lunedì 1 novembre 2010

LA SCUOLA AKBARIANA

LA SCUOLA AKBARIANA E ALCUNI INTERESSANTI LIBRI



Uno degli aspetti più pericolosi e deteriori del mondo attuale è costituito dalla cosiddetta moda. Essa identifica un atteggiamento necessariamente instabile che vanifica il contenuto di qualsiasi cosa a favore della superficialità, della mera evidenza visibile della stessa. La visione non è qui un atto di cognizione (il video cusano), ma solo un piacere edonistico che non trascende mai la differenza, illusoria in realtà, tra oggetto e soggetto.
Quasi tutto, se non tutto, cade sotto gli strali della moda proprio perché la stessa moda, intesa come termine, è in realtà il frutto di quell’instabilità interiore, che costringe l’uomo a rincorrersi senza mai trovarsi.
In questo senso anche le tradizioni sono state oggetto di moda: prima il buddismo, poi il Sufismo (Tasawwuf) e ora, a quanto pare, l’Esicasmo.
Da queste considerazioni parte proprio questo intervento, che così si articola: primo definire, per quanto possibile, cosa sia la scuola akbariana che prende nome da Ibn ‘Arabî, lo Shaykh al-Akbar; secondo recensire tre traduzioni in italiano di opere della scuola akbariana e dello stesso Ibn ‘Arabî con il non celato intento di favorirne la circolazione.

