venerdì 29 ottobre 2010

il Ramayana e il Mahabharata

Le perle dell’epica indiana: il Ramayana e il Mahabharata

di Fabrizio Legger - 07/10/2009
Fonte: Arianna Editrice                                                                 

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Tra i capolavori della letteratura indiana antica, affascinante e ricchissima, spiccano due vere e proprie gemme del Parnaso indù, sorto all’ombra del Kailasa, la vetta himalayana sacra al dio Shiva e a suo figlio Ganesh, protettore di scultori e di poeti: mi riferisco al Ramayana di Valmiki e al Mahabharata di Vyasa, i due colossali poemi epici (ma anche filosofici e teologici) che più di ogni altra opera costituiscono la “base culturale” di ogni sincero e devoto indù. Di fronte alla incantevole poesia di questi due poemi, di fronte al fascino, alla fantasia, al misticismo e alla devozione che spirano da questi due pilastri della cultura indù, non è possibile non restarne sedotti: si tratta di due capolavori non soltanto della poesia indiana, ma della letteratura mondiale, e in quanto tali sono stati letti, studiati e apprezzati anche in Occidente.Il Ramayana, ovvero il “Cammino di Rama” è un poema suddiviso in tre kanda (ossia, libri), composti di 675 sarga (cioè, canti), per un totale di ventiquattromila strofe, composto dal grande poeta Valmiki tra il I e il II secolo dopo Cristo, il quale si ritirò in eremitaggio e si dedicò all’ascesi proprio per scrivere il Ramayana.Questo lunghissimo poema narra la storia del principe Rama, avatar (cioè, incarnazione) del dio Vishnu, figura eroica ed emblematica, che costituisce la più nobile rappresentazione della virilità guerriera e della benevolenza del “dio azzurro” (Vishnu, appunto), sempre pronto ad incarnarsi e ad accorrere in difesa dell’umanità quando questa è in pericolo. Lo si potrebbe definire come una sorta di “cronaca mitologica” che descrive le azioni del grande eroe divino che si incarna per amore e che diventa un esempio di virtù, dedizione e sacrificio per l’intera umanità.Tutto il poema è incentrato sulla lotta all’ultimo sangue tra il potente Rama, figlio di Dasaratha, re di Ayodhya, e il terrificante Ravana dalle cento teste, il Re dei demoni che ottenne dal dio Brama il dono di poter essere ucciso da un solo uomo: Rama.Rama, innamorato della bella Sita, è costretto a fuggire dal regno di suo padre, alla morte di questi, in quanto Kaikeyi, la sua matrigna, riesce a fare eleggere re di Ayodhya suo figlio Barata, malvagio e vizioso. Rama, suo fratello minore Laksmana e la dolce Sita, fuggono dal regno e si nascondono nelle foreste. Ivi si imbattono in Surpanaka, lasciva demonessa che si invaghisce di Rama e vuole uccidere Sita: ma Rama la affronta e la ferisce mutilandola. Allora Surpanaka chiede aiuto a suo fratello Ravana, il quale accorre dall’isola di Lanka con un’orda di demoni. Veduta Sita se ne invaghisce perdutamente e la rapisce, nonostante Rama e suo fratello lottino audacemente per difenderla, e la conduce seco nella lontana Lanka.Disperato, Rama si imbatte in Hanuman, il dio-scimmia, acerrimo nemico di Ravana, il quale, appresa notizia del rapimento di Sita, mette a disposizione di Rama il suo esercito di scimmie-guerriere. Dopo un lungo viaggio irto di pericoli e di lotte contro orchi e mostri, ma anche di incontri con asceti e saggi, attraversata tutta l’India, Rama, Laksmana, Hanuman e l’esercito delle scimmie raggiungono l’oceano, attraversano il braccio di mare che separa l’India da Lanka e approdano sull’isola. Al termine di un’epica battaglia tra le scimmie-guerriere e i demoni raksasa dell’esercito di Ravana, Rama affronta in un sanguinoso duello il Re dei demoni e lo uccide, liberando Sita dalla prigionia. Questa, però, viene sottoposta alla prova del fuoco, per dimostrare di non aver tradito Rama durante il periodo in cui è vissuta prigioniera di Ravana. Tornato ad Ayodhya con l’esercito delle scimmie e posto in fuga Barata, Rama può sedersi sul trono di suo padre. Ma i sudditi diffidano della virtù di Sita e costringono Rama a bandirla nella foresta. Nella selva, Sita muore dopo aver partorito due gemelli, avuti da Rama. Quando Rama apprende la notizia, sopraffatto dal dolore, muore, e lo spisrito divino che albergava in lui risale al cielo per riprendere l’aspetto originario del dio Vishnu.Il Mahabharata, cioè il “Grande racconto delle guerre di Bharata”, è un poema ancora più vasto del Ramayana: suddiviso in diciotto libri, è costituito da cento parvan (ovvero, canti) per un totale di centomila strofe.L’autore di questo poema (probabilmente il più lungo del mondo) è un asceta di nome Vyasa, vissuto, pare, nel IV secolo avanti Cristo, il quale, come è sostenuto da molti studiosi indiani, non riuscì a completarlo del tutto, e fu terminato forse da altri poeti in epoche successive.I Bharata, dal nome del capostipite, erano i membri di una antica stirpe guerriera dell’India settentrionale. Il poema, una sorta di “Iliade indiana”, racconta la terribile guerra tra i principali discendenti di Bharata: la famiglia dei cento Kuru (o Kaurava) e quella dei loro cinque cugini spodestati, i Pandava.Costretti all’esilio con l’inganno, i