1. Professoressa Corti, riguardo al tema dell’influenza della cultura araba in Dante, può descrivere in primo luogo l’importanza che nel corso del Duecento ebbero i centri di diffusione della cultura araba principalmente quelli della Toledo di Alfonso decimo il Savio e del regno di Sicilia di Federico II?
Il Duecento è un secolo particolarissimo nella cultura italiana, perché è un secolo in cui i rapporti fra il mondo cristiano e il mondo musulmano si fanno molto più stretti, per tutta l’area mediterranea. E questo si deve soprattutto a un evento storico e alla grandezza di due personaggi che hanno dominato il Duecento, che sono Federico II, imperatore re di Sicilia e Alfonso decimo il Savio. Questi due personaggi, per ragioni particolari, nella loro infanzia furono molto legati al mondo arabo. Federico II, addirittura, visse da bambino quasi nell’ambiente arabo, dopo che morì sua madre. E a sua volta, Alfonso decimo, ebbe strettissimi rapporti familiari con le personalità della cultura araba. Questo contribuì a creare un fenomeno veramente affascinante che sarebbe bello che si ripetesse presso tutti i popoli: un fenomeno di trasmissione di cultura. Gli arabi portavano in Occidente soprattutto la cultura greca. La filosofia greca, la trascrivevano in arabo e poi i testi arabi venivano tradotti. Alfonso il Savio creò la famosa scuola di Toledo nella quale si traduceva tutto dai vari paesi del mondo, in castigliano, poi dal castigliano in latino o in francese antico.
2 . Dal punto di vista delle influenze indirette, come e cosa attinge Dante dal patrimonio di temi, motivi e idee di origine islamica, che, nel quadro del fenomeno dell’interdiscorsività, circolavano nella cultura in cui egli operava?
Il fenomeno dell’interdiscorsività è un fenomeno molto importante che è stato studiato da Bachtin. Quando due culture sono in stretto contatto, i vocaboli, le idee, i pensieri, i concetti di una cultura passano ovviamente all’altra e quindi non si riesce più a trovare la fonte diretta, perché quando un’espressione comincia a circolare non si sa più chi l’abbia creata o chi l’abbia messa in circolo. Questo è ciò che avviene per Dante. In Dante ci sono molti arabismi, che gli vengono per questo fenomeno dell’intertestualità. Non sono degli arabismi che Dante abbia appreso da un particolare libro. Un fenomeno che si può esemplificare subito è quello che ci dà l’episodio di Ulisse. In questa occasione Dante ci dice come Ulisse giunge alle colonne D’Ercole: "Là dove Ercole segnò i suoi riguardi a ciò che l’uom più oltre non si metta", cioè dove Ercole stesso ha messo il confine non si va. Dove sono le colonne D’Ercole? Sono nello stretto di Gibilterra, quindi lo stretto di Gibilterra, secondo questo concetto, era chiuso. Non si poteva uscire dallo stretto di Gibilterra. Ora, questa è una tradizione che è nata con gli arabi. Nel mondo greco e nel mondo latino, tutti passavano dentro e fuori dallo stretto di Gibilterra senza che succedesse niente. Gli arabi mettono questo divieto. E perché lo mettono? Lo mettono per poter meglio dominare il commercio marittimo nel Mediterraneo. Come è chiamato questo divieto in arabo? È chiamato safì, e noi lo sappiamo perché, per esempio, un autore contemporaneo di Dante, Guido delle Colonne, ha scritto un’opera in cui alle colonne c’era quella cosa che in saracenica lingua dicitur "safì", cioè che in lingua araba si chiama "safì". Questo divieto non lo troviamo accolto solo da Dante, ma lo troviamo, per esempio, in un’altra opera del Duecento che prova appunto questa circolarità: un trattato che si chiama "Il mare amoroso". In questo trattato, l’uomo per esprimere il desiderio che ha della donna dice: "la seguirei fino al braccio di safì, là dove una man dice nimo ci passi". Ora questo brano è sempre stato commentato in questo modo: siccome si chiama "braccio" di Gibilterra, allora il poeta avrebbe usato la metafora "mano". Invece non è così: c’era una statua di Maometto, altissima, in bronzo (poi dorata). E questa statua aveva la mano sinistra che era volta verso lo stretto di Gibilterra e faceva segno no: non dovete passare. Ora, questa è la prova di come si possano usare dei vocaboli della cultura araba, senza quasi pensare al fatto che siano arabi.
