Raccolti da Giuseppe Scattolin [1]
pubblicati in "In Quiete"
1. Il tawhiîd nel Corano e nella tradizione del Profeta
Per comprendere il senso del tawhîd sufi occorre rifersi al testo coranico, essendo questo, come abbiamo visto, la prima fonte dell’esperienza sufi. Qui mi limito ad alcuni cenni generali. Le formule del tawhîd ritornano con insistenza (circa 82 volte) nel testo coranico e sotto le forme piu’ diverse.[2] Il testo fondamentale per il tawhîd islamico e’ senz’altro il capitolo coranico chiamato ‘Sura dell’ikhlâs ‘, cioe’ la sura della ‘fede pura’ (C 112). Essa e’ la piu’ semplice ed anche la piu’ completa espressione dell’assoluto monoteismo islamico, e luogo preferito nella recitazione del testo coranico. Essa recita:
"Di’: Egli e’ il Dio (Allâh) - l’Uno (ahad) -
il Dio (Allâh) il Permanente-Immutabile (samad) -
Egli non e’ stato generato - ne’ e’ stato generato - nulla e’ simile a Lui".
Un altro testo importante e’ quello tratto dalla ‘Sura al-shûrâ’ (42, 11); esso recita :
"Nulla e’ simile a Lui; ed Egli e’ Colui che sente e vede”.
(laysa ka-mithli-hi shay'un; wa-huwa al-samî’u l-basîr)
Il peso di tali formule nel contesto coranico deve essere compreso alla luce del suo assoluto teocentrismo. Lo studioso giapponese, Toshihiko Izutsu, che ha dedicato ampi studi all’analisi semantica del testo coranico afferma in modo categorico:
"... dal punto di vista semantico Allâh e’ la parola-focale al grado piu’ alto nel vocabolario del Corano; essa presiede sopra tutti i campi semantici e, conseguentemente, sopra tutt il sistema [linguistico coranico”. [4]
La ripetizione continua di queste formule coraniche hanno il piu’ profondo impatto sulle menti e sui cuori dei credenti, e permeano i loro sentimenti con la piu’ profonda e forte fede di assoluto monoteismo. L. Massignon nel suo studio sull’origine del vocabolario sufi, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane' (Paris, 1922), ha giustamente messo in rilievo l’importanza della tecnica dell’instinbât come mezzo di formazione del vocabolario sufi.[5] Il termine instinbât (letteralmente ‘trarre l’acqua da un pozzo profondo’) significa cercare il senso profondo di un testo. Questo avviene normalmente mediante la ripetizione, anzi la manducazione continua del testo che porta ad una immersione totale nel suo senso profondo. Questa pratica sufi ha un evidente parallelo nella lectio continua praticata negli ambienti del monachesimo orientale. Occorre aggiungere anche che questa tecnica raggiunge il suo effetto piu’ efficace e profondo proprio nelle formule del tawhîd. Mediante la loro incessante ripetizione l’interno del sufi (anima, mente e cuore) e’ come invaso dalla presenza divina fino a perdere la coscienza personale di se’, immergendosi e perdendosi sempre piu’ in Lui. Questa pratica della ripetizione di formule religiose si chiama anche nella terminologia sufi ‘ricordo’ (dhikr) di Dio. Anche tale pratica ha molti parallelismi in altre religioni.
Dopo il Corano, anche il hadîth, la seconda fonte della fede islamica, riporta molte affermazioni sul tawhîd che ripetono in generale il contenuto delle formule coraniche, pure con qualche sviluppo semantico. [6]
2. Il tawhiîd nella storia del sufismo
2-1. Râbi’a al-’Adawiyya (m.185/801): Dio e’ il solo Amato.[7]
Amare Dio solo.
Diceva Râbi’a:
“O mio Dio! Tutto il bene che hai decretato per me in questo mondo donalo ai tuoi nemici. Tutto quello che hai preparato per me in Paradiso donalo ai tuoi amici. Io invece non cerco che Te solo”.
E diceva pure :“O mio Dio! Se Ti ho adorato per paura dell’Inferno, bruciami nel suo fuoco. Se Ti ho adorato per speranza del Paradiso, privami di esso. Ma se non Ti ho adorato che per Te solo, non privarmi della contemplazione del Tuo volto”.
L’amore perfetto.
Ti amo di due amori: uno di passione
e uno di cui Tu solo sei degno.
L’amore di passione consiste
nell’occuparmi con il ricordo di Te (escludendo) ogni altra cosa.
L’amore di cui Tu solo sei degno è
che tu tolga i veli sicchè io Ti veda.
Non a me va la lode in questo (amore) o in quello,
ma a Te la lode e in questo e in quello.
[Notiamo in questi semplici testi l’amore assoluto di Râbi’a per Dio solo , con l’esclusione di ogni altro interesse. Râbi’a segna il passaggio dalla tappa della rinuncia assoluta a quella dell’amore assoluto per Dio].
2-2. Dhû l-Nûn al-Misrî (m. 245/859): il vero gnostico [8]
Ho conosciuto il mio Signore
per mezzo del mio Signore,
senza il mio Signore,
mai avrei conosciuto il mio Signore. (25)
O Dio, davanti alla gente ti invoco: O mio Signore!
Ma nella solitudine ti chiamo: O mio Amato (habîb)!
Le creature proclamano il tawhîd
O mio Dio,
non ho mai inteso il grido di un animale, né il fruscio delle fronde degli alberi
né il mormorio dell’acqua né il soave canto degli uccelli,
né percepito il dolce invito dell’ombra, o il sibilo del vento,
o il fragore del tuono,
senza constatare che essi testimoniano della tua Unicità,
che nulla al mondo è uguale a Te, che Tu domini e non sei dominato,
che Tu sai tutto e niente ignori, che Tu sei misericordioso e non opprimi
con i tuoi rimproveri, che Tu sei giusto e non commetti ingiustizia,
che Tu sei veritiero e non menti mai.
2-3. Abû Yazîd al-Bistâmî (m. 261/874): l’ebbrezza dell’identita’ [9]
L’ascensione spirituale (mi’râj)
Si ricorda che Abû Yazîd raccontò:
“Una volta Dio mi elevò e mi pose davanti a Sé e mi disse: “Abû Yazîd, le mie creature amerebbero vederti!”.
Risposi: “Ornami della Tua Unità, rivestimi della Tua Identità, elevami alla Tua Unicità, cosicchè, quando le Tue creature mi vedranno, diranno: “Abbiamo visto Te”. E Tu sarai quello (che vedono) ed io non sarò più là”.
