mercoledì 31 marzo 2010

ISLAM SOL INVICTUS

30.03.2010                                                                           
Sicherlich der Fehler ist ein Übel, ein Übel, das in den letzen Jahrhunderten in alle teilen der Welt hat sich verbreiten und den Eindruck dass es nicht aus him heraus zu gegeben ist. Das ist das große Zeichen, dass etwas verloren gegangen ist.

Certes l'erreur est un mal, un mal qui s'est répandu depuis quelques siècles dans toutes les parties du monde au point de donner l'impression qu'il n'y a plus rien hors de lui. C'est bien là le signe extrême que quelque chose a été perdu.

Di certo l'errore è un male, un male che si è espanso dopo qualche secolo in tutte le parti del mondo al punto di dare l'impressione che non ci sia più niente all'infuori di lui. È proprio questo il segno estremo che qualcosa è andato perduto.

Veröffentlicht von Mahdi Red bei 13.33 Uhr sur le Blog: La Fin des Temps Modernes.


                                                                                                                              

giovedì 25 marzo 2010

L'UOMO DALLA VITA INSPIEGABILE

                                                            AL  -  KHIDR
C’era una volta un uomo di nome Mojud, che viveva in una città dove occupava un posto di piccolo funzionario, e aveva tutte le probabilità di finire i suoi giorni come Ispettore dei Pesi e Misure.
Un giorno, mentre passeggiava nei giardini di un vecchio edificio vicino a casa sua, Khidr – la misteriosa guida dei sufi – gli apparve avvolto in un manto verde scintillante e gli disse: “Uomo dal brillante avvenire! Lascia il tuo lavoro. Ti do appuntamento fra tre giorni in riva al fiume”. Poi scomparve.
Tutto trepidante, Mojud andò dal suo superiore e gli annunciò che doveva partire. Presto la notizia si sparse in tutta la città. Tutti dicevano: “Povero Mojud! È diventato matto”. Tuttavia, dato che c’erano molti candidati al suo posto, finirono ben presto per dimenticarsi di lui.
Il giorno stabilito, Mojud incontrò Khidr, che gli disse: “Strappati i vestiti e buttati nel fiume. Forse qualcuno ti salverà”. Mojud ubbidì, chiedendosi se non fosse diventato pazzo.
Dato che sapeva nuotare, non annegò, ma andò alla deriva per un po’ di tempo, prima di essere tratto in salvo da un pescatore. Mentre questi lo caricava sulla sua barca, gli gridò: “Uomo insensato! La corrente è molto forte da queste parti. Che diavolo stavi cercando di fare?”. “In verità, non lo so”, rispose Mojud.
“Sei pazzo!”, disse il pescatore; “ti ospiterò egualmente nella mia capanna in riva al fiume e poi vedremo che si può fare per tè”.
Quando si rese conto che Mojud era raffinato nel parlare, si fece insegnare a leggere e a scrivere. In cambio, il pescatore provvide al sostentamento di Mojud, che lo aiutò nel suo lavoro. Alcuni mesi dopo, Khidr apparve di nuovo, questa volta ai piedi del letto di Mojud, e gli disse; “Ora alzati e lascia questo pescatore. Non ti mancherà nulla”.
Mojud lasciò immediatamente la capanna vestito da pescatore e camminò senza meta finché non giunse a una strada maestra. Allo spuntar dell’alba vide un contadino sul dorso di un asino che andava al mercato. “Cerchi lavoro?”, gli chiese il contadino, “perché ho bisogno di un uomo che mi aiuti a portare qualche provvista”.
Mojud lo seguì. Lavorò al servizio del contadino per quasi due anni, durante i quali imparò molto sull’agricoltura, ma quasi nulla su altre cose.                                               
Un pomeriggio, mentre stava confezionando delle balle di lana, Khidr gli apparve: “Lascia questo lavoro, cammina fino alla città di Mossul e con i tuoi risparmi stabilisciti come mercante di pelli”. Mojud ubbidì.
A Mossul divenne presto un apprezzato mercante di pelli, e passarono tre anni durante i quali esercitò il suo mestiere senza mai vedere Khidr. Aveva messo da parte una considerevole somma di denaro e progettava già di comprare una casa, quando Khidr gli apparve dicendo: “Dammi il tuo denaro, lascia questa città e incamminati verso la lontana Samarcanda, dove lavorerai per un droghiere”. Ed è ciò che Mojud fece.
Poco tempo dopo cominciò a manifestare inconfondibili segni di illuminazione. Guariva i malati e si prodigava in cure e in consigli, sia al negozio che durante il tempo libero. La sua conoscenza dei misteri aumentava di giorno in giorno.                                                                    
Andavano a trovarlo funzionari, filosofi, e molti altri ancora, e gli chiedevano: “Con chi hai studiato?”. “È difficile dirlo”, rispondeva Mojud.
I suoi discepoli gli chiedevano: “Come hai iniziato la tua carriera?”. “Come semplice funzionario”.
“E hai abbandonato il tuo lavoro per dedicarti all’automortificazione? “. “No, ho semplicemente abbandonato il mio lavoro”. Gli altri non capivano.
Alcuni lo avvicinavano perché volevano scrivere la sua biografia. “Che hai fatto nella vita?”, gli chiedevano. “Mi sono buttato in un fiume, sono diventato pescatore, poi ho lasciato la capanna nel bei mezzo di una notte. Dopodiché sono diventato contadino Mentre stavo facendo delle balle di lana ho cambiato i miei programmi e sono partito per Mossul, dove sono diventato un mercante di pelli. Ho messo da parte dei soldi che poi ho dato via. In seguito sono andato a piedi a Samarcanda, dove sono entrato a servizio di un droghiere, dal quale mi trovo tuttora”.
“Ma questo strano comportamento non spiega affatto le tue doti straordinarie e la tua condotta esemplare”, dicevano i biografi. “È vero”, rispose Mojud.



                                                                          * * *
E fu così che per Mojud i biografi inventarono di sana pianta una storia appassionante e prodigiosa, perché tutti i santi devono avere un’agiografia che deve essere conforme all’avidità del pubblico, e non alla realtà della vita. E nessuno ha il diritto di parlare direttamente di Khidr. Ecco perché questa storia non è vera. È la rappresentazione di una vita. È la vera vita di uno dei più grandi Sufi. Lo sceicco Ali Farmadhi (morto nel 1078 ) sottolineava l’importanza di questa storia, che illustra la credenza sufi secondo cui il “mondo invisibile” interpenetra in tutti i tempi e in vari luoghi la realtà ordinaria.
Egli dice che quanto consideriamo inspiegabile, in realtà è dovuto a questo intervento. Inoltre, la gente non riconosce la partecipazione di quel ‘mondo’ al nostro perché crede di conoscere la vera causa degli eventi. Di fatto, non la conosce. È solo quando riesce a tener presente la possibilità che un’altra dimensione influenzi talvolta le esperienze ordinarie, che questa dimensione può diventarle accessibile.
Lo sceicco è il decimo sceicco e maestro insegnante dei Khwajagan (i ‘Maestri’), che in seguito presero il nome di Naqshbandi.                                                           

Questa versione è tratta da un manoscritto del xv° secolo, di Lala Anwar, Hikayat-i-Abdalan (Storie di trasformati).
Pubblicato sulla pagina iniziale de Il Derviscio 
 Nella Foto:   Sceicco Maulana Nazim an - Nasqbandi, 40° Maestro della Târiqa Nasqbandiya













                                                                                 



sabato 20 marzo 2010

IL LIBRO, LA SPADA, IL DESERTO

IL LIBRO, LA SPADA, IL DESERTO
di Carlo Terracciano
Saggio estratto da: "Eurasia, rivista di studi geopolitici", nr. 1/2005 (gennaio 2004), pp. 165-174

© Eurasia, rivista di studi geopolitici. È consentita la diffusione e pubblicazione gratuita del presente saggio con qualsiasi mezzo, a condizione che: il testo non sia modificato e/o distorto; la fonte sia chiaramente citata e questa precisazione sia riportataanche la presentazione finale del numero da cui il saggio è tratto. In caso di pubblicazione a fine di lucro, è necessario il consenso esplicito dell'editore, che si può richiedere scrivendo all'indirizzo di posta elettronica direzione@eurasia-rivista.org , oppure all'indirizzo di posta cartacea Edizioni all'Insegna del Veltro, Viale Osacca 13, 43100 Parma.

