Donald Rumsfeld Segretario alla Difesa durante l' invasione USA dell' Afghanistan. Nel corso delle trattative per negoziare la resa dei Talebani asserragliati a Mazar-i-Sharif, poichè si profilavano condizioni piuttosto miti per la resa, intervenne: "Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici".
Sette anni di lavaggio mentale mediatico ci hanno indotto a pensare ai Talebani come ad una banda di fanatici e semianalfabeti legati ad al-Qaeda e agIi attentati dell’ 11 settembre. In realtà, per la travagliata popolazione afgana, i talebani rappresentano coloro che finalmente, dopo 20 anni di guerre civili e di lotta contro l’ occupazione sovietica, seppero regalare al paese l’ unico periodo di stabilità e pace, interrotto clamorosamente ed ingiustificatamente dall’ aggressione americana e NATO.
Nel novembre del 2001, durante l' invasione americana dell' Afghanistan, varie migliaia di Talebani bersagliati dai bombardieri americani ed accerchiati dalle truppe dei "Signori della Guerra" dell' Alleanza del Nord, loro rivali storici che combattevano al fianco degli americani, si arresero alle truppe di Rashid Dostum, leader degli Uzbeki, temuto Signore della Guerra, che successivamente sarebbe diventato vice-ministro della difesa del governo Karzai. Dostum era assistito dagli uomini del 595 A-team delle Forze Speciali USA, da personale dell' esercito americano e della CIA. Dai 3000 ai 5000 prigionieri Talebani furono uccisi o fatti lentamente morire dopo la resa.
Trent' anni di lotte
Nel 1973 un colpo di stato rovesciò la monarchia afgana e costrinse il re Zahir Shah all’ esilio. Iniziò un periodo travagliato per il paese. Nel 1978 conquistò il potere il Partito Democratico Popolare Afgano (partito socialista filo-comunista), il governo comunista fu però incapace di assicurare la stabilità al paese e questo non tanto e non solo per la nascente resistenza islamica, ma sopratutto per contrasti interni al partito stesso le cui fazioni contrapposte erano in lotta per il potere. Nel settembre 1979, il presidente Taraki, benvoluto dal popolo, fu ucciso a seguito di una congiura interna al partito, ordita dal vice primo ministro e capo della fazione rivale, Hafizullah Amin.
I sovietici decisero di incrementare l'appoggio militare pur di mantenere il governo comunista, ma, si convinsero che Hafizullah Amin era ormai un fattore di destabilizzazione dell'Afghanistan.
Il 24 dicembre 1979 l 'esercito sovietico ricevette l'ordine di invadere l'Afghanistan, tre giorni dopo le truppe entrarono nella capitale Kabul. L' Armata Rossa attaccò il palazzo presidenziale, Amin fu arrestato e successivamente giustiziato, le truppe sovietiche assunsero il controllo completo del paese.
Con l’ ingresso dei sovietici si andò però radicalizzando l’ opposizione islamica abbondantemente sovvenzionata, armata, addestrata ed appoggiata dagli Stati Uniti. Dopo nove anni di guerra, dopo aver perso quasi 14.000 uomini, ma soprattutto a causa dell’ avvento di Gorbaciov e del mutato quadro internazionale, l’ Armata Rossa abbandonò il paese. ( Non bisogna dimenticare che il ritiro dei Russi, avviene dopo il viaggio privato del miliardiario Hammer, che da Kabul si recò poi a Mosca, e di cui la stampa successivamente non diede più notizie, sino all'avvento di Gorbaciov!! nota di Janua Coeli)
I mujaheddin si trovarono padroni dell’ Afganistan, ma i combattimenti proseguirono, questa volta tra le differenti fazioni dei mujaheddin. Le fazioni erano divise dai personalismi dei loro capi (i “Signori della Guerra”) ma soprattutto sulla base di differenze etniche profonde. L’ Afganistan è una nazione dove s’ incontrano popoli diversissimi per lingua e per etnìa: Pashtun, Tagiki, Hazari, Uzbeki, Turkmeni, popoli fieri e guerrieri che parlano lingue diverse e con tradizioni diverse. La diversità e l’ ambizione dei “Signori della Guerra”, diede vita ad un periodo di incertezza, alla disgregazione del tessuto sociale, alla spartizione del controllo della nazione.
