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venerdì 26 novembre 2010

MIRCEA ELIADE - ADDENDA

23/11/10
Il "Diario Portoghese" di Eliade all'Accademia di Romania

Oggi alle ore 18.30
presso la Biblioteca dell'Accademia di Romania in Roma                      
Valle Giulia, Piazza José de San Martin, 1


Presentazione del volume Mircea Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, Milano, 2009

A fine anno 2009 è stata pubblicata la traduzione italiana (di Cristina Fantechi) del Diario portoghese di Mircea Eliade, presso la casa editrice Jaca Book, con una prefazione firmata da Roberto Scagno, maggior specialista italiano dell'opera eliadiana e curatore dell'edizione, ed una postfazione di Sorin Alexandrescu.
Il Diario portoghese (1941-1945) è una testimonianza diretta, intensa e drammatica di un periodo cruciale della vita di Eliade. Riflessioni intime ed autentiche s'intrecciano con note di lettura e viaggio, considerazioni ed annotazioni in margine alle proprie opere letterarie e scientifiche. E, in finale, la decisione radicale: Parigi e la scelta dell'esilio.
Interverrano nel dibattito: prof. Roberto Scagno (Università degli Studi di Padova), prof. Enrico Montanari ("La Sapienza" - Università di Roma), prof. Giuliano Caroli ("La Sapienza" - Università di Roma), prof. Giovanni Casadio (Università degli Studi di Salerno), prof. Lauro Grassi (Università degli Studi di Milano).

Tratto dal:
Corriere Metapolitico, a cura di Aldo La Fata e Dalmazio Frau

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Mircea Eliade, Ifigenia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010, € 15,00



L'attività letteraria di Mircea Eliade non si esaurisce nella produzione di quindici romanzi e di oltre cinquanta novelle. Eliade scrisse anche, fra il 1939 e il 1970, alcuni lavori teatrali: Ifigenia, 1241, Uomini e pietre, La colonna infinita.
La tragedia Ifigenia, finora accessibile soltanto nell'originale romeno, venne rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Bucarest il 12 febbraio 1941. Essa si ispira alla leggenda trattata da Euripide nell'Ifigenia in Aulide (406 a.C.) e successivamente ripresa da Jean de Rotrou (1503) e da Jean Racine (1674); ma la versione eliadiana si caratterizza per il rilievo attribuito al tema del sacrificio, del quale il grande storico delle religioni si occupò, in quel medesimo periodo, anche con i Commenti alla leggenda di Mastro Manole (Bucarest 1943). "Ifigenia - ha scritto Eugen Weber - dona la vita per aprire la strada ad un esercito; Manole, il mastro costruttore di una vecchia leggenda romena, sacrifica la sua sposa perché la chiesa che costruisce possa rimanere salda. Il sacrificio umano portato a compimento per far sì che qualcosa come una costruzione duri o resista è equivalente al trasferimento mistico dell'anima dal corpo mortale in una nuova costruzione: non solo è data un'anima alla costruzione, ma la vittima è rivestita con un nuovo corpo, glorioso e più durevole. Per Manole, questo corpo sarà il monastero che egli costruisce. Per Ifigenia, sarà la guerra di suo padre Agamennone e la vittoria contro l'Asia e Troia".
Non poteva certamente sfuggire la relazione che intercorre fra il tema centrale di Ifigenia e quella vera e propria disposizione sacrificale che animò i militanti del Movimento legionario, attivo in Romania nel periodo interbellico. Questo argomento viene affrontato, nel saggio introduttivo della presente edizione, dallo stesso traduttore della tragedia, Claudio Mutti, autore di studi sul rapporto che col Movimento legionario ebbero alcuni intellettuali romeni di fama mondiale (Le penne dell'Arcangelo, SEB 1994) e Mircea Eliade in particolare (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all'insegna del Veltro 1989).

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LA DOTTRINA EURASIATICA DEL SACRIFICIO


