ufficialmente si trattava di trasferire i prigionieri al carcere di Shiberghan, dove sarebbero stati detenuti in attesa di essere interrogati dagli esperti americani, che dovevano selezionare quelli da trasferire a Guantanamo (Cuba).
A Kalai Zeini, i prigionieri ricevono l'ordine di sedersi per terra in un vasto campo recintato. Poco dopo arriva un convoglio di camion carichi di container metallici. I prigionieri sono costretti ad avanzare in fila indiana per andare a stiparsi nei container. Ecco il racconto di un ufficiale dell'Alleanza del Nord, che ha accettato di parlare a condizione di mantenere l'anonimato: «Noi eravamo responsabili della consegna dei prigionieri, e per il tratto da Zeini a Shiberghan abbiamo caricato 25 container. In ciascuno ne abbiamo fatti entrare circa 200.
Schiacciati come sardine in quegli scatoloni metallici senz'aria, nel buio pesto e a una temperatura di oltre 30°, i taliban gridano implorando clemenza. La risposta non tarda ad arrivare, come conferma un altro militare afghano: «Ho sparato sui container per praticare qualche foro per l'aria, e ci sono stati dei morti». Domanda: «Dunque, lei ha sparato per forare i container. Chi le ha dato quest'ordine?» Risposta: «Ce lo hanno ordinato i comandanti».
Ma dietro la sincerità di quest'uomo è facile intuire un'estrema crudeltà. Abbiamo potuto constatare che molti dei fori da pallottole si trovavano nella parte bassa o media dei container e non più in alto, come sarebbe stato logico se davvero l'intenzione fosse stata quella di far respirare i prigionieri.
Un tassista locale si era fermato a uno dei distributori di carburante improvvisati che costellano le strade principali: «Il giorno in cui i prigionieri sono stati trasportati da Kalai Zeini a Shiberghan, mi ero fermato per fare il pieno. Sentivo un odore strano, e ne chiesi la causa all'addetto."Voltati e guarda", mi disse. C'erano tre camion con sopra dei container. E da lì scorrevano rivoli di sangue. Mi si drizzarono i capelli per l'orrore. Volevo andarmene, ma non potevo muovermi perché uno dei camion [che sbarrava la strada] aveva un guasto; così sono stato costretto ad aspettare che lo togliessero di mezzo». L'indomani, mentre si trovava davanti alla sua abitazione a Shiberghan, fu colpito da uno spettacolo non meno orrendo: «Ho visto passare altri tre camion carichi di contenitori dai quali colava sangue».
Non tutti i container sigillati avevano beneficiato dei «fori di areazione». In alcuni, lasciati ermeticamente chiusi per quattro o cinque giorni, i prigionieri erano morti asfissiati. Quando infine furono aperti, di loro non rimaneva altro che un ammasso di corpi in decomposizione, urina, feci, vomito e sangue.
Chiunque entri nel carcere di Shiberghan non può fare a meno di chiedersi chi mai abbia potuto pensare di stipare in questa struttura, prevista per un massimo di 500 detenuti, un numero di prigionieri quindici volte maggiore. È stato veramente un caso se la maggior parte di quelli che avrebbero dovuto rimanere qui non sono mai arrivati? I container, con il loro carico di carne macellata, si fermarono in fila davanti all'edificio. Uno dei soldati che li avevano scortati era presente quando i comandanti del carcere ricevettero l'ordine di far sparire al più presto le prove di quanto era accaduto: «La maggior parte dei container erano forati dalle pallottole. In ciascuno erano stati rinchiusi circa 150 o 160 uomini. Erano morti quasi tutti, tranne qualcuno che respirava ancora. Gli americani hanno dato ordine a quelli di Shiberghan di portarli lontano da lì prima che venissero filmati dal satellite».
Questa accusa di coinvolgimento americano sarà cruciale per ogni inchiesta futura. Il diritto internazionale in materia - come del resto le leggi nazionali e le leggi di guerra - riposa in larga misura sull'accertamento della catena gerarchica degli ordini che hanno portato a commettere il crimine. In altri termini, si tratterà di sapere chi fosse alla testa dei responsabili di quanto è accaduto a Shiberghan.
Abbiamo individuato due dei camionisti, provenienti da regioni diverse: l'uno e l'altro, separatamente e in giorni diversi, ci hanno accompagnati nello stesso punto del deserto. Erano visibilmente scossi per aver partecipato in prima persona a questi fatti, e i loro resoconti del percorso da Kalai Zeini a Shiberghan e quindi a Dasht Leili sono agghiaccianti: 1° camionista: «C'erano circa 25 container. I prigionieri stavano malissimo perché lì dentro non potevano respirare; perciò hanno sparato sulle pareti. Molti di loro sono morti. A Shiberghan hanno scaricato quelli che davano chiaramente segni di vita. Ma c'erano parecchi taliban feriti e altri erano svenuti per la debolezza. Quelli, li abbiamo portati in un posto chiamato Dasht Leili, dove li hanno finiti a colpi d'arma da fuoco. Sono tornato qui tre volte, e a ogni viaggio ho trasportato 150 prigionieri. Urlavano e piangevano davanti alle armi spianate. Eravamo in dieci o quindici camionisti a fare lo stesso percorso».
Secondo camionista: «A Mazar mi hanno requisito il camion senza darmi un soldo. Hanno preso il mio camion e ci hanno caricato sopra un container, e io ho dovuto trasportare i prigionieri da Kalai Zeini a Shiberghan e poi a Dasht Leili, dove i soldati li hanno ammazzati.Alcuni erano ancora vivi, feriti o svenuti. Li hanno portati qui, gli hanno legato le mani e gli hanno sparato. Ho fatto quattro viaggi andata e ritorno per trasportare i prigionieri. In tutto ne avrò portato circa 550 o 600».
Primo camionista: «Nel carcere di Shiberghan c'erano alcuni jumbish (afghani di origine uzbeka). Non ho visto americani qui a Dasht Leili, ma li avevo visti nel carcere: può darsi che fossero dentro i camion».
Secondo camionista, (interrogato sulla presenza degli americani): «Sì, erano con noi qui a Dasht Leili» «In quanti erano?» «In parecchi; saranno stati trenta o quaranta. Ci hanno scortati le prime due volte; poi, nei due viaggi successivi, non li ho più visti».
A distanza di mesi, le tracce dei bulldozer sono ancora visibili sul luogo della strage, a Dasht Leili. I cadaveri erano stati gettati in una fossa e nascosti sotto tonnellate di sabbia. Secondo testimonianze oculari, i sopravvissuti al trasporto da Kalai Zeini al carcere di Shiberghan hanno subìto, per mano dei militari americani, una sorte non molto migliore di quella dei loro compagni d'armi sepolti sotto la sabbia. Un soldato afghano afferma di aver visto un militare americano uccidere un prigioniero dicendo che «Quando ero in servizio a Shiberghan, ho visto un soldato americano spezzare il collo a un prigioniero. Altre volte gli rovesciavano addosso dell'acido o qualcosa del genere. Gli americani facevano quello che volevano, noi non avevamo nessun potere per impedirglielo ... Tutto era sotto il controllo del comandante americano».
Un generale dell'Alleanza del Nord, pure di stanza a Shiberghan in quei giorni, ha dichiarato: «Li ho visti con i miei occhi colpirli a pugnalate nelle gambe, tagliargli la barba e i capelli, mozzargli la lingua. A volte pareva che lo facessero solo per divertirsi. Portavano fuori un prigioniero, lo pestavano a volontà e poi lo ributtavano in cella. Ma a volte non li riportavano dentro. A volte i prigionieri scomparivano».