L'irruzione sulla scena afgana dei Talebani
Nel paese devastato, i Talebani emersero come una forza in grado di portare l’ ordine e di ricostruire la società, seppure sotto la rigida etica fondamentalista. Si racconta che nella primavera del 1994, venendo a conoscenza del rapimento e dello stupro di due ragazze a un posto di blocco dei mujaheddin in un villaggio, vicino Kandahar, il locale mullah, Muhammad Omar, già veterano della resistenza antisovietica, organizzasse trenta compagni in un gruppo di combattimento e con esso riuscisse a salvare le ragazze facendo impiccare il comandante dei mujaheddin. Dopo questo incidente, sembra che gli interventi di questi religiosi-combattenti vennero sempre più richiesti dai contadini, afflitti dai soprusi dei mujaheddin.
I Talebani erano espressione del gruppo etnico Pashtun, maggioritario nel paese, ma seppero imporsi non solo con la forza ma anche stringendo alleanze con altre fazioni. S’ impadronirono dapprima di Kandahar, poi di Herat infine cinsero d’ assedio Kabul che conquistata nel 1996, fu poi perduta e di nuovo conquistata nel corso della lotta contro i Tagiki e gli Uzbeki dell’ Alleanza del Nord. Finalmente nell’ estate del 1998 i Talebani riuscirono a liberare la maggior parte del paese, tranne le estreme regioni nord orientali in cui si erano asserragliati gli ultimi “Signori della Guerra” della Alleanza del Nord.
L’ Emirato Islamico dell’ Afghanistan venne riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita ed il paese potè ritrovare unità e pace dopo trent’ anni di guerre.
Una volta al potere, i Talebani istituirono la sharia (legge islamica), che, come noto, prevede severissime pene per alcuni reati, come ad esempio l’ amputazione di una o di entrambe le mani per il reato di furto. Inoltre, poco dopo aver conquistato il potere, i Talebani vietarono la coltivazione dei papaveri da oppio. La produzione crollò da 4000 tonnellate nel 2000 (circa il 70% del totale mondiale) a 82 tonnellate nel 2001, quasi tutte raccolte nelle parti dell'Afghanistan ancora controllate dall'Alleanza del Nord. Con l’ invasione americana, alla fine del 2001, e con l’ istituzione del governo fantoccio di Karzai (soprannominato il "sindaco di Kabul" per sottolinearne la scarsissima autorità e supporto popolare in gran parte del paese) la produzione di oppio è aumentata drammaticamente ed è tutt’ ora in aumento. (vedi in questo stesso sito l' articolo di Massimo Fini "Bugie in TV sui seguaci del Mullah Omar")
L' invasione americana dell' ottobre 2001
La credenza generale è che alla richiesta da parte di Bush di consegnare i leader di al Qaeda agli Stati Uniti, i Talebani abbiano opposto un netto rifiuto. In realtà le cose non andarono proprio così.
I Talebani, giudicando che le accuse non erano sufficientemente provate per concedere questa “estradizione forzata”, proposero, in risposta, di consegnare Bin Laden al Pakistan, (paese con cui avevano sempre avuto buoni rapporti anche per la presenza dell’ etnìa Pashtun da tutte e due le parti del confine) affinchè fosse processato in un tribunale internazionale sottoposto alle leggi della Sharia.
Il 7 ottobre, poco prima dell'inizio dell'invasione, i Talebani si dichiararono pubblicamente disposti a processare Bin Laden in Afghanistan attraverso un tribunale islamico. Gli USA rifiutarono anche questa offerta giudicandola insufficiente. Infine il 14 ottobre, iuna settimana dopo lo scoppio della guerra, i Talebani acconsentirono a consegnare Bin Laden a un paese terzo per un processo, ma sempre se fossero state fornite prove del coinvolgimento di Bin Laden negli eventi dell' 11 settembre.