di Claudio Mutti

Nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole, dedicati al tema del sacrificio cui si ispira la leggenda romena di Mastro Manole, Eliade mostra come tale tema sia ampiamente diffuso nelle culture del continente eurasiatico. In una pagina di questo studio viene indicata come esemplare la storia di un’eroina che ha ispirato all’Autore il più bello dei suoi lavori teatrali: Ifigenia (1).
“Ifigenia – scrive Eliade – è sacrificata perché possa effettuarsi la spedizione contro Troia. Potremmo dire che Ifigenia acquisisce un ‘corpo di gloria’ che è la stessa guerra, la stessa vittoria; vive in questa spedizione, proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero” (2). Il sacrificio di Ifigenia appartiene quindi alla categoria di quei sacrifici di costruzione che troviamo attestati da un capo all’altro dell’Eurasia. "Le pratiche e le credenze relative ai sacrifici di costruzione – scrive infatti lo stesso Eliade – si ritrovano un po' dappertutto in Europa, ma in nessuna parte hanno dato luogo a una letteratura popolare paragonabile a quella del Sud-Est” (3).
Con “Sud-Est” Eliade intende l’area danubiano-balcanica, ma le tradizioni popolari ungheresi ci mostrano che una leggenda identica a quella di Mastro Manole è presente anche nel bacino carpatico: la ballata székely di Kömives Kelemen, infatti, si riferisce alla costruzione della cittadella di Déva, in Transilvania (4). Secondo Ladislao Bo'ka, "la variante székely è probabilmente di origine greca, ma trasmessa dagli Slavi meridionali" (5).
In ogni caso, “il motivo di una costruzione il cui compimento esige un sacrificio umano è attestato in Scandinavia e presso i Finni e gli Estoni, presso i Russi e gli Ucraini, presso i Germani, in Francia, in Inghilterra, in Spagna. (...) La scoperta di scheletri nelle fondamenta dei santuari e dei palazzi del Vicino Oriente antico, nell'Italia preistorica, e altrove, pone fuori di ogni dubbio la realtà di tali sacrifici" (6).
Ma tra i fratelli spirituali dell'Ifigenia di Eliade non c'è soltanto Mastro Manole: c'è anche il pastorello della ballata popolare romena di Mioriţa [L'agnellina]. Lo fa opportunamente notare Mircea Handoca, il quale osserva che "la visione d'insieme, le valenze e i significati che lo scrittore attribuisce al mito [si collocano] in uno spazio spirituale mioritico" (7) e richiama l'attenzione su queste parole di Ifigenia: "Ecco come cadono gli astri alle mie nozze! Il murmure delle acque, il sussurro degli abeti, il gemito della solitudine: tutte le cose sono come le ho conosciute!" In effetti, il tema della morte come sposalizio è dominante nelle ultime parole di Ifigenia: "Ricordati, - dice l'eroina eliadiana ad Agamennone - è una sera di nozze. Adesso, da un momento all'altro, sarò sposa... Perché tutti hanno fatto silenzio e non si odono più i canti sereni delle vergini? [...] Ma perché non si odono cantici di nozze? Perché gl'invitati non intrecciano ghirlande di fiori dai colori accesi e la sposa è rimasta con l'abito nero del giorno? [...] Portatemi il velo di sposa!" Sono parole essenzialmente analoghe a quelle del pastorello di Mioriţa: "Di' loro soltanto - che mi son sposato - con una regina, - la sposa del mondo; - che al mio sposalizio - caduta è una stella". Studiando la ballata della Pecorella veggente, Eliade dirà che "la morte assimilata a un matrimonio è [un motivo folclorico] arcaico e affonda le sue radici nella preistoria" (8).
Il tema del sacrificio generatore di vittoria era già chiaramente presente nell’Ifigenia euripidea. “Io – dice la protagonista della tragedia di Euripide – vengo a dare ai Greci una salvezza apportatrice di vittoria. Portatemi via, io sono l’espugnatrice della città di Ilio e dei Frigi” (9). Non è dunque senza una qualche ragione che François Jouan ha equiparato alla “devotio” (10) dei Romani il sacrificio dell’eroina euripidea. Devotio, come è noto, era nella religione romana quella particolare forma di votum secondo cui il generale immolava se stesso al fine di conseguire la vittoria nel combattimento. “Forza e vittoria” (vim victoriamque) chiede agli dèi il console Decio Mure, al contempo offerente e vittima sacrificale (11). Questa concezione dell’autosacrificio che sprigiona forza e produce vittoria riecheggia in Racine, il quale fa dire alla sua Ifigenia: “La sentenza del destino vuole che la vostra felicità sia frutto della mia morte. Pensate, signore, pensate alle mèssi di gloria che la Vittoria offre alle vostre mani valorose. Quel campo glorioso, al quale voi tutti aspirate, se il mio sangue non lo innaffia, è sterile per voi. […] Già Priamo impallidisce; già Troia in allarme paventa il mio rogo” (12).
Nelle leggende relative ai rituali di costruzioni e nelle creazioni artistiche ispirate dal mito di Ifigenia circola dunque una stessa concezione: quella che un famoso folclorista ha riassunto in questi termini: "Il padre (nel caso di Ifigenia), o il marito (nei canti popolari), offrendo la figlia o la moglie, offrono se stessi, onde quella sostituzione unisce nell'ambito umano e divino il sacrificante e la vittima" (13). Ma anche questo concetto, in fin dei conti, era già stato espresso dalle Scritture indù: "La vittima (pashu) è sostanzialmente (nidânêna) il sacrificante stesso" (14).
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1. M. Eliade, Ifigenia (traduzione e saggio introduttivo di C. Mutti), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010.
2. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, in: M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 90. Cfr. M. Eliade, Mastro Manole e il Monastero d'Arges, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, pp. 146-168.
3. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, in Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, p. 74. Per la vasta letteratura relativa a questo tema, si veda G. Cocchiara, Il ponte di Arta, in Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, pp. 84-125. Siccome né Cocchiara né Eliade fanno menzione della leggenda connessa alla costruzione delle mura di Kazan' (Repubblica Autonoma Tatara), che dal 1239 al 1552 fu capitale del Canato tartaro, mi si consenta di rinviare alla traduzione della rispettiva ballata mordvina, in: C. Mutti, Kantele e krez. Antologia del folklore uralico, Arthos, Carmagnola 1979, pp. 60-63.
4. C. Mutti, Canti e ballate popolari ungheresi, Quaderni italo-ungheresi, Parma 1972, pp. 95-104.
5. L. Bóka, Ballate popolari transilvane, "Corvina", Budapest, ottobre 1940.
6. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, cit., p. 75.
7. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, [Il mito del sacrificio creatore], “Manuscriptum” (Bucarest), a. V, n. 1 (1974).
8. M. Eliade, La pecorella veggente, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 208.
9. “soterìan Héllesi dòsous’ érchomai nikefòron. Ágeté moi tàn Ilìou kaì Frygôn heléptolin” (Iphig. Aulid., 1473-1476).
10. F. Jouan, Notes complémentaires, in: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, Paris 1983, p. 152.
11. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
12. “Et les arrêts du sort – Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. – Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire – Qu’à vos vaillantes mains présente la Victoire. – Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, - Si mon sang ne l’arrose, est stérile pour vous. […] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes – Redoute mon bûcher” (J. Racine, Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
13. G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, p. 120.
14. Aitareya Brahmana, II, 11.


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Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita
di Francesco Lamendola - 16/11/2010
Fonte: Arianna Editrice


L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un
sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno
dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle
tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento
di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si
trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un
conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale
società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura
occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le
stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della
mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con
l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare
fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di
corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.

Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni
naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come
vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e
di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente
spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale,
sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo
sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa
esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti),
nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla
terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose
correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo
stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta,
padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per
esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano
germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del
lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della
natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante
i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la
Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza
e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che
riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e,
di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato
insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso
esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è
una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una
forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la
mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di
pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose
e della vita; non limitandosi - però - alla dimensione del pensiero
logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose,
ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il

volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per
mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di
conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo
della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di
esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto
questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico
è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente
dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner,
apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte
dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il
significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con
particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha
scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura
europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth
and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla
Editore, 1974, pp. 144-46):
«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente
rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con
il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il
mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi
animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti,
l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con
i suoi antenati oppure con i suoi “totem” - ad un tempo natura,
sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e
risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né
meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare
uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente
per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal
mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si
lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o
l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un
consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle
società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio,
sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e
tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può
influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua
sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e
sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa
che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne,
che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare
“centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca
in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i
rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è
visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far
prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura
delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il
cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della
valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito
come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte
più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso
socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad
accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a
uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e
animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di
Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre
un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte
integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura,
l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei
“primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un
parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste
soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta
ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa
concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa
di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione
religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La
sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un
significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella
costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto,
le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla
luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo
perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando
come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa
sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia
sacra”.»
Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni
edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito
del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e,
del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della
letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria
che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo;
episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura
molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di
un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un
legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla

luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune
vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato
anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla
celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni,
addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento
realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon),
dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al
Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è
indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e
l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo,
dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per
scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla
vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi
Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per
propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una
vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la
concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in
maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro
vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla
frustrazione di essere membri di una società esasperatamente
individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la
dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta
interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche
l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un
ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto
privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un
disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato
l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare,
almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella
fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare
l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume
le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento
della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e
potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare
alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i
vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude
all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da
vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali
forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che,
nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una
concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi
del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e
della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e
quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine
esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir
trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore
all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto
l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono
all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso,
il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale
radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni
siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e
realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra
presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e
continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne
l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e
scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di
razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto,
una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che
coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare
dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.

giovedì 28 ottobre 2010

MIRCEA ELIADE - IFIGENIA

 FRESCO   DI  STAMPA  PRESSO EDIZIONI  ALL'INSEGNA   DEL   VELTRO                                                              

U N A T R A G E D I A D I M I R C E A E L I A DE

Una tragedia di Mircea Eliade
di Claudio Mutti
Apparso sul suo sito www.claudiomutti.com