Pandava decidono di tornare dal re Duryodhana per chiedergli che restituisca loro il regno, ma l’usurpatore non solo glielo nega, ma li caccia in malo modo. Allora i Pandava radunano un immenso esercito, avvalendosi anche dell’aiuto di molti re non indiani che inviano loro le proprie truppe, e muovono contro Duryodhana. Dopo una serie di tremende battaglie e alterne vicende guerresche, giunge il giorno dello scontro decisivo: i Pandava affrontano i Kuru nella battaglia di Kuruksetra, dove trovano la morte seicentottanta milioni di uomini, tra cui tutti i Kuru, in quanto costoro non riconoscono la natura divina di Krishna, altro avatar del dio Vishnu, il quale combatte a fianco del principe pandava Arjuna, svolgendo il duplice ruolo di scudiero e di maestro. Con la vittoria dei Pandava, la morte di Duryodhana e l’ascesa al trono di Arjuna, il Mahabharata ha termine: nelle ultime strofe si assiste al ricongiungimento di Krishna con Vishnu e il suo ritorno al cielo, mentre il vecchio e saggio re Yudhisthira, padre di Arjuna, anch’egli morto, giunge al cospetto delle divinità celesti per il Giudizio Finale.Si tratta di due opere molto vaste e complesse, veri e proprio gioielli della poesia indiana. Ma mentre il Ramayana è essenzialmente un poema epico-popolare, che esalta la figura di Rama ponendo in rilievo come questo avatar di Vishnu sia capace di sacrificarsi per amore, affrontando i demoni delle Tenebre ma anche morendo di dolore quando apprende che la sua amata Sita è morta dando alla luce i suoi figli, il Mahabharata è un poema assai più cosmogonico e teologico, infarcito com’è di insegnamenti filosofici, di speculazioni metafisiche, di sermoni etici, di afflati mistici e di introspezione psicologica. Si tratta, in sostanza, di una vera e propria “summa” del pensiero indù, tanto che di questo poema, comunemente si dice che “Tutto ciò che non è nel Mahabharata, non esiste”, quasi a voler rimarcare come in questo poema l’indù possa trovare tutto, ma proprio tutto ciò che gli serve per la sua vita interiore, culturale, speculativa, etica e religiosa. Un poema che si rivela, in fin dei conti, un grande simbolo del dramma cosmico, con le forze oscure dei Kaurava che bandiscono i virtuosi Pandava (rappresentanti della bontà di carattere e del retto agire) e che ben testimoniano come il mondo degli uomini sia costantemente vittima del Male. Dunque, una vera e propria “epica di vita” in cui si illustra che l’esistenza umana altro non è che un difficile viaggio verso un’altra vita, e il suo significato sta nella pratica del Dharma. E, alla fine, la virtù trionfa e il vizio è sconfitto dalla Giustizia Universale.Inoltre, occorre rilevare che, nel Mahabharata, è contenuto uno dei testi più popolari dell’induismo, vale a dire la Bhagavad Gita, ovvero il “Canto del Beato”, una sorta di poemetto lirico, inserito nel ben più ampio poema, sotto forma di dialogo tra il divino Krishna e il principe Arjuna.Si tratta di un’opera composta intorno al 200 avanti Cristo, forse non da Vyasa, ma comunque in perfetta sintonia con il suo stile e con lo spirito del Mahabharata. In questo poemetto, così popolare tra gli indù tanto da essere denominato il “Vangelo dell’India”, Krishna insegna ad Arjuna (e quindi all’intero genere umano) lo Yoga della Conoscenza, costituito da due discipline: lo “yoga dell’azione” (adatto per i guerrieri, che esorta gli uomini di azione a non sfuggire ad essa, qualunque siano le conseguenze della medesima) e lo “yoga dell’amore di Dio” (particolarmente adatto agli asceti, che esorta gli esseri umani a liberarsi di tutte le loro brame e di tutte le loro ambizioni, trovando la piena libertà in una esistenza consacrata unicamente alla meditazione, alla preghiera, all’ascesi e all’amore incondizionato verso Dio).Commentata, nel corso dei secoli, da migliaia di filosofi, mistici e maestri spirituali, la Bhagavad Gita è un tesoro che rifulge all’interno di quel ben più ampio scrigno di tesori poetici, filosofici, mitologici e teologici che è il Mahabharata.Nelle letterature occidentali non esiste opera che possa eguagliare questi poemi per ispirazione poetica, estro, ingegno, armonia e ricchezza culturale e spirituale grazie alle quali i popoli di un intero subcontinente si riconoscono in esso attraverso i millenni. Da essi si sprigiona un fascino irresistibile che continua a sedurre non solo i popoli dell’India di religione induista, ma anche gl’intellettuali, i filosofi e i mistici dell’Occidente che hanno riconosciuto l’immenso valore poetico, filosofico e religioso contenuto in questi due strabilianti poemi che oggi, nell’era della cinematografia e della televisione, hanno conosciuto anche una fortuna eccezionale attraverso la divulgazione cinematografica e televisiva, giungendo a toccare i cuori e le menti di oltre un miliardo di indù.Ecco perché, oggigiorno, non è possibile non conoscere il Ramayana e il Mahabharata, i due principali capolavori della cultura indiana, vere e proprie perle di poesia, di filosofia, di mitologia, di saggezza e di sapienza che brilleranno per sempre come soli nel vasto e variegato cielo del Parnaso dell’India, la magica terra degli Eroi e degli Dei!