Si ricorda ancora che Abû Yazîd raccontò:
“Quando mi fece arrivare alla testimonianza dell'Unita' (tawhîd) mi separai da me stesso e corsi verso il mio Signore. E lo invocai in mio soccorso e dissi: “O mio Signore, Ti invoco come colui cui null’altro resta”.
Quando conobbe la sincerità della mia preghiera e il mio disperare di me stesso, la prima risposta che Egli mi diede fu di farmi dimenticare me stesso completamente e di farmi dimenticare le creature e i regni (celesti)”.
Poi Abû Yazîd continuò:
“Così fui liberato da ogni preoccupazione e fui sollevato da ogni altro pensiero. E continuai ad attraversare regno dopo regno. Arrivando ad essi dicevo: “Levatevi di mezzo, affinchè io passi!”. E io li toglievo di mezzo per passare, ogni qualvolta li trovavo sulla mia corsa.
Poi Dio mi fece avvicinare a Se stesso, più vicino dello spirito al corpo e mi disse:
“O Abû Yazîd, essi tutti sono mie creature: ma tu no!”
Allora esclamai: “Quindi io sono Te, Tu sei me, io sono Te”.
b. La vera identita’ sufi
Disse Abû Yazîd:
“Io non sono Io, Io sono Io perchè Io sono Lui;
Io sono Lui, Io sono Lui: Io sono Lui, Lui”.
[Al-Bistâmî e’ il primo sufi che esprime lo stato di annullamento in Dio (fanâ’). Mediante un’ascensione spirituale tremenda, il sufi si spoglia completamente delle sue qualita’ personali, e ridotto a nulla assoluto puo’ essere rivestito delle qualita’ divine. Allora scopre la sua realta’ e identita’ vera: Io sono Te, Tu sei me!]
2-4. Abû l-Qâsim al-Junayd (m. 298/910): il maestro del tawhîd [10]
Il secondo aspetto esoterico (sufi) della professione dell' Unita' (tawhîd) invece e' essere come un'ombra davanti a Lui senza che vi sia un terzo fra i due, di modo che su di lui si attuino i Suoi decreti, secondo le disposizioni della Sua onnipotenza, poiche' egli (il sufi) e' sommerso nei mari del Suo tawhîd, completamente annullato a se stesso e alla chiamata di Dio a lui e al suo rispondere a Lui.
Siccome egli ha raggiunto le realta' della Sua Unita'nella realizzazione della Sua prossimita', egli ha perso il proprio percepire ed il proprio movimento, poiche' Dio compie in lui cio' che vuole da lui. Questo significa che lo stato finale del servo e' tornato allo stato iniziale: cioe' egli e' ora come era allora quando era prima di esistere.
E la prova di questo e' la parola di Dio , l'Altissimo e l'Eccelso:
"E quando il tuo Signore prese i discendenti dei figli di Adamo, dai loro lombi, e li fece testimoniare su se stessi:'Non sono Io il vostro Signore?' Quelli risposero:'Si', certamente!". (C 7, 172).
Chi esisteva allora? E come esisteva prima di esistere? Chi poteva rispondere se non spiriti puri, semplici, santi in accordo con la Sua efficace onnipotenza e la Sua perfetta volonta'? Ora la sua esistenza e' come era allora prima che fosse.
Questo e' il supremo grado di realizzazione della professione dell' Unita' dell' Uno (tawhîd ), in cui chi lo compie perde se stesso.
[Al-Junayd, detto ‘il maestro dei sufi’, e’ il primo a dare una spiegazione teorica all’esperienza del tawhîd sufi, sempre piu’ comune fra i sufi del suo tempo. In tale stato il sufi e’ completamente invaso dall’azione di Dio, completamente annullato a se stesso tanto da non essere che un’ombra inconsistente nel mare dell’azione divina. Allora il sufi esperimenta la sua esistenza reale che e’ quella che aveva in Dio, prima della creazione].
2-5. Al-Hallâj (m. 309/922): il martire del tawhîd [11]
Arrivato al monte ‘Arafat, culmine del pellegrinaggio, al-Hallâj esclamo':
O Guida dei perplessi, accresci la mia perplessita' (in Te) (hayra )!
Se sono infedele, rendimi ancora piu' infedele!
O mio Dio, glorioso Sovrano! Io Ti riconosco puro, esente
da tutto cio' che i Tuoi adoratori fanno per avvicinarsi a Te;
e da tutto cio' che dicono coloro che professano la Tua unita', affermando che Tu sei Uno.
Tu sei al di la' di ogni immagine di coloro che dicono: "Gloria a Te!",
e della proclamazione di coloro che dicono: "Non c'e' Dio se non Allâh",
e dei concetti di coloro che ragionano du di Te;
Tu sei al di la' di cio' che dicono i Tuoi amici e i Tuoi nemici.
Tu sai che sono impotente ad offrirti l'azione di grazie che sia degna di Te:
Vieni Tu dunque in me, perche' sia Tu ad innalzare il grazie a Te:
questo e' il vero ringraziamento, non altro!
Il Tuo radioso Mistero!
Quanto e' sublime Colui la cui umanita' ha rivelato
il Mistero radioso della sua divinita'che tutto penetra.
Quindi si e' manifestato alle sue creature
nella forma di uno che mangia e beve (= umano);
Tanto che esse Lo hanno potuto intravvedere
come in un lampo, in un battere di occhi.
Il vero tawhîd
Fammi uno con Te, o mio Unico, nella vera attestazione della Tua Unita':
a cio'nessun sentiero umano puo' condurre!
Io sono un Reale testimone, ma solo il Reale e' Reale testimone del Reale,
rivestendosi di Se stesso: fra noi ormai piu' non c'e' separazione!
Ecco che il tutto si illumina di raggi splendenti,
scintillanti nel baleno del fulmine.
Io sono Colui che amo
Io sono Colui che amo, e Colui che amo e' me;
Siamo due spiriti che abitano un solo corpo.
Se tu mi vedi, vedi Lui:
se tu vedi Lui, vedi Noi.
Tutte le religioni sono Uno
Ho riflettuto sulle religioni, cercando di comprenderle;
ho trovato che sono rami diversi di un solo tronco.
Non chiedere a nessuno di abbracciare una certa religione,
lo allontaneresti cosi' dal suo Principio.
Lui, il Principio, e' alla sua ricerca,
in Lui si rendono chiari tutti i simboli e sensi;
e allora comprendera'.