Mercoledì 12 febbraio 1941, nella sala "Comedia" del Teatro Nazionale di Bucarest (diretto all'epoca dal romanziere Liviu Rebreanu) andava in scena la prima di Iphigenia, dramma in tre atti e cinque quadri che Eliade aveva scritto alla fine dell'autunno 1939. L'opera fu diretta dal regista Ion Sahighian e musicata da N. Buicliu; la parte della protagonista venne affidata ad Aura Buzescu. Tra febbraio e marzo, si ebbero dieci rappresentazioni, alle quali Eliade non poté esser presente, perché si trovava all'estero da diversi mesi. Le notizie che pervennero all'autore circa il successo del dramma non furono esaltanti: "Mi si disse -scrive Eliade nelle sue Memorie- che mancavo di 'vigore drammatico', il che probabilmente è vero. Se Iphigenia ha qualche merito, bisogna cercarlo altrove"1.
Il testo dattiloscritto del dramma, custodito alla Biblioteca del Teatro Nazionale, fu pubblicato da Mircea Handoca nel 19742; ma già nel 1951 era uscita in Argentina, a cura di un gruppo di esuli romeni, un'edizione ciclostilata del testo, cui Eliade aveva apportato lievi modifiche formali3. L'edizione argentina recava una dedica "alla memoria di Haig Acterian e Mihail Sebastian" e conteneva una prefazione dell'Autore, nella quale si legge: "Pubblico con gioia, ma anche con una stretta al cuore, quest'opera giovanile, che piaceva tanto, quando fu scritta, ai miei amici Haig Acterian, Mihail Sebastian, Constantin Noica ed Emil Cioran. Due degli amici migliori -Acterian e Mihail Sebastian- non sono più tra noi. Dedico loro questo testo, che tutti insieme abbiamo amato nel crepuscolo della nostra giovinezza".
Mihail Sebastian non si era recato alla prima di Iphigenia. "Avrei avuto l'impressione di assistere a una riunione di cuib4", scrive nel suo Diario il drammaturgo ebreo. Questo sospetto gli viene confermato da una telefonata di Nina Mares, la moglie di Eliade, la quale gli dice che l'opera ha avuto un grande successo e che proprio per questo teme che possa essere vietata dalle autorità. Da una ventina di giorni, infatti, il generale Antonescu ha instaurato la dittatura militare e sta cercando di liquidare il Movimento Legionario. Mihail Sebastian si reca dunque ad assistere a una successiva rappresentazione del dramma, ed annota: "Grande insuccesso, uno dei più grandi insuccessi del Nazionale!" Ma aggiunge anche: "Sembrava molto più interessante di quanto, per quel che ricordo, non mi era sembrata quando l'avevo letta. In compenso, lo spettacolo è grossolano, privo di stile, privo di nobiltà"5.
In quegli stessi giorni, Petru Comarnescu (1905-1970) affidava anche lui alle pagine del proprio Diario una annotazione sul lavoro teatrale di Eliade; ma il giudizio di Comarnescu risulta alquanto diverso da quello di Sebastian. "Ifigenia di Mircea Eliade, -scrive- rappresentata al Teatro Commedia (il Nazionale è in restauro in seguito al terremoto), è molto debitrice ad Euripide e Racine, a parte il sogno di Ifigenia e la sua posizione, con cui Eliade vuole ricordare Codreanu. Montaggio grandioso, interpretazione di bravi attori, come Aura Buzescu (Ifigenia) e Mihai Popescu (Achille). Hanno stili diversi di recitazione. Aura Buzescu è statica e lirica, Mihai è irruente, impetuoso, esplosivo, esteriore"6.
Norman Manea, un autore che a detta del suo contribule Heinrich Böll "più di ogni altro [più di Kafka, Musil e Schulz] merita di essere conosciuto in tutto il mondo"7, scriverà mezzo secolo dopo: "Nel 1982, anno nero per via della dittatura di destra e comunista [sic: droitière communiste] di Ceausescu, assistetti a una rappresentazione dell'opera di Eliade Iphigenia al teatro nazionale di Bucarest. L'opera era stata rappresentata per la prima volta nel 1941, un altro anno nero, e poi pubblicata in romeno nel 1951 sulla stampa di destra argentina, il cui proprietario era un romeno espatriato [sic]8. E' innegabile che nel 1941 le tensioni fuori dal teatro, lo stato d'animo degli spettatori, le loro paure, il loro disgusto, la loro prostrazione e la loro disperazione erano in sintonia con il lavoro teatrale, in un malessere estremo, in una specie di esaltazione della morte 'sublime' per una 'causa' gloriosa"9.
Nemmeno a Eugen Weber è sfuggito il rapporto che intercorre tra lo spirito legionario e il tema centrale dell'Ifigenia eliadiana. "In alcune osservazioni introduttive alla sua commedia [sic] Iphigenia (Valle Hermoso 1951), -scrive Weber- il professor Mircea Eliade spiega come jertfa, il sacrificio, sia una concezione arcaica che egli ha già discussa in un'opera del tempo di guerra, Commenti alla leggenda di Mastro Manole (Bucarest 1943). Ifigenia dona la vita per aprire la strada ad un esercito; Manole, il mastro costruttore di una vecchia leggenda romena, sacrifica la sua sposa perché la chiesa che costruisce possa rimanere salda. Il sacrificio umano portato a compimento per far sì che qualcosa come una costruzione duri o resista è equivalente al trasferimento mistico dell'anima dal corpo mortale in una nuova costruzione: non solo è data un'anima alla costruzione, ma la vittima è rivestita con un nuovo corpo, glorioso e più durevole. Per Manole, questo corpo sarà il monastero che egli costruisce. Per Ifigenia, sarà la guerra di suo padre Agamennone e la vittoria contro l'Asia e Troia"10.