“Agli inizi della civiltà c’è la foresta, alla fine il
deserto”.
(Châteaubriand)

                                                                                                             Il  Santo Corano





“Grazie a Maometto, per la prima volta l’Arabia
cominciò a vivere: un povero popolo di pastori
vagava sconosciuto nel deserto fin dalla
creazione del mondo; un eroe-profeta venne a
loro con una parola in cui essi potevano credere:
ed ecco che, in meno di un secolo, l’Arabia si
estende ad occidente fino a Granada, a oriente
fino a Delhi; sfolgorante di valore, di splendore
e della luce del genio, per secoli e secoli
l’Arabia rifulge su gran parte del mondo.”
(Carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi)


                                                                            *******


È notissima l’affermazione di Renan sul monoteismo quale “religione del deserto”,
rispetto al politeismo “religione della foresta”. È un’idea condivisa anche dal Berthelot e in generale dal
pensiero positivista ottocentesco. In ogni caso, se si considerano l’ambientazione geografica della
Bibbia ebraica (i quarant’anni di peregrinazione sinaitica di Mosè e del popolo ebraico) o la storia
evangelica della vita di Gesù, con il ritiro e le tentazioni demoniache nel deserto, troviamo un
ambiente geografico e mistico che si presta sia a divine rivelazioni che a sataniche tentazioni,
descritte in innumerevoli storie di santi anacoreti cristiani, da sant’Antonio abate in poi. Si arriva
poi alle estremizzazioni dell’Abercromby (Seas and skies in many latitudes), che identifica l’area
espansiva islamica con quella in cui la media di piovosità è inferiore ai 10 pollici! Ovviamente si
tratta di semplificazioni, di un determinismo geopolitico inadatto a spiegare grandi costruzioni
storiche, politiche, militari e religiose ben più complesse e peraltro sviluppatesi in ambienti urbani,
seppur circondati dalle vaste aree desertiche del Vicino Oriente. È ovvio che la relazione tra la
religione monoteistica e il deserto abbia colpito gli scrittori dei vari secoli, in particolare per quanto
riguarda l’Islam e la sua fulminea espansione tra il VII e IX secolo dell’era volgare. Un’espansione
che proprio nelle aree desertiche e nei brulli altipiani ha trovato il suo spazio vitale di conquista.

La ierostoria e la fede stessa di questo monoteismo hanno origine allorché la schiava Agar e il suo
figlioletto Ismaele vengono cacciati da Canaan nel deserto da parte del padre Abramo, istigato dalla
moglie Sara, la quale aveva partorito in tardissima età e vedeva in Ismaele un potenziale rivale del
proprio erede Isacco. Seguono le peripezie della povera donna ripudiata e il provvidenziale
intervento divino che le fa trovare una sorgente d’acqua perché possano dissetarsi entrambi: è la
fonte di Zamzam, attorno a cui si svilupperà La Mecca, punto focale di partenza della predicazione
di Abû’l Qâsim Muhammad ibn ‘Abdallâh, cioè Maometto, inviato da Dio con la rivelazione
coranica, ultimo Profeta e quindi “Sigillo della Profezia”.