Tutte le persone intervistate nel nostro film si sono dichiarate disponibili a deporre davanti a qualsiasi istanza internazionale o Tribunale che persegua i crimini venuti alla luce grazie alla loro testimonianza; e se ne avranno l'occasione, sono anche pronte a identificare i militari americani coinvolti.
Dato il lungo tempo trascorso, sarà probabilmente difficile trovare le prove delle torture e degli omicidi perpetrati all'interno del carcere di Shiberghan. Ma a quattro chilometri da quella prigione c'è una fossa comune che contiene probabilmente i resti di migliaia di uomini uccisi. Se è vero che militari americani erano effettivamente coinvolti, o sono stati anzi all'origine della catena di comando che ha portato all'ordine di eliminare questi prigionieri, come affermano numerose testimonianze, o se hanno assistito senza intervenire all'esecuzione sommaria di centinaia di uomini, devono rispondere di crimini di guerra.
Il massacro di My Lai, nel 1968, per il quale il tenente William Calley è stata giudicato da una corte marziale, può sembrare roba d'altri tempi; può darsi che per molti aspetti, da allora il mondo sia cambiato. Ma i capisaldi del diritto e della giustizia sono ancora gli stessi. E chi è innocente non dovrebbe temere che la verità venga a galla.
Jamie Doran - settembre 2002 - Le Monde Diplomatique
Concludiamo riportando alcune frasi di un articolo che il prof. Edward Herman ha scritto nel 2004 sul massacro di Dasht-E Leili. L' autore è Professore Emerito alla Wharton School, University of Pennsylvania, economista e studioso analista dei media:
The UN Security Council and Kofi Annan will never do anything that the United States opposes strongly, and there are no international bodies with investigative and punitive powers that will move against U.S. desires, and none will be established for special investigation and the pursuit of justice. With some honorable but powerless exceptions the world’s NGOs (organizzazioni non governative Nota del curatore del sito) will not make much noise about a U.S.-approved massacre, nor will the Western (and especially U.S.) media and “humanitarian intervention” intellectuals. (.....) So once again we see how smoothly the system works, with power determining which massacres are worthy of attention and indignation, and that power causing everybody else to fall in line—the craven allies who remain silent; Kofi Annan and the UN adjusting nicely to the “political sensitivity” of dealing with a U.S.-sponsored massacre; the NGOs, a few calling for an investigation, but most of them quiet and channeling their benevolence in accord with funding sources and practicality; the mainstream media, as always, recognizing the unworthiness of the victims of U.S.
gilgamesh58 - ottobre 2008                                                          
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Inopinatamente nel luglio del 2009 un articolo su The New York Times ha riportato almeno momentaneamente l' attenzione sulla vicenda. L' articolo di James Risen, dal titolo "U.S. Inaction Seen After Taliban P.O.W.’s Died " formula anche accuse abbastanza dirette all' amministrazione Bush:
"...Bush administration officials repeatedly discouraged efforts to investigate the episode, according to government officials and human rights organizations. American officials had been reluctant to pursue an investigation — sought by officials from the F.B.I., the State Department, the Red Cross and human rights groups — because the warlord, Gen. Abdul Rashid Dostum, was on the payroll of the C.I.A. and his militia worked closely with United States Special Forces in 2001, several officials said. They said the United States also worried about undermining the American-supported government of President Hamid Karzai, in which General Dostum had served as a defense official...." (The New york Times - 10 luglio 2009)
...Secondo funzionari di governo e le organizzazioni per i diritti umani, gli esponenti dell' amministrazione Bush ripetutamente scoraggiarono i tentativi per nvestigare sull' episodio. I funzionari governativi statunitensi sono sempre stati riluttanti a mandare avanti una qualche indagine sull' argomento, intentata dall' F.B.I., dal Dipartimento di Stato, dalla Croce Rossa e dai gruppi per i diritti umani, in quanto il signore della guerra gen. Abdul Rashid Dostum era a libro paga della C.I.A. e la sua milizia nel 2001 aveva lavorato in stretta cooperazione con le Special Forces statunitensi. Le stesse fonti spiegavano come l' amministrazione statunitense fosse anche preoccupata di indebolire il governo di Karzai, creato e sostenuto dagli americani, nel quale il generale Dostum era stato ministro della difesa...
il giornalista Risen si pone la domanda se l' amministrazione Obama avrà la voglia, la volontà, l' interesse di avviare una seria indagine.
Tre giorni dopo il primo articolo, un editoriale sempre sul NYT rincara la dose:
"Add this to the Bush administration’s sordid legacy: a refusal to investigate charges that forces commanded by a notorious Afghan warlord — and American ally..."
ed inoltre a riguardo delle responsabilità dirette americane:
"They say American forces accepted the surrender of prisoners jointly with General Dostum. A NATO base was near the grave site...."
(The New York Times - 13 luglio 2009)
Nel frattempo l' ingombrante Dostum, signore della guerra alleato degli americani, ha fatto sapere che secondo i suoi dati solo circa 200 prigionieri talebani morirono e comunque a causa delle ferite e per malattia.
Nel frattempo i gruppi per i diritti umani hanno espresso il documentato timore che le prove possano essere state distrutte. Nel 2008, un' altro team di esperti di medicina forense ingaggiati dalle Nazioni Unite hanno scoperto che nella zona sono stati eseguiti grandi sbancamenti che suggeriscono che le fosse comuni erano state rimosse. Secondo Risen l' opera di rimozione va avanti già da anni: "Satellite photos obtained by The Times show that the site was disturbed even earlier, in 2006".
Nel frattempo, infine, il "volto nuovo" l' "idealista" presidente Obama ha rafforzato l' impegno militare statunitense in Afghanistan mandando altri 21000 soldati e pianificando l' invio di altre truppe a combattere la crescente resistenza...
gilgamesh58 ultima modifica agosto 2009
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fonti - approfondimenti:
"The Convoy of Death" il documentario sul massacro di Dasht-E Leili
Un trailer (durata 5 min.) del documentario di Doran
L' articolo di Doran su Le Monde Diplomatique
La traduzione del precedente
L' articolo di Edward Herman
Film Accuses U.S. of Atrocities at Dasht-i-Leili
Le parole di Rumsfeld riportate dall ' Herald Tribune
Un articolo di The Guardian sul documentario di Doran
La traduzione del precedente
Intervista a Jamie Doran autore del documentario
l' articolo su The New york Times del luglio 2009