Ma tra i fratelli spirituali dell'Ifigenia di Eliade non c'è soltanto Mastro Manole: c'è anche il pastorello della ballata popolare di Mioritza [L'agnellina]. Lo fa opportunamente notare Mircea Handoca, il quale osserva che "la visione d'insieme, le valenze e i significati che lo scrittore attribuisce al mito [si collocano] in uno spazio spirituale mioritico"11 e attrae l'attenzione su queste parole di Ifigenia: "... Come cadono gli astri al mio sposalizio! E il murmure dell'acque, e lo stormir degli abeti, e il gemito della solitudine: tutto è così come l'ho conosciuto..." In effetti, il tema della morte come sposalizio è dominante nelle ultime parole di Ifigenia: "Ricordati, -dice l'eroina eliadiana ad Agamennone- è sera di nozze. Adesso, da un momento all'altro, sarò sposa... Perché tutti hanno fatto silenzio e non si odono più i canti sonori delle vergini? [...] Ma perché non si sentono i canti nuziali? Perché i convitati non intreccian ghirlande di splendidi fiori, e la sposa è rimasta con l'abito triste del giorno? [...] Portatemi il velo di sposa!" Sono parole essenzialmente analoghe a quelle del pastorello di Mioritza: "Di' loro soltanto - che mi son sposato - con una bella regina, - la sposa del mondo; - che al mio sposalizio - caduta è una stella". Studiando la ballata della Pecorella veggente, Eliade dirà che "la morte assimilata a un matrimonio è [un motivo folclorico] arcaico e affonda le sue radici nella preistoria"12. Ma questo motivo d'origine preistorica diventa un elemento importante della spiritualità legionaria: "La morte, solo la morte legionaria - è per noi lo sposalizio più caro tra tutti", dice l'inno del Movimento, scritto dal poeta Radu Gyr. E un altro poeta legionario, Dumitru Leonties, riprenderà il medesimo motivo in Mioritza legionara [L'agnellina legionaria]: "di' a mia madre - [...] che passeggio per le nubi - con i Nicadori - e con i Decemviri, - ché anche loro sono sposi [...]"13.
"Due possenti motivi di mistica della morte -leggiamo in un saggio di Z. Barbu- accendevano l'animo dei legionari. Uno è quello indigeno tradizionale che costituisce il tema centrale di una delle più note ballate romene, Mioritza, dove l'eroe in pericolo di morte riesce a vincere la paura paragonando la morte a un matrimonio in cui egli stesso è lo sposo e sua sposa è la natura. Si è detto spesso che questo era l'atteggiamento 'tipico' dei rumeni verso la morte. Ancora più forte è l'altro motivo, la resurrezione e la vittoria che si conquistano attraverso la morte secondo la mitologia cristiana"14. Al riduzionismo implicito nel richiamo alla "mitologia cristiana" vi sarebbe da obiettare; comunque, qui importa notare come anche questo secondo motivo, la conquista della vittoria attraverso la morte, sia chiaramente attestato in Iphigenia. L'eroina non sarà sacrificata come la moglie di Mastro Manole, murata viva nel muro dell'edificio. "La mia anima -dice nell'imminenza del sacrificio- non rimarrà chiusa entro le mura di un palazzo, come in un corpo di pietra. La mia anima non farà durare nessuna costruzione innalzata da mano d'uomo". La vita postuma e la vittoria di Ifigenia si realizzeranno in un evento assai più grandioso. Alla vista delle fiamme del rogo che brucerà il suo corpo, essa pronuncia queste parole: "Guardate! Il mio sepolcro non sarà nella terra! L'anima di Ifigenia farà sì che trionfi e duri qualcosa di molto maggior valore, di un altro mondo! L'anima di Ifigenia darà vita a una grande guerra, a un sogno lontano! Là mi troverete sempre, nelle vostre azioni eroiche, nel vostro sogno più prezioso, Troia". Col suo sacrificio, spiega Eliade stesso, "Ifigenia sopravvive in quel 'corpo mistico' che era il sogno di Agamennone: la guerra contro l'Asia, la conquista di Troia"15.
Eugen Weber, come si è visto più sopra, cita i Commenti alla leggenda di Mastro Manole nell'edizione del 194316; ma già nell'anno accademico 1936-'37, come supplente del prof. Nae Ionescu, Eliade aveva tenuto un corso sulla leggenda, ponendone in luce la "valorizzazione della morte rituale, l'unica morte creativa"17. E di questo "mito centrale della spiritualità del popolo romeno"18 egli aveva visto una nuova manifestazione nella morte sacrificale di Moa e Marin. "La morte volontaria di Ion Moa e Vasile Marin -scriveva infatti Eliade- ha un significato mistico: sacrificio per la cristianità [...] Ion Moa, il crociato ortodosso, partì coraggiosamente, con la pace nel cuore, per sacrificarsi per la vittoria del Salvatore"19.
Data questa sua indiscutibile conformità con l'ideale legionario del sacrificio generatore di vittoria, possiamo dire che la versione eliadiana della storia di Ifigenia costituisca un uso strumentale del mito greco? O, per dirla con Furio Jesi, una "tecnicizzazione del mito", cioè una di quelle "pseudoepifanie del mito provocate deliberatamente in vista di determinati interessi", che Károly Kerényi distingue nettamente dalle "epifanie genuine del mito, assolutamente spontanee e disinteressate"20? Nemmeno Jesi, nemico giurato di Eliade e della Guardia di Ferro, lo avrebbe potuto sostenere in perfetta coerenza con se stesso, poiché fu proprio lui a contrapporre le "trovate" del fascismo italiano ai rituali legionari, "rituali nel vero senso della parola"21. D'altra parte, Eliade fa quello che secondo il punto di vista di Jesi non è possibile: vale a dire, riattualizza il mito. E ciò, nel senso definito da queste parole di Handoca: "Si potrebbe addirittura parlare di un'autoctonizzazione dell'antica leggenda, assunta dall'autore romeno nei suoi valori originari, e non modernizzata. Mircea Eliade ritorna alle fonti del mito, ad archetipi che si sono successivamente manifestati in una varietà di espressioni artistiche"22.