In realtà pare che gli Stati Uniti avessero pianificato l'invasione dell'Afghanistan ben prima dell'11 settembre. Il 18 settembre 2001 Niaz Naik ex-Ministro degli Esteri pakistano dichiarò che a metà luglio dello stesso anno venne informato da alcuni ufficiali superiori statunitensi che un'azione militare contro l'Afghanistan sarebbe iniziata nell'ottobre seguente. Naik dichiarò anche che, sulla base di quanto detto dagli ufficiali, gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato al loro piano persino nell'eventualità di una resa di bin Laden da parte dei Talebani. ("... it was doubtful that Washington would drop its plan even if Bin Laden were to be surrendered immediately by the Taleban...)
Naik affermò anche che sia l'Uzbekistan sia la Russia avrebbero partecipato all'attacco, anche se in seguito ciò non si è verificato.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non autorizzò l'uso della forza contro l'Afghanistan in nessuna risoluzione.
Dasht-E Leili
Il 21 novembre 2001 circa 8000 tra soldati Talebani e civili di etnia Pashtun si arresero a Konduz al comandente dell' Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum. La maggior parte di loro non fu vista mai più. Il fatto non passò sotto silenzio e quasi subito sulla stampa occidentale apparvero articoli che si chiedevano cosa fosse successo e, sopratutto, quanto fossero coinvolti gli americani in quello che aveva tutta l' aria di essere un massacro ed un crimine di guerra (vedi ad esempio l' articolo sul Guardian del 2 dicembre 2001)
Il sito in cui erano stati seppelliti i corpi della gran parte dei Talebani fu sottoposto ad indagini da parte degli esperti di medicina forense dell' associazione Medici per i Diritti Umani (Physicians for Human Rights) che disseppellirono ed analizzarono alcuni corpi giungendo alla conclusione che mostravano i segni di morte per soffocamento. Physicians for Human Rights ed Amnesty International richiesero che il sito venisse preservato in modo da poter portare avanti altre indagini su quello che appariva come uno dei peggiori crimini di guerra, ma nulla accadde. (A dimostrazione della doppia morale adoperata dai media, si ricorderà che il ritrovamento di 45 corpi a Racak in Kosovo causò ampi clamori sulla stampa e quindi sull' opinione pubblica e costituì un pretesto importante per gli attacchi NATO contro la Serbia). Ma il tentativo di far cadere l' episodio nell' oblio fallì grazie al lavoro del documentarista irlandese Jamie Doran che, inseguendo le notizie del massacro, si recò nel 2002 sul posto dove ebbe modo di intervistare testimoni, partecipanti, ufficiali, sopravvissuti, nonchè specialisti di medicina forense. Nacque così un documentario che fu trasmesso in Europa ed in altre nazioni del mondo (non negli USA) nell' estate del 2002 e che fu anche trasmesso al parlamento europeo. Inoltre il regista Jamie Doran fu autore anche di alcuni articoli sulla stampa internazionale per denunciare ciò che aveva visto e la congiura del silenzio attorno il massacro di Dasht-E Leili.
Di seguito riportiamo alcuni stralci dell' articolo a firma di Jamie Doran che fu pubblicato nel settembre 2002 su "Le Monde Diplomatique" :
... Kabul cadde praticamente senza colpo ferire: i taliban fuggivano da Kokcha, a nord-est, e da Taloqan e Mazar verso sud, in direzione di Kunduz. Circa 15.000 uomini, tra cui molti venuti da altri paesi per combattere a fianco dei taliban, si troveranno intrappolati in questa città, presa d'assedio dagli effettivi due volte più numerosi dell'Alleanza del Nord. Alcuni riuscirono a fuggire attraverso uno stretto corridoio verso sud; molti passarono dall'altra parte, pur di salvare la pelle (un fenomeno molto comune nella guerra afghana). Quanto a quelli rimasti, la loro sorte era nelle mani dei negoziatori. Al centro delle trattative si trovava Amir Jhan, altro signore della guerra, che godeva della fiducia generale.