SREBRENICA

OLTRE AL DANNO, ORA PURE LO SCHIAFFO MORALE MONDIALE…
Una delle domande che mi fanno spesso in Bosnia è :
“Come viene ricordato il massacro di Srebrenica in Italia?”          
Questa è la mia risposta:
Ricordato quel giorno in Italia? Mi piange il cuore, perchè solo chi avrà un parente o un conoscente in Bosnia si ricorderà di quei terribili giorni… anche tra i musulmani che sono in Italia, purtroppo sembra che sia una questione dimenticata da tutti.
Forse qualcuno lo farà, qualcuno no, ma di sicuro non sarà come quando viene ricordato l’ olocausto. Mi spiego in Italia già un mese prima fanno pubblicità ad eventi e manifestazioni che ricordano quel giorno, anche in tv si vedono film sulle vittime dell’ olocausto. Purtroppo per noi essendo musulmani e quindi appartenenti ad una religione molto” scomoda” in occidente, questo giorno per le vittime della Bosnia sarà molto difficile ricordarlo. E’ scomodo ricordarsi di quel giorno perchè pesa molto sulla coscienza della gente, perchè tutti sono stati in silenzio ad aspettare, e nessuno ha fatto nulla. Nessuno ha pensato a quelle donne quegli uomini quei bambini uccisi, solo perchè la loro colpa era quella di essere musulmani. Penso sempre a quelle donne che invece hanno perso i loro mariti, i loro figli e alla fine non hanno neanche una tomba su cui piangere, non hanno neanche ottenuto un risarcimento morale che invece io ritengo sia giusto e dovuto visto che ancora adesso soffrono per la loro perdita, anche se questo non può far rivivere chi è morto.
Come donna, ma sopratutto come mamma credo che si debba avere il diritto di avere almeno una tomba su cui piangere dato che alla fine non è rimasto più nulla e tuttora oltre che la perdita dolorosa subita c’è pure il dolore che ogni giorno lacera il cuore di queste persone che devono lottare per avere uno straccio di informazione per poter avere una tomba dove poter ricordare i propri cari. Come donna e come mamma è assurdo pensare che chi ha compiuto quel massacro sia ancora in giro a festeggiare come se niente fosse, l’ unica consolazione è che al Giorno del Giudizio pagherà per tutto il male che ha fatto, pagherà per tutta la sofferenza che ha creato, pagherà per tutto il futuro che ha distrutto ed interotto. Lo so che chi ha perso i propri famigliari fa fatica ad andare avanti lo so che è difficile ogni volta che arriva l’ 11 luglio ed ogni anno è sempre più pesante perchè il dolore purtroppo è ancora vivo perchè oltre il proprio dolore si aggiunge un altro dolore che forse fa più male di quello subito ed è il fatto che a livello mondiale a parte nei paesi a maggioranza islamica, nessuno si ricordi di quelle povere vittime innocenti. In Italia si dice così:” Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”.
A livello europeo il giorno della memoria per levittime di srebrenica è stato riconociuto ufficialmente, ora sta a noi combattere per ottenere questo giorno anche in Italia!
Inoltre come se non bastasse la Fifa, ha rifiutato di osservare un minuto di silenzio per Srebrenica, stasera si gioca la finale dei mondiali, e questa è la spiegazione del perchè non si farà:
La Fifa ha respinto la richiesta di osservare un minuto di silenzio prima della finale mondiale di domani sera a Johannesburg per ricordare il 15esimo mo anniversario del massacro di Srebrenica, dove nel luglio 1995 ottomila musulmani furono uccisi dai serbo-bosniaci.
La richiesta, hanno riferito i media a Sarajevo, era giunta dalla sezione bosniaca della Società per i popoli minacciati (Spm), una organizzazione non governativa con sede in Germania. Sottolineando che il mondo intero ricorda con grande dolore e tristezza il genocidio di Srebrenica, il segretario generale della Fifa Jerome Valcke ha detto che la richiesta non poteva tuttavia essere accolta dal momento che l’11 luglio coincide anche con la detenzione e la condanna di Nelson Mandela e dei suoi compagni quasi 50 anni fa. Tale data, ha spiegato, «è di enorme importanza per tutto il continente africano». Una spiegazione questa definita «uno schiaffo ai superstiti di Srebrenica» da Fadila Memisevic, responsabile della sezione bosniaca della Ong.
Inutile dirvi che in Bosnia le autorità sono a dir poco sconcertate e posso anche aggiungermi io allo sconforto, uno schiaffo morale difficile da cancellare.
E la chiesa Serbo- Ortodossa associazione criminale cosa fa?
Benedice gli assassini e criminali di guerra. Ecco il link per vedere alcune foto di quei momenti
Ricordo inoltre che solo il 31/03/2010 le autorità Serbe attualmente in carica hanno ammesso pubblicamente il loro errore ed hanno chiesto ufficilamente scusa, dopo 15 anni le uniche parole che sono riusciti a dire è stato SCUSA.
Per il popoplo di Srebrenica e di tutte le atre vittime della Bosnia, per i sopravvissuti (tra cui mio marito) per tutti quei poveri bambini innocenti, per tutto quel futuro interotto, per tutto questo vi chiedo NON DIMENTICATE SREBRENICA E LA BOSNIA.
Posted by Deborah Callegari Hasanagic su Mondo Raro