                                                                             



giovedì 28 ottobre 2010

MIRCEA ELIADE - IFIGENIA

 FRESCO   DI  STAMPA  PRESSO EDIZIONI  ALL'INSEGNA   DEL   VELTRO                                                              

U N A T R A G E D I A D I M I R C E A E L I A DE

Una tragedia di Mircea Eliade
di Claudio Mutti
Apparso sul suo sito www.claudiomutti.com

Mercoledì 12 febbraio 1941, nella sala "Comedia" del Teatro Nazionale di Bucarest (diretto all'epoca dal romanziere Liviu Rebreanu) andava in scena la prima di Iphigenia, dramma in tre atti e cinque quadri che Eliade aveva scritto alla fine dell'autunno 1939. L'opera fu diretta dal regista Ion Sahighian e musicata da N. Buicliu; la parte della protagonista venne affidata ad Aura Buzescu. Tra febbraio e marzo, si ebbero dieci rappresentazioni, alle quali Eliade non poté esser presente, perché si trovava all'estero da diversi mesi. Le notizie che pervennero all'autore circa il successo del dramma non furono esaltanti: "Mi si disse -scrive Eliade nelle sue Memorie- che mancavo di 'vigore drammatico', il che probabilmente è vero. Se Iphigenia ha qualche merito, bisogna cercarlo altrove"1.
Il testo dattiloscritto del dramma, custodito alla Biblioteca del Teatro Nazionale, fu pubblicato da Mircea Handoca nel 19742; ma già nel 1951 era uscita in Argentina, a cura di un gruppo di esuli romeni, un'edizione ciclostilata del testo, cui Eliade aveva apportato lievi modifiche formali3. L'edizione argentina recava una dedica "alla memoria di Haig Acterian e Mihail Sebastian" e conteneva una prefazione dell'Autore, nella quale si legge: "Pubblico con gioia, ma anche con una stretta al cuore, quest'opera giovanile, che piaceva tanto, quando fu scritta, ai miei amici Haig Acterian, Mihail Sebastian, Constantin Noica ed Emil Cioran. Due degli amici migliori -Acterian e Mihail Sebastian- non sono più tra noi. Dedico loro questo testo, che tutti insieme abbiamo amato nel crepuscolo della nostra giovinezza".
Mihail Sebastian non si era recato alla prima di Iphigenia. "Avrei avuto l'impressione di assistere a una riunione di cuib4", scrive nel suo Diario il drammaturgo ebreo. Questo sospetto gli viene confermato da una telefonata di Nina Mares, la moglie di Eliade, la quale gli dice che l'opera ha avuto un grande successo e che proprio per questo teme che possa essere vietata dalle autorità. Da una ventina di giorni, infatti, il generale Antonescu ha instaurato la dittatura militare e sta cercando di liquidare il Movimento Legionario. Mihail Sebastian si reca dunque ad assistere a una successiva rappresentazione del dramma, ed annota: "Grande insuccesso, uno dei più grandi insuccessi del Nazionale!" Ma aggiunge anche: "Sembrava molto più interessante di quanto, per quel che ricordo, non mi era sembrata quando l'avevo letta. In compenso, lo spettacolo è grossolano, privo di stile, privo di nobiltà"5.
In quegli stessi giorni, Petru Comarnescu (1905-1970) affidava anche lui alle pagine del proprio Diario una annotazione sul lavoro teatrale di Eliade; ma il giudizio di Comarnescu risulta alquanto diverso da quello di Sebastian. "Ifigenia di Mircea Eliade, -scrive- rappresentata al Teatro Commedia (il Nazionale è in restauro in seguito al terremoto), è molto debitrice ad Euripide e Racine, a parte il sogno di Ifigenia e la sua posizione, con cui Eliade vuole ricordare Codreanu. Montaggio grandioso, interpretazione di bravi attori, come Aura Buzescu (Ifigenia) e Mihai Popescu (Achille). Hanno stili diversi di recitazione. Aura Buzescu è statica e lirica, Mihai è irruente, impetuoso, esplosivo, esteriore"6.
Norman Manea, un autore che a detta del suo contribule Heinrich Böll "più di ogni altro [più di Kafka, Musil e Schulz] merita di essere conosciuto in tutto il mondo"7, scriverà mezzo secolo dopo: "Nel 1982, anno nero per via della dittatura di destra e comunista [sic: droitière communiste] di Ceausescu, assistetti a una rappresentazione dell'opera di Eliade Iphigenia al teatro nazionale di Bucarest. L'opera era stata rappresentata per la prima volta nel 1941, un altro anno nero, e poi pubblicata in romeno nel 1951 sulla stampa di destra argentina, il cui proprietario era un romeno espatriato [sic]8. E' innegabile che nel 1941 le tensioni fuori dal teatro, lo stato d'animo degli spettatori, le loro paure, il loro disgusto, la loro prostrazione e la loro disperazione erano in sintonia con il lavoro teatrale, in un malessere estremo, in una specie di esaltazione della morte 'sublime' per una 'causa' gloriosa"9.
Nemmeno a Eugen Weber è sfuggito il rapporto che intercorre tra lo spirito legionario e il tema centrale dell'Ifigenia eliadiana. "In alcune osservazioni introduttive alla sua commedia [sic] Iphigenia (Valle Hermoso 1951), -scrive Weber- il professor Mircea Eliade spiega come jertfa, il sacrificio, sia una concezione arcaica che egli ha già discussa in un'opera del tempo di guerra, Commenti alla leggenda di Mastro Manole (Bucarest 1943). Ifigenia dona la vita per aprire la strada ad un esercito; Manole, il mastro costruttore di una vecchia leggenda romena, sacrifica la sua sposa perché la chiesa che costruisce possa rimanere salda. Il sacrificio umano portato a compimento per far sì che qualcosa come una costruzione duri o resista è equivalente al trasferimento mistico dell'anima dal corpo mortale in una nuova costruzione: non solo è data un'anima alla costruzione, ma la vittima è rivestita con un nuovo corpo, glorioso e più durevole. Per Manole, questo corpo sarà il monastero che egli costruisce. Per Ifigenia, sarà la guerra di suo padre Agamennone e la vittoria contro l'Asia e Troia"10.
Ma tra i fratelli spirituali dell'Ifigenia di Eliade non c'è soltanto Mastro Manole: c'è anche il pastorello della ballata popolare di Mioritza [L'agnellina]. Lo fa opportunamente notare Mircea Handoca, il quale osserva che "la visione d'insieme, le valenze e i significati che lo scrittore attribuisce al mito [si collocano] in uno spazio spirituale mioritico"11 e attrae l'attenzione su queste parole di Ifigenia: "... Come cadono gli astri al mio sposalizio! E il murmure dell'acque, e lo stormir degli abeti, e il gemito della solitudine: tutto è così come l'ho conosciuto..." In effetti, il tema della morte come sposalizio è dominante nelle ultime parole di Ifigenia: "Ricordati, -dice l'eroina eliadiana ad Agamennone- è sera di nozze. Adesso, da un momento all'altro, sarò sposa... Perché tutti hanno fatto silenzio e non si odono più i canti sonori delle vergini? [...] Ma perché non si sentono i canti nuziali? Perché i convitati non intreccian ghirlande di splendidi fiori, e la sposa è rimasta con l'abito triste del giorno? [...] Portatemi il velo di sposa!" Sono parole essenzialmente analoghe a quelle del pastorello di Mioritza: "Di' loro soltanto - che mi son sposato - con una bella regina, - la sposa del mondo; - che al mio sposalizio - caduta è una stella". Studiando la ballata della Pecorella veggente, Eliade dirà che "la morte assimilata a un matrimonio è [un motivo folclorico] arcaico e affonda le sue radici nella preistoria"12. Ma questo motivo d'origine preistorica diventa un elemento importante della spiritualità legionaria: "La morte, solo la morte legionaria - è per noi lo sposalizio più caro tra tutti", dice l'inno del Movimento, scritto dal poeta Radu Gyr. E un altro poeta legionario, Dumitru Leonties, riprenderà il medesimo motivo in Mioritza legionara [L'agnellina legionaria]: "di' a mia madre - [...] che passeggio per le nubi - con i Nicadori - e con i Decemviri, - ché anche loro sono sposi [...]"13.
"Due possenti motivi di mistica della morte -leggiamo in un saggio di Z. Barbu- accendevano l'animo dei legionari. Uno è quello indigeno tradizionale che costituisce il tema centrale di una delle più note ballate romene, Mioritza, dove l'eroe in pericolo di morte riesce a vincere la paura paragonando la morte a un matrimonio in cui egli stesso è lo sposo e sua sposa è la natura. Si è detto spesso che questo era l'atteggiamento 'tipico' dei rumeni verso la morte. Ancora più forte è l'altro motivo, la resurrezione e la vittoria che si conquistano attraverso la morte secondo la mitologia cristiana"14. Al riduzionismo implicito nel richiamo alla "mitologia cristiana" vi sarebbe da obiettare; comunque, qui importa notare come anche questo secondo motivo, la conquista della vittoria attraverso la morte, sia chiaramente attestato in Iphigenia. L'eroina non sarà sacrificata come la moglie di Mastro Manole, murata viva nel muro dell'edificio. "La mia anima -dice nell'imminenza del sacrificio- non rimarrà chiusa entro le mura di un palazzo, come in un corpo di pietra. La mia anima non farà durare nessuna costruzione innalzata da mano d'uomo". La vita postuma e la vittoria di Ifigenia si realizzeranno in un evento assai più grandioso. Alla vista delle fiamme del rogo che brucerà il suo corpo, essa pronuncia queste parole: "Guardate! Il mio sepolcro non sarà nella terra! L'anima di Ifigenia farà sì che trionfi e duri qualcosa di molto maggior valore, di un altro mondo! L'anima di Ifigenia darà vita a una grande guerra, a un sogno lontano! Là mi troverete sempre, nelle vostre azioni eroiche, nel vostro sogno più prezioso, Troia". Col suo sacrificio, spiega Eliade stesso, "Ifigenia sopravvive in quel 'corpo mistico' che era il sogno di Agamennone: la guerra contro l'Asia, la conquista di Troia"15.