La scuola akbariana

Parlare di “scuola akbariana”, implica la necessità di dover precisare innanzi tutto che, così parlando, non si vuole intendere una “scolastica akbariana”. Quest’ultima, intesa in senso deteriore, costituisce un’anomalia della prima, la quale, invece, più correttamente potrebbe dirsi “influenza akbariana”.
L’idea di influenza, appunto, è in grado di rendere in maniera migliore l’estrema vitalità spirituale di Ibn ‘Arabî, che si diffuse in tutto il mondo islamico e oltre. Il suo lascito si propaga tramite una successione ininterrotta di discepoli a lui collegati, talvolta anche mediante una linea di trasmissione iniziatica, ma sempre e comunque contraddistinti da una filiazione di ordine intellettuale. Su quest’ultimo punto, infatti, i suoi maggiori avversari, sia di un tempo che odierni, pongono le basi per le accuse di innovazionismo (bid‘a) e quindi di eterodossia. In realtà, per una certa parte dell’Islâm è tutto il Tasawwuf ad essere giudicato eterodosso, a causa di quel pregiudizio legato a tutto ciò che non le è possibile comprendere.
Non potendo e non volendo proseguire nella trattazione di quello che è un conflitto quasi irrisolvibile tra mistici o iniziati e rigidi letteralisti, basterà, forse, ricordare il testo di al-Qaysarî – Risâla fî ‘Ilm al-Tasawwuf – e quello di Kalbâdhî – Kitâbal-ta‘arruf li-madhhab ahl al-Tasawwuf –, in cui le accuse mosse ad Ibn‘Arabî come al Tasawwuf stesso, vengono smontate e fatte decadere. In ultima analisi, forse, le maggiori accuse dovrebbero essere rivolte piuttosto nei confronti di chi, misurando con il proprio metro, ritiene assurdamente di poter esaurire le teofanie divine.
Principale prosecutore del pensiero akbariano è, dunque Sadr al-dîn al-Qûnawî (m. 1274), che fu anche figlio acquisito dello stesso Ibn‘Arabî. Vanno poi menzionati Tilimsânî (m. 1291), Jandî (m. 1300), Farghânî (m. 1296), ‘Iraqî (m. 1289), Qâšânî (m. 1329), Busnawî (m. 1643-44), noto anche come ‘Abdi Efendi, Qaysarî (m. 1350), Haydar Amolî (m. 1384), Jâmî (m. 1492), Nâbulusî (m. 1730) e l’Emiro ‘Abd al-Qâdir (m. 1883), per non citare che i più importanti.
Il pensiero akbariano, che si irradierà con la sua influenza, ha come chiave di colloquio, con gli intelletti più prodigiosi, l’idea della wahdat al-wujûd, che si rende anche come “unicità dell’esistenza”. Va subito, però, precisato che tale espressione non fu coniata dallo stesso Ibn‘Arabî, quanto proprio dal primo dei suoi discepoli, Qûnawî.
L’errore, che molti hanno commesso e che ne ha decretato l’anatemizzazione come dottrina eretica, risiede nell’averla scambiata per un panteismo. Diametralmente opposto è, invece, il pensiero akbariano anche se, per la coincidentia oppositorum, ad una lettura superficiale potrebbe sembrare identificarvisi.
Scopo della vulgata akbariana non è, infatti, identificare il cosmo nella sua integralità con Dio, bensì affermare che non vi è altra realtà che la Realtà divina. In questo senso il wujûd, l’essere, non appartiene in alcun modo alle cose esistenti, ma appartiene esclusivamente al Principio supremo (dhât al-Haqq). Dunque, se solo Lui è in quanto Realtà, ne deriva che l’idea di esistenza, come noi la percepiamo e la applichiamo, coincide con l’idea di ente, ovverossia con la visualizzazione della copula è.
Ecco perché la “coseità” (shay’iyya) è solo partecipe dell’essere del Principio che le dona l’“essere relativo” (al-wujûd al-idâfî). Con riferimento a quest’ultima, si parla, appunto, di mawjûd, ossia “ciò che è esistente”.
Il pensiero teandrico di Ibn‘Arabî, per una trasposizione metafisica del Tawhîd – l’Unicità divina – considera, quindi, come unica Realtà quella del Principio divino e che questa, per la dinamica implicita nella sua onnipresenza, genera un insieme di relazioni interne, costituenti i Suoi Nomi (asmâ’), espressione della perfezione dell’Essenza (al-dhât) – per inciso, si segnala qui l’estrema affinità tra la “Scienza dei Nomi” akbariana e le “energie” di Palamas. Ibn‘Arabî, quindi, li ritiene in possesso di una realtà apofatica rispetto al mondo creato: benché Dio non sia i Suoi Nomi, neppure questi sono qualcosa di diverso da Lui. Si potrebbe sostenere che essi siano gli archetipi increati ed eterni degli enti concreti, ma affinché ciò sia corretto, è necessario aggiungere che fra Dio e i Suoi Nomi non esiste alcun tipo di distinzione. I Nomi divini sono, allora, le radici divine del cosmo rispetto al nostro sapere e tramite esse, Dio si manifesta nel mondo creato.
Quanto appena visto, porta direttamente al concetto di passaggio dall’Uno al molteplice e quindi all’esistenza condizionata di ciò che è altro da Dio (mâ siwâ Allâh): sappi che l’universo è tutto ciò che è “altro da Dio” e questo non è altro che i “possibili”, sia che esistano o non-esistano (nel mondo esteriore) ... Lo statuto di “possibile” è loro inerente sia che esistano o no; e ciò costituisce il loro statuto ontologico (Futûhât, III, p. 443, citato in C. Addàs, Ibn‘Arabî et le voyage sans retour, p. 88).
Il possibile è, pertanto, semplicemente non-esistente ed esso è la forma apparente che si staglia tra colui che vede e lo specchio: non è né colui che vede ma neppure altri che lui. Infatti, la forma del possibile è la forma che l’Essere vede di sé, quando si specchia nel “non-essere”. L’unica cosa che può essere concettualmente osservata del possibile, è, quindi, il suo passaggio dalla non-esistenza all’esistenza, con il quale esso diventa mondo esperibile empiricamente, senza che questo possa far pensare minimamente ad una co-eternità dei possibili a Dio.
Nel pensiero akbariano, quindi, la creazione è un atto volontario, libero, temporale ed unitario, mediante il quale Dio crea qualcosa come un’eco indistinta del proprio Essere. Questo va, però, di pari passo con l’idea di creazione infinita, che non solo è logicamente concepibile (la Volontà divina può essenzialmente creare ad infinitum), ma non obbliga nemmeno ad ammettere una modificazione dell’Essere di Dio. Il pensiero di Ibn‘Arabî non si esprime in una teologia razionalistica di tipo peripatetico e neppure in una cosmogonia emanazionistica, bensì in un’autentica teofania, in forza della quale Dio appare con amorosa ansia di auto-manifestazione, di conoscenza e di amore. Da qui il motivo che spinge Ibn‘Arabî, nel momento di indicare l’attributo mediante il quale Dio crea, a ricorrere al Nome divino il Clemente (al-Rahmân).
La creazione ex-nihilo è, quindi, frutto innanzi tutto della clemenza e misericordia divine, cioè del suo amore.
In questo senso anche la stessa idea di creazione divina ad infinitum è spiegata in maniera soddisfacente: la premura di Dio nei confronti del creato è tale che la proiezione degli archetipi, corrispettiva alle cose, si rinnova continuamente.