«I comandanti di Kunduz erano tutti miei commilitoni e amici: alcuni anni fa avevamo combattuto fianco a fianco. Perciò mi fu chiesto di mettermi in collegamento con i capi dell'Alleanza del Nord, per porre fine a tutto questo attraverso il negoziato piuttosto che con le armi. Alcuni di quei comandanti - tra cui Marzi Nasri, Agi Omer e Arbab Hasham - hanno convinto quelli di al Qaeda e vari gruppi di stranieri ad arruolarsi nelle nostre file».
La prima proposta di accordo con l'Alleanza del Nord prevedeva che i comandanti taliban consegnassero le armi alle Nazioni unite o a qualsiasi altra forza internazionale, in cambio di alcune garanzie.
«Ero presente quando i mullah (taliban) Faisal e Nori arrivarono insieme con altri a Kalai Janghi per incontrare i generali Dostum, Maqaq e Atta. C'erano anche alcuni americani e qualche inglese. Si è deciso che se avessero consegnato le armi, i combattenti afghani di Kunduz avrebbero potuto far ritorno alle loro case, mentre quelli di al Qaeda e gli stranieri sarebbero stati consegnati alle Nazioni unite».
L'immensa fortezza di Kalai Janghi, nei dintorni di Mazar, adottata come quartier generale prima dai taliban e poi da Dostum, sarà al centro dei successivi eventi. Mentre già si stava discutendo l'accordo intervenne il segretario alla difesa americano, Donald Rumsfeld. Lo preoccupava l'idea che la fine negoziata dell'assedio potesse consentire ai combattenti stranieri di andarsene liberamente.
«Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici». È stata più volte citata un'altra sua frase, pronunciata poco dopo: «Mi auguro che siano uccisi o catturati. Si tratta di persone che hanno commesso azioni terrificanti».
I comandanti dell'Alleanza del Nord non potevano permettersi di ignorare le dichiarazioni del loro principale alleato e finanziatore, e d'altra parte non erano particolarmente motivati per contestarle. La vendetta, che qui si chiama «Intiqaam», è come uno sport nazionale in Afghanistan.
C'era nell'aria la sensazione di un massacro imminente. La città era come investita una ventata sanguinaria.
Amir Jhan, consapevole dell'estrema gravità del momento, correva instancabilmente da un comando all'altro nel tentativo di fermare quello che ormai appariva come un epilogo inevitabile. Infine, il 21 novembre si arrivò a un accordo: tutte le forze taliban si sarebbero arrese all'Alleanza del Nord contro la promessa di avere salva la vita. Circa 470 taliban provenienti da altri paesi (alcuni dei quali sospettati di appartenere ad al Qaeda) saranno portati a Kalai Janghi e rinchiusi nei tunnel sotterranei di quell'immensa fortezza. Il 25 novembre 2001, due agenti della Cia arrivano sul posto per procedere agli interrogatori individuali. Nel frattempo scoppia una rivolta: alcuni taliban colgono di sorpresa le guardie, si impossessano delle loro armi e aprono il fuoco, uccidendo nel giro di pochi minuti l'agente della Cia Johnny «Mike» Spann e una trentina di soldati dell'Alleanza del Nord.
Segue uno scontro a fuoco, che si intensifica quando i taliban riescono a mettere le mani sul deposito d'armi del fortino che si trova - per quanto ciò possa sembrare assurdo - poco lontano dal luogo in cui erano rinchiusi i prigionieri. Le forze speciali di terra Usa chiedono un intervento aereo, mentre i britannici della Sas passano al contrattacco. Al terzo giorno di combattimenti, nella fortezza non c'è più un solo taliban in vita: una circostanza insolita, dato che al termine di qualsiasi operazione militare rimane sempre sul terreno qualche superstite, sia pure gravemente ferito. Gli eventi di Kalai Janghi monopolizzano l'attenzione dei giornalisti occidentali, richiamati in massa dalla resa di Kunduz. Da un complesso vicino relativamente al sicuro, o anche da postazioni più distanti, inviano servizi dai toni sensazionalisti, tanto più che tra gli 86 uomini rimasti nei tunnel sotterranei di Kalai Janghi si scopre un taliban americano, John Walker Lindh.