[Al-Hallâj ha espresso la sua scoperta del tawhîd sufi in modo appassionato ed esaltato fino al martirio. Questa trasformazione profonda, operata dalla presenza di Dio che rapisce il sufi da se stesso, e’ per lui la vera religione. Amore ed unione sono mirabilmente coniugati nella sua esperienza. Alla fine egli puo’ esclamare : Io sono Colui che amo. Questa e’ la vera vita, quella eterna che supera la morte]
2-6. Abû l-Qâsim al-Qushayrî (376/986-465/1074): il maestro delle tappe spirituali
Al-Qushayrî e’ uno dei piu’ imporanti trattatisti sufi. Scrisse un famoso Trattato sulla scienza del sufismo (Al-risâla fî ‘ilm al-tasawwuf). Dal capitolo ‘La professione dell'unita' di Dio (tawhîd)’, riportiamo alcuni detti sul tawhîd sufi. [12] La numerazione dei detti e’ quella del testo tradotto.
La professione dell'unita' di Dio (tawhîd)
5. La professione dell'unita' di Dio (tawhîd) e' di tre specie:
a - (Il primo) e' la professione dell'unita' di Dio nei confronti di Dio stesso: esso consiste nella realta' che (Dio) sa (‘ilm) di essere Uno e rende noto che egli e' Uno .
b - Il secondo e' la professione dell'unita' di Dio nei confronti del creato: esso consiste nel fatto che (Dio) dichiara che un suo servitore e' uno che professa l'unita' di Dio (muwahhid) e che Egli stesso crea l'atto della professione dell' unita' di Dio del suo servitore.
c - Il terzo e' la professione dell'unita' di Dio delle creature nei confronti di Dio: esso consiste nel fatto che il servitore sa (‘ilm) che Dio e' uno, dichiara e professa che Dio e' uno (wâhid).
6. Interrogato a proposito della professione dell'unita' di Dio, Dhû l-Nûn al-Misrî rispose:
"E' che tu sappia che l’onnipotenza divina nelle cose e' senza mescolanza (non ha soci), che la sua azione nel produrre le cose si effettua senza intermediari, che il suo fare e' la causa (‘illa) di ogni cosa senza essere esso stesso causato; e infine (che tu sappia) che Dio e' totalmente differente da tutto quanto tu puoi immaginare nel tuo spirito".
8. Interrogato a proposito della professione dell'unita' di Dio, al-Junayd rispose:
"Essa consiste nell'affermazione della singolarita' assoluta (ifrâd) dell'unita' (di Dio) con la vera comprensione e realizzazione (tahqîq) del suo 'essere uno' (wahdâniyya) nella perfezione della sua unicita' assoluta (ahadiyya) e cioe' che Egli e' l’Uno (al-wâhid) ‘che non genera ne' e' generato’ (C 112 , 3).
Il tawhîd significa negare assolutamente che esistano degli oppositori (addâd) a Dio, o dei suoi pari (andâd) o simili (ashbâh), evitando nel discorso ogni genere di similitudini (tashbîh), modalita', immagini e paragoni (con le creature): ‘Nulla e' simile a Lui, ed Egli e' colui che tutto ode e tutto vede’ (C 42, 11).
9. Al-Junayd ha pure detto:
"Quanto piu' le menti dei pensatori si inoltrano nella professione dell'unita' di Dio, tanto piu' esse si inoltrano nella perplessita' e nello smarrimento (hayra)".
17. Interrogato a proposito dell’essenza (dhât) di Dio, Sahl b. ‘Abd Allâh rispose:
"L’essenza di Dio e' descritta mediante le scienze, senza pero' essere circoscritta dalla comprensione (umana) o essere vista da occhi (umani) in questa dimora terrena. Essa e' percepita esistente a livello delle realta' credute (haqâ’iq) per fede, senza essere limitata ne' circoscritta ne' fatta abitare (in un luogo) (hulûl). Gli occhi Lo (Dio) contempleranno nella vita futura manifestamente nella sua sovranita' ed onnipotenza.
Egli ha velato alle sue creature la visione della profondita' della sua essenza (dhât), pero' mediante i segni li ha orientati verso di esso. Quindi i cuori (qulûb) lo conoscono (ma’rifa), ma le menti (‘uqûl) non lo possono raggiungere: i credenti guardano verso di Lui con i loro occhi senza circoscriverlo ne' arrivar alla fine (del suo mistero)".
18. Al-Junayd ha detto:
"La piu' sublime espressione sulla professione dell’unita' di Dio e’ quella pronunciata da Abû Bakr al-Íiddîq:"Lode a Colui che non ha dato alle sue creature altre vie per conoscerlo se non la loro incapacita' di conoscerlo".
E il maestro Abû l-Qâsim (al-Qushayrî) ha detto:
"Al-Íiddîq non ha voluto dire che Dio non e' conosciuto. Infatti per i dotti in religione (muhaqqiqûn, i teologi) l’incapacita' e' incapacita’ per qualcosa che e’ presente (esistente), non per qualcosa che e’ assente (non esistente). Allo stesso modo che il paralitico e' incapace di sedersi, e questo fatto non e' ne' una cosa acquisita ne' una cosa prodotta in lui, dato che la capacita' di sedersi e’ presente in lui (per natura). Allo stesso modo colui che conosce e' incapace di conoscere Dio, sebbene la facolta' conoscitiva sia presente in lui essendo una facolta' necessaria (della sua natura).
Secondo l’opinione di questo gruppo di sufi la conoscenza di Dio (ma’rifa) e' in definitiva una cosa che deriva necessariamente (dalla natura umana).
La conoscenza acquisita, invece, anche se si tratta della conoscenza dei dotti, sta all’inizio (della conoscenza di Dio). Ma al-Siddîq l’ha considerata un nulla in paragone alla conoscenza necessaria (proveniente dalla natura), come una lampada di fronte al sorgere del sole e al diffondersi dei suoi raggi sopra di essa".
19. Al-Junayd ha detto:
"La professione dell’unita' di Dio che e' esclusiva dei sufi e' isolare in modo assoluto (ifrâd) l'eterno (qadîm) dal temporale (hadath), allontanarsi dai luoghi familiari, separarsi dalle cose amate, negare tutto cio' che si conosce e che non si conosce; sicche' Dio occupi il posto di tutto".
21. Al-Junayd ha detto:
"La scienza dell’unita' di Dio (‘ilm al-tawhîd) e' diversa dalla sua esperienza (wujûd), e la sua esperienza e' diversa dalla sua scienza".
28. E' stato detto:"La professione dell’unita' di Dio significa fare cadere gli "-î" (pronome suffisso della prima persona), in modo che tu non dica piu': a me, attraverso di me, da me, per me".
33. Abû Sa’îd al-Kharrâz ha detto:
"La prima stazione di chi ha trovato la scienza (‘ilm) della professione dell’unita' di Dio e ne ha raggiunto la realta' (tahaqqaqa) e' che il ricordo degli esseri sparisca (fanâ’) dal suo cuore ed egli rimanga solo con Dio (infirâd)".