                                                              

giovedì 20 maggio 2010

La vita di Jalâl âlDîn Rûmî

Jalâl âlDîn Rûmî
Dice Allah nel Corano: "Né i cieli né la terra Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio fedele."
Il cuore, non la mente; poiché infatti possiamo capire Allah con il cuore e con tutti i sentimenti che simbolizziamo con il termine "cuore"; mai con il ragionamento, la ricerca scientifica, la speculazione razionale.

                                                               **************                   

Mistico è colui che aspira ad infrangere i limiti terreni della nostra carne, per giungere a capire sempre più Allah, per sentirlo nella Sua realtà ineffabile e incommensurabile, anche se, in effetti, secondo il Corano (50ª16), Dio è "vicino a ciascuno di noi più della sua stessa vena giugulare."
Jalâl âlDîn Rûmî , nacque a Balkh, nell’attuale Âfghânistân, il 30 settembre 1207. Il padre, sufi, teologo e predicatore di fama, lasciò Balkh nel 1209 con la famiglia, e fece bene. Pochi anni dopo la città venne distrutta dai Mongoli invasori. La famiglia soggiornò in `Irâq, poi in Siria, infine in Turchia dove, a Lâredeh, nel 1225 Rûmî sposò Gevher Banu, figlia di un maestro sufi di Samarcanda. Nel 1228 la famiglia venne invitata a Konya dal re selciukide Kaykubad.In questa città Rûmî, alla morte del padre, viene istruito prima dal maestro sufi Tirmidhî, poi da Shams âlDîn Tabrizî. In questa città Rûmî dapprima insegna nella Facoltà di Teologia, poi fonda la Confraternita (o Ordine, tariqa) dei Sufi Mevlevi, detti in Europa i "dervisci giranti".
Il pensiero e il misticismo di questo grande maestro sono conservati in quattro grandi opere: il Mathnawî, il Dîwân-i Shams-i Tabrizî, le Quartine (Rubâ`iyât)e il Fîhi-mâ-fîhi. Il Mathnawî è un grande poema di 25.630 distici, ossia 51.280 versi, suddivisi in sei libri. E’ soprannominato Il Corano in versi per il suo contenuto ascetico. Il Dîwân-i Shams-i Tabrizî è un grande canzoniere che raccoglie 1.081 poesie fra le più belle di tutta l’umanità. Così si può dire per le 1.765 quartine, essenziali, stupende. Il Fîhi-mâ-fîhi è in prosa, e raccoglie alcuni fra i più importanti discorsi, insegnamenti e pensieri del maestro.
Il 17 dicembre 1273 Rûmî diede l’ultimo saluto ai suoi cari, e spirò serenamente. I seguaci chiamano questa notte Seb-i Arus. Sembra che al lutto, durato quaranta giorni, abbiano partecipato anche i cristiani e gli ebrei, officiando le preghiere per i defunti precipue della loro religione. Rûmî venne sepolto in un mausoleo eretto nella tekké Mevlevi stessa, mausoleo (il Kubbe-i Hadra: la Cupola verde) ideato dall’architetto Badr âlDîn di Tabrîz, e sempre più decorato e abbellito nel tempo. Il grande cenotafio di legno, capolavoro della scultura selciukide, fu eseguito da Selimoglu Abdülvahid. Accanto vi si legge la quartina di Rûmî: "Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non ti dimenticare la tua bara./ Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio./ Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: /la mia tomba è nel cuore di coloro che sanno."
All’ingresso della sua Abbazia venne messa invece, sempre su sua richiesta, questa sua quartina: "Vieni, vieni, chiunque tu sia vieni:
sei un idolatra, un miscredente, un ateo? Vieni. /La nostra non è la casa della disperazione, / e anche se hai tradito cento volte una promessa... vieni!
Per celebrare la morte di Rûmî, i Mevlevi danzano a Konya un Samâ` (in turco: Semâ) rituale la seconda settimana di dicembre. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l’espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come il cuore degli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Il Semâ simbolizza l’ascesa spirituale, viaggio mistico dall’essere a Dio - in cui l’essere si dissolve - per ritornare poi sulla terra ("prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari." Dhul Nûn âlMisrî).                                   
Vi partecipano da un lato musici e cantanti, dall’altro il Maestro e i danzatori. La cerimonia, vero e proprio rito religioso, è divisa in sette fasi, e anche in Europa se ne conosce un aspetto, ridotto e abbreviato, presentato talvolta dai Mevlevi di Konya quando vengono invitati da qualche Ente pubblico. Anche alcuni gruppi di danzatori non sufi che hanno imparato per imitazione unicamente quella danza e quella musica, la rappresentano ogni tanto in teatri italiani, pur se con differenze notevoli dalla tradizione codificata islamica.
Tratto dalla Tariqa Jerrahi-Halveti