Sembra incredibile che in quel momento nessuno abbia avuto l'idea di chiedersi quale fosse stata la sorte degli altri soldati sconfitti a Kunduz. Soltanto dopo la proiezione di alcuni spezzoni del nostro documentario davanti al parlamento europeo di Strasburgo si sono levati appelli per un'inchiesta internazionale indipendente sulla sorte di quelle migliaia di uomini .... La loro fine lascerà sull'Alleanza del Nord, sui media occidentali, sull'Onu, sul governo Usa e sui militari americani un'ombra che non potrà scomparire mai più.
In un'altra fortezza, mai citata dagli organi di informazione occidentale, avrà inizio la strage di circa 3.000 prigionieri.
Ascoltiamo di nuovo Amir Jhan, che aveva preso parte ai negoziati per la resa: «Li avevo contati uno per uno: erano in 8.000. Ne rimanevano 3.015. Ma tra questi 3.015 c'erano anche molti pashtun locali, di Kunduz o delle città vicine, non compresi nel conto dei prigionieri che si erano consegnati. E gli altri, che fine avevano fatto?» La risposta a questa domanda si trova, almeno in parte, sotto quella duna lunga cinquanta metri, nel deserto di Dasht Leili.
Il conto è semplice: più di 5.000 uomini mancano all'appello. Qualcuno sarà riuscito a fuggire; qualche altro potrebbe aver ottenuto la libertà in cambio di denaro, e molti sono stati forse venduti ai servizi di sicurezza dei rispettivi paesi, per subire un destino forse peggiore della morte. Ma in maggioranza quei prigionieri, secondo vari testimoni oculari che abbiamo potuto ascoltare durante i sei mesi della nostra inchiesta, sono lì, sepolti sotto la sabbia. Nessuno dei testimoni che abbiamo interrogato ha ricevuto un soldo da noi, e tutti rischiano grosso per aver accettato di collaborare al nostro film. La tragedia inizia nella fortezza di Kalai Zeini, sulla via che conduce da Mazar a Shiberghan. Questa costruzione, immensa anche a confronto di altre enormi costruzioni afghane, è stata il campo di transito delle migliaia di uomini catturati a Kunduz. Ufficialmente si trattava di trasferire i prigionieri al carcere di Shiberghan, dove sarebbero stati detenuti in attesa di essere interrogati dagli esperti americani, che dovevano selezionare quelli da trasferire a Guantanamo (Cuba).
A Kalai Zeini, i prigionieri ricevono l'ordine di sedersi per terra in un vasto campo recintato. Poco dopo arriva un convoglio di camion carichi di container metallici. I prigionieri sono costretti ad avanzare in fila indiana per andare a stiparsi nei container. Ecco il racconto di un ufficiale dell'Alleanza del Nord, che ha accettato di parlare a condizione di mantenere l'anonimato: «Noi eravamo responsabili della consegna dei prigionieri, e per il tratto da Zeini a Shiberghan abbiamo caricato 25 container. In ciascuno ne abbiamo fatti entrare circa 200.
Schiacciati come sardine in quegli scatoloni metallici senz'aria, nel buio pesto e a una temperatura di oltre 30°, i taliban gridano implorando clemenza. La risposta non tarda ad arrivare, come conferma un altro militare afghano: «Ho sparato sui container per praticare qualche foro per l'aria, e ci sono stati dei morti». Domanda: «Dunque, lei ha sparato per forare i container. Chi le ha dato quest'ordine?» Risposta: «Ce lo hanno ordinato i comandanti».
Ma dietro la sincerità di quest'uomo è facile intuire un'estrema crudeltà. Abbiamo potuto constatare che molti dei fori da pallottole si trovavano nella parte bassa o media dei container e non più in alto, come sarebbe stato logico se davvero l'intenzione fosse stata quella di far respirare i prigionieri.