3. Dal punto di vista dell’intertestualità (ossia del rapporto con le fonti dirette con i testi e le opere della cultura araba), come giungono questi nelle diverse traduzioni sino a Dante? E quali autori, tra cui Brunetto Latini, hanno contribuito a fargliele conoscere?
La scuola di Toledo, come ho già accennato, aveva il compito di tradurre questi testi arabi in lingue abbordabili dai cristiani e dai mediterranei. Quindi, teoricamente, tutto quello che era tradotto alla scuola di Toledo si poteva leggere. Ma noi dobbiamo porci il problema di come Dante abbia avuto dei testi arabi tradotti. Dobbiamo avere la prova per dire che esiste un fenomeno di intertestualità, e soprattutto se esiste un fenomeno di fonte. Ora, noi sappiamo, per esempio, un dato molto importante: alla scuola di Toledo c’era un traduttore, che era Bonaventura da Siena (cioè un toscano), che faceva anche il notaio per re Alfonso. Ora, questi tradusse un libro che fu composto in arabo nell’ottavo secolo, questo libro è intitolato Liber Scalae Maometti (Libro della scala di Maometto). É un libro in cui si racconta il viaggio di Maometto nell’aldilà, accompagnato dall’arcangelo Gabriele nel paradiso e nell’inferno. Prima vanno in paradiso e dopo all’inferno: il purgatorio non c’è nella religione araba (e quindi questo non ci riguarda), ma Dante prende lo stesso anche per il purgatorio degli elementi da quest’opera. Quest’opera come è arrivata a Dante? Intanto, noi sappiamo che quest’opera era diffusa. Tanto è vero che Fazio degli Uberti nel Dittamondo la cita, a un certo verso dice: "il libro della scala". Quindi era un libro noto in Occidente: non era strano che Dante occupandosi dell’oltretomba leggesse un libro in cui Maometto va a fare un viaggio nell’oltretomba. Ma c’è anche qualche elemento in più, molto importante: Dante avvicinò molto Brunetto Latini. Brunetto Latini è un personaggio di enorme importanza. Noi in Italia non l’abbiamo ancora messo in luce, come hanno fatto invece in Spagna. Lo consideriamo quasi un maestro di Dante, un uomo che faceva dell’attività politica a Firenze. E invece, Brunetto Latini, non solo stette molto nella Castiglia (a Oviedo), ma fu amico di re Alfonso Decimo e, guarda caso, avvicinò alla corte di re Alfonso Decimo proprio il traduttore di quest’opera: Bonaventura da Siena. Ci stupirebbe che Brunetto Latini torna in Italia e, sapendo che Dante deve fare la Divina Commedia, non gli dice: "Guarda che c’è un’opera che tratta di questo". Quindi abbiamo molti elementi che ci portano a questa conclusione.
4. Lei ha preso in esame, nel saggio "Dante e la Torre di Babele", il pensiero linguistico di Dante, con particolare riferimento al primo libro De Vulgari eloquentia. Traendo spunto dall’interpretazione in chiave di allegoria laica e cittadina dell’episodio biblico della torre di Babele, lei sottolineava come Dante avesse colto la funzione sociale del segno linguistico. Anche il problema dell’origine delle lingue riceve nuova luce, se lo si rapporta al fatto che Dante vede nella confusio linguarum postbabelica, tra l’altro, un riflesso dell’imperfezione umana. Su queste tematiche è ritornata nel libro "Percorsi dell’invenzione". Qual è la sua posizione attuale su questi problemi?