mercoledì 10 febbraio 2010

Erdogan, l’UE, Cipro, Israele e l’Armenia


Erdogan, l’UE, Cipro, Israele e l’Armenia

In occasione del lancio della lingua turca, la nona lingua in cui euronews verrà trasmessa, euronews ha incontrato il premier turco Recep Tayyip Erdogan. Adesione all’Unione europea,la questione curda, la politica di vicinato con i paesi arabi e Israele, sono alcuni dei temi affrontati nel corso dell’intervista.



euronews:

I negoziati per l’adesione all’Unione europea procedono lentamente. Tuttavia Bruxelles accusa la Turchia di ritardare il processo di riforma e voi accusate alcuni leader europei di ostruzionismo.
Su 35 capitoli negoziali, di cui 8 sono stati bloccati dalla Commissione, 5 dalla Francia e 6 dai greco ciprioti, 4 devono essere ancora aperti.
Che cosa pensa del processo di adesione ?

Recep Tayyip Erdogan:

Sfortunatamente alcuni stati membri dell’Unione sono in malafede. Questa è l’origine del problema. Perché dico questo? Stanno cercando di intrappolare la Turchia imponendo condizioni che non hanno niente a che vedere con la legislazione comunitaria.
È completamente sbagliato, dobbiamo tenere in mente che noi leader siamo mortali gli stati no. L’opinione negativa di un leader verso un altro paese potrebbe cambiare la percezione del proprio leader da parte del suo popolo.


Euronews:
Parla di Sarkozy?

Erdogan:
Si, il signor Sarkozy porta al tavolo della discussione argomenti non facili da capire. Ma a dispetto di tutti gli ostacoli che ci troveremo di fronte, andremo avanti con pazienza. Ci sarà una fine, sarà quando tutti gli stati membri diranno: non accettiamo la Turchia. Non ci fermeremo fino a quando non diranno questo

Euronews:
Pensa che le differenze culturali e religiose giochino un ruolo nel determinare l’approccio negativo di alcuni leader europei?


Erdogan: L’Unione europea non deve diventare un club cristiano, l’Unione non dovrebber prender parte alla campagna di islamofobia. E i paesi che danno il loro contributo dovrebbero essere messi in guardia. Come premier turco, condanno apertamente l’antisemitismo e ritengo che si tratti di un crimine contro l’umanità. Allo stesso modo sono molto sensibile quando si parla di islamofobia. Perché sono un musulmano e non posso tollerarlo.
Come musulmano difendo il mio credo fino alla fine. Nessuno può conciliare islam e terrorismo. Io come musulmano e primo ministro della repubblica turca non posso assecondare chi osa farlo.

Euronews:
Che cosa accadrà se i negoziati sulla riunificazione di Cipro falliranno?

Erdogan:
Fino adesso l’Unione europea non si è dimostrata onesta neppure sulla questione Cipro. Il 65% degli elettori di Cipro del Nord hanno detto sì al piano Annan.
Cosa è accaduta nel sud dell’isola?
Il 75% ha detto no. Chi è onesto? L’Unione europea ha una forte responsabilità per quest’impassein cui si trova Cipro.
È stato un errore storico accettare Cipro del Sud nell’Unione.
L’ex cancelliere tedesco Schroeder ha aspramente criticato questa politica dicendo che Cipro del Nord era stata trattata in maniera immorale.
La signora Merkel ha riconosciuto quest’errore. Ma adesso vediamo che le decisioni che si prendono sono fatte su misura di Cipro del Sud. E ancora, chiamare Cipro del sud come Cipro è un altro errore politico. Perché nel nord c‘è un altro stato in conflitto con quello del sud.
Noi come turchi riconosciamo questo stato del nord . Non facciamo speculazioni, altri forse sì. MA non è importante per noi. Gli stati membri saranno ricordati per quest’errore. La storia lo scriverà, anzi l’ha già scritto.

Euronews:
Pensa che nei prossimi anni vedremo la riunificazione di Cipro?

Erdogan: Cipro del Sud evita un approccio diretto su questo tema . E su questo punto l’Unione europea dovrebbe intervenire. Deve essere chiaro che il processo di pace è tenuto in ostaggio.

Euronews:
Pensa che occorrerà ancora molto tempo per risolvere questo problema?