Per rendersi conto di ciò, sarà sufficiente notare come la dottrina del sacrificio generatore di vittoria sia chiaramente attestata nella tragedia di Euripide. "Io -dice l'Ifigenia euripidea- vengo a dare ai Greci una salvezza apportatrice di vittoria. Portatemi via, io sono l'espugnatrice della città di Ilio e dei Frigi"23. Non è dunque senza una qualche ragione che François Jouan ha equiparato alla "deuotio"24 dei Romani il sacrificio dell'Ifigenia euripidea. Devotio, come è noto, era nella religione romana quella particolare forma di votum per cui il comandante immolava se stesso al fine di conseguire la vittoria in battaglia. "Forza e vittoria" (vim victoriamque) chiede agli dèi il console Decio Mure, al contempo offerente e vittima sacrificale25. Questa concezione dell'autosacrificio che sprigiona forza e produce vittoria riecheggia in Racine, il quale fa dire alla sua Ifigenia: "La sentenza del destino vuole che la vostra felicità sia frutto della mia morte. Pensate, signore, pensate alle mèssi di gloria che la Vittoria offre alle vostre mani valorose. Quel campo glorioso, al quale voi tutti aspirate, se il mio sangue non lo innaffia, è sterile per voi. [...] Già Priamo impallidisce; già Troia in allarme paventa il mio rogo"26.
Ma tra tutte le espressioni artistiche ispirate dal mito, quella che in modo più fedele ed efficace lo riattualizza è certamente l'Iphigenia di Eliade. E non poteva non essere così, perché l'autore romeno fu testimone della devotio di una generazione intera, respirò un'atmosfera satura di spirito sacrificale e raccolse personalmente dichiarazioni che manifestavano una disposizione spirituale "ifigeniaca". Si rileggano alcuni brani delle sue Memorie: "Codreanu credeva alla necessità del sacrificio, pensava che ogni nuova persecuzione avrebbe solo potuto purificare e rafforzare il Movimento [...] Senza dubbio Codreanu è morto, come tanti altri legionari, convinto che il suo sacrificio avrebbe affrettato la vittoria del Movimento. [...] Puiu Gârcineanu mi ripeteva [...] che lo scopo supremo del Movimento non era neanche più la redenzione individuale mediante un eventuale martirio, ma 'la resurrezione della nazione' realizzata grazie a una 'saturazione di torture e di sacrifici cruenti'. La sola smentita massiccia che sia stata data al famoso luogo comune circa la non religiosità del popolo romeno (l'unico popolo cristiano che non ha dei santi, ci veniva continuamente ricordato) è provenuta dal comportamento di alcune migliaia di Romeni nel 1938-1939, nelle prigioni e nei campi di concentramento, perseguitati o liberi che fossero"27.
Fu questo, dunque, lo scenario della riattualizzazione del mito di Ifigenia. Ma, se tale mito conobbe tra il 1939 e il 1941 una "epifania genuina e spontanea", quale fu il ruolo specifico di Eliade? La risposta ci viene discretamente suggerita dall'autore stesso, che il 16 marzo 1974 scrive nel Diario: "Strana coincidenza: ho ricevuto Iphigenia [ed. "Manuscriptum"] mentre scrivevo una novella i cui personaggi sono giovani attori che stanno ripetendo un dramma intitolato Incognito la Buchenwald, un dramma enigmatico, di cui il lettore distingue a fatica l'argomento e il genere; ma, agli occhi dei personaggi e soprattutto di Ieronim Thanase (il direttore di scena della mia novella Uniforme de general), mirava soprattutto alla trasformazione magico-spirituale di tutto l'uditorio"28.
Incognito la Buchenwald [Incognito a Buchenwald] e Uniforme de general [Uniformi di generale] rappresentano una fase particolare della narrativa eliadiana: quella in cui lo spettacolo teatrale viene visto come una forma di rivelazione e di esercizio spirituale. Questo tema si ritrova anche nella novella Adio [Addio], che secondo Nicolae Steinhardt "è un'elegia legionaria"29, nonché nel romanzo Nou[sprezece trandafiri [Diciannove rose], nel quale abbiamo creduto di scoprire accenni criptici all'esperienza legionaria dell'autore30. Quanto a Ieronim Thanase, il personaggio delle due novelle citate da Eliade nel brano di Diario riportato più sopra, egli riapparirà in Nou[sprezece trandafiri, con certe caratteristiche (paralizzato, circondato da giovani discepoli) che ne fanno una sorta di... Julius Evola in versione romanzesca, più o meno come il "dottor J.E." di Secretul doctorului Honigberger [Il segreto del dottor Honigberger]. Eliade, dunque, dice che Ieronim Thanase mira alla "trasformazione magico-spirituale" dell'uditorio; in altre parole, vuole riportare il teatro tragico alla sua funzione catartica. Partito da posizioni idealiste ma assertore della necessità di andare al di là dell'idealismo, Thanase insegna che ciascun evento storico non va solo capito e giustificato, ma va soprattutto inteso come un segno e deve perciò essere decifrato, "giacché ogni evento, ogni vicenda quotidiana comporta un significato simbolico, illustra un simbolismo primordiale, metastorico, universale..."31.
E' evidente che nel personaggio Ieronim Thanase non c'è soltanto Julius Evola, ma c'è lo stesso Mircea Eliade, l' "evoliano" Eliade degli anni trenta, sicché quanto vien detto circa l'azione spirituale che Thanase vuole esercitare sul pubblico vale anche per l'autore di Iphigenia. L'azione "magico-spirituale" di quest'ultimo si svolge secondo il paradigma della grande tradizione tragica, perché, "suscitando pietà e paura, opera la purificazione [katharsis] di tali sentimenti"32. Ma in tal modo la stessa funzione catartica assegnata alla tragedia viene a inserirsi nella strategia spirituale legionaria: quella che Corneliu Codreanu indicò più d'una volta ricorrendo a termini e a immagini corrispondenti ad una vera e propria "grande guerra santa".