Un tassista locale si era fermato a uno dei distributori di carburante improvvisati che costellano le strade principali: «Il giorno in cui i prigionieri sono stati trasportati da Kalai Zeini a Shiberghan, mi ero fermato per fare il pieno. Sentivo un odore strano, e ne chiesi la causa all'addetto."Voltati e guarda", mi disse. C'erano tre camion con sopra dei container. E da lì scorrevano rivoli di sangue. Mi si drizzarono i capelli per l'orrore. Volevo andarmene, ma non potevo muovermi perché uno dei camion [che sbarrava la strada] aveva un guasto; così sono stato costretto ad aspettare che lo togliessero di mezzo». L'indomani, mentre si trovava davanti alla sua abitazione a Shiberghan, fu colpito da uno spettacolo non meno orrendo: «Ho visto passare altri tre camion carichi di contenitori dai quali colava sangue».
Non tutti i container sigillati avevano beneficiato dei «fori di areazione». In alcuni, lasciati ermeticamente chiusi per quattro o cinque giorni, i prigionieri erano morti asfissiati. Quando infine furono aperti, di loro non rimaneva altro che un ammasso di corpi in decomposizione, urina, feci, vomito e sangue.
Chiunque entri nel carcere di Shiberghan non può fare a meno di chiedersi chi mai abbia potuto pensare di stipare in questa struttura, prevista per un massimo di 500 detenuti, un numero di prigionieri quindici volte maggiore. È stato veramente un caso se la maggior parte di quelli che avrebbero dovuto rimanere qui non sono mai arrivati? I container, con il loro carico di carne macellata, si fermarono in fila davanti all'edificio. Uno dei soldati che li avevano scortati era presente quando i comandanti del carcere ricevettero l'ordine di far sparire al più presto le prove di quanto era accaduto: «La maggior parte dei container erano forati dalle pallottole. In ciascuno erano stati rinchiusi circa 150 o 160 uomini. Erano morti quasi tutti, tranne qualcuno che respirava ancora. Gli americani hanno dato ordine a quelli di Shiberghan di portarli lontano da lì prima che venissero filmati dal satellite».
Questa accusa di coinvolgimento americano sarà cruciale per ogni inchiesta futura. Il diritto internazionale in materia - come del resto le leggi nazionali e le leggi di guerra - riposa in larga misura sull'accertamento della catena gerarchica degli ordini che hanno portato a commettere il crimine. In altri termini, si tratterà di sapere chi fosse alla testa dei responsabili di quanto è accaduto a Shiberghan.
Abbiamo individuato due dei camionisti, provenienti da regioni diverse: l'uno e l'altro, separatamente e in giorni diversi, ci hanno accompagnati nello stesso punto del deserto. Erano visibilmente scossi per aver partecipato in prima persona a questi fatti, e i loro resoconti del percorso da Kalai Zeini a Shiberghan e quindi a Dasht Leili sono agghiaccianti: 1° camionista: «C'erano circa 25 container. I prigionieri stavano malissimo perché lì dentro non potevano respirare; perciò hanno sparato sulle pareti. Molti di loro sono morti. A Shiberghan hanno scaricato quelli che davano chiaramente segni di vita. Ma c'erano parecchi taliban feriti e altri erano svenuti per la debolezza. Quelli, li abbiamo portati in un posto chiamato Dasht Leili, dove li hanno finiti a colpi d'arma da fuoco. Sono tornato qui tre volte, e a ogni viaggio ho trasportato 150 prigionieri. Urlavano e piangevano davanti alle armi spianate. Eravamo in dieci o quindici camionisti a fare lo stesso percorso».
Secondo camionista: «A Mazar mi hanno requisito il camion senza darmi un soldo. Hanno preso il mio camion e ci hanno caricato sopra un container, e io ho dovuto trasportare i prigionieri da Kalai Zeini a Shiberghan e poi a Dasht Leili, dove i soldati li hanno ammazzati.Alcuni erano ancora vivi, feriti o svenuti. Li hanno portati qui, gli hanno legato le mani e gli hanno sparato. Ho fatto quattro viaggi andata e ritorno per trasportare i prigionieri. In tutto ne avrò portato circa 550 o 600».
Primo camionista: «Nel carcere di Shiberghan c'erano alcuni jumbish (afghani di origine uzbeka). Non ho visto americani qui a Dasht Leili, ma li avevo visti nel carcere: può darsi che fossero dentro i camion».