Erdogan: Noi stiamo facendo di tutto per risolverlo entro l’anno. Vogliamo farlo sotto l’egida dell’Onu. Potremo farlo includendo tutte le parti coinvolte: voglio dire Cipro del Nord e del Sud, Turchia, Grecia e Regno Unito. Possiamo risolvere questo problema insieme. Qualche giorno fa, Gordon Brown mi ha chiamato e mi ha chiesto cosa pensassimo di questa opzione. Non c‘è alcun problema per noi. Possiamo riunirci tutti e negoziare. La cosa importante è essere corretti. Se decidiamo di avere un pool di stati garanti dobbiamo accordarci su quali sono le garanzie. Speriamo vivamente che questo problema sia risolto entro l’anno.

Euronews: Sulla questione curda si è fatto un passo storico. Ha preparato un piano, un progetto per risolverla. A che punto è il processo?

Erdogan: È una delle questioni più importanti dell’ agenda attuale. Se la chiamiamo questione curda, indeboliamo il progetto. Si tratta di un piano di unità nazionale e amicizia, non si concentra solo sulla questione curda.
Si tratta di una iniziativa democratica, la questione curda non è solamente un porblema etnico.
Purtropo è stato mal intrerpretato dall’Occidente.
Se la si considera semplicemente come questione curda, si è irrispettosi nei confronti degli altri gruppi etnici che fanno della Turchia una nazione.
Questo piano, questo progetto riguarda tutti, stiamo lavorando per tutti i gruppi etnici.

Euronews: Come vede le future relazioni tra Turchia e Israele? Dopo quanto è accaduto, pensa ancora che la Turchia possa mediare tra Israele e Siria e gli altri stati arabi?

Erdogan: Perdere uno stato amico come la Turchia è qualcosa cui Israele dovrebbe fare attenzione per il futuro.
Il modo in cui è stato trattato il nostro ambasciatore non ha precedenti.
Siamo intervenuti per migliorare le relazioni israelo-palestinesi e adesso Netanyahu dice: non ho fiducia in Erdogan ma in Sarkozy. Come definire tutto questo, se non inesperienza diplomatica?
Come posso avere fiducia in te se tu non l’hai in me?
La chiusura di importanti accordi è in corso, com‘è possibile portarli a termine in questo clima?
Penso che Israele dovrebbe avere con i propri vicini relazioni diverse se veramente crede di essere una potenza mondiale.

Euronews:
Da poco il ministro degli Esteri israeliano ha accusato la Turchia di essere all’origine delle recenti tensioni tra i due paesi e vi ha accusati di antisemitismo.
Guardando indietro crede che avrebbe potuto gestire in maniere più diplomatica quest’incidente.

Erdogan:
Sto dicendo la verità, e continuerò a dirla. La Turchia ha una lunga storia … Bisogna stare molto attenti a parlare di questo Paese….
Quando innocenti vengono uccisi in modo impietoso, con l’uso di bombe al fosforo, infrastrutture così come tutto il resto viene distrutto, la gente è costretta a vivere in prigioni a cielo aperto.
Non possiamo conciliare tutto questo con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e non possiamo chiudere gli occhi di fronte a tutto quello che sta accadendo.

Euronews:
L’interpretazione della Corte Costituzionale armena dei protocolli turco-armeni che mirano a normalizzare i rapporti tra i due paesi sta stretta a Ankara. Alla luce di questa evoluzione come cambierà la politica turca?

Erdogan: A quanto pare l’inizio non è dei migliori. Allora perché negoziare? Che cosa faremo? L’Armenia dovrebbe riconsiderare questo punto. Perché noi, come Turchia, abbiamo rispettato gli impegni presi. Entrambe le parti hanno un percorso da fare. Il processo andrà avanti. Noi siamo onesti e continueremo a esserlo.

Euronews:
Thank you for sparing time for Euronews.

Erdogan:
Thank you.

Copyright © 2010 euronews
Postato in: Dunya, Emeroteca
Messo il tag: armenia, cipro, democrazia, erdogan, europa, israele, turchia

Pubblicato il 31 Gennaio 2010 su Il Derviscio.

martedì 19 gennaio 2010

Valle dei Lupi, ultimo atto: “Umiliate quell’ambasciatore!”