Ho superato in parte quella posizione che avevo, l’ho migliorata. Ho migliorato gli esiti, perché, nel passare del tempo, mi sono resa conto che i contatti di Dante con Alfonso il Savio erano abbastanza robusti, come ci dimostra il passaggio di Brunetto Latini da Oviedo a Firenze. Dante, nel De vulgari eloquentia, ci descrive la torre di Babele. La descrive, nella prima parte, come è nella Bibbia: cioè la costruzione della torre. A un certo punto, comincia la seconda parte biblica, cioè la distruzione della torre di Babele da parte di Dio, per punizione. Donde la confusio linguarum, cioè: gli uomini non si capiscono più per divina punizione. Quando in passato descrissi questo, mi accorsi che in Alfonso il Savio nella Historia General, si racconta l’episodio della torre di Babele in modo molto simile a quello di Dante. Tutti e due dicono non che tutti gli uomini non si capissero l’uno con l’altro, ma che quelli di una confraternita (di una corporazione) si capivano tra di loro e non capivano quelli di un’altra corporazione. Quelli della stessa corporazione avevano eadem lingua, la stessa lingua. Questo lo dice anche Alfonso il Savio. Allora io in passato dicevo: chissà come mai questi due autori, così diversi, uno sta in Italia e uno sta in Spagna, dicono la stessa cosa? Ci sarà una fonte latina che non abbiamo ancora trovato che dava questa notizia. E invece, sono passati gli anni, io ho cercato la fonte latina, ma non c’è. Tutti quelli che parlano della torre di Babele come *Estor, Saint-Beuve*, ecc., non citano assolutamente questo episodio, parlano della confusione delle lingue generale. Ecco allora che mi sono persuasa che, questo motivo, Dante lo ha preso da Brunetto Latini, come motivo che si trovava nel testo arabo-latino (insomma il testo di Alfonso il Savio). Alfonso il Savio aveva una cultura che era quasi completamente di origine araba. Quindi questo sarebbe un nuovo elemento di cultura araba che abbiamo trovato, in questi anni con la ricerca, nel De vulgari eloquentia.
5. Professoressa Corti, lei nel libro "Percorsi dell’invenzione" ha analizzato attentamente l’episodio di Ulisse nel canto ventiseiesimo dell’Inferno, importante in quanto il suo naufragio nel viaggio oltre le colonne D’Ercole nello stretto di Gibilterra, simboleggia l’inevitabile esito del folle volo, ossia, della sua sete di sapere, della volontà di conoscere l’ignoto. In particolare, il divieto di oltrepassare quel luogo geografico simbolico - assente nella tradizione greca o latina - non sarebbe un’invenzione dantesca, in quanto deriverebbe piuttosto da un’idea di origine arabo–ispanica. Può ripercorrere le tappe della ricostruzione di questo tema?
Credo di essere la prima ad aver trovato delle prove che il mito del naufragio di Ulisse non è un’invenzione dantesca. C’è un saggio bellissimo di Fubini su Dante che ha inventato questo naufragio di Ulisse, ma invece la cosa non è vera. Perché? Abbiamo delle prove sicure: il geografo Strabone che nel Geografica, nel 58 d. C., scrive che sopra lo stretto di Gibilterra, nelle montagne, c’era una città che si chiamava "Odussea". Ora, Odussea come noi sappiamo è il nome di Ulisse perché Ulisse in greco si dice "Odisseus", quindi Odussea vuol dire "città di Odisseo", "città di Ulisse". Di fianco questa città, Strabone prova - soprattutto con testimonianze di studiosi greci che c’erano già stati - che c’era un tempio dedicato alla dea Atena, la protettrice di Ulisse. Ma - e qui viene il bello - in questo tempio c’erano, come souvenir appesi alle pareti, dei pezzi della nave di Ulisse naufragata, dei ricordi del naufragio del poeta. Quindi, a questo punto, non sappiamo da chi Dante abbia preso questa notizia, ma non l’ha inventata lui. Per di più, io ho trovato nella Historia General scritta da Alfonso il Savio, che si racconta di un viaggio di Ulisse fondatore di Lisbona (Lisbona si chiamerebbe "Ulissipona" cioè "territorio di Ulisse"), di un viaggio di ritorno: Ulisse ha la nostalgia poi di tornare da Penelope, dal figlio, ecc., parte, e la