“L’Islam è una religione (anche) ascetica ma dura, per uomini abituati al sole” (Braudel).
“L’Islam è le mille conseguenze di questo immenso vuoto umano chiamato deserto che un uomo
toccato dalla Grazia colma col Verbo… È una presenza ossessiva e nostalgica , il deserto, poiché
la Rivelazione nasce proprio fra le dune, ma è la città l’ambiente più consono all’Islam. La vita del
mussulmano, infatti, è assolutamente comunitaria e pretende, pertanto, il senso del gruppo (del
clan), della comunità e ‘una seria organizzazione’“ (Igor Man).
Considerazione, quest’ultima, che si attaglia benissimo a qualsiasi nucleo nomade o seminomade di quei pastori-guerrieri i quali, in epoche successive, hanno corso steppe e deserti, pianure ed altopiani della massa eurasiatica.
Il deserto, in arabo as-sahrâ’, è letteralmente uno spazio vuoto e disabitato: “hic sunt leones”,
come scrive la cartografia antica; è il regno delle belve feroci, del vuoto fisico e metafisico, della
magia e delle visioni, delle folgorazioni (San Paolo nel deserto, sulla via di Damasco), siano esse
colpi di sole, rivelazioni divine oppure opera tentatrice di spiriti e démoni. Molto poeticamente, il
deserto è anche stato definito come “risveglio dell’anima, l’oltre della memoria, la luce per
eccellenza, il luogo privilegiato dell’impersonalità. Non l’io vi governa, ma l’EGLI. È un taglio,
una separazione che risponde molto bene alle esigenze del corpo e dello spirito. È la metafora del
vuoto, la metafora della parola che permea la parola: è la parola asciutta che bagna la parola reale;
è il LIBRO” (da: Convegno Internazionale ‘Gli alfabeti del Mediterraneo’ - Il deserto nella
letteratura, dicembre 1999). In un ambito geografico quasi privo di punti fissi di riferimento, il
rotolo, il papiro, il libro facilmente trasportabile e consultabile ovunque viene a rappresentare il
punto fisso interiore di riferimento, la roccia salda su cui riposare e meditare, mentre tutt’intorno
scorre apparentemente immobile il grande oceano di sabbia, sempre uguale e sempre mutevole
come i destini degli uomini e del mondo.
È in questo contesto geografico che avviene la rivelazione e si dipana la predicazione di
Muhammad (s.a.s.). La Mecca è il nodo, il punto di riferimento dei commerci e della fede, a partire da quel
vero e proprio ombelico del mondo islamico rappresentato dalla Ka‘bah, la cui edificazione viene
fatta risalire allo stesso Abramo e a suo figlio Ismaele, capostipite degli Arabi. Ad un angolo del
parallelepipedo è incastonata la famosa Pietra Nera, un monolite tenuto in gran pregio dalle
popolazioni dell’Arabia preislamica. Al 610 d. C. vengono fatte risalire le prime rivelazioni divine
che Muhammad (s.a.s.) avrebbe ricevute dall’Arcangelo Gabriele e che causarono la sua caduta in
disgrazia presso i maggiorenti della Mecca, poiché costoro avevano tutto l’interesse a restare i
custodi della Ka‘bah, diventata un tempio politeista e il principale punto di riferimento economico
della penisola arabica. La Mecca del resto si trova in un’arida vallata tra due file di ripide colline sul
bordo occidentale della penisola arabica, non molto lontano dal Mar Rosso (con l’attuale porto di
Gedda). A 200 miglia a nord, sullo stesso asse, sorgeva Yathrib, dove il Profeta (s.a.s.) si trasferì con i suoi
seguaci nel giugno del 622 d.C. Da questa migrazione, nota come hijrah, ha inizio la datazione
islamica; la città prenderà il nome di Medina (Madînat an-Nabî, “Città del Profeta”) e ospiterà la
sua tomba al momento della sua morte, l’8 giugno del 632 (nato nel 570, aveva quindi 62 anni).
Ci troviamo in una zona compresa all’incirca tra il 20° e il 25° parallelo; giusto in mezzo corre il
Tropico del Cancro. Ad ovest si estende l’immenso deserto sabbioso, il Rub‘ al-Khali o “Quarto
Vuoto”, il più vasto continuo sabbioso del pianeta. In pratica è quindi sull’asse occidentale della
grande penisola che si concentra, fin quasi alla nostra epoca, la popolazione di quel grande
rettangolo che è l’attuale Arabia Saudita, contornata da Yemen, Oman, Emirati Arabi, Qatar,
Bahrain, Kuwait.
Ma l’importanza della Mecca, già in epoca preislamica, è data soprattutto dal fatto che essa è il
nodo mediano del traffico fra lo Yemen a sud (a quei tempi più esteso verso nord dell’attuale
repubblica yemenita) e la costa del Mediterraneo a nord, la quale si dirama poi da un lato verso
l’Egitto, il delta nilotico e quindi il Sahara, mentre dall’altro prende la direzione Palestina-Siria,
Tigri-Eufrate.
Lo stesso Muhammad (s.a.s.) aveva percorso quella via come mercante, venendo quindi a contatto con
culture diverse e fedi religiose monoteiste, giudaismo e cristianesimo. È su questa via carovaniera di
primaria importanza, su questo asse geografico economicamente strategico, che nasce uno dei
fenomeni storici e religiosi più importanti e duraturi della storia dell’Eurasia e del mondo intero.
Alla morte del Profeta (s.a.s.) già buona parte dell’Arabia è unificata. Lo sarà definitivamente due anni
dopo.
I successori di Muhammad (s.a.s), i califfi (“successori”), riunirono nella stessa persona sia l’autorità
spirituale sia il potere politico. Ad attuare il fulmineo successo dell’Islam furono soprattutto i primi
quattro califfi, detti rashîdûn (“rettamente Guidati”): Abû Bakr (632-634) , suocero di Muhammad (s.a.s.),
appartenente al clan dei Qurayshiti, ‘Omar bin al-Khattâb (dal 634 al 644, anno in cui morì per
mano di uno schiavo persiano), ‘Othmân bin ‘Affân (644-656, della famiglia degli Omayyadi) e
quindi ‘Alî bin ‘Abî Tâlib (656-661, cugino del Profeta e suo genero, avendone sposato la figlia
Fâtimah); ‘Alî era stato uno dei primissimi seguaci di Muhammad, il quale lo designò a succedergli,
dopo la propria morte, alla guida della comunità (ummah) dei Fedeli. L’accesso di ‘Alî al Califfato
portò allo scontro tra i Qurayshiti, la tribù alla quale egli apparteneva, e gli Omayyadi ai quali
apparteneva il suo predecessore. Dopo che ‘Alî fu assassinato a sua volta nel 661 a Kûfa da un
fanatico kharigita (“uscito”) per aver cercato un accordo con la parte rivale, gli Omayyadi (661-
750) ebbero partita vinta e fecero accedere al Califfato Mu’âwiya I.
Costui trasferì la capitale del nascente impero a Damasco. Lo spostamento del centro geopolitico
dell’Islam in piena espansione era dettato non soltanto da considerazioni politiche contingenti,
come quella di sottrarsi all’influenza meccana, ma anche dalla necessità di collocare il cuore
politico del nascente stato islamico in una posizione più centrale rispetto alle conquiste fino ad
allora effettuate ed a quelle a venire. Già ‘Alî, il quarto dei “rettamente guidati”, aveva fatto di Kûfa
il centro del suo potere, dopo la lotta con ‘A’ishah, la vedova di Muhammad, e la vittoria nella
“battaglia del cammello” presso Bassora nel 656.
Le conquiste dei primi quattro califfi furono sorprendenti e vennero certamente favorite dalla
lunga guerra che tra il 602 e il 628 contrappose i due imperi confinanti, quello bizantino e quello
persiano; lo scontro fra i due imperi aveva esaurito le risorse difensive e immiserito le popolazioni,
le quali perciò accolsero come liberatori i nuovi venuti. A favorire l’avanzata dell’Islam furono in
particolare i nestoriani e i cristiani dissidenti, perseguitati dall’ortodossia cristiana dominante a
Bisanzio.
Abû Bakr aveva completato rapidamente la conquista della penisola arabica e si era spinto a nord
verso i territori confinanti. ‘Omar, il “Comandante dei Credenti”, trasformò la prima ondata araba in
uno stato teocratico, lanciando l’Islam in una cavalcata vittoriosa nei deserti che ha pochi paragoni
storici (da Alessandro a Tamerlano a Gengis Khan).
Damasco è presa con tutta la Siria nel 635; nel 638 cadrà Gerusalemme, dopo Mecca e Medina
terza città santa dell’Islam (l’Ascensione di Muhammad al cielo ebbe inizio dalla Moschea della
Roccia).
La battaglia di Qâdisiyya del 637 apre le porte all’invasione araba della Persia, la cui conquista
definitiva viene assicurata con la battaglia decisiva di Nihâwand (642), mentre la capitale Ctesifonte
ha capitolato già cinque anni prima. Nel 651 gli Arabi erano già a Merv nel cuore dell’Asia centrale
e l’Impero sassanide scompariva per sempre. Due anni dopo si arrendevano Armeni e Georgiani.
Nello stesso anno 642 della battaglia di Nihâwand, a ovest è l’Egitto a capitolare, mentre i Bizantini
si ritirano dall’ultimo avamposto, Alessandria. Tra il 668 e il 669 si tentò persino di prendere
Bisanzio, ma l’impresa fallì, come falliranno l’assedio del 715-718 e il terzo tentativo, quello del
781. Dovranno passare altri 700 anni circa perché l’impresa sia completatata; ma non saranno più
gli Arabi a guidarla, bensì i Turchi.
                                                                                    Probabile Spada del Profeta (s.a.s.) in Topkapi
                                                                                                   