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1. M. Eliade, Mémoire II 1937-1960. Les moissons du solstice, Gallimard, Paris 1988, p.58.
2. M. Eliade, Ifigenia, in "Manuscriptum" (Bucarest), a. V, n. 1 (1974). Con una breve presentazione di M. Handoca, Mitul jertfei creatoare [Il mito del sacrificio creatore]. Pagine non numerate. La grafia Ifigenia è soltanto nel titolo; nel testo si trova regolarmente la forma Iphigenia. - "Il 13 marzo, ho ricevuto la rivista Manuscriptum, nella quale Mircea Handoca ha pubblicato Iphigenia, un lavoro teatrale scritto nel 1939, l'unico mio lavoro teatrale che sia stato rappresentato (al Teatro nazionale di Bucarest nell'inverno 1941). Ma io non lo vidi mai, perché nell'aprile 1940 ero stato nominato addetto culturale presso la nostra legazione di Londra" (M. Eliade, Fragments d'un journal II. 1970-1978, Gallimard, Paris 1981, p. 177).
3. M. Eliade, Iphigenia, Cartea Pribegiei, Valle Hermoso 1951. Le nostre traduzioni dei brani della tragedia sono state eseguite sul testo di questa edizione.
4. Cuib, "nido", è la "cellula" dell'organizzazione legionaria.
5. M. Sebastian, Jurnal (inedito), cit. in: C. Ungureanu, Mircea Eliade si literatura exilului [Mircea Eliade e la letteratura dell'esilio], Viitorul Românesc, Bucuresti 1995, p. 140.
6. P. Comarnescu, Romanul generaiei mele [Il romanzo della mia generazione], in România si Europa. Studii si articole selectionate si coordonate de J.C. Dr[gan [La Romania e l'Europa. Studi ed articoli selezionati e coordinati da J.C. Dr[gan], "Revista Fundaiei Dragan" (Roma), n. 10, maggio 1993, p. 459.
7. Il singolare apprezzamento per l'ingegnere ebreo emigrato dalla Bucovina a New York è riportato su un risguardo di Un paradiso forzato di N. Manea, Feltrinelli, Milano 1984.
8. Si tratta, ovviamente, di un'allucinazione di Manea. In realtà, l'edizione argentina di Iphigenia fu "scritta a macchina e stampata da Grigore Manoilescu, con l'aiuto di Andrei Coman", come si legge nel colophon del fascicolo ciclostilato. Quanto ai potenti mezzi economici dell'editore, lo stesso Mircea Eliade scriveva sul periodico "Românul" nel dicembre 1951: "Talvolta arrivano degli operai dall'anima angelica e donano i loro averi affinché si possano stampare i versi e le prose dei nostri sognatori o dei nostri veglianti; è il caso di quell'operaio che sta in Argentina, Ion M[rii, il quale ha donato all'editore di Cartea Pribegiei tutto quello che aveva risparmiato in un anno e mezzo di lavoro (Ion M[rii, primo membro d'onore della Società degli Scrittori Romeni, quando ritorneremo a casa...)".
9. N. Manea, Mircea Eliade et la Garde de Fer, in "Les Temps Modernes", n. 549, aprile 1992, p. 113. Preferiamo tradurre dal testo francese, perché la versione apparsa su "Linea d'ombra", n. 93, maggio 1994 (Felix culpa. Mircea Eliade, il fascismo e le infelici sorti della Romania) è alquanto inesatta. Su questo articolo di Manea, cfr. Ph. Baillet, Prefazione a: C. Mutti, Le penne dell'Arcangelo, Barbarossa, Milano 1994, p. 6.
10. E. Weber, Romania, in: H. Rogger e E. Weber, The European Right. A Historical Profile, Berkeley and Los Angeles, The University of California Press, 1965, pp. 524-525. Cfr. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, in I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 90. "Il riferimento dello storico americano cercava di spiegare, con la persistenza di un nucleo ancor vivo di tradizioni popolari, quell'ansia di autosacrificio che guidò il Movimento nel primo periodo della sua esistenza fino all'instaurazione della dittatura di re Carol II (1938)" (R. Scagno, Libertà e terrore della storia. Genesi e significato dell'antistoricismo di Mircea Eliade, Print centro copyrid, Torino 1982, p. 20). Ci si consenta di osservare che Iphigenia fu scritta nel dicembre 1939 e rappresentata nel 1941, sicché non dovette proprio essersi estinta nel 1938 quell' "ansia di autosacrificio" che Roberto Scagno correttamente indica come caratteristica del Movimento legionario.
11. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, cit.
12. M. Eliade, La pecorella veggente, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, p. 208.
13. D. Leonties, Prin mlastini si furtuni [Attraverso paludi e tempeste], Dacia, Rio de Janeiro 1969, p. 84.
14. Z. Barbu, Romania, in: AA. VV., Il fascismo in Europa, a cura di S.J. Woolf, Laterza, Bari 1968, p. 183.
15. M. Eliade, Iphigenia, cit., p.11.
16. M. Eliade, Comentarii la legenda Meçterului Manole, Bucuresti 1943; nuova ed. in Meçterul Manole, Iasi 1992. Ed. it. in I riti del costruire, cit.
17. M. Eliade, I riti del costruire, cit., p.5.
18. Ibidem.
19. M. Eliade, Ion Moa çi Vasile Marin [Ion Moa e Vasile Marin], "Vremea", 472, 24 gennaio 1937.
20. F. Jesi, Mito, Isedi, Milano 1973, p. 107.
21. F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979, p. 32.
22. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, cit.
23. " soterìan Hellesi dosous' erchomai nikeforon". )/Agete me tan Iliou kai Frugon heleptolin" (Iphig. Aulid., 1473-1476).
24. F. Jouan, Notes complémentaires, in: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, Paris 1983, p. 152.
25. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
26. "Et les arrêts du sort - Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. - Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire - Qu'à vos vaillantes mains présente la Victoire. - Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, - Si mon sang ne l'arrose, est stérile pour vous. [...] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes - Redoute mon bûcher" (Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
27. M. Eliade, Mémoire II 1937-1960. Les moissons du solstice, cit., pp. 35-40.
28. M. Eliade, Fragments d'un journal II. 1970-1978, cit., ibidem.
29. N. Steinhardt, Jurnalul fericirii [Il diario della felicità], Dacia, Cluj 1994, p. 368.
30. C. Mutti, Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1989, pp. 47-55.
31. M. Eliade, Diciannove rose, Jaca Book, Milano 1987, p. 83.
32. Arist., Poeth. 1449 b.
Inserita il 09/10/2005 alle 22:56:50