notte sogna il proprio naufragio. Quindi, questo tema del naufragio è un tema ricorrente nell’epoca medioevale in vari testi. Da quale testo Dante abbia preso questa notizia non possiamo saperlo, però egli aveva bisogno di questa notizia del naufragio, perché contrappone se stesso ad Ulisse. Ulisse è l’uomo alla ricerca della verità, l’ha persa ed è andato a fondo, mentre Dante ricercando la verità ha superato l’inferno è arrivato in purgatorio, e poi in paradiso. All’inizio dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, Dante mette dei versi che provengono dall’episodio di Ulisse, proprio per dire al lettore: "Sta attento che mi rifaccio là". Solo che Ulisse è morto, è andato a fondo ‘come altrui piacque la nave andò giù, mentre Dante ‘come altrui piacque, cioè come a Dio piacque - ripete questa espressione - sale in paradiso. Questo naufragio è anche servito a Dante perché ricalca un po’ la metafora del naufragio descritto da sant’Agostino, che è il naufragio dei filosofi che non cercano la verità, cercano degli errori e naufragano, prima di raggiungere il porto della verità. Ecco, noi sappiamo che Ulisse rappresenta qui quei filosofi, di cui parleremo, i filosofi dell’aristotelismo radicale, che Dante usa. Non solo, per un certo periodo, ha aderito a loro, ma poi avendoli abbandonati, ha fatto naufragare il suo personaggio che li rappresenta. Ulisse nell’inferno usa un’espressione di Boezio di Dacia: "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza". É quello che Ulisse disse ai suoi compagni di viaggio, che è una frase scritta nel De Summo Bono di Boezio di Dacia. Quindi i riferimenti sono tutti chiari: Ulisse diventa personaggio simbolico del naufragio dell’aristotelismo radicale.
6. Nell’inferno il contrappasso svolge una funzione centrale, ma il contrappasso - che è un tipo di punizione in stretta relazione alla colpa commessa - è però, come lei sottolinea, diffuso in tutta la letteratura religiosa e islamica. Ci può indicare i luoghi, come quello della nona bolgia dell’inferno (ove sono presenti i seminatori di discordia), in cui la similitudine tra la versione dantesca e quella araba è inequivocabile? E questo fenomeno di interdiscorsività e intertestualità, ovvero di riferimento a dei particolari testi?
Abbiamo detto prima che Dante ha conosciuto il Libro della Scala, il Liber Scalae Maometti, che era stato tradotto appunto da un fiorentino alla scuola di Toledo. Ora, questo libro Dante lo usa molto. (Do intanto la notizia che questo libro lo stiamo stampando adesso in un’edizione critica, lo sta stampando una mia allieva presso la casa editrice Guanda). In questo libro si parla di Maometto che arriva, girando l’inferno, dove sono i seminatori di discordia. Teniamo presente un fatto che a parer mio è importantissimo: seminatori di discordia, homines qui seminant discordiam è una metafora, la metafora della seminagione. Ora, Dante usa la stessa metafora della seminagione del libro della scala. Là si dice: "qui seminant discordiam", qui si dice "seminatori di discordia", e proprio nei seminatori di discordia, Dante esemplifica la teoria del contrappasso. Cos’è la teoria del contrappasso? Se l’uomo ha commesso delle colpe, verrà punito patendo in rapporto alla colpa che ha commesso. Questo concetto c’è anche nella religione cristiana, però il tipo di contrappasso che usa Dante, sia nell’inferno che nel purgatorio, gli viene dal mondo arabo e gli viene proprio da questo Libro della Scala. Infatti, proprio qui, nel Libro della Scala, parlando dei seminatori di discordia, l’autore arabo dice: "… come il seminatore di discordia usava la lingua… ecco che qui viene punito col taglio della lingua", e dà degli esempi precisi di questa legge del contrappasso.
7. Quali sono le principali analogie rintracciate nel suo importante libro "Dante e l’Islam" dallo studioso Miguel Asin Palacios, tra l’escatologia musulmana - in cui però non c’è posto per il purgatorio - e la visione di Dante? Palacios insiste in particolare sulle analogie con la mistica araba.