La valle dei lupi


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Alla fine (ma sarebbe meglio dire al momento) la ricomposizione diplomatica ha chiuso l’incidente: il viceministro degli Esteri di Tel Aviv, Ayalon, ha porto le sue scuse all’ambasciatore turco Celikkol e il Primo Ministro Erdogan le ha accolte; scuse – come osserva Fiamma Nirenstein su “Il Giornale” – “poco convincenti. Netanyahu e il ministro degli Esteri Lieberman hanno aspettato molte ore per dire, in sostanza, che la Turchia ha torto ma Ayalon poteva far meglio”.
Rievochiamo i passaggi della diatriba, ultimo atto della crisi dei rapporti turco-israeliani: alla sua origine sta la perentoria richiesta israeliana di interrompere la serie televisiva turca “Kurtlar Vadisi” (La Valle dei Lupi), perché “antisemita”. In un episodio il protagonista del telefilm, Polat Alemdar – che è anche personaggio principale dell’omonimo film, record di incasso in Turchia ma ampiamente boicottato nei paesi occidentali, ove ha meritato solo fugaci apparizioni – prende d’assalto una missione diplomatica per salvare un bambino turco rapito dal Mossad.
Alemdar (che in turco significa “portabandiera”) uccide uno dei rapitori e, accusato da un altro agente del Mossad di avere commesso un crimine di guerra, gli risponde: “Soltanto voi potete compiere di questi crimini?”.
Il viceministro Ayalon ha immediatamente convocato l’ambasciatore sottoponendolo a una “reprimenda umiliante”, secondo quanto riportato dagli stessi media israeliani e secondo quanto documentato dalle immagini televisive fatte diffondere – a guisa di lezione a futura memoria – dal viceministro: niente stretta di mano, nemmeno la consueta bibita di cortesia e l’ambasciatore messo a sedere in basso rispetto ad Ayalon e a tre funzionari del ministero che lo accompagnavano. Nessuna traccia, infine, di bandiere turche, ma soltanto quella di Israele a sovrastare i convenuti.
La sceneggiata – accompagnata come si diceva dalla richiesta di interrompere la serie televisiva – non è assolutamente piaciuta al governo turco, che ha richiesto scuse ufficiali pena il ritiro dell’ambasciatore a Tel Aviv.
Ragioni di equilibri politici interni all’esecutivo israeliano potrebbero avere contribuito a innescare la vicenda: secondo una fonte anonima richiamata da “Haaretz” Ayalon avrebbe agito su impulso del suo superiore Lieberman per guastare l’atmosfera della visita di questi giorni del ministro della Difesa Barak in Turchia; non è infatti un mistero che il titolare degli Esteri israeliano sia ostile alla mediazione di Ankara con la Siria e, più in generale, sia contrario a un’alleanza strategica con un paese che sta rompendo con i dettati classici occidentali.
La distanza da tali dettati si misura anche dal rifiuto turco di incrementare – secondo i desideri di Obama – la presenza militare in Afghanistan, ove Ankara tiene volutamente un basso profilo e si dedica perlopiù a progetti di ricostruzione, soprattutto scolastica; e dal voto di astensione sulla deliberazione dell’AIEA di censura all’Iran per la questione del nucleare – nell’occasione le stesse Cina e Russia si sono schierate con gli Stati Uniti, votando a favore,.
Ecco perché Israele non lesina pressioni e strattonamenti al vecchio alleato: e un consolidato “complesso di superiorità” sul mondo islamico fa si che, nell’articolo che citavamo all’inizio, Fiamma Nirenstein possa sostenere che “la vicenda è la goccia che fa traboccare un vaso che la Turchia ha in questi mesi coscientemente riempito” e che, addirittura, “Israele è stata la vittima sacrificale della svolta turca, la sua bandiera. Non c’è stata occasione diplomatica in cui Erdogan non abbia dato sfogo a una profonda antipatia e riprovazione verso lo Stato d’Israele”.



* Aldo Braccio, esperto di affari interni ed esteri della Turchia, è redattore della rivista “Eurasia”
  Turchia :::: Aldo Braccio :::: 18 gennaio, 2010 :::: Eurasia.







venerdì 15 gennaio 2010

ERDOGAN SUPERSTAR

Obelix



Criticare Israele non é piú antisemitismo

Tutto é cominciato quando il film “La valle dei lupi”,
una specie di Rambo al contrario, cioè dove gli americani sono cattivi e l’eroe è musulmano, basato su una storia vera, è uscito nelle sale cinematografiche europee. Le proteste, specie in Germania dove folti gruppi di cittadini di origine turca hanno riempito le sale cinematografiche, non hanno tardato a farsi sentire e c’è perfino chi ha posto la questione della doppia lealtá. Il Frankfuhrter Allgemeine Zeitung del 16 febbraio 2006 lo descrive come: „ … un film antiamericano, anticristiano, nazionalista turco e pro musulmano … chiamarlo film, visto le miserabili qualitá cinematografiche, sarebbe enormemente esagerato“.
Al film è seguita una serie televisiva di successo che in Turchia fa milioni di ascolti. Ció pare abbia disturbato i sonni della politica israeliana. In realtá, qualche frizione fra Stato di Israele e Turchia c’era giá stata in precedenza.
Erdogan aveva criticato, voce di uno che grida nel deserto, in maniera inequivocabile l’operazione “Piombo fuso” israeliana.
All’incontro di Davos, Erdogan lasció indignato la tribuna dopo aver duramente polemizzato con Simon Peres e, al suo ritorno in Turchia, commentando il fatto che Peres aveva avuto la possibilitá di parlare 25 minuti a favore della guerra di Gaza mentre a lui erano stati dati 12 minuti per la replica, disse di fronte ad una folla osannante che lui non era un capo tribú, ma il Primo Ministro della Nazione turca.

