La Preghiera di Ataturk
Maurizio Blondet
08 agosto 2008
Itamar Ben-Avi, (1882-1943), giornalista sionista, figlio del linguista che restituì ad Israele l’ebraico come lingua moderna e quotidiana (1), scrive nella sua autobiografia in ebraico il seguente episodio.
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Una sera dell’autunno 1911, mentre si trovava nella hall dell’Hotel Kamenitz a Gerusalemme, il proprietario dell’albergo gli indicò un capitano turco che sedeva ad un tavolino davanti a una bottiglia di arrack: «E’ uno dei più importanti ufficiali dell’esercito turco». Si chiama Mustafa Kemal, lo informò il padrone. Scrive Ben-Avi: «Voglio conoscerlo, dissi, perché fui colpito dallo sguardo penetrante dei suoi occhi verdi».
Gli incontri furono due, innaffiati di abbondanti sorsi di arrack e la conversazione avvenne in francese, la lingua diplomatica dell’impero ottomano. Nel 1911 Gerusalemme era ancora una città ottomana.
Fin dal primo incontro, dopo i convenevoli, Mustafa Kemal confidò al giornalista: «Sono un discendente di Sabbatai Zevi - no, non sono più ebreo, ma sono un ardente ammiratore di quel vostro profeta. Penso che ogni ebreo in questo Paese dovrebbe essere nel suo campo».
Durante il secondo incontro, avvenuto una decina di giorni dopo sempre allo stesso hotel, l’ufficiale confidò ancora: «A casa ho una bibbia ebraica stampata a Venezia. Un libro antico. Ricordo che mio padre mi iscrisse presso un insegnante karaita che mi ha insegnato a leggerlo. Posso ancora ricordare alcune parole, come...». E - scrive Ben-Avi - Mustafa Kemal tacque per un momento, come cercando qualcosa con gli occhi in alto.
Poi ricordò: «Shema Yisra’el, Adonai Elohenu, Adonai Ehad...». «Questa è la nostra principale preghiera, capitano», disse Ben Avi. «Ed è anche la mia preghiera segreta, cher monsieur, replicò lui riempiendo un’altra volta i nostri bicchieri» (2).
Nel 1911 Ben-Avi non poteva conoscere molto della setta di Sabbatai Zevi. I primi libri manoscritti con la dottrina esoterica del gruppo furono raccolti nella Biblioteca Nazionale solo dal 1935, quando alcuni ex-adepti li consegnarono a studiosi dell’ebraismo, fra cui il più celebre è Gershom Scholem. I seguaci di Sabbatai Zevi, in turco donmeh (apostati), continuavano i loro rituali segreti nelle loro sinagoghe interne, invisibili dalla strada, all’insaputa della stessa comunità ebraica (o almeno dei più).
Rigorosamente endogamici, concentrati soprattutto a Salonicco, professanti esteriormente l’Islam, i donmeh recitavano lo Shema Yisra’el come gli ebrei ortodossi, ma preceduto da un’aggiunta: «Sabbatai Zevi è il Messia e non un altro. Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il signore è Uno».
Solo un decennio dopo quell’incontro Mustafa Kemal avrebbe preso il controllo dell’esercito ottomano dopo la disfatta della prima guerra mondiale, avrebbe fermato un tentativo greco di invasione, e fondato la repubblica turca secolare, confinando la pratica della fede musulmana a fatto privato, nelle moschee. E sarebbe stato insignito del nome onorifico di Ataturk, «Padre dei Turchi».
Non fece tutto da solo. «I donmeh hanno esercitato un ruolo determinante nel Comitato Unione e Progresso, l’organizzazione dei Giovani Turchi che ebbe origine a Salonicco», scrive Scholem. Come lascia indovinare il nome, «Comitato Unione e Progresso» era una cellula di ispirazione massonica, «progressista» e «riformista» in senso radicale. Il Grande Oriente di Francia, e la massoneria italiana, fornivano più che semplice simpatia, ma finanziamenti ed appogggi concreti, attraverso la Banca Commerciale Italiana.
Quando il putsch kemalista esautorò il sultano, il Comitato Unione e Progresso divenne il governo di fatto del Paese, controllando «la gestione dei ministeri, la sicurezza pubblica, il rispetto dell’ordine». Il ministro delle Finanze del governo, David Bey, «era un donmeh molto influente nella setta dei Karakash», scrive Arthur Mandel, lo storico del frankismo, la propaggine estrema e polacca del sabbateismo; «apparteneva alla famiglia Russo, discendente diretta dal dio incarnato Baruchya Russo», attesta Scholem.
