23/11/10
Il "Diario Portoghese" di Eliade all'Accademia di Romania
Oggi alle ore 18.30
presso la Biblioteca dell'Accademia di Romania in Roma
Valle Giulia, Piazza José de San Martin, 1
Presentazione del volume Mircea Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, Milano, 2009
A fine anno 2009 è stata pubblicata la traduzione italiana (di Cristina Fantechi) del Diario portoghese di Mircea Eliade, presso la casa editrice Jaca Book, con una prefazione firmata da Roberto Scagno, maggior specialista italiano dell'opera eliadiana e curatore dell'edizione, ed una postfazione di Sorin Alexandrescu.
Il Diario portoghese (1941-1945) è una testimonianza diretta, intensa e drammatica di un periodo cruciale della vita di Eliade. Riflessioni intime ed autentiche s'intrecciano con note di lettura e viaggio, considerazioni ed annotazioni in margine alle proprie opere letterarie e scientifiche. E, in finale, la decisione radicale: Parigi e la scelta dell'esilio.
Interverrano nel dibattito: prof. Roberto Scagno (Università degli Studi di Padova), prof. Enrico Montanari ("La Sapienza" - Università di Roma), prof. Giuliano Caroli ("La Sapienza" - Università di Roma), prof. Giovanni Casadio (Università degli Studi di Salerno), prof. Lauro Grassi (Università degli Studi di Milano).
Tratto dal:
Corriere Metapolitico, a cura di Aldo La Fata e Dalmazio Frau
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Mircea Eliade, Ifigenia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010, € 15,00
L'attività letteraria di Mircea Eliade non si esaurisce nella produzione di quindici romanzi e di oltre cinquanta novelle. Eliade scrisse anche, fra il 1939 e il 1970, alcuni lavori teatrali: Ifigenia, 1241, Uomini e pietre, La colonna infinita.
La tragedia Ifigenia, finora accessibile soltanto nell'originale romeno, venne rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Bucarest il 12 febbraio 1941. Essa si ispira alla leggenda trattata da Euripide nell'Ifigenia in Aulide (406 a.C.) e successivamente ripresa da Jean de Rotrou (1503) e da Jean Racine (1674); ma la versione eliadiana si caratterizza per il rilievo attribuito al tema del sacrificio, del quale il grande storico delle religioni si occupò, in quel medesimo periodo, anche con i Commenti alla leggenda di Mastro Manole (Bucarest 1943). "Ifigenia - ha scritto Eugen Weber - dona la vita per aprire la strada ad un esercito; Manole, il mastro costruttore di una vecchia leggenda romena, sacrifica la sua sposa perché la chiesa che costruisce possa rimanere salda. Il sacrificio umano portato a compimento per far sì che qualcosa come una costruzione duri o resista è equivalente al trasferimento mistico dell'anima dal corpo mortale in una nuova costruzione: non solo è data un'anima alla costruzione, ma la vittima è rivestita con un nuovo corpo, glorioso e più durevole. Per Manole, questo corpo sarà il monastero che egli costruisce. Per Ifigenia, sarà la guerra di suo padre Agamennone e la vittoria contro l'Asia e Troia".
Non poteva certamente sfuggire la relazione che intercorre fra il tema centrale di Ifigenia e quella vera e propria disposizione sacrificale che animò i militanti del Movimento legionario, attivo in Romania nel periodo interbellico. Questo argomento viene affrontato, nel saggio introduttivo della presente edizione, dallo stesso traduttore della tragedia, Claudio Mutti, autore di studi sul rapporto che col Movimento legionario ebbero alcuni intellettuali romeni di fama mondiale (Le penne dell'Arcangelo, SEB 1994) e Mircea Eliade in particolare (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all'insegna del Veltro 1989).
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LA DOTTRINA EURASIATICA DEL SACRIFICIO
di Claudio Mutti
Nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole, dedicati al tema del sacrificio cui si ispira la leggenda romena di Mastro Manole, Eliade mostra come tale tema sia ampiamente diffuso nelle culture del continente eurasiatico. In una pagina di questo studio viene indicata come esemplare la storia di un’eroina che ha ispirato all’Autore il più bello dei suoi lavori teatrali: Ifigenia (1).
“Ifigenia – scrive Eliade – è sacrificata perché possa effettuarsi la spedizione contro Troia. Potremmo dire che Ifigenia acquisisce un ‘corpo di gloria’ che è la stessa guerra, la stessa vittoria; vive in questa spedizione, proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero” (2). Il sacrificio di Ifigenia appartiene quindi alla categoria di quei sacrifici di costruzione che troviamo attestati da un capo all’altro dell’Eurasia. "Le pratiche e le credenze relative ai sacrifici di costruzione – scrive infatti lo stesso Eliade – si ritrovano un po' dappertutto in Europa, ma in nessuna parte hanno dato luogo a una letteratura popolare paragonabile a quella del Sud-Est” (3).