35. Ibn ‘Atâ' ha detto:
"Il segno della realizzazione (haqîqa) della professione dell’unita' di Dio (tawhîd) e' il dimenticare (nisyân) la professione stessa: questo significa che colui che la compie e' uno solo".
[In questi detti sul tawhîd il nome del al-Junayd, riconosciuto come ‘il dottore del tawhîd’ predomina chiaramente. In questi detti prevale l’idea che una vera conoscenza di Dio, e quindi una sua contemplazione diretta e’ impossibile. Conoscere Dio significa in realta’ conoscere di non conoscerlo. Una simile teologia negativa e’ certamente prevalente in Islam, come pure in altre teologie orientali, vedi ad esempio Dionigi l’Aeropagita. La ragione di questo va ricercata nel fatto che solo Dio conosce il mistero della sua Unita’; i pensieri e le immaginazioni degli esseri umani non potranno mai avvicinarsi ad esso. Per questo, conclude Ibn ‘Atâ’, il vero tawhîd e’ la dimenticanza di esso, perche’ chi lo compie in realta’ e’ uno solo, cioe’ Dio, essendo l’essere umano ormai completamente annientato in Lui. Questo pensiero introduce la problematica radicale del tawhîd islamico, ben illustrata anche dal sufi che segue].
5. ‘Abd Allâh al-Harawî al-Ansârî (m.481/1089): il sufi delle cento dimore.
Al-Ansârî, sufi del Khorâsân, hanbalita, cioe’ della piu’ stretta ortodossia islamica, descrive nel suo libro Le dimore dei viandanti (i sufi) cento tappe del cammino sufi, che si concludono col tawhîd, che e’ da lui espresso nei termini seguenti.[13]
“Nessuno ha proclamato che l’Uno e’ Uno:
chiunque lo abbia fatto e’ un negatore di Dio.
Chi parla della Sua Unita’ come di una qualita’,
dice delle parole inconsistenti che Lui, l’Uno, rende vane.
Che l’Uno proclami se stesso Uno, questa e’ la professione dell'Unita' (tawhîdu-hu iyyâ-hu tawhîdu-hu);
chiunque voglia attribuire a Lui la qualifica di uno, qualifica se stesso di empieta’”.
[Al-Ansârî esprime chiaramente in questo testo la problematica profonda del tawhîd islamico in generale e di quello sufi in particolare, problematica ormai chiara dal tempo di al-Junayd e al-Hallâj: chi puo’ proclamare il vero tawhîd? La risposta e’ categorica: solo Dio puo’ proclamare il suo tawhîd. E allora che parte ha l’uomo? La risposta e’ il silenzio].
2-6. Muhammad b. ‘Abd al-Jabbâr al-Niffarî (meta’ del IV/X sec. ): il sufi della visione massima. [14]
‘Abd al-Jabbâr al-Niffarî, sufi solitario dell’Iraq del quarto secolo islamico, ha espresso una delle piu’ singolari esperienze del sufismo. In esso si percepisce l’esperienza dell’incontro bruciante con il ‘Tu’ divino che trascende tutto, perfino le sue manifestazioni, poiche’ Egli mai si identifica con esse né mai è da esse condizionato. C’e’ in questo sufi una forte esigenza di incontrare Dio a tu per tu, a faccia a faccia, di contemplarlo al di la’ di tutti i veli cosmici, psicologici e religiosi. La rivelazione di Dio in forma di lettere rimane pur sempre per questo sufi singolare un velo alla pura contemplazione della sua realta’ in se stessa. E’ la visione diretta di Dio che egli cerca, al di la’ di ogni intermediario, anche della divina rivelazione stessa. Siamo qui senza dubbio in presenza di una delle piu’ alte espressioni della spiritualita’ islamica.
Riportiamo un brano tratto dal suo Il libro delle stazioni (Kitâb al-mawâqif ), diviso in 77 stazioni o stasi interiori.
“E mi disse: Io ti guardo ed amo che tu guardi a Me. Ogni atto di manifestare [di creare le cose] ti vela a Me: la tua anima è un velo, la tua scienza è un velo, la tua gnosi è un velo, i tuoi nomi sono un velo, la Mia auto-rivelazione a te è un velo. Espelli quindi dal tuo cuore ogni cosa, e espelli la scienza di ogni cosa, e il ricordo di ogni cosa. E tutte le volte che Io manifesto al tuo cuore qualcosa che si manifesta [nella creazione], rigettala all’inizio del suo manifestarsi: svuota il tuo cuore per Me, affinché tu possa guardare a Me senza fare prevalere nulla su di Me” (Mawâqif 15, 14)”. [15]
2-7. Abû Hâmid al-Ghazâlî (450/1058-505/1111): il teologo sufi.
Al-Ghazâlî rappresenta il sommo dello sforzo di riconciliazione tra esperienza sufi e dottrina ortodossa sunnita. Per tale motivo fu chiamato ‘la Prova dell’Islam’ (hujjat al-islâm). Egli ha riassunto tutta la sua visione nella sua summa dal titolo significativo: ‘La rivivificazione delle scienze religiose’ (Ihyâ ‘ulûm al-dîn).[16] Da questo libro prendiamo un brano che illustra la fede monoteista come base della stazione della confidenza in Dio. In tale contesto al-Ghazâlî specifica pure il senso della fede monoteista. Egli parla di quattro gradi di monoteismo che vanno dalla pura professione verbale fino alla visione dell’Unicita’ assoluta di Dio, che e’ al di la’ di ogni misura razionale.
La realta’ del monoteismo (tawhîd) che e’ il fondamento della confidenza in Dio.
Il monoteismo dunque e’ il fondamento [della confidenza in Dio]; e il discorso su tale argomento sarebbe lungo, esso fa parte della scienza della rivelazione [mistica] (mukâshafa). Si noti che alcune delle scienze delle rivelazioni [mistiche] dipendono dalle opere (a’mâl) per mezzo degli stati interiori (ahwâl) e solo per mezzo di questi la scienza della pratica religiosa (mu’âmala) e’ completa.[17] Quindi noi esporremo qui solo quel tanto che e’ connesso con la pratica religiosa. Altrimenti... il monoteismo e’ un mare immenso senza sponde!
Diciamo quindi: il monoteismo ha quattro gradi, cioe’ esso si divide in nocciolo e nocciolo del nocciolo, e in guscio e guscio del guscio. Per farci meglio capire da chi ha una mente debole prendiamo come esempio una noce: essa ha una mallo formato da due scorze, e un gheriglio che contiene dell’olio, che e’ la sua essenza (lett. il nocciolo del nocciolo).
Il primo grado di monoteismo e’ quando uno pronuncia con la bocca (lett. lingua): “Non c’e’ dio se non il Dio”, mentre il suo cuore resta distratto da tale affermazione o la nega. Questo e’ il monoteismo degli ipocriti.