Per il momento, dinanzi ai nuovi conquistatori dell’Arabia, del deserto siriano, dell’altopiano
iranico, si apre un altro grande deserto: il Sahara. 8 milioni di kmq, il più vasto del mondo,
dall’Atlantico al Mar Rosso, reale confine geopolitico fra le coste mediterranee (il Mediterraneo,
come dice lo stesso nome, ha sempre rappresentato un’unità geopolitica con baricentro la Sicilia) e
l’Africa “nera” propriamente detta.
Con il califfo ‘Othmân le truppe arabe, rafforzate da contingenti dei popoli appena sottomessi, si
lanciano alla conquista della costa libica, della Cirenaica (642-645). Vengono gettate anche le basi
per la costruzione di una flotta che vada alla conquista di Bisanzio e dell’intero Mediterraneo.
Tra il 680 e la fine del secolo il potere califfale si rafforza anche con una serie di scontri interni. È
una guerra civile, che decide le sorti dell’Islam e le sue divisioni interne fino ai giorni nostri.
Particolarmente significativo è lo scontro che nella famosa battaglia di Karbalâ’ contrappone alle
truppe di Yazîd I il figlio di ‘Alî, Husayn, nipote e biscugino di Muhammad (s.a.s). Di qui nasce la frattura
tra la fazione (shî’ah) di ‘Alî e dei suoi successori (gli Alidi) e l’Islam “sunnita”.
Questo evento traumatico rappresenta un punto cruciale e simbolico non solo dal punto di vista
storico e dottrinario, ma anche sotto il profilo geografico e geopolitico. È lo scontro fra l’idealizzato
Islam meccano e medinese delle origini e quello oramai vittorioso e insediato nelle grandi capitali
del Vicino Oriente: Gerusalemme e Damasco, alle quali seguirà Baghdâd. È lo scontro fra l’Islam
dei beduini nomadi e quello degli Arabi acculturati e stanziali. Ancora: è lo scontro fra il deserto e
la terra fertile dei sistemi potamici irrigui, attorno ai quali si formarono le grandi civiltà del passato
all’incrocio delle masse continentali eurasiatica e africana: Delta nilotico, fiume Giordano, Tigri-
Eufrate.
Partito da Medina, Husayn aveva attraversato tutto il deserto a nord del Nafud arabo per
approdare a Karbalâ’, sperando in un’insurrezione della popolazione oppressa, che però non ci fu.
Al contrario, Karbalâ’ rappresentò il luogo del suo martirio e di quello dei suoi 72 compagni d’armi,
nel giorno di ‘Âshûrâ’ (10 ottobre 680) che fu poi sacro agli sciiti. La sua testa mozzata e infilata su
una picca segna, in una geografia sacra, il confine fra due modi di concepire l’Islam; ma segna
anche il confine tra due contesti geografici ed etnici interni alla stessa Umma islamica.
Najaf e Karbalâ’, le due città sante dell’Islam sciita, nelle quali sono sepolti rispettivamente Alì e
Husayn (e recentemente tornate agli “onori della cronaca” per la resistenza contro le truppe
americane d’occupazione), rappresentano anche l’estremo confine tra il deserto e la “Mezzaluna
Fertile”, cioè quella striscia di terra coltivabile che va dallo Shatt el-Arab fino al Nilo. Oltre il Tigri-
Eufrate inizia l’altopiano iranico.
E proprio l’Iran, la Persia, la terra indoeuropea dello zoroastrismo conquistata dagli Arabi,
rappresenterà, ironia del destino e della storia, il cuore dell’Islam sciita, che, rivendicando la linea
diretta con il Profeta, mutua dalla precedente tradizione non pochi aspetti e simboli. Siamo più o
meno sulla linea di demarcazione tra Islam arabo, iranico e turco, in corrispondenza del centro
geopolitico tra le due ali dell’espansione islamica dei primi secoli.
Una successiva rivolta nel cuore originario dell’Islam fu domata da al-Haggiag, condottiero del
califfo ‘Abd al-Malik, tra il 680 e il 692, anno dell’assedio e della conquista della Mecca. A questa
seguì, alla fine del secolo, la repressione della rivolta kharigita dell’Iraq, affogata in un bagno di
sangue.
Nonostante le guerre civili interne, l’espansione islamica non conosce soste. In Africa, Cartagine
è presa nel 698. Sotto la guida dell’omayyade al-Walîd I viene completata la conquista dell’Africa
del nord; il generale Târiq passa lo stretto che prenderà il suo nome (Gebel Târiq = Gibilterra) e nel
711 sbaraglia l’esercito di Roderico, ponendo termine al regno visigoto di Spagna. La penisola
iberica è però l’estremo avamposto della penetrazione araba in Europa. Poitiers, nel 732, fu poco
più che una scorreria, ma ha rappresentato nell’immaginario della cristianità occidentale il punto di
arresto della marea arabo-islamica e l’inizio della sua regressione. Dalla parte opposta, nel 740 ha
luogo la vittoria di Costantino V Isaurico presso Akroinos.
Notiamo di passaggio come dal punto di vista geografico la penisola iberica sia in Europa il
territorio più simile a quello semidesertico del Nordafrica, tanto da rappresentarne, almeno sotto
questo aspetto, la naturale prosecuzione sul continente europeo. La conquista araba resterà dunque
per secoli, fino alla Reconquista cattolica castigliano-aragonese del XV secolo, ben a sud della linea
dei Pirenei e della Galizia, dove Santiago di Compostela, meta dei pellegrinaggi medievali, si erge a
simbolo ed avamposto spirituale cristiano.
Ad oriente, tra il 661 e il 671, le armate “verdi” erano intanto penetrate in un’altra zona desertica,
quella dell’Asia centrale: la conquista del Tokharistan (attuale Uzbekistan afgano) rappresentò il
primo passo sulla via delle Indie, raggiunte nel 711 a Multan sull’Indo.
La Transoxiana, Bukhara e Samarcanda furono tra le ultime conquiste di questa fase
espansionistica, fino alla battaglia di Talas (751), punta estrema dell’avanzata partita da un remoto
centro carovaniero dell’Arabia un secolo prima.
Anche la dinastia omayyade è alla fine. Nel 750 la rivolta è guidata da Abu’l-‘Abbâs, “il
macellaio”(!), discendente di ‘Abbâs zio di ‘Alî. Nominato califfo a Kûfa nel 749, egli travolge
l’ultimo omayyade di Siria Marwân II nella decisiva battaglia del Grande Zab (affluente del Tigri).
Il controllo delle vie d’acqua resta sempre un fattore decisivo nell’ambiente desertico.
Gli Abbassidi (750-1258) spostano il centro politico ancora più ad oriente, fondando nel 762 la
nuova capitale, Baghdâd, non lontano dalla mitica Babilonia. La nuova collocazione geografica del
centro dell’impero, sempre più lontana dal deserto originario e dal Mediterraneo, è oramai nelle
terre fertili “meso-potamiche”. Anche il carattere originario dell’Islam arabico muta, finché sorge
una monarchia soprannazionale cui si affiancano prima i popoli iranici e poi quelli turchi. Si pensi
solo che il famoso riconquistatore di Gerusalemme, colui che la tolse ai crociati cristiani, Salâh ad-
Dîn (il nostro “Saladino”), era curdo di origine. Hârûn ar-Rashîd (786-809) costituì certamente
l’esempio più fulgido della dinastia abbasside.
Un sopravvissuto della battaglia dello Zab, ‘Abd ar-Rahmân fonda in Spagna l’Emirato degli
Omayyadi di Cordoba. Una civiltà, quella moresca di Spagna, che avrebbe fatto scrivere a
Nietzsche parole struggenti per il suo declino, avvenuto sette secoli dopo: “Il meraviglioso mondo
della civiltà moresca di Spagna, a noi in fondo più affine, più eloquente al senso e al gusto che
Roma e la Grecia, venne calpestato. Perché ? Perché era debitore dalla sua nascita ad istinti nobili,
virili, perché diceva sì alla vita, anche con le rare e raffinate delizie della vita moresca… Più tardi, i
cavalieri crociati combatteranno qualcosa davanti a cui meglio sarebbe convenuto loro prostrarsi
nella polvere – una civiltà al cospetto della quale persino il nostro secolo diciannovesimo dovrebbe
apparirci molto povero, molto tardo”. (Nietzsche, Anticristo). E chi ha visitato quel che resta
dell’Alhambra di Granada può ben comprendere il più profondo significato di queste parole.
Ma anche l’unità politica dell’Islam è ormai finita: un ricordo del passato e un ideale vagheggiato
nei secoli a venire, fino ai nostri giorni.