Recensioni:

al-Qaysarî, LA SCIENZA INIZIATICA (Risâlafî ‘Ilm al-Tasawwuf)
a cura di Giorgio Giurini, ed. Il Leone verde, Torino, 2003, p. 144, € 13,50

Recensire un libro è sempre cosa difficile, vista la possibilità di cadere in stucchevoli celebrazioni quanto in tediose ripetizioni di parti introduttive del testo stesso.
Per questa ragione le notizie attinenti alla vita dell’autore e del traduttore saranno volutamente ridotte all’indispensabile.
L’autore della Risâlafî ‘Ilm al-Tasawwufè, quindi, Dâwûd al-Qaysarî (1260-1350), uno dei massimi interpreti akbariani all’interno del mondo ottomano, che, a ragione, può essere considerato un ponte tra il mondo esoterico strictu sensu e quello intellettualmente dotato che, però, non si ritrova nel primo.
A confermare questa sua possibile funzione è lo stesso testo che si recensisce, un testo che ha come scopo principale quello di insegnare ai sapienti essoterici che la dottrina iniziatica, il tasawwuf, è una scienza basata su principi incontestabili.
Qaysarî, ponendosi di fronte al conflitto classico tra iniziati o mistici in genere e chi si limita invece alle forme essoteriche e quindi anche razionali, non sente la necessità di fare del proselitismo e quindi di guadagnare alla “sua causa” chicchessia. Egli si pone, invece, il problema di ribadire ed attestare assolutamente il valore conoscitivo della dottrina iniziatica. Una scelta questa non solo corretta ma “strategicamente” utile e doverosa.
In questo senso, l’autore è del tutto insensibile a problemi demodossoligici, poiché chi è già per sé certo, non ha bisogno che venga o meno confermata la validità del tasawwuf, in questo caso.
L’intento è, allora, volto a proteggere l’ambiente circostante dai pregiudizi negativi verso ciò che non si può comprendere, posto che è un fatto assodato che la maggioranza non indaga per sé ma si fida dell’opinione altrui, specie se emessa da figure autorevoli. Il possibilismo, che Qaysarî sembra quindi auspicare, è ovviamente ben lontano dal relativismo, sposandosi, invece, completamente con il concetto esposto da Ibn‘Arabî sulle infinite manifestazioni di Allâh.
Si scopre, quindi, l’importanza estremamente attuale della lettura di questo libro soprattutto in un periodo come quello presente – ma che viene da pensare non sia molto distante da quello del suo tempo – in cui le visioni monodirette hanno la pretesa di esaurire l’Onnipotenza divina. Non a caso il predominio di modalità di ragionamento catafatiche, prive però di una mentalità catalettica alla base, caratterizzano quel mondo “profano” che cerca di ingabbiare l’ineffabilità del Mistero.
L’adozione di un linguaggio parzialmente differente dal solito lessico akbariano potrebbe far pensare, però, ad un tentativo innovativo da parte dell’autore, cosa che invece si spiega molto più logicamente con la necessità di adottare un linguaggio consono ad un uditorio che utilizza di preferenza argomenti razionali. A tal proposito l’autore dice che, infatti il genere di disvelamento (kašf) conseguito dalle genti di visione diretta (šuhûd) non ha per loro valore probatorio. Quanto al senso immediato di vari versetti e tradizioni, chiaramente indicativi delle asserzioni di chi ha il disvelamento, secondo loro non sarebbe tale ma un’interpretazione (mu’awwal). Perciò dobbiamo comunicare con loro usando il loro linguaggio, secondo le parole divine: “Non inviammo messaggeri che non parlassero la lingua del loro popolo” (p. 59).
Qaysarî è, dunque, autore chiaramente di “matrice” akbariana e prova ne è il fatto che uno dei suoi Maestri fu Qâšânî, allievo di Qûnawî, uno dei primi “discepoli” di Ibn‘Arabî. Nonostante Qaysarî, però, non manifesti di appartenere ad una qualche tarîqa, la sua “silsila” sopra riportata e lo svolgimento dei temi trattati in questo libro lo fanno certamente collocare nella linea dottrinale peculiare della scuola akbariana, che ha come punto centrale la wahdat al-wujûd (unicità dell’esistenza).
In questo senso, allora, risulta del tutto inutile giudicare il linguaggio come segno di appartenenza a qualsiasi corrente spirituale sia essa akbariana piuttosto che di altro tipo. Di questo stesso avviso è, infatti, lo stesso traduttore dell’opera, Giorgio Giurini, per il quale il linguaggio è significante in funzione di ambienti e di prospettive mutevoli. Il pericolo accessorio è, infatti, dato dalla scolastica, che la stessa scuola akbariana ammette come critica. Non poteva, pertanto, non seguire questo monito soteriologico anche il traduttore italiano stesso, che ha presentato l’opera di Qaysarî conformemente alla natura dello stesso testo, un testo non comune all’interno della produzione del Tasawwuf proprio per il diverso pubblico a cui si rivolge.