Il secondo grado si ha quando il suo cuore crede al senso di quello che dice, come fanno tutti i musulmani. Questa e’ la professione di fede dei comuni credenti.
Il terzo grado si ha quando uno vede [l’unicita’ di Dio] nella rivelazione [mistica] (kashf) per mezzo della luce del Vero (haqq): questa e’ la stazione di coloro che sono vicini [a Dio] (muqarrabûn). [Questo succede] in quanto quel tale vede molte cose pero’ le vede, malgrado la loro pluralita’, come emananti dall’Unico, Onnipotente (qahhâr).
Il quarto grado si ha quando l’uomo non vede nell’esistenza che Uno solo. Questa e’ la visione (mushâhada) di coloro che sono giunti al massimo grado di veracita’ [nella fede] (siddîqûn). I sufi chiamano questo grado l’annientamento (fanâ’) nell’affermazione dell’unicita’ divina (tawhîd). [Il sufi] infatti, dato che non vede che Uno solo, nemmeno vede il suo io. E siccome non vede il suo io, essendo completamente immerso nell’affermazione dell’Unico, la sua persona e’ annientata (fanâ’) a se stessa nella sua affermazione dell’unicita’ divina, nel senso che e’ annientata in lui la visione di se stesso e del creato.
Il primo e’ monoteista soltanto con la bocca; una professione del genere preserva il suo autore in questo mondo dalla spada e dalle punte delle lancie.[18]
Il secondo e’ monoteista nel senso che crede nel suo cuore al senso delle parole pronunciate, e il suo cuore non rinnega cio’ di cui e’ convinto (lett. legato). Questa (convinzione) e’ infatti come un nodo sul suo cuore senza alcuna apertura e dilatazione. Essa pero’ salva colui che la abbraccia dal castigo nell’Altra Vita, se egli muore in essa e i suoi peccati non hanno allentato il suo nodo [della fede].[19] Tale nodo infatti e’ soggetto ad espedienti intesi ad allentarlo o a scioglierlo; [questi] sono chiamati innovazioni [arbitrarie] (bida’).[20] ........
Il terzo e’ monoteista nel senso che non vede che un solo Agente (fâ’il), in quanto il Vero (haqq) gli si rivela com’e’ in se stesso: egli [il sufi] non vede che un solo Agente reale. E’ la Verita’ (haqîqa) che gli si e’ rivelata com’e’ in se stessa, senza imporre al suo cuore di credere [lett. legarsi] a cio’ che e’ inteso col termine Verita’.....
Il quarto e’ monoteista nel senso che nella sua visione solo l’Unico e’ presente. Egli quindi vede il tutto non come molteplice, ma come uno. Questo e’ il massimo (che si puo’ raggiungere) nel monoteismo.......
Se mi chiedi: “Com’e’ si puo’ spiegare che [il sufi] non veda che un solo essere esistente, dato che egli pure vede il cielo, la terra e tutti gli altri corpi percepiti dai sensi, e questi sono molti. Come puo’ essere che il molti siano uno?”
Sappi che questa e’ il sommo delle scienze delle rivelazioni [mistiche] e che non e’ lecito scrivere in un libro i segreti di tale scienza. Gli gnostici (‘ârifûna) hanno dichiarato che divulgare il segreto della Signoria (divina) (rubûbiyya) e’ un’empieta’.[21] Inoltre tutto cio’ non ha nulla a che fare con la scienza della pratica religiosa. Si’, purtuttavia si puo’ far menzione di qualcosa che possa incrinare la foga del tua negazione. Il fatto e’ che una cosa puo’ essere molteplice da un determinato punto di vista o considerazione ed essere nello stesso tempo una da un altro punto di vista o considerazione. L’uomo, ad esempio, e’ molteplice se prendi in considerazione il suo spirito, il suo corpo, le sue membra e le sue vene, le sue ossa e le sue interiora, e nello stesso tempo uno da un altro punto di vista o considerazione. Noi diciamo che l’uomo e’ uno: egli infatti dal punto di vista dell’essenza umana e’ uno. Quanti, allorche’ vedono una persona umana, non passa loro per la mente il pensiero della molteplicita’ delle sue interiora, delle sue vene, dei suoi arti, e tutte le particolarita’ del suo spirito, del suo corpo e delle sue membra. La differenza fra i due sta nel fatto che quel tale e’ come immerso ed assorbito (mentalmente) nell’altra persona, egli e’ totalmente immerso nell’uno indiviso (che gli sta davanti). In un certo senso e’ come se questi fosse nell’essenza dell’unione (‘ayn al-jam’) (della persona), mentre quello che ancora prende in cosiderazione la molteplicita’ e’ in uno stato di divisione (tafriqa).[22]
Allo stesso modo, si danno per tutto cio’ che esiste come creatore e creatura molti punti di vista e considerazioni: da un punto di vista il tutto e’ uno, da un altro punto di vista e’ molteplice, e il grado di molteplicita’ in esso puo’ essere piu’ o meno grande. Esempio di cio’ e’ l’uomo, e, anche se esso non corrisponde perfettamente allo scopo, tuttavia serve a mostrare come il molteplice puo’ da un certo punto di vista diventare uno.
[Segue un lungo discorso allegorico in cui al-Ghazâlî descrive un viandante alla ricerca della causa ultima dei fatti visibili. Di causa in causa, chiedendo ad ognuno degli esseri che incontra la causa del suo agire, egli sale attraverso tre mondi: dal mondo della percezione sensibile, detto mulk (Regno) al mondo invisibile della potenza, della volonta’ e della scienza divine, detto jabarût (Potenza), al mondo della Penna e della Destra divine che eseguiscono gli ordini della Potenza divina, detto malakût (Reame).[23] Egli giunge quindi alla Presenza divina (hadra), nascosta da impenetrabili veli ed e’ li’ che egli viene intepellato direttamente da essa, senza pero’ vederla[24]]
Allora (udendo tali parole) egli (il viandante) fu sul punto di deviare (dal giusto cammino) e lasciare che la sua lingua avesse l’ardire di interrogare, ma fu reso saldo dalla salda parola (Cor. 14, 27), e da dietro il velo delle cortine della Presenza divina (hadra) fu interpellato da una Voce che grido’: “(A Dio) non viene chiesto conto di cio’ che fa, mentre a loro verra’ chiesto conto” (Cor. 21, 23). Egli fu sopraffatto dal timore della Presenza divina (hadra), e cadde a terra svenuto come colpito da una folgore (Cor. 7, 143), tremante di paura nella sua impotenza. Quando rinvenne, esclamo’: “Gloria a Te! Quanto sei maestoso! Ecco, torno a Te pentito e a Te mi affido! Credo che Tu sei il Re (malik), il Possente, l’Unico (wâhid), il Dominatore! Altri non temo che Te, non ho speranza in altri che Te, ne’ cerco rifugio dal tuo castigo che nel tuo perdono, e dalla tua collera nel tuo compiacimento. Altro non mi resta che chiederti, implorandoti e supplicandoti al tuo cospetto: ‘Aprimi il petto affinche’ Ti conosca! Sciogli il nodo della mia lingua affinche’ proclami le tue lodi” (cf. Cor. 20, 25.27).