                                                                *********

Altre conquiste seguirono; come quella della Sicilia nel IX secolo. In altri casi, e molto dopo,
l’espansione dell’Islam non fu armata, bensì pacifica: è il caso dell’Asia sud-orientale. Malesia e
soprattutto Indonesia furono islamizzate tra il XVI e XVIII secolo, da mercanti, santi e sufi
predicatori, sicché oggi l’arcipelago indonesiano è il paese islamico più popoloso del mondo. E
certamente è quanto di più lontano possa esservi, anche geograficamente, dal deserto originario. Per
non parlare ovviamente dell’impero ottomano. Temi che però esulano dai limiti temporali della
presente trattazione.

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Una cosa è certa: la nascita, l’espansione, il successo duraturo dell’Islam nei secoli hanno avuto la
loro realizzazione storica nei grandi deserti dell’Asia centrale e dell’Africa del nord, in una
continuità e contiguità territoriale che, partendo dal Maghreb marocchino, arriva al Mashreq nel
Vicino Oriente, e dagli altopiani turco-iranici fino al cuore della steppa eurasiatica. Terre aspre e
quasi prive d’acqua, nelle quali pochi fiumi importanti o fonti isolate hanno permesso
l’insediamento urbano, in città dalla fiorente economia, dal ricco commercio, dalla raffinata civiltà.
Una civiltà che ha trovato una lingua ed una scrittura comuni e soprattutto una fede unitaria in un
Libro che è divenuto “il Libro” per antonomasia di tutti quei popoli.

                                                                          ********

L’ideale unità del mondo islamico, che ha occupato quasi per intero le zone desertiche del mondo
antico, rappresenta una cerniera, un collegamento ideale, una saldatura tra l’Eurasia a nord, cioè
l’Europa con la Russia siberiana fino a Vladivostok, e le altre parti della massa eurasiatico-africana:
l’Africa nera appunto, il subcontinente indiano, la stessa Cina, l’Indocina e Indonesia. Ovunque
infatti, anche in questi territori più o meno estranei al fenomeno dell’esplosione islamica dei due
secoli dopo Muhammad, sono presenti forti minoranze mussulmane. Un patrimonio per l’Eurasia e
non certo un pericolo, come vorrebbe oggi la propaganda terroristica occidentalista, sullo stile dello
“scontro di civiltà” alla Huntington.
E non è forse un caso che l’imperialismo americano-sionista abbia utilizzato ed utilizzi come
spauracchio la cosiddetta “minaccia islamica” per penetrare sempre più a fondo nel cuore stesso
dell’Eurasia (Afghanistan, Iraq, forse domani Iran e Siria, tutti paesi islamici), mirando invece
all’accerchiamento e al soffocamento delle due ultime grandi potenze ancora non completamente
assoggettate al predominio USA sul pianeta: Russia e Cina. Anzi, Washington cerca di coinvolgere
i governi stessi di Mosca e Pechino nella pretesa “lotta al terrorismo islamico”, alimentando le
isterie nazionaliste contro le minoranze musulmane nei loro confini: gli Uiguri in Cina, i Ceceni in
Russia.
Forse in un prossimo futuro (che è già presente) la geopolitica delle religioni avrà più peso e più
importanza, per i destini del mondo, delle attuali geoeconomia e geostrategia. Le elezioni USA del
novembre 2004 dovrebbero aver rappresentato un campanello d’allarme in tal senso anche per noi
Europei.
E pensare che tutto è nato quattordici secoli or sono in una sperduta cittadina carovaniera, alla
periferia semisconosciuta dei grandi imperi di quel tempo; un’oasi attorno a un pozzo, una casa
cubica di semplici mattoni al centro di un agglomerato urbano circondato da aride colline e da un
deserto vasto come il mare: un mare di sabbia per marinai di terra.

                                                             Il Deserto del Sahara
EURASIA, RIVISTA DI STUDI GEOPOLITICI                                    

Numero 1/2005 (gennaio 2005), pp. 240, euro 18

SOMMARIO:

Eurasiatismo
Pag.5: Tiberio Graziani, Editoriale
Pag.7: Aleksandr Dugin, La visione eurasiatista
Pag.25: Henry de Grossouvre, Parigi, Berlino, Mosca: prospettive della cooperazione eurasiatica
Pag.35: ‘Abd al-Rahmân ibn Khaldûn, Il deserto e la città                                                                                

Dossario: mondo islamico
Pag.47: Alessandra Colla, L’Islam nel Medio Evo europeo
Pag.59: Stefano Fabei, Abû Ammâr Yâsir ‘Arafât
Pag.73: Claudio Mutti, L’Europa musulmana
Pag.87: Filippo Pederzini, Libano oggi. E domani?
Pag.109: Costanzo Preve, Il significato della resistenza irachena
Pag.117: Marco Ranuzzi de’ Bianchi, Iran: lo stato canaglia e il grande satana
Pag.127: Susanne Scheidt, Quali confini per la Palestina?
Pag.149: Israel Shamir, Il fiore e la croce
Pag.159: Ernest Sultanov, Un mercato musulmano comune?
Pag.165: Carlo Terracciano, Il libro, la spada, il deserto
Pag.175: Anna Maria Turi, Prove di pace in Somalia
Pag.179: Stefano Vernole, Palestina: una diplomazia tra speranze e illusioni

Interviste
Pag.201: Mohammad Nour Dachan (presidente dell’UCOII)
Pag.205: Hamza Roberto Piccardo (segretario dell’UCOII)
Pag.209: Shamil Sultanov (presidente del gruppo parlamentare della Duma per il dialogo con l’Islam)

Recensioni e postille
Pag.215: “2023”: una rivista turca di geopolitica (A.Braccio)
Pag.217: Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità (A.Braccio)
Pag.219: Serge Thion (a cura di), Sul terrorismo israeliano (E.Galoppini)
Pag.229: Franco Cardini, Noi e l’Islam e L’invenzione dell’Occidente (C.Mutti)
Pag.233: Karl Haushofer, Italia, Germania e Giappone (D.Scalea)
Pag.237: Claire Hoy, Victor Ostrovskij, Attraverso l’inganno (S.Thion)

Per maggiori informazioni ed acquistare questo numero: http://www.eurasia-rivista.org/  



venerdì 19 marzo 2010

MESSAGGIO DELL'AMBASCIATORE ALI AKBAR NASERI


Messaggio dell’Ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Iran presso il Vaticano in occasione dell’anniversario della vittoria della Rivoluzione Islamica - 11 febbraio 2010

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Col Nome d'Iddio Clemente e Misericordioso