Eugen Weber, come si è visto più sopra, cita i Commenti alla leggenda di Mastro Manole nell'edizione del 194316; ma già nell'anno accademico 1936-'37, come supplente del prof. Nae Ionescu, Eliade aveva tenuto un corso sulla leggenda, ponendone in luce la "valorizzazione della morte rituale, l'unica morte creativa"17. E di questo "mito centrale della spiritualità del popolo romeno"18 egli aveva visto una nuova manifestazione nella morte sacrificale di Moa e Marin. "La morte volontaria di Ion Moa e Vasile Marin -scriveva infatti Eliade- ha un significato mistico: sacrificio per la cristianità [...] Ion Moa, il crociato ortodosso, partì coraggiosamente, con la pace nel cuore, per sacrificarsi per la vittoria del Salvatore"19.
Data questa sua indiscutibile conformità con l'ideale legionario del sacrificio generatore di vittoria, possiamo dire che la versione eliadiana della storia di Ifigenia costituisca un uso strumentale del mito greco? O, per dirla con Furio Jesi, una "tecnicizzazione del mito", cioè una di quelle "pseudoepifanie del mito provocate deliberatamente in vista di determinati interessi", che Károly Kerényi distingue nettamente dalle "epifanie genuine del mito, assolutamente spontanee e disinteressate"20? Nemmeno Jesi, nemico giurato di Eliade e della Guardia di Ferro, lo avrebbe potuto sostenere in perfetta coerenza con se stesso, poiché fu proprio lui a contrapporre le "trovate" del fascismo italiano ai rituali legionari, "rituali nel vero senso della parola"21. D'altra parte, Eliade fa quello che secondo il punto di vista di Jesi non è possibile: vale a dire, riattualizza il mito. E ciò, nel senso definito da queste parole di Handoca: "Si potrebbe addirittura parlare di un'autoctonizzazione dell'antica leggenda, assunta dall'autore romeno nei suoi valori originari, e non modernizzata. Mircea Eliade ritorna alle fonti del mito, ad archetipi che si sono successivamente manifestati in una varietà di espressioni artistiche"22.
Per rendersi conto di ciò, sarà sufficiente notare come la dottrina del sacrificio generatore di vittoria sia chiaramente attestata nella tragedia di Euripide. "Io -dice l'Ifigenia euripidea- vengo a dare ai Greci una salvezza apportatrice di vittoria. Portatemi via, io sono l'espugnatrice della città di Ilio e dei Frigi"23. Non è dunque senza una qualche ragione che François Jouan ha equiparato alla "deuotio"24 dei Romani il sacrificio dell'Ifigenia euripidea. Devotio, come è noto, era nella religione romana quella particolare forma di votum per cui il comandante immolava se stesso al fine di conseguire la vittoria in battaglia. "Forza e vittoria" (vim victoriamque) chiede agli dèi il console Decio Mure, al contempo offerente e vittima sacrificale25. Questa concezione dell'autosacrificio che sprigiona forza e produce vittoria riecheggia in Racine, il quale fa dire alla sua Ifigenia: "La sentenza del destino vuole che la vostra felicità sia frutto della mia morte. Pensate, signore, pensate alle mèssi di gloria che la Vittoria offre alle vostre mani valorose. Quel campo glorioso, al quale voi tutti aspirate, se il mio sangue non lo innaffia, è sterile per voi. [...] Già Priamo impallidisce; già Troia in allarme paventa il mio rogo"26.
Ma tra tutte le espressioni artistiche ispirate dal mito, quella che in modo più fedele ed efficace lo riattualizza è certamente l'Iphigenia di Eliade. E non poteva non essere così, perché l'autore romeno fu testimone della devotio di una generazione intera, respirò un'atmosfera satura di spirito sacrificale e raccolse personalmente dichiarazioni che manifestavano una disposizione spirituale "ifigeniaca". Si rileggano alcuni brani delle sue Memorie: "Codreanu credeva alla necessità del sacrificio, pensava che ogni nuova persecuzione avrebbe solo potuto purificare e rafforzare il Movimento [...] Senza dubbio Codreanu è morto, come tanti altri legionari, convinto che il suo sacrificio avrebbe affrettato la vittoria del Movimento. [...] Puiu Gârcineanu mi ripeteva [...] che lo scopo supremo del Movimento non era neanche più la redenzione individuale mediante un eventuale martirio, ma 'la resurrezione della nazione' realizzata grazie a una 'saturazione di torture e di sacrifici cruenti'. La sola smentita massiccia che sia stata data al famoso luogo comune circa la non religiosità del popolo romeno (l'unico popolo cristiano che non ha dei santi, ci veniva continuamente ricordato) è provenuta dal comportamento di alcune migliaia di Romeni nel 1938-1939, nelle prigioni e nei campi di concentramento, perseguitati o liberi che fossero"27.
Fu questo, dunque, lo scenario della riattualizzazione del mito di Ifigenia. Ma, se tale mito conobbe tra il 1939 e il 1941 una "epifania genuina e spontanea", quale fu il ruolo specifico di Eliade? La risposta ci viene discretamente suggerita dall'autore stesso, che il 16 marzo 1974 scrive nel Diario: "Strana coincidenza: ho ricevuto Iphigenia [ed. "Manuscriptum"] mentre scrivevo una novella i cui personaggi sono giovani attori che stanno ripetendo un dramma intitolato Incognito la Buchenwald, un dramma enigmatico, di cui il lettore distingue a fatica l'argomento e il genere; ma, agli occhi dei personaggi e soprattutto di Ieronim Thanase (il direttore di scena della mia novella Uniforme de general), mirava soprattutto alla trasformazione magico-spirituale di tutto l'uditorio"28.
Incognito la Buchenwald [Incognito a Buchenwald] e Uniforme de general [Uniformi di generale] rappresentano una fase particolare della narrativa eliadiana: quella in cui lo spettacolo teatrale viene visto come una forma di rivelazione e di esercizio spirituale. Questo tema si ritrova anche nella novella Adio [Addio], che secondo Nicolae Steinhardt "è un'elegia legionaria"29, nonché nel romanzo Nou[sprezece trandafiri [Diciannove rose], nel quale abbiamo creduto di scoprire accenni criptici all'esperienza legionaria dell'autore30. Quanto a Ieronim Thanase, il personaggio delle due novelle citate da Eliade nel brano di Diario riportato più sopra, egli riapparirà in Nou[sprezece trandafiri, con certe caratteristiche (paralizzato, circondato da giovani discepoli) che ne fanno una sorta di... Julius Evola in versione romanzesca, più o meno come il "dottor J.E." di Secretul doctorului Honigberger [Il segreto del dottor Honigberger]. Eliade, dunque, dice che Ieronim Thanase mira alla "trasformazione magico-spirituale" dell'uditorio; in altre parole, vuole riportare il teatro tragico alla sua funzione catartica. Partito da posizioni idealiste ma assertore della necessità di andare al di là dell'idealismo, Thanase insegna che ciascun evento storico non va solo capito e giustificato, ma va soprattutto inteso come un segno e deve perciò essere decifrato, "giacché ogni evento, ogni vicenda quotidiana comporta un significato simbolico, illustra un simbolismo primordiale, metastorico, universale..."31.
E' evidente che nel personaggio Ieronim Thanase non c'è soltanto Julius Evola, ma c'è lo stesso Mircea Eliade, l' "evoliano" Eliade degli anni trenta, sicché quanto vien detto circa l'azione spirituale che Thanase vuole esercitare sul pubblico vale anche per l'autore di Iphigenia. L'azione "magico-spirituale" di quest'ultimo si svolge secondo il paradigma della grande tradizione tragica, perché, "suscitando pietà e paura, opera la purificazione [katharsis] di tali sentimenti"32. Ma in tal modo la stessa funzione catartica assegnata alla tragedia viene a inserirsi nella strategia spirituale legionaria: quella che Corneliu Codreanu indicò più d'una volta ricorrendo a termini e a immagini corrispondenti ad una vera e propria "grande guerra santa".