Con “Sud-Est” Eliade intende l’area danubiano-balcanica, ma le tradizioni popolari ungheresi ci mostrano che una leggenda identica a quella di Mastro Manole è presente anche nel bacino carpatico: la ballata székely di Kömives Kelemen, infatti, si riferisce alla costruzione della cittadella di Déva, in Transilvania (4). Secondo Ladislao Bo'ka, "la variante székely è probabilmente di origine greca, ma trasmessa dagli Slavi meridionali" (5).
In ogni caso, “il motivo di una costruzione il cui compimento esige un sacrificio umano è attestato in Scandinavia e presso i Finni e gli Estoni, presso i Russi e gli Ucraini, presso i Germani, in Francia, in Inghilterra, in Spagna. (...) La scoperta di scheletri nelle fondamenta dei santuari e dei palazzi del Vicino Oriente antico, nell'Italia preistorica, e altrove, pone fuori di ogni dubbio la realtà di tali sacrifici" (6).
Ma tra i fratelli spirituali dell'Ifigenia di Eliade non c'è soltanto Mastro Manole: c'è anche il pastorello della ballata popolare romena di Mioriţa [L'agnellina]. Lo fa opportunamente notare Mircea Handoca, il quale osserva che "la visione d'insieme, le valenze e i significati che lo scrittore attribuisce al mito [si collocano] in uno spazio spirituale mioritico" (7) e richiama l'attenzione su queste parole di Ifigenia: "Ecco come cadono gli astri alle mie nozze! Il murmure delle acque, il sussurro degli abeti, il gemito della solitudine: tutte le cose sono come le ho conosciute!" In effetti, il tema della morte come sposalizio è dominante nelle ultime parole di Ifigenia: "Ricordati, - dice l'eroina eliadiana ad Agamennone - è una sera di nozze. Adesso, da un momento all'altro, sarò sposa... Perché tutti hanno fatto silenzio e non si odono più i canti sereni delle vergini? [...] Ma perché non si odono cantici di nozze? Perché gl'invitati non intrecciano ghirlande di fiori dai colori accesi e la sposa è rimasta con l'abito nero del giorno? [...] Portatemi il velo di sposa!" Sono parole essenzialmente analoghe a quelle del pastorello di Mioriţa: "Di' loro soltanto - che mi son sposato - con una regina, - la sposa del mondo; - che al mio sposalizio - caduta è una stella". Studiando la ballata della Pecorella veggente, Eliade dirà che "la morte assimilata a un matrimonio è [un motivo folclorico] arcaico e affonda le sue radici nella preistoria" (8).
Il tema del sacrificio generatore di vittoria era già chiaramente presente nell’Ifigenia euripidea. “Io – dice la protagonista della tragedia di Euripide – vengo a dare ai Greci una salvezza apportatrice di vittoria. Portatemi via, io sono l’espugnatrice della città di Ilio e dei Frigi” (9). Non è dunque senza una qualche ragione che François Jouan ha equiparato alla “devotio” (10) dei Romani il sacrificio dell’eroina euripidea. Devotio, come è noto, era nella religione romana quella particolare forma di votum secondo cui il generale immolava se stesso al fine di conseguire la vittoria nel combattimento. “Forza e vittoria” (vim victoriamque) chiede agli dèi il console Decio Mure, al contempo offerente e vittima sacrificale (11). Questa concezione dell’autosacrificio che sprigiona forza e produce vittoria riecheggia in Racine, il quale fa dire alla sua Ifigenia: “La sentenza del destino vuole che la vostra felicità sia frutto della mia morte. Pensate, signore, pensate alle mèssi di gloria che la Vittoria offre alle vostre mani valorose. Quel campo glorioso, al quale voi tutti aspirate, se il mio sangue non lo innaffia, è sterile per voi. […] Già Priamo impallidisce; già Troia in allarme paventa il mio rogo” (12).
Nelle leggende relative ai rituali di costruzioni e nelle creazioni artistiche ispirate dal mito di Ifigenia circola dunque una stessa concezione: quella che un famoso folclorista ha riassunto in questi termini: "Il padre (nel caso di Ifigenia), o il marito (nei canti popolari), offrendo la figlia o la moglie, offrono se stessi, onde quella sostituzione unisce nell'ambito umano e divino il sacrificante e la vittima" (13). Ma anche questo concetto, in fin dei conti, era già stato espresso dalle Scritture indù: "La vittima (pashu) è sostanzialmente (nidânêna) il sacrificante stesso" (14).