Allora la Voce da dietro il velo mi interpello’ di nuovo dicendo: “Guardati dalla tua brama di lodarmi e (dal voler) superare il Signore dei profeti! Piuttosto fa riferimento a lui, e cio’ che ti ha dato prendilo, da cio’ che ti ha proibito astieniti (Cor. 59, 7), e cio’ che ti ha detto dillo. Infatti su questa Presenza non ha detto niente di piu’ che: “Gloria a Te! Io non posso enumerare le tue lodi, Tu sei come Tu ti sei lodato”.[25]
Allora egli disse: “Mio Dio, se la lingua non puo’ avere l’ardire di lodarti, potra’ il cuore avere il desiderio di conoscerti?”. Ma quella Voce mi interpello’ di nuovo dicendo: “Guardati dall’oltrepassare i credenti veraci, ma fa riferimento al piu’ verace dei credenti e imitalo.[26] Infatti i compagni del Signore dei profeti sono come le stelle: chiunque di loro imitiate, sarete ben guidati.[27] Non lo hai sentito dire: ‘L’incapacita’ di giungere a comprendere [Dio] e’ la [sua] vera comprensione?’[28] Ti basti quindi avere della nostra Presenza la conoscenza che tu sei escluso da essa, impotente a contemplare la nostra bellezza e maesta’”.[29]
A questo punto il viandante (sâlik) torno’ indietro e prese scusarsi per le sue domande e i suoi rimproveri, e disse alla Destra, alla Penna, alla Scienza, alla Volonta’, alla Potenza e a tutti gli altri: “Accettate le mie scuse! Ero uno straniero, da poco tempo entrato in queste regioni, e ‘chiunque entra (un paese nuovo) e’ disorientato’.[30] Se vi ho disapprovato fu solo per mia deficenza ed ignoranza. Ora ho compreso la validita’ delle vostre scuse e mi e’ apparso chiaro che Colui che solo possiede il Regno (mulk) ed il Reame (malakût), la Maesta’ e la Potenza e’ l’Unico (wâhid), il Dominatore. Voi non siete che esseri soggetti al suo Dominio e Potenza, sempre in balia della sua presa. Egli e’ il Primo (awwal) e l’Ultimo (âkhir), il Manifesto (zâhir) e il Nascosto (bâtin) (Cor. 57, 3)”.
Quando pero’ parlo’ di tali cose nel mondo visibile (shahâda), tali affermazioni furono considerate inverosimili e gli fu detto: “Com’e’ possibile che Egli sia il Primo e l’Ultimo, dato che sono due qualita’ contradittorie? Come puo’ essere il Manifesto e il Nascosto? Giacche’ il primo non e’ ultimo, e il manifesto non e’ nascosto”. Egli replico’: “Egli e’ il il Primo in rapporto agli esseri esistenti, dato che tutto il tutto e’ uscito da Lui secondo un ordine stabilito, una cosa dopo l’altra. Egli e’ l’Ultimo in rapporto agli esseri che vanno verso di Lui, questi infatti non cessano di ascendere di stazione in stazione finche’ terminano a quella Presenza: questo e’ il termine del loro viaggio (safar). Egli quindi e’ l’Ultimo in rapporto alla visione (mushâhada) e il Primo in fatto di esistenza (wujûd). Egli e’ nascosto per coloro che sono attaccati al mondo visibile e cercano di compenderlo mediante i cinque sensi; Egli e’ manifesto per coloro che lo cercano con [la luce] della lampada che si e’ accesa nel loro cuore mediante la percezione interiore (basîra) che penetra nel mondo del Reame”.
Questo e’ il monoteismo dei viandanti sul cammino del monoteismo in rapporto all’agire, cioe’ quando viene loro rivelato che l’Agente (fâ’il) e’ unico.
8-2. Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî (560-638/1165-1240): l’oceano delle manifestazioni divine.[31]
Con ‘il Massimo Maestro Sufi’, Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî, il sufismo entra in una dimensione piu’ complessa. Egli ha saputo produrre una vera e propria filosofia sufi, intesa come visione generale dell’essere sulla base dell’esperienza sufi.
Tale visione e’ stata definita con termini di wahdat al-wujûd, espressione che indica una “visione unitaria, al limite monista, dell’essere”. Tutto e’ Uno e l’Uno e’ Tutto. Questa formula neoplatonica bene esprime la visione di Ibn ‘Arabî, aggiungendo pero’ che questa non e’ una pura lettura razionale della realta’ (come nei filosofi), ma che essa e’ ispirata ed illuminata dalla rivelazione religiosa dell’Islam, cioe’ dal Corano e dalla Tradizione della comunita’ dei credenti. Gli scritti (numerosissimi, oltre 400) di Ibn ‘Arabî infatti sono un continuo commento e una continua spiegazione dei testi fondanti della fede islamica.
Uno grande studioso egiziano di Ibn ‘Arabî, Abû ‘Alâ ‘Afîfî, cosi’ riassume tale visione unitaria:
"La realta’ dell’essere e’ una nella sua sostanza ed essenza, plurale nei suoi attributi e nomi. Non c’e’ pluralita’ se non rispetto alle considerazioni, relazioni e specificazioni di essa... Se lo (l’essere ) consideri secondo la sua essenza lo chiami Verita’-Realta’ creatrice (haqq), se lo consideri secondo i suoi attributi e nomi, cioe’ secondo il suo apparire nell’essenze possibili, lo chiami creatura o mondo (khalq)”.[32]
Paragonando il pensiero di Ibn ‘Arabî con quello delle religioni orientali come l’Induismo, il Taoismo, il Buddismo, ecc., lo studioso giapponese Toshihiko Izutsu notava che Ibn ‘Arabî con la sua filosofia sufi e’ andato ben oltre alla comprensione normale della fede islamica. Cosciente o no, egli si e’ unito alla vasta corrente di pensiero monista orientale che puo’ essere considerata: “... un archetipo di pensiero filosofico che, espresso in maniere differenti, si trova in tutti i grandi filosofi delle differenti tradizioni orientali”. [33]
Sulla base di tale visione unitaria dell’essere Ibn ‘Arabî puo’ rileggere la formula tradizionale di lode a Dio in termini monistici escalmando:
"Lode a Dio che ha crato tutte le cose, essendo Lui stesso la loro essenza”.