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1. M. Eliade, Mémoire II 1937-1960. Les moissons du solstice, Gallimard, Paris 1988, p.58.
2. M. Eliade, Ifigenia, in "Manuscriptum" (Bucarest), a. V, n. 1 (1974). Con una breve presentazione di M. Handoca, Mitul jertfei creatoare [Il mito del sacrificio creatore]. Pagine non numerate. La grafia Ifigenia è soltanto nel titolo; nel testo si trova regolarmente la forma Iphigenia. - "Il 13 marzo, ho ricevuto la rivista Manuscriptum, nella quale Mircea Handoca ha pubblicato Iphigenia, un lavoro teatrale scritto nel 1939, l'unico mio lavoro teatrale che sia stato rappresentato (al Teatro nazionale di Bucarest nell'inverno 1941). Ma io non lo vidi mai, perché nell'aprile 1940 ero stato nominato addetto culturale presso la nostra legazione di Londra" (M. Eliade, Fragments d'un journal II. 1970-1978, Gallimard, Paris 1981, p. 177).
3. M. Eliade, Iphigenia, Cartea Pribegiei, Valle Hermoso 1951. Le nostre traduzioni dei brani della tragedia sono state eseguite sul testo di questa edizione.
4. Cuib, "nido", è la "cellula" dell'organizzazione legionaria.
5. M. Sebastian, Jurnal (inedito), cit. in: C. Ungureanu, Mircea Eliade si literatura exilului [Mircea Eliade e la letteratura dell'esilio], Viitorul Românesc, Bucuresti 1995, p. 140.
6. P. Comarnescu, Romanul generaiei mele [Il romanzo della mia generazione], in România si Europa. Studii si articole selectionate si coordonate de J.C. Dr[gan [La Romania e l'Europa. Studi ed articoli selezionati e coordinati da J.C. Dr[gan], "Revista Fundaiei Dragan" (Roma), n. 10, maggio 1993, p. 459.
7. Il singolare apprezzamento per l'ingegnere ebreo emigrato dalla Bucovina a New York è riportato su un risguardo di Un paradiso forzato di N. Manea, Feltrinelli, Milano 1984.
8. Si tratta, ovviamente, di un'allucinazione di Manea. In realtà, l'edizione argentina di Iphigenia fu "scritta a macchina e stampata da Grigore Manoilescu, con l'aiuto di Andrei Coman", come si legge nel colophon del fascicolo ciclostilato. Quanto ai potenti mezzi economici dell'editore, lo stesso Mircea Eliade scriveva sul periodico "Românul" nel dicembre 1951: "Talvolta arrivano degli operai dall'anima angelica e donano i loro averi affinché si possano stampare i versi e le prose dei nostri sognatori o dei nostri veglianti; è il caso di quell'operaio che sta in Argentina, Ion M[rii, il quale ha donato all'editore di Cartea Pribegiei tutto quello che aveva risparmiato in un anno e mezzo di lavoro (Ion M[rii, primo membro d'onore della Società degli Scrittori Romeni, quando ritorneremo a casa...)".
9. N. Manea, Mircea Eliade et la Garde de Fer, in "Les Temps Modernes", n. 549, aprile 1992, p. 113. Preferiamo tradurre dal testo francese, perché la versione apparsa su "Linea d'ombra", n. 93, maggio 1994 (Felix culpa. Mircea Eliade, il fascismo e le infelici sorti della Romania) è alquanto inesatta. Su questo articolo di Manea, cfr. Ph. Baillet, Prefazione a: C. Mutti, Le penne dell'Arcangelo, Barbarossa, Milano 1994, p. 6.
10. E. Weber, Romania, in: H. Rogger e E. Weber, The European Right. A Historical Profile, Berkeley and Los Angeles, The University of California Press, 1965, pp. 524-525. Cfr. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, in I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 90. "Il riferimento dello storico americano cercava di spiegare, con la persistenza di un nucleo ancor vivo di tradizioni popolari, quell'ansia di autosacrificio che guidò il Movimento nel primo periodo della sua esistenza fino all'instaurazione della dittatura di re Carol II (1938)" (R. Scagno, Libertà e terrore della storia. Genesi e significato dell'antistoricismo di Mircea Eliade, Print centro copyrid, Torino 1982, p. 20). Ci si consenta di osservare che Iphigenia fu scritta nel dicembre 1939 e rappresentata nel 1941, sicché non dovette proprio essersi estinta nel 1938 quell' "ansia di autosacrificio" che Roberto Scagno correttamente indica come caratteristica del Movimento legionario.
11. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, cit.
12. M. Eliade, La pecorella veggente, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, p. 208.
13. D. Leonties, Prin mlastini si furtuni [Attraverso paludi e tempeste], Dacia, Rio de Janeiro 1969, p. 84.
14. Z. Barbu, Romania, in: AA. VV., Il fascismo in Europa, a cura di S.J. Woolf, Laterza, Bari 1968, p. 183.
15. M. Eliade, Iphigenia, cit., p.11.
16. M. Eliade, Comentarii la legenda Meçterului Manole, Bucuresti 1943; nuova ed. in Meçterul Manole, Iasi 1992. Ed. it. in I riti del costruire, cit.
17. M. Eliade, I riti del costruire, cit., p.5.
18. Ibidem.
19. M. Eliade, Ion Moa çi Vasile Marin [Ion Moa e Vasile Marin], "Vremea", 472, 24 gennaio 1937.
20. F. Jesi, Mito, Isedi, Milano 1973, p. 107.
21. F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979, p. 32.
22. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, cit.
23. " soterìan Hellesi dosous' erchomai nikeforon". )/Agete me tan Iliou kai Frugon heleptolin" (Iphig. Aulid., 1473-1476).
24. F. Jouan, Notes complémentaires, in: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, Paris 1983, p. 152.
25. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
26. "Et les arrêts du sort - Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. - Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire - Qu'à vos vaillantes mains présente la Victoire. - Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, - Si mon sang ne l'arrose, est stérile pour vous. [...] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes - Redoute mon bûcher" (Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
27. M. Eliade, Mémoire II 1937-1960. Les moissons du solstice, cit., pp. 35-40.
28. M. Eliade, Fragments d'un journal II. 1970-1978, cit., ibidem.
29. N. Steinhardt, Jurnalul fericirii [Il diario della felicità], Dacia, Cluj 1994, p. 368.
30. C. Mutti, Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1989, pp. 47-55.
31. M. Eliade, Diciannove rose, Jaca Book, Milano 1987, p. 83.
32. Arist., Poeth. 1449 b.
Inserita il 09/10/2005 alle 22:56:50