Secondo camionista, (interrogato sulla presenza degli americani): «Sì, erano con noi qui a Dasht Leili» «In quanti erano?» «In parecchi; saranno stati trenta o quaranta. Ci hanno scortati le prime due volte; poi, nei due viaggi successivi, non li ho più visti».
A distanza di mesi, le tracce dei bulldozer sono ancora visibili sul luogo della strage, a Dasht Leili. I cadaveri erano stati gettati in una fossa e nascosti sotto tonnellate di sabbia. Secondo testimonianze oculari, i sopravvissuti al trasporto da Kalai Zeini al carcere di Shiberghan hanno subìto, per mano dei militari americani, una sorte non molto migliore di quella dei loro compagni d'armi sepolti sotto la sabbia. Un soldato afghano afferma di aver visto un militare americano uccidere un prigioniero dicendo che «Quando ero in servizio a Shiberghan, ho visto un soldato americano spezzare il collo a un prigioniero. Altre volte gli rovesciavano addosso dell'acido o qualcosa del genere. Gli americani facevano quello che volevano, noi non avevamo nessun potere per impedirglielo ... Tutto era sotto il controllo del comandante americano».
Un generale dell'Alleanza del Nord, pure di stanza a Shiberghan in quei giorni, ha dichiarato: «Li ho visti con i miei occhi colpirli a pugnalate nelle gambe, tagliargli la barba e i capelli, mozzargli la lingua. A volte pareva che lo facessero solo per divertirsi. Portavano fuori un prigioniero, lo pestavano a volontà e poi lo ributtavano in cella. Ma a volte non li riportavano dentro. A volte i prigionieri scomparivano».
Tutte le persone intervistate nel nostro film si sono dichiarate disponibili a deporre davanti a qualsiasi istanza internazionale o Tribunale che persegua i crimini venuti alla luce grazie alla loro testimonianza; e se ne avranno l'occasione, sono anche pronte a identificare i militari americani coinvolti.
Dato il lungo tempo trascorso, sarà probabilmente difficile trovare le prove delle torture e degli omicidi perpetrati all'interno del carcere di Shiberghan. Ma a quattro chilometri da quella prigione c'è una fossa comune che contiene probabilmente i resti di migliaia di uomini uccisi. Se è vero che militari americani erano effettivamente coinvolti, o sono stati anzi all'origine della catena di comando che ha portato all'ordine di eliminare questi prigionieri, come affermano numerose testimonianze, o se hanno assistito senza intervenire all'esecuzione sommaria di centinaia di uomini, devono rispondere di crimini di guerra.
Il massacro di My Lai, nel 1968, per il quale il tenente William Calley è stata giudicato da una corte marziale, può sembrare roba d'altri tempi; può darsi che per molti aspetti, da allora il mondo sia cambiato. Ma i capisaldi del diritto e della giustizia sono ancora gli stessi. E chi è innocente non dovrebbe temere che la verità venga a galla.
Jamie Doran - settembre 2002 - Le Monde Diplomatique
Concludiamo riportando alcune frasi di un articolo che il prof. Edward Herman ha scritto nel 2004 sul massacro di Dasht-E Leili. L' autore è Professore Emerito alla Wharton School, University of Pennsylvania, economista e studioso analista dei media:
The UN Security Council and Kofi Annan will never do anything that the United States opposes strongly, and there are no international bodies with investigative and punitive powers that will move against U.S. desires, and none will be established for special investigation and the pursuit of justice. With some honorable but powerless exceptions the world’s NGOs (organizzazioni non governative Nota del curatore del sito) will not make much noise about a U.S.-approved massacre, nor will the Western (and especially U.S.) media and “humanitarian intervention” intellectuals. (.....) So once again we see how smoothly the system works, with power determining which massacres are worthy of attention and indignation, and that power causing everybody else to fall in line—the craven allies who remain silent; Kofi Annan and the UN adjusting nicely to the “political sensitivity” of dealing with a U.S.-sponsored massacre; the NGOs, a few calling for an investigation, but most of them quiet and channeling their benevolence in accord with funding sources and practicality; the mainstream media, as always, recognizing the unworthiness of the victims of U.S.