Percio’ ripete continuamente: [34]
“Non guardare al Reale (haqq), privandolo del mondo-creatura (khalq);
E non guardare al mondo-creatura (khalq) senza rivestiro del Reale (haqq).
Giungendo ad espressioni paradossali come: [35]
"Egli mi loda, e io lo lodo,
Egli mi adora e io lo adoro;
Come puo’ essere indipendente,
quando sono il che Lo aiuto e Lo sostengo?
Per tal motivo il Reale mi ha fatto esistere,
affinche’ io lo conosca e lo faccia esistere.
E nella stessa visione parlando dell’amore arriva ad affermare:
“Il movimento che è l'esistenza del mondo fu un movimento di amore... Senza tale amore il mondo non sarebbe venuto all'esistenza; quindi il movimento dal nulla all'esistenza è il movimento del Creatore verso di essa (esistenza)... Resta quindi provato che il movimento fu un movimento di amore, e che quindi non c'è movimento nell'universo se non in relazione all'amore”. [36]
Per tal motivo egli vede che Dio e’ adorato ed amato in tutte le forme di amore dato che queste sono solo aspetti particolari di un amore ontologico totale. Per cui quando diciamo di amare Dio o qualsiasi altra realta’, in realta’ e’ Dio che ama se stesso in noi ed in ogni altra creatura.
Sulla base di tale visione unitaria dell’essere Ibn ‘Arabî, insieme a molti altri sufi, giunge ad affermare che tutte le religioni sono valide, perche’ esse sono in realta’ manifestazioni diverse di una sola religione fondamentale. Questa visione e’ chiamata comunemente “l’unita’ delle religioni”, assai comune fra i sufi. Dio si manifesta in infinite manifestazioni. Il vero peccato, frutto di ignoranza, e’ isolare una di esse e credere che essa sia l’unica, vera manifestazione di Dio. Il vero gnostico e’ colui che sa andare al di la’ delle apparenze per arrivare all’unica Essenza divina.
Ibn ‘Arabî ha espresso tale sua visione in versi che sono diventati immortali, continuamente ripetuti da coloro che vedono in essi l’espressione dell’ “unita’ delle religioni”:
“Ora il mio cuore e’ capace di ogni forma:
e’ convento dei monaci e tempio degli idoli;
il prato delle gazzelle e la Ka’ba del pellegrino,
le tavole della Torah e il testo del Corano.
Mia religione e’ l’amore ovunque portino le sue cavalcature:
l’amore e’ la mia religione e la mia fede”.[37]
Alla luce di tale esperienza unitaria Ibn ‘Arabî percepisce la voce profonda della Realta’ suprema che lo chiama all’unione piu’ totale:
Invito all’amore [38]
O mio diletto, ascolta!
Io sono la realta’ del mondo,
il suo centro e la sua circonferenza,
le sue parti ed il suo tutto.
Io sono la volonta’ fissata fra il cielo e la terra,
non ho creato in te la sua percezione
se non per essere io stesso oggetto della mia percezione.
Se dunque tu mi percepisci, percepisci te stesso,
ma non riusciresti a percepirmi attraverso te stesso.
E’ attraverso il mio occhio
che tu vedi me e vedi te stesso,
non e’ col tuo occhio che puoi percepirmi.
O mio diletto!
Quante volte ti ho chiamato
e tu non mi hai sentito!
Quante volte mi sono mostrato a te
e tu non mi hai visto!
Quante volte mi sono trasformato in soavi effluvi
e tu non te ne sei accorto!
Quante volte in cibo squisito
e tu non l’hai gustato!
Perche’ non puoi raggiungermi
attraverso gli oggetti che tocchi,
o respirarmi attraverso i profumi?
Perche’ non mi vedi?
Perche’ non mi senti?
Perche’? Perche’? Perche’?
Per te le mie delizie superano
tutte le altre delizie,
e il piacere che ti procuro supera
tutti gli altri piaceri.
Per te sono preferibile
a tutti gli altri beni.
Io sono la bellezza,
io sono la grazia.
O mio diletto, amami!
Ama me solo, amami d’amore!
Nessuno ti e’ piu’ intimo di me!
Gli altri ti amano per se stessi,
ma io ti amo per te stesso:
e tu, tu fuggi lontano da me!
O mio diletto,
tu non puoi trattarmi con equita’;
se tu ti avvicini a me
e’ perche’ io mi sono avvicinato a te.
Io sono piu’ vicino a te di te stesso,
della tua anima, del tuo respiro.
O mio diletto,
andiamo verso l’unione...
andiamo con la mano nella mano.
Entriamo al cospetto della verita’,
che sia lei il nostro giudice
e imprima il suo sigillo sulla nostra unione per sempre.
[La Realta’ suprema e’ l’essenza di tutto, l’intimo dell’intimo di tutto, di ogni cosa, ma soprattutto dell’essere umano che e’ fatto a sua immagine, ed e’ riflesso dei suoi attributi divini. Il rapporto fra la Realta’ e la sua immagine non puo’ essere che quello dell’amore piu’ reale e piu’ coinvolgente. Solo la cecita’ di fronte alla Luce del Reale puo’ far credere ad una separazione e lontananza. Ma il richiamo del Reale risuona dal piu’ intimo dello spirito umano; questo non deve far altro che seguire tale voce].
Note
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[1] La maggior parte dei seguenti testi sufi sono tratti dalla mia antologia storica di testi sufi tradotti dall’arabo in italiano, Giuseppe Scattolin, Esperienze mistiche nell'Islam, EMI, Bologna: vol. I Gli inizi di un cammino (1994); vol. II: Le tappe di un cammino, (1996); vol. III: al-Niffarî e al-Ghazâlî, (2000).
[2] Vedi il classico dizionario coranico di Fu'âd ‘Abd al-Bâqî, Al-mu’jam al-mufahras li-alfâz al-qur’ân al-karîm, Cairo, Dâr al-Hadîth, (1st ed. 1958) 1406/1986, pp. 38-39.745.
[3] Michel Cuipers, “Une lecture rhétorique et intertextuelle de la Sourate al-Ikhlâs”, in MIDEO, 25-26, 2004, 141-175.
[4] Izutsu Toshihiko, God and Man in the Koran, Tokyo, Keio Insitute, 1964, p. 75.
[5] Louis Massignon, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Paris, Cerf, 1999 (P. Geuthner, 1922; Vrin, 1954), pp. 45-49, 105-106.
[6] La classica riferenza degli hadith e’ A. J. Wensinck, Concordance et indices de la tradition musulmane, E. J. Brill, Leiden, 1936-1969, 7 vols.