Asin Palacios ha scritto un libro importantissimo è Storia della escatologia musulmana, però non cerca le fonti, dà un quadro della cultura araba. Ci fornisce moltissimi testi arabi che parlano dell’oltretomba, dove c’è Maometto che va a visitare l'inferno e il paradiso, ma da qui, noi abbiamo solamente notizie che questi testi circolavano. C’erano notizie di interdiscorsività, ma non di fonte, non di intertestualità. Non c’è nessuno dei testi dati da Asin Palacios, che si possa provare essere una fonte di Dante. Per esserlo bisogna che nel testo che è fonte e nel testo che subisce la fonte, ci siano non solo i racconti di eguali episodi, cioè corrispondenze tematiche, ma ci devono essere corrispondenze formali. Ho appena detto che, per esempio, nel Libro della Scala c’è la metafora dei seminatori di discordia e Dante prende i seminatori ... quegli elementi ci devono essere, cioè delle corrispondenze formali, per cui io possa dire: "Dante ci ha messo gli occhi sopra". Ora questo con Asin Palacios, purtroppo, non si può fare, perché non era nemmeno nelle sue intenzioni. Asin Palacios voleva semplicemente dire: "Guardate quanti testi arabi hanno trattato l’argomento della commedia di Dante". Nella sua difesa lo dice: "Non mi sono occupato di fonti, mi sono occupato di dare un panorama arabo". Mentre invece noi sappiamo che il Libro della Scala è una fonte. Non solo c’è l’episodio del seminatore di discordia, ma che c’è tutto Malebolge. Le bolge di Malebolge vengono quasi tutte da queste. Non è questa la sede, non abbiamo i testi davanti per discutere questo fenomeno, però sia l’episodio dei ladri coi serpenti, sia l’episodio dei fraudolenti avvolti nelle fiamme, vengono fuori tutti in dal Libro della Scala. Non solo, ma cosa più importante di tutte, viene fuori la città di Dite. Dante mette un altro inferno, poi mette la città di Dite, e poi un basso inferno. Il basso inferno viene dagli arabi, la città di Dite pure. Essa è descritta da Dante allo stesso modo di come, nel Libro dalla Scala, è descritta l’abitatio diaboli: ci sono delle case tutte infuocate, hanno un fuoco perenne che le distrugge (e chi si ricorda la città di Dite di Dante sa che c’è questo fuoco). Non solo, ma addirittura ci sono dei valla, cioè delle fortificazioni, su cui stanno queste (e lo stesso nella città di Dite). Ci sono i diavoli che girano intorno alle porte, ma c’è una porta principale dalla quale si scende al basso inferno (e c’è anche questo nel Libro della Scala). Abbiamo veramente gli elementi per dire che siamo in presenza di una fonte di Dante.
Credo che Dante ce l’abbia voluto indicare. Dante spesso, quando usa una fonte, dà dei segnali perché i lettori capiscano che fonte ha usato. Qui che segnali usa? Un segnale divertentissimo, ma nessuno lo ha notato: le case le chiama "meschite". "Meschite" è un termine arabo per indicare la casa e la moschea. Siamo quindi fuori di ogni dubbio che Dante qui ha usato la fonte precisa.
8. Professoressa Corti, può illustrare la rilevanza da lei definita strutturale del testo arabo "Il Libro della Scala" dell’ottavo secolo, che descrive il viaggio all’inferno e l’ascensione al paradiso da parte di Maometto guidato dall’arcangelo Gabriele, nell’indicazione di Dante secondo un modello analogico del suo viaggio nel mondo ultraterreno e della costruzione interna di quest’ultimo nella Divina Commedia.