La presentazione e l’apparato critico delle note riflettono, quindi, il possibilismo di Qaysarî, accompagnando il lettore in meditazioni talvolta tautologiche è vero, ma non per questo meno valide. Anzi, forse, risiede proprio nella tautologia il quid della scienza iniziatica, ossia quello di far giungere la mente dell’uomo – logica per natura – all’impasse logica, propedeutica al suo fine essenziale che è quello di accedere alla Verità, il Reale, Dio. È doveroso, però, rimarcare anche come questo “accedere a”, sia alla fine una rivelazione del Reale al servo. Questo comporta che la stessa impasse logica coincida con il ristabilirsi (ifâqa) del servo dopo il suo “venir meno” (sa‘iqa) (p. 63).
Per contro, la filosofia e la teologia, pur occupandosi dello stesso argomento di questa scienza, non indagano tuttavia su come effettivamente il servo possa giungere fino al suo Signore e sulla prossimità a Lui (p. 58). Ne deriva, quindi, il suo carattere di scienza applicata, in cui sono presenti sia strutture deduttive che induttive, all’insegna del et et comprensivo, che riflette la dinamica cangiante con cui la Verità sempre si manifesterà, seppure in forme diverse, fintantoché il mondo esisterà.
Essendo teoria, pratica ed applicazione ed avendo come fine diretto il Principio di ogni essere nonché di ogni verità, la scienza iniziatica è, quindi, la scienza per eccellenza ed è garante di ogni reale conoscenza, poiché da sola è in grado di dare un senso e assimilare la realtà stessa di questo senso.
Si arriva così a dimostrare – e sia Qaysarî che il traduttore italiano, nella nota 39, colgono nel segno – come solo una conoscenza “per propria essenza” (ossia basata sull’identificazione tra soggetto ed oggetto) possa essere direttamente vera, ma in questo caso essa sarà un conoscere essenzialmente se stessi. Passo ulteriore sarà, allora, quello di rendersi conto che questo tipo di conoscenza “per propria essenza” appartiene solo alla Divinità nella Sua assoluta Unità. Ma quest’ultima è anche il fine di ogni sulûk (metodo o cammino iniziatico).
Concedendo poco spazio all’apologetica e alla critica, Qaysarî fa, così, prevalere la sintesi della dottrina akbariana, proprio come fa lo stesso traduttore italiano, impegnato a trovare nuovi modi espressivi ma non per questo interpretabili alla stregua di tentativi artificiali di riformulazione della Verità.
I desiderata di Qaysarî per questo libro furono, pertanto, due, ambedue ampiamente raggiunti: la difesa e lo sviluppo della scuola akbariana in Oriente ed una “meta-teologia”, possibile solo su una base akbariana, capace di integrare filosofia e tradizione in chiave metafisica.
Un disegno, soprattutto il secondo, quindi, di estremo bisogno attuale.
Per quanto riguarda la struttura del libro, esso si compone di tre parti a sua volta tripartite. Nell’introduzione trova spazio il tentativo, riuscito secondo chi scrive, di dare sostanzialità a ciò che è l’esoterismo, ovverosia la conoscenza di Dio ed il ritorno a Lui. Per fare questo, bisognava però superare la tentazione di dare vita ad un’esposizione nozionistica, che quasi sempre risulta slegata e pertanto instabile. Tanto più che l’intento era quello di rivendicare pari dignità per la scienza iniziatica, rivolgendosi ad un pubblico certamente erudito.
Nei tre capitoli successivi vengono, invece, trattati nell’ordine: i principi ontologici e cosmologici in relazione alla metafisica, il metodo (tarîq) del ritorno al Principio e i più elevati gradi di realizzazione spirituale. La fine del libro, invece, è riservata alla ricapitolazione della dottrina sul Sigillo della Santità a chiusura del ciclo profetico e della Santità stessa.
Un libro dunque importante sul tasawwuf, che con altro lessico e per altro pubblico, fa intendere come il cercatore giunto alla fine del suo sentiero (sulûk), nella stazione dell’Unione, vedrà che soltanto il Reale è l’esistenza: a quel punto non v’è più cercatore, né meta e neppure sentiero. Piuttosto, il cercatore, la sua meta ed il sentiero stesso sono identici all’Ipseità (huwiyya) divina, che si manifesta nei diversi gradi con diverse forme.
Del resto, già il traduttore italiano avvertiva che l’idea d’esistenza coincide con l’idea di ente attuale: separate, infatti, non sussisterebbero.
Solo Dio è, quindi. All’uomo spetta quindi il riconoscimento e la realizzazione dell’ecceità divina. Come il pellegrino che giunge davanti al tempio della Mecca, è tempo per lui di esclamare: LabbayKa Allahumma labbayk, “Eccomi tutto a Te, Mio Dio, eccomi tutto a Te”!