Nel cuore del Vicino Oriente c'è un Paese che fino ad un secolo fa era conosciuto come Persia e ora conoscete come Iran. Questo grande territorio è come un ponte che dal nord collega il Mar Caspio e l'Asia Centrale al Golfo Persico e l'Oceano Indiano al sud, e dall'Oriente all'Occidente collega l'Europa all'Asia. Un Paese situato in un punto strategico, con una popolazione di settantacinque milioni, che nel suo territorio incornicia contemporaneamente quattro stagioni.
Gli iraniani, nonostante siano stati governati da sovrani di diverse origini, hanno sempre conservato la loro natura, che è quella del richiamo della ricerca di Dio, dell'amore per la pace e la serenità, per la scienza e la giustizia e della lotta all'oppressione. E con tutte queste caratteristiche, l'11 Febbraio del 1979 (corrispondente al 22 Bahman del 1357 del calendario islamico iraniano), con una rivoluzione popolare e islamica guidata dall'Imam Khomeyni, rovesciarono il regime ereditario dello Scià e in seguito, con un referendum libero e con il 98,2% dei voti, fondarono la Repubblica Islamica. In questi trentuno anni di vita della Repubblica Islamica, tra elezioni presidenziali, parlamentari, del Consiglio degli Esperti, del Consiglio della Costituzione ed il voto diretto per la Costituzione, sono state realizzate più di trenta elezioni libere, tra le quali l'ultima, quella presidenziale del giugno scorso, nella quale hanno partecipato l'85% degli aventi il diritto al voto, pari a quaranta milioni di persone, una cifra unica nel suo genere in questo secolo!
La Repubblica Islamica, legittimata dalla religione e dal proprio popolo, è riuscita a realizzare con successo un nuovo ordinamento politico. La Repubblica Islamica, la cui natura è basata sugli insegnamenti religiosi, è in perenne lotta contro l'oppressione, l'ingiustizia, il dispotismo, i saccheggiatori e gli arroganti. Noi, in questi trentuno anni, per la “colpa” di esserci liberati dagli arroganti dispotici e aver resistito contro gli insaziabili, siamo stati oggetto di molteplici complotti e opposizioni ma, affidandoci al potere divino, alla guida religiosa e alla presenza e al sostegno del popolo, abbiamo superato con la testa alta tutte le cospirazioni.
Il desiderio per la libertà e per l'indipendenza e la lotta contro il colonialismo sono i tre slogan principali che persistono nel nostro ordinamento grazie al consenso del popolo.
Affrontare le tensioni, attraverso il dialogo ed il confronto, ha aperto delle nuove pagine nella politica estera della Repubblica Islamica dell'Iran, la quale presta particolare importanza nell'intrattenere buoni rapporti con i Paesi limitrofi e all'espansione degli accordi regionali e internazionali con i vicini e con gli altri Paesi nel mondo. La storia è un buon testimone del comportamento degli iraniani e dell'Iran con gli altri popoli. In nessuna pagina della storia troverete qualcosa sulle violazioni dell'Iran verso il territorio di un altro Paese e questo mentre la terra della mia patria è stata attaccata diverse volte da parte di Paesi vicini e lontani.
Una delle questioni attuali nel mondo è il terrorismo. Anche noi, perdendo tante nostre personalità e cittadini comuni, siamo vittime di questo infausto fenomeno. Per tale motivo la Repubblica Islamica, affrontandolo in modo radicale e sistematico, vuole da sempre combattere gli artefici di questo indegno atto in tutte le sue forme, e non solo a proprio piacimento.
Un altro problema internazionale è quello della droga e del trovare una soluzione per combatterla. La Repubblica Islamica dell'Iran (data la sua vicinanza all'Afghanistan, che è uno dei principali produttori di droga) ha speso ingenti somme e ha pagato con la vita di molti suoi figli per combatterne i trafficanti e diffusori. Secondo le statistiche internazionali, in seguito alla presenza dei militari stranieri in Afghanistan, la produzione delle sostanze stupefacenti ha avuto una crescita smisurata e ciò ha causato problemi ancora maggiori all'Iran in questa sua lotta, e ci ha imposto altre spese, e tutto questo senza godere di alcun aiuto internazionale.
Nella questione nucleare crediamo che l'uso pacifico dell'energia nucleare è un diritto indiscutibile di tutte le nazioni e non deve essere limitato solamente ai paesi totalitari. Noi garantiamo la natura pacifica della nostra scienza nucleare e per creare fiducia siamo disposti, come abbiamo già dimostrato, a ospitare permanentemente i supervisori dell'AIEA nel nostro Paese.
Nonostante le continue affermazioni della Repubblica Islamica dell'Iran riguardo all'uso pacifico del nucleare e le numerose dichiarazioni dell'AIEA sull'assenza di prove della deviazione del programma nucleare dell'Iran dall'uso pacifico, un limitato gruppo di Paesi, plagiando l'opinione pubblica e politicizzando la questione, cerca di preservare il suo monopolio sul nucleare, e ciò non sarà mai tollerato da parte della Repubblica Islamica dell'Iran e da altre nazioni libere del mondo.
L'accusa di avere un programma segreto per costruire la bomba atomica rivolta a Teheran da parte degli Stati Uniti e altri suoi alleati viene formulata mentre: 1) la pagina nera dell'uso della bomba atomica e il massacro di migliaia di innocenti non sarà cancellata mai dalla memoria della storia e della gente; 2) la Repubblica Islamica dell'Iran, seguendo i nobili insegnamenti dell'Islam, i quali sono in contrasto assoluto con i concetti di massacro e distruzione di massa, non solo ha dichiarato, secondo la sua dottrina militare-difensiva, di non voler possedere le armi nucleari, ma ha sempre voluto creare una regione e un mondo senza armi di distruzione di massa.
Noi crediamo che, dato il risveglio delle nazioni, il periodo delle minacce e l'utilizzo dei vecchi metodi militari sia ormai superato, e quei pochi governi dispotici e totalitari devono rivedere le loro politiche ostili e monopolistiche. A questo riguardo, il disegno proposto da parte del presidente Ahmadinejad per creare un fronte mondiale per realizzare la pace e la giustizia, ormai divenuta la posizione comune tra tutte le nazioni amanti della libertà nel ventunesimo secolo, è una manifestazione del pensiero iraniano nella politica internazionale.
La Repubblica Islamica dell'Iran, facendo seguito alle sue politiche costruttive, da alcuni anni ha redatto un disegno “ventennale di sviluppo del Paese” sotto la forma di quattro programmi quadriennali. Alla fine di questo programma, nell'anno 2025, l'Iran diventerà un paese avanzato con un'importante posizione economica, scientifica e tecnica nella regione e con un confronto e un ruolo efficace nelle relazioni internazionali.
Il popolo iraniano, durante la Repubblica Islamica, è stato testimone di numerosi sviluppi in diversi campi. Di seguito alcuni esempi:
1 – Lo sviluppo qualificativo e quantitativo delle università e dei centri scientifici.
2 – Le invenzioni in diversi campi
3 – Raggiungimento della tecnologia nucleare pacifica
4 – L'impiego delle cellule staminali nella medicina
5 – L'utilizzo di nanotecnologia e LASER
6 – Tecnologia moderna di difesa e costruzione dell'aereo Azarakhsh
7 – Tecnologia spaziale e la costruzione di missili
8 – Tecnologia automobilistica e costruzione di fabbriche in numerosi Paesi
9 – Sviluppo della tecnologia nel campo del petrolio, del gas e della petrolchimica e diffusione della rete dei gasdotti nel Paese
10 – Tecnologia delle centrali elettriche ed esportazione della corrente elettrica all'estero
11 – Costruzione di dighe e sviluppo delle produzioni agricole
12 – Sviluppo delle vie ferroviarie, automobilistiche e marittime
13 – Sviluppo delle zone rurali
14 – Miglioramento dell'igiene e del comfort
15 – Lo sviluppo della rete telefonica fissa e mobile in tutto il Paese
16 – Esportazione e fornitura tecnica e ingegneristica
Per concludere speriamo, usufruendo degli insegnamenti religiosi, della scienza, del reciproco confronto e della collaborazione regionale e internazionale, di realizzare una società mondiale basata sulla verità e sulla giustizia e lontana dall'oppressione e dalle violazioni, e di godere di una sicurezza totale sotto l'ombra della grazia divina e celeste.