Mircea Eliade, L'isola di Euthanasius

Scritti letterari, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2000, pagg. 310, Euro 23,24.

                                                            **********
Non sono per fortuna molte le opere non ancora tradotte nella nostra lingua dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907--1986): restano preclusi ormai solo pochi lavori narrativi e qualche testo teorico giovanile più che altro in forma di articolo o recensione su rivista. A questa seconda categoria di scritti attinge la Boringhieri recuperando una raccolta di collaborazioni a vari periodici rumeni risalenti al periodo compreso tra il 1932 e il 1939, ad una fase cioè ancora relativamente acerba della produzione dell'autore in cui la sua inconfondibile prosa non si è ancora trasfusa dal nativo rumeno nelle lingue di adozione dei capolavori più tardi: il francese prima e l'inglese poi.
La versatilità e la profondità del pensiero di Eliade già si mostrano pienamente, come innegabili "promesse dell'equinozio", in questi brevi testi in cui il giovane studioso si cimenta, mostrando identica padronanza, con argomenti disparati che vanno dalla critica letteraria (si affrontano autori come Huxley, Chesterton, Unamuno, Bernard Shaw, Julien Green, testimoniando anche un'approfondita conoscenza della lingua e della letteratura italiana con trattazioni di grande originalità dedicate a scrittori classici del nostro Novecento come Italo Svevo, Gabriele D'Annunzio, Giovanni Papini) all'architettura simbolica, dall'analisi del folklore all'iconografia indiana. L'insieme apparentemente eterogeneo dei contributi, però, non ha nulla dell'enciclopedismo d'occasione ed esprime già una precisa e coerente visione del mondo che sarà propria anche delle opere maggiori e più mature di Eliade. Gli spunti letterari, artistici, iconografici o aneddotici offrono il pretesto all'autore per esporre, già ben salde e definite, le sue concezioni antistoricistiche fondate sull'ecumenicità del simbolo che pervade le culture tradizionali orientandone il più piccolo gesto ed espressione "verso una realtà transumana".
A questo proposito, il volume contiene alcuni saggi particolarmente espliciti, come quello dedicato ad Ananda Coomaraswamy, in cui si evidenziano le influenze e le tangenze culturali, in seguito in parte rinnegate, del futuro fenomenologo delle religioni con l'ambiente del "tradizionalismo integrale" e nei quali vengono evocate più volte le figure di René Guénon e Julius Evola(1). Altrettanto esplicite però già emergono le differenze e le distanze fra l'aspirante accademico e gli alfieri della Tradizione: in Eliade l'aggettivo "tradizionale" è sempre utilizzato con valenza descrittiva e mai normativa come invece è d'uso nella Trimurti tradizionalista; inoltre i concetti ricavati dal pensiero tradizionalista vengono impiegati dal rumeno “in senso puramente morfologico, come categorie esplicative per comprendere la 'metafisica arcaica'. Pertanto, egli per giustificare la presenza universale (o almeno metaculturale) di determinati simboli non fa mai riferimento alla Tradizione primordiale, né tantomeno si richiama ad un sapere 'esoterico' ed 'iniziatico'(2)”; infine niente fa pensare, già in questo primo Eliade, ad una sua accettazione della visione ciclico-devolutiva della storia, “Se Eliade giudica la concezione positivistico-meccanicistica del cosmo come un insterilimento rispetto ad una Weltanschauung arcaica, non per questo condivide la nozione guenoniana di una progressiva decadenza, anzi: a parte l'eccezione negativa della scienza e tecnologia moderne, nella storia dell'umanità ogni nuova scoperta rende possibile conquistare 'nuovi campi di esperienza'(3)". Non secondaria è anche un'altra differenza di approccio: se la presenza metaculturale dei temi mitico-simbolici (per la cui definizione in seguito Eliade svilupperà una terminologia caratteristica debitrice più che altro degli studi di Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw e Raffaele Pettazzoni: coincidentia oppositorum, rottura di livello, ierofania, ecc.) esclude il ricorso alla philosophia perennis, la ragione della sua ecumenicità si riduce ad un sentimento naturale e pertanto universale, ad un “bisogno fondamentale dell'uomo” che ovunque prova identici sentimenti ed aspirazioni. Per i tradizionalisti invece, e per Guénon in particolare, il “sentimento religioso” starebbe alla base della difformità, non certo dell'identità delle religioni: “mentre l'intelligenza è una […] la sentimentalità è composita” (Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù).
Anche la nozione di autonomia del sacro e la dialettica fra sacro e profano elaborate in seguito dall'Eliade maturo, sarebbero inquadrabili esclusivamente in una prospettiva fenomenologica in quanto per i tradizionalisti una distinzione fra sacro e profano sarebbe tipica del solo mondo moderno e non delle civiltà tradizionali. È comunque vero che nel saggio su Coomaraswamy come in altri di questa raccolta, Eliade mostra forse le maggiori affinità terminologiche ed interpretative con i pensatori della Tradizione di tutto il suo lungo percorso intellettuale: ad esempio concorda apertamente con lo studioso anglo-cingalese e con Guénon nell'indicare nel Rinascimento e nella rivoluzione industriale europea la cesura definitiva fra Oriente ed Occidente: “se tra cultura moderna occidentale e spiritualità asiatica non esistono punti di contatto, Aristotele. San Tommaso, Dante o Meister Eckhart fanno parte di una tradizione metafisica che l'Oriente tutt'ora condivide”.
Un altro scritto di una certa importanza per gli sviluppi teorici futuri del pensiero dell'autore a questo riguardo, è la recensione della monumentale opera di Paul Mus dedicata all'analisi dell'iconografia del tempio buddista giavanese di Barabudur. Molti dei concetti sviluppati in seguito nelle sue opere maggiori derivano allo studioso rumeno dalle riflessioni indotte dall'approfondimento di questo volume e sono già tutti abbozzati nella sua breve presentazione critica del 1937: il tempio come rappresentazione simbolica dell'universo, come "centro del mondo", òmphalos, immagine architettonica del cosmo, quadrante regolatore dell'ordine spaziale e temporale, costruibile ovunque “poiché ovunque si poteva erigere un microcosmo di pietra e di mattoni”; i sacrifici umani compiuti durante i riti di costruzione per dare un'anima all'edificio e la leggenda rumena di Mastro Manole in cui Furio Jesi o Daniel Dubuisson e, specularmente, Claudio Mutti e Philippe Baillet, avrebbero voluto leggere inquisitoriamente le premesse mitiche della 'mistica legionaria' della morte e dell'ideologia guardista mai rinnegata da Eliade(4). Da questi spunti l'autore avrebbe invece tratto la propria accezione del termine archetipo, inteso come "paradigma", “modello esemplare --rivelato dal mito e riattualizzato nel rito”, con riferimento “a Platone e a sant'Agostino” e in parte a Eugenio d'Ors, piuttosto che a Carl Gustav Jung. E proprio nella fondamentale nozione di archetipo l'Eliade della maturità troverà la risoluzione concettuale da opporre a quella "visione pessimistica" che aveva sempre rinfacciato ai teorici della Tradizione: l'archetipo, come struttura invariante della coscienza, accomuna "arcaico" e "moderno", la permanenza degli archetipi e dei simboli nelle opere d'arte, nella letteratura, nelle manifestazioni creative del mondo contemporaneo continua a conferire valore e significato all'esistenza umana, "l'archetipo arcaico continua ad essere creatore, anche quando è 'degradato' a livelli di valorizzazione sempre più bassi […] continua a creare 'valori culturali' […]. L'assoluto non può essere estirpato ma solo degradato” (Eliade, I riti del costruire). Attraverso l'ermeneutica storico-religiosa il cui compito è rivelare, nel mondo moderno apparentemente desacralizzato, le strutture simboliche archetipali --degradate e camuffate-- è possibile, nel dare loro un senso, riscattarle dall'involuzione creando le premesse per “il rinnovamento spirituale dell'uomo moderno”.
La dicotomia tradizionale/moderno, irriducibile per gli esponenti della philosophia perennis, viene così positivamente risolta dall'interpretazione dell'universo simbolico-archetipale, sostrato comune sia all'ontologia arcaica che alle espressioni delle culture moderne. Come già anticipa lo studioso nel saggio che dà il titolo alla raccolta: “questi simboli […] dimostrano d'essere ecumenici, validi dunque metafisicamente, e al loro riguardo nessuna ermeneutica risulta eccessiva” (Eliade, L'isola di Euthanasius).

Walter Catalano

1 Sulla questione ci riferiremo al saggio di Paola Pisi I 'tradizionalisti' e la formazione del pensiero di Eliade, contenuto in Confronto con Mircea Eliade: Archetipi mitici e identità storica, Jaca Book, Milano 1998, pagg. 43 e segg.: “Nei saggi prebellici […] i tre autori [Guénon, Evola e Coomaraswamy] vengono citati insieme e assunti come esponenti paradigmatici di una svolta nell'interpretazione delle culture, in opposizione al precedente positivismo evoluzionista: il 'tradizionalismo' evidentemente rappresentava allora per lo studioso romeno un indirizzo di pensiero innovativo, degno di confronto e di interesse scientifico” (pag. 47).
2 Ivi, pag. 53.
3 Ivi, pag. 53.
4 A questo proposito, ma senza dilungarci sull'abusata questione, si possono mettere in evidenza in questo volume alcuni saggi, scritti quasi contemporaneamente alla presunta militanza di Eliade nella Guardia di Ferro, in cui il giovane scrittore rivela posizioni ben lontane dall'antisemitismo che, in teoria, avrebbe dovuto condividere: Prima e dopo il "miracolo biblico", Tra Elefantina e Gerusalemme, Riguardo a Gobineau.



domenica 24 ottobre 2010

LA GERMANIA E L'ISLAM

La Germania e L’Islam
                                                                                    
                                                                                            
Scontro di civiltà o multi cultura.