Ibn ‘Arabî, IL MISTERO DEI CUSTODI DEL MONDO (Kitâb manzil al-qutb wa maqâmu-hu wa hâlu-hu)

A cura di Chiara Casseler, edizioni Il Leone Verde, Torino, 2001, pp.102, 11.50 euro
Nel tasawwuf (Sufismo) si parla spesso di santi misteriosi, santi apotropaici, figure di uomini le cui funzioni spirituali sono celate a tutti, salvo a coloro che popolano il cosiddetto “Consiglio dei santi”, che è presieduto dal Polo e dai suoi due Ausiliari. Proprio di queste ultime figure si occupa l’intenso testo che molto sapientemente è stato tradotto da Chiara Casseler. Si tratta di una gerarchia esoterica di santi protettori, veri e propri guardiani della luce e custodi della saggezza e della religione immutabile, la cui azione si svolge in modo puramente spirituale e la cui sede inaccessibile si situa nel cosiddetto “mondo immaginale” (âlam al-mithâl) di corbiniana memoria, il luogo dove i corpi si spiritualizzano e gli spiriti assumono forme corporee.
L’autrice con padronanza lessicale riesce a non far perdere il filo al lettore: di fronte alla complessità misterica della gerarchia iniziatica, il suo stile piano e sicuro prende sottobraccio gli occhi di chi legge e gli fa assaporare le parole di Ibn ‘Arabî, quasi fosse lui a pronunciarle.
Un invito esplicito a considerare la gerarchia spirituale come imperante su quella temporale è del resto già stato annunciato da altri autori di questo secolo, ma se in questi l’invito può risultare, forse, astratto, qui invece, ci si trova di fronte ad un Maestro ed alle sue “aperture”.


Ibn ‘Arabî, IL LIBRO DEL SÉ DIVINO, (Kitâb al-Yâ’ wa huwa kitâb al-Huwa)

A cura di Chiara Casseler, edizioni Il Leone Verde, Torino, 2004, p.178, 19 euro.
A differenza del precedente testo, questo certamente è più tecnico, ma ciò non deve far disperare. Il tema trattato è metafisico per eccellenza: l’unicità, l’esclusività, l’assolutezza e l’onnipervasione del Sé dino, il Huwa. Alla base del trattato sta la Scienza delle Lettere, le quali hanno una capacità evocativa incontestata e peraltro ravvisabile anche nella tradizione ebraica. Discorso a parte meriterebbe l’alfabeto latino e la valenza simbolica stessa, cosa che del resto non è oggetto presente di trattazione.
Il lettore potrà trovarsi d’incanto immerso in quell’orizzonte amplissimo della dottrina akbariana che va dalla Scienza alchemica, passando per la Scienza dei Nomi, per finire nella Scienza dei numeri.
Tutte le dualità concettuali ed esistenziali, prima tra tutte quella dell’“io” (il soggetto cosciente) e del “tu” (il mondo, oggetto dell’esperienza) non possono essere superate che grazie alla dottrina del Sé e la sua diretta realizzazione. Questo è il vero elemento trascendente di ogni sintesi metafisica che è il riferimento ultimo di ogni teoria tradizionale della conoscenza.
L’autrice palesa quindi la sua maturazione, sancita proprio dalla scelta di cimentarsi in questa traduzione, difficile e severa, ma che alla fine ha superato brillantemente.

Alberto De Luca

Articolo pubblicato su EST OVEST il 29 Ottobre 2005

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