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Inopinatamente nel luglio del 2009 un articolo su The New York Times ha riportato almeno momentaneamente l' attenzione sulla vicenda. L' articolo di James Risen, dal titolo "U.S. Inaction Seen After Taliban P.O.W.’s Died " formula anche accuse abbastanza dirette all' amministrazione Bush:
"...Bush administration officials repeatedly discouraged efforts to investigate the episode, according to government officials and human rights organizations. American officials had been reluctant to pursue an investigation — sought by officials from the F.B.I., the State Department, the Red Cross and human rights groups — because the warlord, Gen. Abdul Rashid Dostum, was on the payroll of the C.I.A. and his militia worked closely with United States Special Forces in 2001, several officials said. They said the United States also worried about undermining the American-supported government of President Hamid Karzai, in which General Dostum had served as a defense official...." (The New york Times - 10 luglio 2009)
...Secondo funzionari di governo e le organizzazioni per i diritti umani, gli esponenti dell' amministrazione Bush ripetutamente scoraggiarono i tentativi per nvestigare sull' episodio. I funzionari governativi statunitensi sono sempre stati riluttanti a mandare avanti una qualche indagine sull' argomento, intentata dall' F.B.I., dal Dipartimento di Stato, dalla Croce Rossa e dai gruppi per i diritti umani, in quanto il signore della guerra gen. Abdul Rashid Dostum era a libro paga della C.I.A. e la sua milizia nel 2001 aveva lavorato in stretta cooperazione con le Special Forces statunitensi. Le stesse fonti spiegavano come l' amministrazione statunitense fosse anche preoccupata di indebolire il governo di Karzai, creato e sostenuto dagli americani, nel quale il generale Dostum era stato ministro della difesa...
il giornalista Risen si pone la domanda se l' amministrazione Obama avrà la voglia, la volontà, l' interesse di avviare una seria indagine.
Tre giorni dopo il primo articolo, un editoriale sempre sul NYT rincara la dose:
"Add this to the Bush administration’s sordid legacy: a refusal to investigate charges that forces commanded by a notorious Afghan warlord — and American ally..."
ed inoltre a riguardo delle responsabilità dirette americane:
"They say American forces accepted the surrender of prisoners jointly with General Dostum. A NATO base was near the grave site...."
(The New York Times - 13 luglio 2009)
Nel frattempo l' ingombrante Dostum, signore della guerra alleato degli americani, ha fatto sapere che secondo i suoi dati solo circa 200 prigionieri talebani morirono e comunque a causa delle ferite e per malattia.
Nel frattempo i gruppi per i diritti umani hanno espresso il documentato timore che le prove possano essere state distrutte. Nel 2008, un' altro team di esperti di medicina forense ingaggiati dalle Nazioni Unite hanno scoperto che nella zona sono stati eseguiti grandi sbancamenti che suggeriscono che le fosse comuni erano state rimosse. Secondo Risen l' opera di rimozione va avanti già da anni: "Satellite photos obtained by The Times show that the site was disturbed even earlier, in 2006".
Nel frattempo, infine, il "volto nuovo" l' "idealista" presidente Obama ha rafforzato l' impegno militare statunitense in Afghanistan mandando altri 21000 soldati e pianificando l' invio di altre truppe a combattere la crescente resistenza...
gilgamesh58 ultima modifica agosto 2009
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fonti - approfondimenti:
"The Convoy of Death" il documentario sul massacro di Dasht-E Leili
Un trailer (durata 5 min.) del documentario di Doran
L' articolo di Doran su Le Monde Diplomatique
La traduzione del precedente
L' articolo di Edward Herman
Film Accuses U.S. of Atrocities at Dasht-i-Leili
Le parole di Rumsfeld riportate dall ' Herald Tribune
Un articolo di The Guardian sul documentario di Doran
La traduzione del precedente
Intervista a Jamie Doran autore del documentario
l' articolo su The New york Times del luglio 2009
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