Non che in Germania manchino gli istigatori, i predicatori dell’odio e gli eterni divulgatori del panico gratuito, anzi. Quello che però fa la differenza sono i toni più civili, la mancanza di show con urla e insulti, le soluzioni conseguenti.
Ad esempio Thilo Sarazzin, ex senatore delle finanze del comune di Berlino, ex Consigliere Direttivo della Deutsche Bank. Ex senatore perché più volte indagato per dubbi finanziamenti in progetti discutibili. Ex Consigliere Direttivo della Deutsche Bank perché è stato letteralmente cacciato dopo l’uscita del suo libro “La Germania si distrugge da sé”, nel quale, tra le altre banalità proprie del genere, ha scritto: «Non voglio che il paese dei miei nipoti e dei miei antenati diventi rapidamente musulmano, nel quale il turco e l’arabo sono parlati correntemente, dove le donne portano il velo e dove il ritmo della vita quotidiana dipende dalle chiamate del muezzin». Il Consiglio Direttivo all’unanimità ha chiesto al Presidente della Federazione, Christian Wulff, l’allontanamento di Sarazzin ottenendo l’approvazione e il consenso di governi e istituzioni internazionali.
L’istigazione, in Germania, non paga.
Il tre ottobre, giorno della riunione delle due Germanie, il Presidente Christian Wulff (cristiano democratico) ha pronunciato un discorso che ha fatto scalpore.
Dopo aver affermato che ormai est e ovest appartengono con pari dignità alla nuova società della Germania unita, ha affermato che, oltre all’ebraismo e al cristianesimo, ormai anche l’Islam (ca. quattro milioni di cittadini) appartiene alla cultura tedesca.
Numerose e stizzite le smentite, soprattutto nel partito cristiano sociale (CSU, partito tradizionalmente bavarese) e anche nello stesso partito democratico cristiano (CDU). La stessa cancelliera, Angela Merkel, si è affrettata a puntualizzare che “la società multiculturale è fallita”. Anche se a pappagallo la frase è riportata e fatta propria da tutti i media e politici improvvisamente elettisi difensori dell’Europa dai valori cristiani, nessuno sa cosa voglia dire.
La società italiana, fatta di tradizioni e culture montane dalla val d’Aosta al Friuli, tradizioni e culture contadine della pianura padana, dalle culture e tradizioni marinare di Venezia, Genova, Mazara del Vallo, non è già una società multiculturale? La presenza di popolazioni che parlano il francese, il tedesco, lo slavo, il sardo, idiomi e dialetti farciti di volta in volta da vocaboli arabi, fenici, greci, albanesi, turchi, non costituisce della società italiana, anche senza la presenza di immigrati, una società multiculturale? Gli spaghetti, il torrone, il caffè, il tabacco, le banali patate, la “padana” casoéla e la cotoletta alla “milanese”, non sono forse retaggio dell’incontro con altri popoli? In Germania la situazione, cambiati i fattori, è la stessa. Prussiani, bajuvari, francesi, sudeti, danesi, sorabi, frisoni, cattolici, protestanti, pagani, atei, contadini, montanari, pastori, marinai, … Una varietà di etnie, religioni, lingue, tradizioni da una regione all’altra, tanto da rendere necessaria una struttura federativa dello Stato con larghe autonomie legislative locali per soddisfare necessità particolari. Anche le festività nel calendario variano da Regione a Regione.
Allora, cosa vuol dire dichiarare il fallimento della società multiculturale?
La società, tutte le società, sono multiculturali. Non esiste una società monolitica, altrimenti si dovrebbe definire “moneitá”.
Christian Wulff ha quindi avuto il coraggio di definire le cose così come sono rompendo con l’ipocrisia della politica della divisione e della discriminazione.
La civiltà umana è una, le sue manifestazioni nell’arte, nella cultura, nella religione, nella lingua e nel colore della pelle, sono molteplici.
Voler stabilire una classifica è una follia.
Forse sarebbe il caso di ricordare ai predicatori dell’odio e della divisione la metafora del corpo umano, nel quale non esistono parti più o meno nobili, ma un’armonia e un’interazione che permettono la sopravvivenza di tutto l’organismo.
Il disegno di Dio, del Dio di tutte le Religioni, non mi sembra difficile da intuire.

Tratto da il Derviscio - Pubblicato il 24 ottobre 2010 da Stefano





lunedì 18 ottobre 2010

LETTERA DI AHMADINEJAD AL PAPA BENEDETTO XVI°.

In nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso,

A Sua Eccellenza Papa Benedetto XVI,
guida dei cattolici del mondo,
                                                                                        
porgo i miei saluti più calorosi ed affettuosi a Sua Eccellenza e ringrazio Lei ed il Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso per le vostre posizioni di condanna nei confronti dell’atto privo di saggezza di una chiesa nello Stato americano della Florida che con la sua offesa alla sacra Parola di Allah ha riempito di dolore i cuori di milioni di musulmani.
Le condizioni particolari del mondo d’oggi e la mancanza d’attenzione del genere umano agli insegnamenti delle religioni monoteistiche che purtroppo è causata da dottrine come il Secolarismo e l’Umanesimo eccessivo Occidentale e dalla propensione folle alla vita mondana, dall’utilitarismo e dalla passionalità, hanno creato una situazione di decadenza morale nelle società danneggiando soprattutto il concetto della famiglia la vita dei giovani. Per questo sono necessarie strette collaborazioni e relazioni tra religioni celesti per controllare questi fenomeni distruttivi.
Il messaggio più elevato dei profeti divini è stato l’invito al monoteismo e, accettando tale principio, la lotta contro l’oppressione e lo sforzo per l’instaurazione della giustizia; per questo i fedeli delle religioni abramitiche, dovrebbero lavorare insieme per rafforzare la giustizia ed eleminare oppressione e violenza; dovrebbe impedire le discriminazioni ed eliminare in questo modo le tensioni e le difficoltà nelle equazioni internazionali; affinchè l’odio si allontanti dal genere umano.
La Repubblica Islamica dell’Iran, in quanto Nazione fondata sul rispetto della religione e sulla democrazia, ha sempre inserito tra le priorità della sua politica estera la cooperazione e lo sviluppo delle relazioni bilaterali con il Vaticano nella speranza che queste relazioni con la Santa Sede possano essere utili per risolvere i problemi della società umana come l’offesa alle religioni ed ai profetti divini, il secolarismo, l’islamofobia e l’indebolimento del sacro nucleo della famiglia.
Il sottoscritto esprimendo la sua ammirazione speciale per le opinioni di Sua Eccellenza e gli sforzi profusi per sradicare la violenza e la discriminazione sottolinea nuovamente l’importanza della religione per la soluzione dei problemi mondiali e dichiara la disponibilità della Repubblica Islamica dell’Iran a intraprendere sforzi congiunti per contribuire alla modifica degli equilibri ingiusti che dominano il pianeta.
Mi auguro che con la Benevolenza dell’Unico Dio e con le cooperazioni bilaterali, si possano gettare le basi per la creazione di un mondo sempre più attento e attaccato alla vita spirituale, alla moralità, alla pace ed alla giustizia.
Imploro Allah l’Altissimo di donare salute a Sua Eccellenza di concederLe sempre maggiore successo nella diffusione del messaggio dei profeti divini.



domenica 3 ottobre 2010

Fatuba li Ghurabaa

Saturday, 2 October 2010                                          
Ecco un link davvero interessante! Peccato sia anche questa volta in inglese:

Ed ecco qui di seguito la sua traduzione in Italiano per chi non capisse la lingua inglese. Abbiate soltanto in considerazione che non si tratta di un testo scritto ma trascritto da un discorso, ecco il perche' di alcune imperfezioni.