[7] Esperienze mistiche , I pp. 54-60.
[8] Esperienze mistiche , I pp. 62-69.
[9] Esperienze mistiche , I pp. 78-88.
[10] Esperienze mistiche , I pp. 93-102.
[11] Esperienze mistiche , I pp. 103-132.
[12] Esperienze mistiche, II: pp. 581-588.
[13] ‘Abd AllIah al-Harawî al-Ansârî, Kitâb manâzil al-sâ'irîn, Cairo, 1962, pp. 138-139.
[14] Esperienze mistiche III, pp. 15-155.
[15] Esperienze mistiche III, pp. 90-91.
[16] Esperienze mistiche III, pp. 157-277.
[17] In questo paragrafo abbiamo lo schema fondamentale del pensiero di al-Ghazâlî. La scienza (‘ilm) ricevuta dalla rivelazione (mukâshafa) non diventa effettiva (mu’âmala) se non viene tradotta negli stati interiori (ahwâl) corrispondenti e nelle opere (a’mâl). La pratica della scienza religiosa e’ sempre necessaria affinche’ essa si realizzi, cioe’ diventi operante nel credente e quindi scienza vera.
[18] Ossia dalla pena capitale riservata nella legge islamica ai politeisti che non si convertono all’Islam.
[19] Nel testo arabo c’e’ un sottile gioco di parole dato che il termine che indica l’atto del credere (i’tiqâd) e’ derivato dalla radice che indica fare un nodo (‘uqda): credere e’ quindi annodare il cuore a qualcosa.
[20] Il termine bid’a/bida’ (innovazione arbitraria) e’ il termine classico per indicare cio’ che nel Cristianesimo e’ espresso col termine eresia. Per l’Islam si tratta di qualcosa di nuovo, di una innovazione (bid’a) non esistente nella tradizione prima dell’Islam, cioe’ nel Corano e nelle tradizioni profetiche.
[21] Al-Ghazâlî accenna qui ad un importante principio sufi: non bisogna divulgare il segreto della Signoria (divina) (rubûbiyya), cioe’ le conoscenze speciali di cui alcuni sono favoriti da Dio soprattutto riguardo al mistero della sua Unita’. Al-Ghazâlî, come pure altri sufi, ne parlano a lungo confermando e giustificando il principio dell’esoterismo sufi. La condanna del grande sufi al-Hallâj (m. 309/922) e’ citata spesso come esemplare per il sufi che contraddice tale regola, (vol. I pp. 103-132).
[22] ‘ayn al-jam’ (l’essenza dell’unione) e’ uno dei piu’ alti stati sufi. Qui esso e’ descritto da al-Ghazâlî come lo stato in cui il sufi vede solo l’unita’ senza aver piu’ percezione della molteplicita’, quindi vede solo Dio come esistente senza piu’ percepire la molteplicita’ degli esseri; tafriqa (divisione) e’ lo stato opposto, in esso la molteplicita’ e’ sempre presente.
[23] Al-Ghazâlî accenna qui a tre livelli di realta’ o mondi: uno detto mulk (Regno) o shahâda (il mondo visibile) e’ il mondo della percezione sensibile, un altro detto malakût (Reame) e’ il mondo delle realta’ invisibili, spirituali. Fra i due mondi esiste una corrispondenza per cui ogni oggetto visibile e’ ‘immagine’ (mithâl) di una realta’ invisibile. Fra i due esiste poi un terzo mondo detto jabarût (Potenza dominatrice) che non e’ chiaramente definito. Questa classificazione, pur con modificazioni, e’ comune anche ad altri sufi.
[24] Il termine arabo presenza (hadra) e’ un concetto complesso. Esso e’ usato nel linguaggio normale per indicare ‘la presenza di qualcuno o qualcosa”, in particolare “la presenza del sovrano in tutta la sua maesta’ ed autorita’”, in tale contesto diviene sinonimo di ‘maesta’ e potenza’. Nel linguaggio sufi in generale il termine hadra indica la percezione viva della presenza Dio come il Signore assoluto di tutto di fronte cui l’essere finito si sente annientato. Nel linguaggio popolare il termine hadra viene usato per indicare le sedute sufi, accompagnate spesso da musica e canti, che hanno lo scopo di suscitare nei presenti la percezione interiore della Presenza divina fino allo stato di estasi o trance.
[25] Wensinck, Concordance I, 304a.
[26] E’ Abû Bakr (m. 13/634) soprannominato al-Siddîq (il credente per eccellenza) a causa della sua fede sincera mostrata in varie occasioni.
[27] Hadith non contenuto nelle raccolte ufficiali, ma citato in altre fonti. Esso e’ importante per i sufi come imitazione dei compagni di Mu?ammad.
[28] Detto attribuito da varie fonti a Abû Bakr e spesso citato dai sufi, vedi sopra, v. nella Risâla di al-Qushayrî n, 18. Il prendere coscienza della propria impotenza a conoscere Dio sembra essere per al-Ghazâlî il massimo grado di conoscenza di Dio.
[29] I termini jamâl (bellezza) e jalâl (maesta’) indicano per i sufi i due attributi fondamentali di Dio, da cui tutti gli altri derivano; la loro unione forma la kamâl (perfezione): essi formano una triade che spesso ricorre nei testi sufi.
[30] Accenno ad un proverbio arabo: “Chiunque entra per la prima volta in un paese e’ disorientato”.
[31] Per una buona introduzione a Ibn 'Arabî vedi Abû 'Alâ 'Afîfî, The Mystical Philosophy of Muhyid'Dîn Ibnul-’Arabî, Cambridge, 1936; William C. Chittick ,The Sufi Path of Knowledge: Ibn al-'Arabi's Metaphysics of Imagination, Albany (New York), 1989.
[32] Ibn 'Arabî, Fusûs al-hikam, Abû 'Alâ 'Afîfî (ed.), Dâr al-Kitâb al-'Arabî, Beirut: Introduzione pp. 24-25
[33] Izutsu Toshihiko, Unicité de l'existence et création perpetuelle en mystique islamique, trad. franç., Paris,1980, p.51
[34] Fusûs ('Afîfî) p.93.
[35] Fusûs ('Afîfî) p.83
[36] Fusûs ('Afîfî), pp. 203-204.
[37] Ibn al-’Arabî, Tarjumân al-ashwâq, ed. by Reynold A. Nicholson, London, Royal Society, 1911 p. 19; Annemarie Schimmel, Mystical Dimensions of Islam, Chapel Hill (North Carolina): The University of North Carolina, 1975, pp. 271-272.
[38] Eva de Vitray-Meyrovitch, Anthologie du soufisme, Sindbad, Paris, 1978, pp. 46-47.
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