Mircea Eliade, L'isola di Euthanasius

Scritti letterari, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2000, pagg. 310, Euro 23,24.

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Non sono per fortuna molte le opere non ancora tradotte nella nostra lingua dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907--1986): restano preclusi ormai solo pochi lavori narrativi e qualche testo teorico giovanile più che altro in forma di articolo o recensione su rivista. A questa seconda categoria di scritti attinge la Boringhieri recuperando una raccolta di collaborazioni a vari periodici rumeni risalenti al periodo compreso tra il 1932 e il 1939, ad una fase cioè ancora relativamente acerba della produzione dell'autore in cui la sua inconfondibile prosa non si è ancora trasfusa dal nativo rumeno nelle lingue di adozione dei capolavori più tardi: il francese prima e l'inglese poi.
La versatilità e la profondità del pensiero di Eliade già si mostrano pienamente, come innegabili "promesse dell'equinozio", in questi brevi testi in cui il giovane studioso si cimenta, mostrando identica padronanza, con argomenti disparati che vanno dalla critica letteraria (si affrontano autori come Huxley, Chesterton, Unamuno, Bernard Shaw, Julien Green, testimoniando anche un'approfondita conoscenza della lingua e della letteratura italiana con trattazioni di grande originalità dedicate a scrittori classici del nostro Novecento come Italo Svevo, Gabriele D'Annunzio, Giovanni Papini) all'architettura simbolica, dall'analisi del folklore all'iconografia indiana. L'insieme apparentemente eterogeneo dei contributi, però, non ha nulla dell'enciclopedismo d'occasione ed esprime già una precisa e coerente visione del mondo che sarà propria anche delle opere maggiori e più mature di Eliade. Gli spunti letterari, artistici, iconografici o aneddotici offrono il pretesto all'autore per esporre, già ben salde e definite, le sue concezioni antistoricistiche fondate sull'ecumenicità del simbolo che pervade le culture tradizionali orientandone il più piccolo gesto ed espressione "verso una realtà transumana".
A questo proposito, il volume contiene alcuni saggi particolarmente espliciti, come quello dedicato ad Ananda Coomaraswamy, in cui si evidenziano le influenze e le tangenze culturali, in seguito in parte rinnegate, del futuro fenomenologo delle religioni con l'ambiente del "tradizionalismo integrale" e nei quali vengono evocate più volte le figure di René Guénon e Julius Evola(1). Altrettanto esplicite però già emergono le differenze e le distanze fra l'aspirante accademico e gli alfieri della Tradizione: in Eliade l'aggettivo "tradizionale" è sempre utilizzato con valenza descrittiva e mai normativa come invece è d'uso nella Trimurti tradizionalista; inoltre i concetti ricavati dal pensiero tradizionalista vengono impiegati dal rumeno “in senso puramente morfologico, come categorie esplicative per comprendere la 'metafisica arcaica'. Pertanto, egli per giustificare la presenza universale (o almeno metaculturale) di determinati simboli non fa mai riferimento alla Tradizione primordiale, né tantomeno si richiama ad un sapere 'esoterico' ed 'iniziatico'(2)”; infine niente fa pensare, già in questo primo Eliade, ad una sua accettazione della visione ciclico-devolutiva della storia, “Se Eliade giudica la concezione positivistico-meccanicistica del cosmo come un insterilimento rispetto ad una Weltanschauung arcaica, non per questo condivide la nozione guenoniana di una progressiva decadenza, anzi: a parte l'eccezione negativa della scienza e tecnologia moderne, nella storia dell'umanità ogni nuova scoperta rende possibile conquistare 'nuovi campi di esperienza'(3)". Non secondaria è anche un'altra differenza di approccio: se la presenza metaculturale dei temi mitico-simbolici (per la cui definizione in seguito Eliade svilupperà una terminologia caratteristica debitrice più che altro degli studi di Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw e Raffaele Pettazzoni: coincidentia oppositorum, rottura di livello, ierofania, ecc.) esclude il ricorso alla philosophia perennis, la ragione della sua ecumenicità si riduce ad un sentimento naturale e pertanto universale, ad un “bisogno fondamentale dell'uomo” che ovunque prova identici sentimenti ed aspirazioni. Per i tradizionalisti invece, e per Guénon in particolare, il “sentimento religioso” starebbe alla base della difformità, non certo dell'identità delle religioni: “mentre l'intelligenza è una […] la sentimentalità è composita” (Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù).
Anche la nozione di autonomia del sacro e la dialettica fra sacro e profano elaborate in seguito dall'Eliade maturo, sarebbero inquadrabili esclusivamente in una prospettiva fenomenologica in quanto per i tradizionalisti una distinzione fra sacro e profano sarebbe tipica del solo mondo moderno e non delle civiltà tradizionali. È comunque vero che nel saggio su Coomaraswamy come in altri di questa raccolta, Eliade mostra forse le maggiori affinità terminologiche ed interpretative con i pensatori della Tradizione di tutto il suo lungo percorso intellettuale: ad esempio concorda apertamente con lo studioso anglo-cingalese e con Guénon nell'indicare nel Rinascimento e nella rivoluzione industriale europea la cesura definitiva fra Oriente ed Occidente: “se tra cultura moderna occidentale e spiritualità asiatica non esistono punti di contatto, Aristotele. San Tommaso, Dante o Meister Eckhart fanno parte di una tradizione metafisica che l'Oriente tutt'ora condivide”.
Un altro scritto di una certa importanza per gli sviluppi teorici futuri del pensiero dell'autore a questo riguardo, è la recensione della monumentale opera di Paul Mus dedicata all'analisi dell'iconografia del tempio buddista giavanese di Barabudur. Molti dei concetti sviluppati in seguito nelle sue opere maggiori derivano allo studioso rumeno dalle riflessioni indotte dall'approfondimento di questo volume e sono già tutti abbozzati nella sua breve presentazione critica del 1937: il tempio come rappresentazione simbolica dell'universo, come "centro del mondo", òmphalos, immagine architettonica del cosmo, quadrante regolatore dell'ordine spaziale e temporale, costruibile ovunque “poiché ovunque si poteva erigere un microcosmo di pietra e di mattoni”; i sacrifici umani compiuti durante i riti di costruzione per dare un'anima all'edificio e la leggenda rumena di Mastro Manole in cui Furio Jesi o Daniel Dubuisson e, specularmente, Claudio Mutti e Philippe Baillet, avrebbero voluto leggere inquisitoriamente le premesse mitiche della 'mistica legionaria' della morte e dell'ideologia guardista mai rinnegata da Eliade(4). Da questi spunti l'autore avrebbe invece tratto la propria accezione del termine archetipo, inteso come "paradigma", “modello esemplare --rivelato dal mito e riattualizzato nel rito”, con riferimento “a Platone e a sant'Agostino” e in parte a Eugenio d'Ors, piuttosto che a Carl Gustav Jung. E proprio nella fondamentale nozione di archetipo l'Eliade della maturità troverà la risoluzione concettuale da opporre a quella "visione pessimistica" che aveva sempre rinfacciato ai teorici della Tradizione: l'archetipo, come struttura invariante della coscienza, accomuna "arcaico" e "moderno", la permanenza degli archetipi e dei simboli nelle opere d'arte, nella letteratura, nelle manifestazioni creative del mondo contemporaneo continua a conferire valore e significato all'esistenza umana, "l'archetipo arcaico continua ad essere creatore, anche quando è 'degradato' a livelli di valorizzazione sempre più bassi […] continua a creare 'valori culturali' […]. L'assoluto non può essere estirpato ma solo degradato” (Eliade, I riti del costruire). Attraverso l'ermeneutica storico-religiosa il cui compito è rivelare, nel mondo moderno apparentemente desacralizzato, le strutture simboliche archetipali --degradate e camuffate-- è possibile, nel dare loro un senso, riscattarle dall'involuzione creando le premesse per “il rinnovamento spirituale dell'uomo moderno”.
La dicotomia tradizionale/moderno, irriducibile per gli esponenti della philosophia perennis, viene così positivamente risolta dall'interpretazione dell'universo simbolico-archetipale, sostrato comune sia all'ontologia arcaica che alle espressioni delle culture moderne. Come già anticipa lo studioso nel saggio che dà il titolo alla raccolta: “questi simboli […] dimostrano d'essere ecumenici, validi dunque metafisicamente, e al loro riguardo nessuna ermeneutica risulta eccessiva” (Eliade, L'isola di Euthanasius).

Walter Catalano

1 Sulla questione ci riferiremo al saggio di Paola Pisi I 'tradizionalisti' e la formazione del pensiero di Eliade, contenuto in Confronto con Mircea Eliade: Archetipi mitici e identità storica, Jaca Book, Milano 1998, pagg. 43 e segg.: “Nei saggi prebellici […] i tre autori [Guénon, Evola e Coomaraswamy] vengono citati insieme e assunti come esponenti paradigmatici di una svolta nell'interpretazione delle culture, in opposizione al precedente positivismo evoluzionista: il 'tradizionalismo' evidentemente rappresentava allora per lo studioso romeno un indirizzo di pensiero innovativo, degno di confronto e di interesse scientifico” (pag. 47).
2 Ivi, pag. 53.
3 Ivi, pag. 53.
4 A questo proposito, ma senza dilungarci sull'abusata questione, si possono mettere in evidenza in questo volume alcuni saggi, scritti quasi contemporaneamente alla presunta militanza di Eliade nella Guardia di Ferro, in cui il giovane scrittore rivela posizioni ben lontane dall'antisemitismo che, in teoria, avrebbe dovuto condividere: Prima e dopo il "miracolo biblico", Tra Elefantina e Gerusalemme, Riguardo a Gobineau.



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