Dunque, già con quello che ho detto si prova che l’inferno dantesco è strettamente legato al viaggio di Maometto, nel Libro della Scala. Molto importante è il fenomeno anche per quanto riguarda il paradiso. Il purgatorio naturalmente non c’è nella religione araba. Nel paradiso Dante si ispira a una concezione araba, che lo stesso San Tommaso chiama metafisica della luce di origine araba, dice che gli arabi sono più importanti nel piano dello studio della metafisica della luce. Ma cos'è la metafisica della luce? È lo studio della luce come elemento che coincide quasi con la divinità: la divinità è luce (claritas) come ha detto nel testo latino. Dante prende senza dubbio qualche cosa da qui, e prende anche alcuni concetti nella struttura generale del viaggio nel paradiso: per esempio, il concetto che la luce divina non si può fissare. Non si può guardare in faccia Dio: ci si acceca! Dante parla della perdita della visione di Dio, e questo avviene identico, con le stesse frasi, nel Libro della Scala. Anzi, in quell’opera si dice una cosa che Dante ripete proprio alla lettera: "…quando non ho più potuto vedere cogli occhi, l’ho sentita nel cuore la presenza di Dio". Ecco, questo c’è in tutti e due i testi. In Dante c’è anche un concetto che è chiaramente spiegato dagli arabi: non potendo guardare la luce di Dio direttamente bisogna guardarla indirettamente, cioè vederla riflessa in qualche cosa. Solo allora la si può vedere. Dante che cosa fa? La vede riflessa negli occhi di Beatrice, e continua a dire che negli occhi di Beatrice vede la luce di Dio. Questi sono tutti elementi della struttura stessa. Un altro elemento fondamentale del paradiso è l’identificarsi della luce con la musica, e col fatto che gli angeli ruotino in circolo. Questo girare continuo dei cherubini e delle alte sfere angeliche produce la musica, che è la musica divina che si unisce alla luce e al canto degli angeli. Sono tutti elementi che si trovano già nel mondo arabo.
9. In un suo saggio di taglio più strettamente filosofico, "Dante: a un nuovo crocevia", vengono indagati i rapporti tra Dante e la grammatica speculativa, la logica modista. Quali sono i rapporti tra Dante che, si ricordi, con sottigliezza nel De Monarchia si serve dell’argomentazione sillogistica e la logica medioevale?
Io mi sono sempre domandata, prima di approfondire gli studi della logica formale medioevale, perché Dante dovendo fare un trattato che è intitolato De vulgari eloquentia (cioè vuol dire dell’eloquentia, della scrittura elegante, dell’eloquenza volgare e non della grammatica) ci descrive nei primi quattordici capitoli tutti i dialetti d’Italia? Per quale motivo? Sembra quasi inspiegabile, cosa c’entrava parlare dei dialetti d’Italia? In fondo nessuno lo spiega. Lo si può fare se ci si collega alle ricerche che Dante ha fatto sulla logica formale. Dante, studiando questi aristotelici radicali, è venuto a contatto con un concetto che lo ha entusiasmato, un concetto che noi oggi conosciamo attraverso dei linguisti americani (Chomsky, ecc.): gli universali linguistici. Dante ha pensato in questo modo: "Questi filosofi studiano tutte le lingue del globo e trovano che tutte hanno qualche cosa in comune, e questi elementi comuni costituiscono gli universali linguistici". Dante che vuol studiare la lingua della poesia quindi pensa: ".. allora io prendo tutti i dialetti italiani, li faccio passare tutti, e faccio vedere che in questi non ci sono gli universali linguistici, sono dei dialetti, semplicemente dialetti". Invece il linguaggio poetico che Dante crea con lo stil novo è un linguaggio che Dante definisce fatto coi simplicissima signa. Questi "simplicissimi signa" sono i prima principia della logica di questi filosofi medievali, cioè sono gli universali linguistici. Dante fa un discorso molto raffinato, molto complesso (mi scuso di volgarizzarlo così, con poche parole semplici): la gente, quando parla usa le varie parlate, ma quando fa poesia usa i simplicissima signa, cioè usa gli universali linguistici. Per questo il linguaggio della poesia è un linguaggio formale, dove non si deve comunicare agli altri, ma si comunica a se stessi (con il proprio linguaggio poetico). Dante ha in comune con Cavalcanti questa concezione. Con Cavalcanti ebbe in comune tutta la teoria aristotelica che però poi Dante non accetta, perché per scrivere la Divina Commedia, ha bisogno della solidità del mondo cattolico. Però coglie questo concetto di simplicissima signa che è un concetto profondissimo che possiamo ritrovare. Quindi, la teoria dei simplicissima signa in Dante è importantissima, perché, non solo è un preannuncio di quella che sarà la teoria moderna degli universali linguistici, ma dà anche questo carattere di universalità al linguaggio poetico, di fronte alle parlate che lui ha descritto prima nell’opera (che invece sono le parlate comuni). A questo punto diventa anche chiaro perché Dante abbia parlato dei dialetti italiani. Per usare la stessa immagine: come per i filosofi modisti, non ci sono gli universali linguistici, ma solo dei segnali che fanno capire che devono essere altrove e per affermarlo esaminano e descrivono tutte le lingue, così Dante esamina e descrive tutte le parlate italiane, per poter sostenere che non ci sono gli universali linguistici. Sono presenti invece nel "dolce stil novo" che è la creazione poetica di Dante.