Ringraziandovi sentitamente
Il successo proviene da Dio                                                               
Ali Akbar Naseri
Ambasciatore della Repubblica Islamica dell'Iran


                                                                              ********

Con la distruzione della Repubblica Islamica Iraniana, lo Stato sionista di Israele non solo vuole l'assoluta predominanza politica,economica e militare sull'intera Regione dall'Iran all'Egitto, ma la distruzione di tutto ciò che è stato riportato nei 16 Punti di cui sopra, precipitando così l'Iran nell'indebitamento pubblico internazionale e colonizzando il Paese sotto tutti gli aspetti politici,economici,culturali.Israele si prepara a precipitare il mondo nella desolazione più assoluta per raggiungere il primato mondiale assoluto.La danza con il mappamondo la farà qualcun altro, e nessuno la rappresenterà o la vedrà in un film comico e riderà! -- Janua Coeli/Luciano Abdel Nûr Cabrini.

giovedì 18 marzo 2010

NON NECESSARIAMENTE CONDANNATI ALL'OCCIDENTALIZZAZIONE

03.04.2010
Author: falchipolis                                                    
                                                               Saigo Takamori con i suoi ufficiali.

La forma sociale capitalistica di produzione (la cosiddetta occidentalizzazione) e il modo sociale capitalistico di fare la guerra sono due facce della medesima medaglia. Simul stabunt, simul cadent. Come l’Apparato militare occidentale non è in grado di controllare totalmente il territorio del nemico, così il sistema capitalistico non è in grado di avere il completo controllo di reti in-formali sociali o culturali. Per quanto concerne il Sistema , ha il ‘controllo del territorio’ chi decide riguardo a ciò che, nella’ Fenomenologia dello Spirito’ di Hegel, si denomina ‘dialettica del riconoscimento ‘, vale a dire la forma delle relazioni reciproche che stanno a fondamento del legame sociale. Non riconoscere valore – anche in ambiti delimitati, ma di rilevanza pubblica – a quello a cui le istituzioni conferiscono valore e a cui solo esse possono conferirlo, è sotto il profilo politico-sociale, l’esatto equivalente di ciò che è la guerriglia sotto il profilo militare. Sarebbe come se, in certi ‘mondi vitali’, le banconote stampate dalla banca centrale europea non avessero più valore. Da ciò ne consegue che se è necessario per combattere l’occidentalizzazione favorire ogni forma di indebolimento dell’Apparato politico occidentale (lotta contro la Nato, appoggio ai Paesi che rifiutano l’egemonia atlantista etc.), è ancor più necessario ‘corrodere’ l’Apparato sociale e culturale dell’Occidente dall’interno, favorendo forme di ’socializzazione’ basate sulle relazioni tra persone che non solo non siano mediate dalle istituzioni, ma anche e soprattutto siano non riconosciute valide dalle istituzioni.Secondo Carl Schmitt ” una collettività esiste come res publica, come cosa pubblica, ed è messa in discussione quando in essa si forma uno spazio estraneo alla cosa pubblica, che contraddice efficacemente quest’ultima”.Il paradosso della società occidentale consiste nel fatto che l’Economico (il Mercato) ha asservito il Politico per impadronirsi della cosa pubblica, sicché solo se si è in grado di dar vita ad uno spazio che contraddica la cosa pubblica, è possibile difendere la cosa pubblica .



Breve nota su occidentalizzazione e immigrazione                               

02.15.2010
Author: falchipolis


Non cadiamo nella trappola di coloro (e sono tanti) che gridano che bisogna difendere la nostra cultura e la nostra società dagli immigrati, perché questi uomini spesso non sono né africani né sudamericani, ma uomini sradicati, che il ‘Mare’ ha portato in Europa. Sono naufraghi, come ormai la maggior parte degli europei, ossia uomini ’senza volto’, privi di vera identità e sciolti da ogni legame sociale, se non quello, sempre più labile, della famiglia o della lingua comune. Questo è il futuro dell’Occidente e nessuna legge o ‘idiozia’ leghista potrà evitarlo, perché l’essenza dell’Occidente è lo sradicamento. Lo si chiama emancipazione, progresso, libertà, ma in realtà non è altro che il congedo dalla propria radice. Per questo è corretto parlare di occidentalizzazione della Terra, mentre sarebbe ridicolo parlare di europeizzazione. La libertà per l’europeo è partecipazione consapevole alla gestione della cosa pubblica; emancipazione è liberarsi dalle catene della ‘necessità’; progresso è sviluppo organico di un’Idea e di uno Stile. A questo l’europeo ha rinunciato, sradicandosi,vale a dire diventando ‘occidentale’ e costringendo anche gli ‘altri’ a sradicarsi, a occidentalizzarsi. Che oggi si subiscano le conseguenze di un processo di cui si è la vera causa, può quindi stupire solo chi è ottuso o chi è in malafede, mentre si dovrebbe tener presente che i nemici dell’Europa più pericolosi sono gli europei ‘occidentali’, non gli immigrati. Il fenomeno dell’immigrazione è complesso e per comprenderlo è necessario fare numerose distinzioni, senza dimenticare quanto accade in Africa e in altre parti del pianeta. L’immigrazione dovrebbe essere vista come un’occasione storica e culturale (è segno, effetto, non causa del ‘male occidentale’) per mettere seriamente in discussione l’occidentalizzazione, profittando anche degli ’stimoli’ culturali e politici che si possono avere orientando l’asse geo-politico, se così è lecito esprimersi, verso Est e il Mediterraneo. Il che, in definitiva, significa che il problema dell’immigrazione potrebbe e dovrebbe essere risolto secondo una prospettiva eurasiatista.

Tratto dal Blog privato di Falchipolis il 18 Marzo 2010.

sabato 13 marzo 2010

I "GIOVANI TURCHI" ALL'UNCINO E "COMPASSO"

La Preghiera di Ataturk
Maurizio Blondet
08 agosto 2008



                                                                                      

Itamar Ben-Avi, (1882-1943), giornalista sionista, figlio del linguista che restituì ad Israele l’ebraico come lingua moderna e quotidiana (1), scrive nella sua autobiografia in ebraico il seguente episodio.