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1. M. Eliade, Ifigenia (traduzione e saggio introduttivo di C. Mutti), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010.
2. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, in: M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 90. Cfr. M. Eliade, Mastro Manole e il Monastero d'Arges, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, pp. 146-168.
3. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, in Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, p. 74. Per la vasta letteratura relativa a questo tema, si veda G. Cocchiara, Il ponte di Arta, in Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, pp. 84-125. Siccome né Cocchiara né Eliade fanno menzione della leggenda connessa alla costruzione delle mura di Kazan' (Repubblica Autonoma Tatara), che dal 1239 al 1552 fu capitale del Canato tartaro, mi si consenta di rinviare alla traduzione della rispettiva ballata mordvina, in: C. Mutti, Kantele e krez. Antologia del folklore uralico, Arthos, Carmagnola 1979, pp. 60-63.
4. C. Mutti, Canti e ballate popolari ungheresi, Quaderni italo-ungheresi, Parma 1972, pp. 95-104.
5. L. Bóka, Ballate popolari transilvane, "Corvina", Budapest, ottobre 1940.
6. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, cit., p. 75.
7. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, [Il mito del sacrificio creatore], “Manuscriptum” (Bucarest), a. V, n. 1 (1974).
8. M. Eliade, La pecorella veggente, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 208.
9. “soterìan Héllesi dòsous’ érchomai nikefòron. Ágeté moi tàn Ilìou kaì Frygôn heléptolin” (Iphig. Aulid., 1473-1476).
10. F. Jouan, Notes complémentaires, in: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, Paris 1983, p. 152.
11. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
12. “Et les arrêts du sort – Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. – Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire – Qu’à vos vaillantes mains présente la Victoire. – Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, - Si mon sang ne l’arrose, est stérile pour vous. […] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes – Redoute mon bûcher” (J. Racine, Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
13. G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, p. 120.
14. Aitareya Brahmana, II, 11.
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Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita
di Francesco Lamendola - 16/11/2010
Fonte: Arianna Editrice
L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un
sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno
dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle
tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento
di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si
trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un
conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale
società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura
occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le
stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della
mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con
l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare
fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di
corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni
naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come
vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e
di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente
spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale,
sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo
sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa
esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti),
nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla
terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose
correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo
stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta,
padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per
esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano
germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del
lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della
natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante
i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la
Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza
e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che
riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e,
di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato
insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso
esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è
una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una
forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la
mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di
pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose
e della vita; non limitandosi - però - alla dimensione del pensiero
logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose,
ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il
volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per
mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di
conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo
della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di
esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto
questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico
è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente
dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner,
apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte
dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il
significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con
particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha
scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura
europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth
and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla
Editore, 1974, pp. 144-46):
«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente
rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con
il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il
mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi
animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti,
l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con
i suoi antenati oppure con i suoi “totem” - ad un tempo natura,
sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e
risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né
meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare
uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente
per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal
mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si
lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o
l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un
consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle
società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio,
sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e
tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può
influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua
sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e
sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa
che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne,
che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare
“centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca
in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i
rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è
visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far
prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura
delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il
cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della
valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito
come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte
più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso
socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad
accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a
uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e
animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di
Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre
un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte
integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura,
l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei
“primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un
parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste
soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta
ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa
concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa
di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione
religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La
sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un
significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella
costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto,
le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla
luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo
perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando
come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa
sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia
sacra”.»
Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni
edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito
del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e,
del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della
letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria
che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo;
episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura
molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di
un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un
legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla
luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune
vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato
anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla
celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni,
addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento
realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon),
dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al
Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è
indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e
l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo,
dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per
scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla
vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi
Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per
propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una
vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la
concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in
maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro
vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla
frustrazione di essere membri di una società esasperatamente
individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la
dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta
interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche
l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un
ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto
privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un
disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato
l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare,
almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella
fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare
l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume
le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento
della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e
potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare
alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i
vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude
all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da
vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali
forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che,
nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una
concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi
del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e
della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e
quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine
esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir
trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore
all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto
l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono
all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso,
il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale
radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni
siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e
realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra
presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e
continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne
l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e
scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di
razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto,
una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che
coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare
dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.