10. Professoressa Corti, dopo gli studi di Gilson, Nardi, e altri, sembra definitivamente superato il luogo comune della scarsa originalità filosofica di Dante, soprattutto se si pensa alla ricchezza di motivi speculativi presenti nel Convivio. Per altro, la dipendenza di Dante da fonti che solo recentemente sono state individuate, ci consente non solo di fare esercizi di esegesi intertestuale ma anche di analizzare l’originalità della ricezione dantesca di vari testi filosofici. Può dare qualche esempio in proposito?
Certo. Posso dare come esempio proprio il Convivio. Noi adesso abbiamo citato il De vulgari eloquentia, che già ci ha mostrato come la teoria degli universali linguistici viene fuori in Dante (che poi non verrà più fuori per molti secoli). Ma nel Convivio il discorso diventa proprio strettamente filosofico. Dante nei primi tre trattati del Convivio segue la filosofia degli aristotelici radicali, e la descrive anche in quelle canzoni con una bellissima donna che gli appare: "amor che nella mente mi ragiona..." (uno dei versi più belli della letteratura italiana). Poi ha una crisi. Sta cominciando l’inferno, sta cominciando la Commedia, quando ha una crisi. Per cui crea il personaggio di Ulisse come antitetico a sé e lo manda a fondo, come abbiamo visto prima. Mentre lui si salva, perché non segue più gli aristotelici radicali, segue invece la filosofia tomistica. Ecco, nel quarto trattato del Convivio, che è stato scritto a distanza dai primi tre, notiamo come il linguaggio filosofico di Dante muta parecchio. Può stupire questa cosa, ha stupito anche molti studiosi questo fatto: che Dante ritorni all’Aristotele quale è descritto da san Tommaso e non all’Aristotele quale è descritto dagli aristotelici radicali. Che Aristotele è? È l’Aristotele autore dell’Etica nicomachea, che è l’opera che è commentata nel Convivio di Dante. L’Etica nicomachea era un’opera che trattava di tutte le forme della moralità. Ci sono descritti tutti i vizi e tutte le virtù, e c’è veramente un superamento rispetto alla posizione dei primi tre trattati. Un superamento che è dovuto al nuovo influsso che Dante riceve da san Tommaso. Nei primi tre trattati, quando segue l’aristotelismo radicale, Dante usa anche una traduzione araba (ci siamo daccapo con l’arabo) alessandrina - fatta ad Alessandria D’Egitto - dell’Etica nicomachea. Vediamo proprio che Dante supera - ma lo fa spesso anche nella Commedia, di superare un pensiero passato e di portarlo alla fase attuale della ricerca - questa visione degli aristotelici radicali (che era stata accolta anche dagli arabi), e arriva invece alla concezione tomistica. Quindi, questo approfondimento di Dante, questo superamento della concezione a cui si era fermato il Cavalcanti (il Cavalcanti è aristotelico radicale per tutta la vita), mostra un travaglio filosofico interiore che è per noi segnale della profondità della riflessione filosofica dantesca.
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Biografia di Maria Corti
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