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Una sera dell’autunno 1911, mentre si trovava nella hall dell’Hotel Kamenitz a Gerusalemme, il proprietario dell’albergo gli indicò un capitano turco che sedeva ad un tavolino davanti a una bottiglia di arrack: «E’ uno dei più importanti ufficiali dell’esercito turco». Si chiama Mustafa Kemal, lo informò il padrone. Scrive Ben-Avi: «Voglio conoscerlo, dissi, perché fui colpito dallo sguardo penetrante dei suoi occhi verdi».
Gli incontri furono due, innaffiati di abbondanti sorsi di arrack e la conversazione avvenne in francese, la lingua diplomatica dell’impero ottomano. Nel 1911 Gerusalemme era ancora una città ottomana.
Fin dal primo incontro, dopo i convenevoli, Mustafa Kemal confidò al giornalista: «Sono un discendente di Sabbatai Zevi - no, non sono più ebreo, ma sono un ardente ammiratore di quel vostro profeta. Penso che ogni ebreo in questo Paese dovrebbe essere nel suo campo».
Durante il secondo incontro, avvenuto una decina di giorni dopo sempre allo stesso hotel, l’ufficiale confidò ancora: «A casa ho una bibbia ebraica stampata a Venezia. Un libro antico. Ricordo che mio padre mi iscrisse presso un insegnante karaita che mi ha insegnato a leggerlo. Posso ancora ricordare alcune parole, come...». E - scrive Ben-Avi - Mustafa Kemal tacque per un momento, come cercando qualcosa con gli occhi in alto.
Poi ricordò: «Shema Yisra’el, Adonai Elohenu, Adonai Ehad...». «Questa è la nostra principale preghiera, capitano», disse Ben Avi. «Ed è anche la mia preghiera segreta, cher monsieur, replicò lui riempiendo un’altra volta i nostri bicchieri» (2).
Nel 1911 Ben-Avi non poteva conoscere molto della setta di Sabbatai Zevi. I primi libri manoscritti con la dottrina esoterica del gruppo furono raccolti nella Biblioteca Nazionale solo dal 1935, quando alcuni ex-adepti li consegnarono a studiosi dell’ebraismo, fra cui il più celebre è Gershom Scholem. I seguaci di Sabbatai Zevi, in turco donmeh (apostati), continuavano i loro rituali segreti nelle loro sinagoghe interne, invisibili dalla strada, all’insaputa della stessa comunità ebraica (o almeno dei più).
Rigorosamente endogamici, concentrati soprattutto a Salonicco, professanti esteriormente l’Islam, i donmeh recitavano lo Shema Yisra’el come gli ebrei ortodossi, ma preceduto da un’aggiunta: «Sabbatai Zevi è il Messia e non un altro. Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il signore è Uno».
Solo un decennio dopo quell’incontro Mustafa Kemal avrebbe preso il controllo dell’esercito ottomano dopo la disfatta della prima guerra mondiale, avrebbe fermato un tentativo greco di invasione, e fondato la repubblica turca secolare, confinando la pratica della fede musulmana a fatto privato, nelle moschee. E sarebbe stato insignito del nome onorifico di Ataturk, «Padre dei Turchi».
Non fece tutto da solo. «I donmeh hanno esercitato un ruolo determinante nel Comitato Unione e Progresso, l’organizzazione dei Giovani Turchi che ebbe origine a Salonicco», scrive Scholem. Come lascia indovinare il nome, «Comitato Unione e Progresso» era una cellula di ispirazione massonica, «progressista» e «riformista» in senso radicale. Il Grande Oriente di Francia, e la massoneria italiana, fornivano più che semplice simpatia, ma finanziamenti ed appogggi concreti, attraverso la Banca Commerciale Italiana.
Quando il putsch kemalista esautorò il sultano, il Comitato Unione e Progresso divenne il governo di fatto del Paese, controllando «la gestione dei ministeri, la sicurezza pubblica, il rispetto dell’ordine». Il ministro delle Finanze del governo, David Bey, «era un donmeh molto influente nella setta dei Karakash», scrive Arthur Mandel, lo storico del frankismo, la propaggine estrema e polacca del sabbateismo; «apparteneva alla famiglia Russo, discendente diretta dal dio incarnato Baruchya Russo», attesta Scholem.
Baruchya Russo, che «nel mondo» si faceva chiamare col nome turco di Osman Baba, era il dio incarnato per la sua setta, la più estrema del sabbateismo. Predicava e praticava l’incesto: dopo la venuta del messia, infatti, non vigono più i divieti biblici. Del resto era figlio di Jacob Querido, fratello e marito di Aisha, terza moglie di Sabbatai Zevi. Dopo la morte del messia Zevi, Aisha «riconobbe» che il marito defunto s’era incarnato in suo fratello. Con ciò, l’astuta Aisha assicurava alla sua famiglia l’eredità pseudo-messianica, con i conseguenti vantaggi economici relativi; i fedeli Karakash coprivano di offerte il loro dio vivente. La donna condivise il talamo col fratello di sangue, in cui abitava l’anima di Sabbatai, e ne ebbe figli, fra cui Baruchya. La setta dei Karakash era dunque la più estrema, ma anche la più diretta linea esoterica discendente da Sabbatai, per via - diciamo così - carnale.
Mustafa Kemal disse al giornalista Ben-Avi che un insegnante «karaita» gli aveva insegnato a leggere l’ebraico. I karaiti sono un gruppo ebraico, che fiorì nel decimo-undicesimo secolo e tutt’ora esistente anche se marginale, che rifiuta la «legge orale», Mishanh, accettando soltanto la Torah, i primi cinque libri dell’Antico Testamento; come seguaci del «sola Scriptura», si opposero al talmudismo rabbinico. Maimonide li giudicava eretici (3).
Fatto significativo, era un karaita Moshe Marzouk, l’ebreo egiziano che nel 1954 restò ferito dal proprio ordigno mentre cercava di mettere una bomba in un ufficio britannico al Cairo, uno dei tanti attentati «false flag» che sconvolsero la capitale egiziana in quei mesi, organizzati dallo spionaggio israeliano per farli apparire come dovuti a musulmani (4).
Ma era un karaita l’insegnante del giovane Mustafà Kemal? Ben Avi, che nulla sapeva dei donmeh, può aver equivocato. Il padre del futuro Ataturk, lui stesso un domneh molto secolarizzato e fieramente anti-islamico, avrebbe potuto mandare il figlio a imparare l’ebraico non da un karaita, ma da un Karakash. La setta che più esplicitamente praticava la dottrina della «salvezza attraverso il peccato».

E’ bene ricordare che questa - esoterica e aberrante - è la radice del laicismo turco.

Jacub Frank
                                                                  

1) Itamar Ben-Avi era il figlio di Eliezer Ben-Yehuda, il linguista che riportò in auge l’ebraico come lingua ufficiale di Israele. Questo padre insegnò al figlio l’ebraico, e gli vietò di parlare con gli altri bambini ebrei, che parlavano altre lingue. Ben-Avi, come lui stesso ha raccontato, crebbe in Palestina senza amici, essendo il solo fanciullo a parlare l’ebraico al suo tempo. La sua famiglia subì l’ostilità degli ebrei più ortodossi, gli haredim, che consideravano sacrilego l’uso quotidiano
della lingua sacra biblica. Un «dogma» oggi abbandonato, ovviamente. La religione ebraica, affollata di divieti e di interdetti draconiani, sa anche abolirli, quando occorre.

2) Z. Yaakov, «When Kemal Ataturk recited Shema Ysrael», Forward, 28 gennaio 1994.

3) Uno dei più curiosi punti che oppongono i karaiti ai talmudisti rabbinici riguarda il divieto di mangiare carne e formaggio nello stesso pasto. L’origine del divieto è estrapolata da una norma di Mosè che in realtà dice: «Non mangerai l’agnello cotto nel latte di sua madre» (Esodo, 23:19). Forse il divieto riguardava un pasto rituale di un qualche culto idolatrico; forse i legislatori mosaici intendevano con ciò colpire simbolicamente l’incesto; il Talmud ne ha fatto un caposaldo del cibo «kosher», estendendo il divieto a tutte le carni e a tutti i prodotti latttiero-caseari, che non possono essere consumati insieme. I karaiti hanno aggiunto qualcosa di più: siccome la parole ebraica per «latte» è identica alla parola che significa «grasso» nella Torah senza le vocali - e siccome la vocalizzazione della Torah è fornita dalla tradizione orale, che essi respingono - essi desumono che Esodo 23 vieta non solo di mescolare la carne al formaggio, ma anche al grasso. Si ritiene che i karaiti oggi siano circa 30 mila, per lo più insediati in Israele. Duemila individui vivono negli Stati Uniti; un centinaio di famiglie abita ad Istanbul.

4) La scoperta della natura di questi attentati «islamici» portò alle dimissioni del minsitro israeliano responsabile, di nome Lavon. La vicenda è nota in Israele come «l’Affare Lavon».

Sabbatei Zevi
COMMENTI: http://www.effedieffe.com/content/view/4113/176/      
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