Baruchya Russo, che «nel mondo» si faceva chiamare col nome turco di Osman Baba, era il dio incarnato per la sua setta, la più estrema del sabbateismo. Predicava e praticava l’incesto: dopo la venuta del messia, infatti, non vigono più i divieti biblici. Del resto era figlio di Jacob Querido, fratello e marito di Aisha, terza moglie di Sabbatai Zevi. Dopo la morte del messia Zevi, Aisha «riconobbe» che il marito defunto s’era incarnato in suo fratello. Con ciò, l’astuta Aisha assicurava alla sua famiglia l’eredità pseudo-messianica, con i conseguenti vantaggi economici relativi; i fedeli Karakash coprivano di offerte il loro dio vivente. La donna condivise il talamo col fratello di sangue, in cui abitava l’anima di Sabbatai, e ne ebbe figli, fra cui Baruchya. La setta dei Karakash era dunque la più estrema, ma anche la più diretta linea esoterica discendente da Sabbatai, per via - diciamo così - carnale.
Mustafa Kemal disse al giornalista Ben-Avi che un insegnante «karaita» gli aveva insegnato a leggere l’ebraico. I karaiti sono un gruppo ebraico, che fiorì nel decimo-undicesimo secolo e tutt’ora esistente anche se marginale, che rifiuta la «legge orale», Mishanh, accettando soltanto la Torah, i primi cinque libri dell’Antico Testamento; come seguaci del «sola Scriptura», si opposero al talmudismo rabbinico. Maimonide li giudicava eretici (3).
Fatto significativo, era un karaita Moshe Marzouk, l’ebreo egiziano che nel 1954 restò ferito dal proprio ordigno mentre cercava di mettere una bomba in un ufficio britannico al Cairo, uno dei tanti attentati «false flag» che sconvolsero la capitale egiziana in quei mesi, organizzati dallo spionaggio israeliano per farli apparire come dovuti a musulmani (4).
Ma era un karaita l’insegnante del giovane Mustafà Kemal? Ben Avi, che nulla sapeva dei donmeh, può aver equivocato. Il padre del futuro Ataturk, lui stesso un domneh molto secolarizzato e fieramente anti-islamico, avrebbe potuto mandare il figlio a imparare l’ebraico non da un karaita, ma da un Karakash. La setta che più esplicitamente praticava la dottrina della «salvezza attraverso il peccato».
E’ bene ricordare che questa - esoterica e aberrante - è la radice del laicismo turco.
Jacub Frank
1) Itamar Ben-Avi era il figlio di Eliezer Ben-Yehuda, il linguista che riportò in auge l’ebraico come lingua ufficiale di Israele. Questo padre insegnò al figlio l’ebraico, e gli vietò di parlare con gli altri bambini ebrei, che parlavano altre lingue. Ben-Avi, come lui stesso ha raccontato, crebbe in Palestina senza amici, essendo il solo fanciullo a parlare l’ebraico al suo tempo. La sua famiglia subì l’ostilità degli ebrei più ortodossi, gli haredim, che consideravano sacrilego l’uso quotidiano
della lingua sacra biblica. Un «dogma» oggi abbandonato, ovviamente. La religione ebraica, affollata di divieti e di interdetti draconiani, sa anche abolirli, quando occorre.
2) Z. Yaakov, «When Kemal Ataturk recited Shema Ysrael», Forward, 28 gennaio 1994.
3) Uno dei più curiosi punti che oppongono i karaiti ai talmudisti rabbinici riguarda il divieto di mangiare carne e formaggio nello stesso pasto. L’origine del divieto è estrapolata da una norma di Mosè che in realtà dice: «Non mangerai l’agnello cotto nel latte di sua madre» (Esodo, 23:19). Forse il divieto riguardava un pasto rituale di un qualche culto idolatrico; forse i legislatori mosaici intendevano con ciò colpire simbolicamente l’incesto; il Talmud ne ha fatto un caposaldo del cibo «kosher», estendendo il divieto a tutte le carni e a tutti i prodotti latttiero-caseari, che non possono essere consumati insieme. I karaiti hanno aggiunto qualcosa di più: siccome la parole ebraica per «latte» è identica alla parola che significa «grasso» nella Torah senza le vocali - e siccome la vocalizzazione della Torah è fornita dalla tradizione orale, che essi respingono - essi desumono che Esodo 23 vieta non solo di mescolare la carne al formaggio, ma anche al grasso. Si ritiene che i karaiti oggi siano circa 30 mila, per lo più insediati in Israele. Duemila individui vivono negli Stati Uniti; un centinaio di famiglie abita ad Istanbul.
4) La scoperta della natura di questi attentati «islamici» portò alle dimissioni del minsitro israeliano responsabile, di nome Lavon. La vicenda è nota in Israele come «l’Affare Lavon».
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