Fatuba li Ghurabaa
Khaled Yasin
I compagni del profeta Muhammed (pace e benedizione su di lui), la generazione seguente, e l’altra ancora dopo, questi uomini e donne che gli vivevano accanto, che lo circondavano, che lo sostenevano, che lo ascolatavano, che gli obbedivano, che lo amavano, che si sacrificavano, per il Messaggero di Allah ...tutti essi erano degli Strangers, dei Diversi, degli Altri. Il Profeta (pace e benedizione su di lui) disse :”Questa religione e’ iniziata come qualcosa di strano , Waseya audhu li gariban, fatuba li ghurabaaa, fatuba li ghurabaa, fatuba li ghurabaa: Il Messaggero di Allah (pace e benedizione su di lui) disse:” Questa religione, questa deen e’ venuta all’inizio come qualcosa di strano e ritornera’ come qualcosa di strano, dunque benvenuto! Buone novelle ai “diversi” : noi siamo i “diversi”. E quando il Profeta (pace e benedizione su di lui), che era ben conosciuto al suo popolo come el amin (l’onesto), sadikum masduq (veritiero, sempre creduto) (pace e beendizione su di lui), sapevano che era Muhammed ibn Abdullah , e sapevano che era el amin, sapevano che diceva sempre la verita’, ma quando Allah (Subbhnau wa taala) disse che bisognava sottomettersi al Corano, e che tutti dovevano seguire lui e ascoltare le sue parole, e di abbandonare gli idoli, e di obbedire Allah e di venerare Allah (Subbhanau wa taala), essi pensarano che egli stesse proferendo delle parole strane. Ed egli disse loro: “Popolo dei Coreisciti, voi mi conoscete bene , se vi dicessi che c’e’ un esercito nascosto dietro questa montagna che sta venendo per distruggervi, mi credereste?”Essi gli risposero:”Ma certo che ti crederemmo”. Ed allora vi sto dicendo che io sono il Messaggero di Allah e che voi dovete obbedermi .“ Ma per loro egli stava soltanto proferendo delle parole strane. ll Profeta (pace e benedizioni su di lui) era rispettato, fidato , amato, conosciuto dalla sua gente, persino suo zio , quel giorno divenne uno dei “diversi”. E ‘Umar Ibn Khattab, il patriota/nazionalista e difensore degli Arabi, fra i Coreisciti, l’uomo che aveva intenzione di andare ad uccidere il Profeta (pace e benedizioni su di lui) soltanto per questo sentimento di qaummia (patriottismo, nazionalismo) , aveva intenzione di farlo, ma quello stesso giorno che stava andando ad uccidere il Profeta (pace e benedizioni su di lui) persino lui divenne un “diverso”. Quello stesso giorno! [...]
Io lavoro il Sabato , la Domenica, faccio i doppi turni, lo faro’ in qualsiasi momento ma il Venerdi e’ il tempo per Allah! Ci vediamo![...]
La gente si chiedeva cosa fosse accaduto a Mohammed: dopo un paio di mesi, Mohammed aveva una lunga barba, e gli chiesero:”Mohammed cosa ti e’ successo? Assomigli ad Usama bin Laden, assomigli a questa gente , che cosa ti sta succedendo Muhammed, sei diventato un estremista?”. Mohammed gli rispose:”No, io non sono diventato un estremista,e non voglio che mi si indichi in questo modo, questo fa parte della Sunnah (cioe’ dei modi di fare) del Profeta Mohammed (pace e benedizioni su di lui) e se a te non piace, non mi interessa affatto!”
[...]
Non dovremmo preoccuparci di essere considerati dei “diversi”. Diventare dei “diversi” puo’ cambiare la nostra vita: la gente potrebbe fraintenderci, persino noi stessi potremmo a volte avere dei dubbi su noi stessi. “Perche’ ho perso tutti i miei amici? Come puo’ mia moglie chiedermi il divorzio dicendo che sono diventato un estremista?”
Oppure c’e’ il caso di una sorella: ella non si copre, mette il rossetto quando esce, si profuma, lavora nel mondo dei non musulmani, e suo marito ha la sua stessa mentalita’. Ma un bel giorno ella si sveglia! E indossa il niqab! Ed indossa un bel abito lungo, niente piu’ rossetto, niente piu’ profumo, non parla piu’ ad altri uomini, e si licenzia in quanto vuol tenere la sua modestia , vuol vivere un pochino piu’ in disparte, starsene a casa a badare alla famiglia. Ma suo marito le dice:”Cosa ti sta succedendo?” Ella gli risponde:”Ieri ho letto un verso del Corano e degli Ahadith del Profeta (pace e benedizione su di lui) e mi sono commossa pensando alla mia religione e non voglio fare piu’ la vita di prima”. Allora suo marito le rispose:”Be’ allora non ti voglio! Sei diventata un’estremista!”Allora ella e’ diventata adesso una dei “diversi”, Al Hamdulillah!(ringraziando Dio). Be’ se lui la lascia, noi chiediamo ad Allah di darle un altro “diverso”, di metterle al fianco un’ altra persona, che sia anche lui un “diverso”. Perche’ i “diversi” appartengono ai “diversi”.
[...]
O fratelli e sorelle , tutti noi, voi ed io, dovremmo bramare di diventare dei “diversi” , noi dovremmo desiderare di far parte del ritorno dei “diversi” e dovremmo comprendere che non importa cosa facciano i non musulmani , non importa quello che facciano per spegnere la fiamma di Allah, cercando di annientare i musulmani con la loro televisione, con il loro cinema, con i loro quotidiani, con i loro libri, le radio...qualsiasi cosa facciano contro l’Islam , tutte le loro menzogne, tutte le loro mistificazioni e travisamenti, tutti i loro errori, qualunque cosa possano fare per spazzare via l’Islam dalla faccia dalla terra, non gli servira’ al loro scopo perche’ Allah “mutimmunurihi wa lau qariah al kafirun”, Allah perfezionera’ la sua luce, e la perfezionera’ attraverso i “diversi” . E noi chiediamo ad Allah (Subbhanau wa taala) di fare di me e di voi dei “diversi”, noi chiediamo ad Allah (Subbhnau wa taala ) che dia ai nostril figli e alle nostre figlie amore verso i “diversi” , noi chiediamo ad Allah (Subbhnauwa taala) che nonostante si siano tolti i propri abiti da dosso, andando nel mondo della Jailiya (degli errori) vendendo droghe, e andando nei clubs, per tutti quelli che sono sulla strada sbagliata gia’, chiediamo ad Allah (Subbhnau wa taala) che ritornino sui loro passi affinche’ diventino dei “diversi”. Noi chiediamo ad Allah (Subbhnau wa taala) che tutti musulmani che sono in moschea questa sera, gli uomini che sono qui in questa moschea, ritornino prooprio qui in questa stessa moschea non soltanto la sera, ma anche per la preghiera dell’alba (fajr) cosi’ che preghino insieme , perche’ quando i musulmani in Palestina, quando i musulmani in Afghanistan, quando i musulmani in Somalia, quando i musulmani in Cecenia, quando i musulmani in Egitto, quando i musulmani in Marocco, quando i musulmani in Algeria, quando i musulmani di qualsiasi altro lugo, quando escono fuori , e vanno a pregare nelle moschee, diventano dei “diversi”, be’ allora Allah gli ridara’ la Terra, Allah gli ridara’ l’eredita’, Allah gli ridara’ la forza...... e allora l’Islam ritornera’. Ma non dovreste chiedere la ricompensa che avranno i “diversi” se non sarete attivi come i “diversi”
Tradotto da Cinzia Amatullah
fonte: Khaled Yasin, Ghurabaa http://www.youtube.com/watch?v=IN4lFNbANPY
Che Dio faccia di tutte noi, dei nostri mariti, dei nostri figli/e, delle nostre sorelle/fratelli, dei nostri genitori dei "DIVERSI" che lottano nel suo nome amin!
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