Poche settimane piú tardi la Turchia decide unilateralmente di escludere da una manovra NATO ai confini con l’Iran Siria e l’Irak, l’aviazione israeliana. “Com’ è possibile che voli nei nostri cieli chi ha bombardato Gaza?” era la domanda d’un giornale turco. La Turchia s’ è unita alla richiesta libica di discutere il rapporto Goldstone, quello sui crimini di guerra nella Striscia, al prossimo Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’ultimo schiaffo quando i turchi hanno azzerato una commessa israeliana e scelto di comprare altrove, dall’Italia, un nuovo tipo di satellite spia.
Qualche giorno fa la vendetta. Il sottosegretario agli esteri israeliano Danny Ayalon convoca l’ambasciatore turco Oguz Celikol per protestare contro la serie televisiva “La valle dei lupi”. L’ambasciatore viene fatto aspettare in corridoio circondato dai fotografi e, una volta entrato a colloquio col sottosegretario, questi si rifiuta di stringergli la mano, lo fa sedere su un sofà e sul tavolino la sola bandiera israeliana. Secondo le regole della diplomazia un vero affronto. Non solo, Ayalon aveva avvertito i giornalisti di cosa stava preparando e, dopo l’incontro si è vantato del trattamento riservato al diplomatico turco. Ayalon aveva peró fatto conti senza Abdullah Gul e Recep Erdogan, i quali non si sono affatto lasciati intimidire e hanno minacciato il ritiro dell’ambasciatore se le autoritá israeliane non avessero immediatamente presentato le loro scuse, cosa che è avvenuta dopo un primo tentativo di tergiversare.
Erdogan ha quindi rincarato la dose, avvertendo pubblicamente il Libano di un possibile attacco israeliano e ponendo ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU la questione dell’atomica israeliana. “Israele non ha mai negato di possedere armi nucleari, ha detto Erdogan, di fatto lo ha ammesso”. Erdogan ha anche ricordato che mentre l’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (NPT), Israele, assieme ad India e Pakistan, ha finora rifiutato.
Finora non gli sono state fatte accuse di antisemitismo, com’era stato invece fatto nel passato. La carta del bavaglio ormai non funziona piú e Israele ha imparato che imbavagliare Erdogan con la solita litania dell’antisemitismo si è rivelata un’arma a doppio taglio. Erdogan di fatto, non solo è stato accolto come un eroe in patria dopo l’episodio di Davos, ma ha ricevuto in questi giorni il “Premio internazionale Re Faisal” indetto dal 1976 dalla casa regnante saudita e considerato il Premio Nobel del mondo arabo-islamico. Lo riferisce l’agenzia turca Anadolu in un reportage da Gedda. Il premier turco è stato scelto «per i servigi resi all’Islam».
È arrivato il momento di una svolta? Il momento in cui la propaganda dell’odio e dell’arroganza comincia ad essere spuntata e i suoi promotori vengono costretti a sedere allo stesso tavolo coi paria? Il momento in cui il dialogo, anche se per ora a denti stretti, prende il sopravvento sul diktat dei popoli dei prediletti?
C’è da augurarselo.

Pubblicato il 14 Gennaio 2010 da Stefano su il Derviscio
Janua Coeli: Non siamo riusciti a riprodurre il video di Erdogan in colloquio con Perez lo potete vedere sull'originale by il Derviscio, così come tutti i Links.


venerdì 27 novembre 2009

EID MUBARAK





26/nov/2009


BAJRAM SERIF MUBAREK OLSUN SVIM MUSLIMANIMA. Ecco come si festeggia la festa musulmana.



ESSELAMU ALEIKUM A TUTTI. PRIMA VI AUGURO E POI VI FACCIO ARRABBIARE CON CAFFE BOSNIACO E BAKLAVA UN DOLCE ANTICO PORTATO DALLA TURKIA DURANTE L'IMPERO OTTOMANO.










pubblicato da muamer hasanagic muamera a 20.05


lunedì 19 ottobre 2009

La Carovana dell'Amore






La Saggezza dei Sufi
I Sufi sono i mistici dell’Islam.
Hassan Dyck

I loro cuori vengono sottoposti per anni, spesso per decenni, ad un intenso allenamento. La purezza di spirito per loro è tutto.
La musica Sufi trova origine nel cuore del Maestro per giungere a toccare le corde dei cuori delle persone e per risvegliare in loro un ardente desiderio dell’amore divino.
I Maestri Sufi si avvicinano “all’immaturità” dei loro ascoltatori con profonda sensibilità verso il loro grado spirituale e utilizzando una buona dose di umorismo. L’uso di storie è parte di questo processo, trattando sapientemente con gli aspetti individuali, sociali e culturali.
La musica Sufi e le storie dei Sufi sono artisticamente e psicologicamente multidimensionali: agiscono su molti livelli ed hanno potente effetto sull’anima andando a raggiungere lati nascosti della psiche dell’ascoltatore, penetrano nei suoi blocchi personali e lo invitano a un più elevato livello di consapevolezza e sviluppo delle sue forze creative.
Peter Hassan Dyck è un musicista, uno gnostico, un autentico esempio vivente del misticismo del Sufismo e della sua tradizione. Alla fine dei suoi studi musicali percorse in lunghi viaggi il mondo arabo e lì visse per diversi anni.
Peter Hassan Dyck è anche un eccellente “canta-storie” che invita l’ascoltatore ad un viaggio nel mondo magico delle storie e racconti del misticismo sufi. Il suo stile virtuoso in vari strumenti musicali ci presenta la bellezza e la magia dell’Oriente.
Dal 13 al 15 Novembre a Cattolica (Rn) a Dio piacendo si terrà un incontro di due giorni con Shaikh Hassan.
Sarà, con il permesso e le benedizioni di Dio, un’occasione per avvicinarsi alla via Naqshbandi,
per indicare il cammino a cuori stanchi di troppa mondanità
 anche per ricordare, a chi un pezzo di strada lo ha già percorso, il valore dello stare insieme.
Tariqatuna Sohbet wa Khayru fi’l Jamiya.



Lasciamo noi stessi, lasciamo le nostre storie e i nostri problemi, con la chiara intenzione di abbandonare il nostro ego
e fare un piccolo passo verso la Presenza Divina, soluzione di tutti i problemi e origine di tutte le cause!
InshAllah sarà un incontro bellissimo per trascorrere insieme un momento importante per il nostro spirito
e ritrovare pace serenità con musica sufi, zikr e meditazione!
Non mancate! L’albergo sarà praticamente tutto per noi. Vista mare, bagno turco, gym.
L’incontro è gratuito, l’unico costo è la pensione completa (€ 47,50 a notte) a persona bevande incluse.
Supplemento singola € 14,00.
L’incontro inizia con la cena del venerdi per concludersi dopo il pranzo di domenica.
Vi chiederemo come sempre un contributo libero per le spese sostenute.

Come arrivarci



Hotel Waldorf
Via Gran Bretagna, 10
7841 Cattolica (RN)
Tel. 0541/951210
Fax. 0541/950628





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