martedì 29 dicembre 2009

Ma vi siete mai chiesti…loro che cosa vogliono?

Loro (secondo voi) sono obbligate a metterlo.
Noi vogliamo obbligarle a toglierlo.
Ma vi siete mai chiesti…loro che cosa vogliono?

Vi siete mai chiesti come si sentono quando vanno in giro e sentono bisbigliare intorno? Come si sentono quando vengono insultate per strada? Come si sentono quando vengono praticamente cacciate da un negozio? Vi siete mai chiesti come si sentono a sentirsi chiamare sacchi della spazzatura? Vi siete mai chiesti chi c’è sotto quel niqab che vi fa tanto paura? Ci sono delle donne…donne che amano, che ridono, che piangono, che sognano… DONNE!!!!!!

Ma davvero delle donne vestite in questa maniera, vi fanno così paura?????


AmatAllah (il blog-biblioteca di Umm Usama)

BETSABÈ
Pubblicato in donne mussulmane etc. 2commenti, ecco:
Dicembre 27, 2009 di ummusama
بسم الله الرحمان الرحيم
Assalamu ‘alaykum waRahmatullahi Ta’ala waBarakatuH
Pubblicato in donne musulmane, hijab, islam-occidente
2 Commenti
su Dicembre 28, 2009 a 2:02 pm
Replica Betsabè

wow,sono diventata famosa… è che giorni prima di quel post a me e alla mia amichetta niqabata ci avevano cacciate da un negozio…cose assurde…odio l’ignoranza.

ora mi faccio un giro nel tuo blog.


su Dicembre 28, 2009 a 5:35 pm

Replica Mujahida

…l’amichetta niqabata sarei io, mashaa Allah…
E ti assicuro, cara ukhti, che Bet mi difende strenuamente anche quando l’ignoranza e l’intolleranza provengono dalle stesse sorelle e dagli stessi fratelli nell’Islam…subhana Allah!!!
Comunque continueremo a lottare affinchè il nostro diritto di compiacere Allah venga rispettato, insha Allah.
Un abbraccio!!!






mercoledì 23 dicembre 2009

Trovato neonato in una stalla: polizia e servizi sociali indagano



«Arrestati un falegname e una minorenne».
Betlemme, Giudea – L’allarme è scattato nelle prime ore del mattino, grazie alla segnalazione di un comune cittadino che aveva scoperto una famiglia accampata in una stalla. Al loro arrivo gli agenti di polizia, accompagnati da assistenti sociali, si sono trovati di fronte ad un neonato avvolto in uno scialle e depositato in una mangiatoia dalla madre, tale Maria H. di Nazareth, appena quattordicenne.
Al tentativo della polizia e degli operatori sociali di far salire la madre e il bambino sui mezzi blindati delle forze dell’ordine, un uomo, successivamente identificato come Giuseppe H. di Nazareth, ha opposto resistenza, spalleggiato da alcuni pastori e tre stranieri presenti sul posto. Sia Giuseppe H. che i tre stranieri, risultati sprovvisti di documenti di identificazione e permesso di soggiorno, sono stati tratti in arresto.
Il Ministero degli Interni e la Guardia di Finanza stanno indagando per scoprire il Paese di provenienza dei tre clandestini. Secondo fonti di polizia i tre potrebbero essere degli spacciatori internazionali, dato che erano in possesso di un ingente quantitativo d’oro e di sostanze presumibilmente illecite. Nel corso del primo interrogatorio in questura gli arrestati hanno riferito di agire in nome di Dio, per cui non si escludono legami con Al Quaeda. Le sostanze chimiche rinvenute sono state inviate al laboratorio per le analisi.
La polizia mantiene uno stretto riserbo sul luogo in cui è stato portato il neonato. Si prevedono indagini lunghe e difficili. Un breve comunicato stampa dei servizi sociali, diffuso in mattinata, si limita a rilevare che il padre del bambino è un adulto di mezza età, mentre la madre è ancora adolescente. Gli operatori si sono messi in contatto con le autorità di Nazareth per scoprire quale sia il rapporto tra i due. Nel frattempo Maria H. è stata ricoverata presso l’ospedale di Betlemme e sottoposta a visite cliniche e psichiatriche. Sul suo capo pende l’accusa di maltrattamento e tentativo di abbandono di minore.
Il “Comitato per la sicurezza dei cittadini” ha espresso il suo riconoscimento per l’operato delle forze dell’ordine e ha annunciato un presidio con raccolta di firme per l’espulsione immediata dei clandestini, mentre da piú parti si richiede un inasprimento della pena per il reato di pedofilia.

Buon Natale a tutti

StefanJ

(Il Derviscio)

http://ilderviscio.wordpress.com/

martedì 22 dicembre 2009

UN MUEZZIN AD AMBURGO?

Il Vescovo Protestante di Amburgo, signora Maria Jepsen, è favorevole.
Due notizie interessanti sui giornali tedeschi di questi giorni.

La prima riguarda le banche e la finanza islamicamente corretta.


“In Germania, le banche spesso non hanno coscienza etica”. Lo ha dichiarato Reinhard Loeffler, portavoce per l’economia del gruppo parlamentare della CDU del Baden-Württemberg. “L’industria finanziaria ha portato il mondo sull’orlo del baratro.” Cosa abbiamo imparato da tutto ció? Nulla, è il parere dell’ex manager dell’IBM: “Pasticciamo come prima”. Alla ricerca di alternative Loeffler si è imbattuto nei servizi bancari compatibili all’Islam. In particolare è rimasto affascinato dal divieto degli interessi sul credito e della speculazione finanziaria.
“Abbiamo bisogno di guardare alle altre culture e agli altri modi di pensare”, dice Loeffler, “In un mondo globalizzato, dobbiamo imparare gli uni dagli altri”. Con quattro colleghi di partito, Loeffler ha presentato una richiesta al Ministero dell’Economia perché si confronti con la finanza islamicamente corretta.
“Le obbligazioni del Baden-Wurttemberg e le obbligazioni tedesche “islamicamente corrette” stanno vendendo bene” ha dichiarato Loeffler. Tuttavia, il Baden-Wuerttemberg, non è stato un pioniere delle obbligazioni islamicamente corrette. Nel 2004 la Sassonia-Anhalt ha emesso titoli di Stato conformi alla sharia ( Sukuk). Per i 100 milioni di emissione di obbligazioni in euro, i tedeschi dell’est hanno vinto molti clienti in diversi Stati arabi.

La seconda notizia riguarda il Vescovo Protestante di Amburgo, signora Maria Jepsen. No, la notizia non è che anche una donna puó arrivare alla massima carica della Chiesa Protestante.
E giá questo…
Poche settimane fa è stato reso noto che in una moschea del centro di Amburgo si sta discutendo sulla possibilitá di chiamare alla preghiera del venerdí i fedeli attraverso il richiamo del muezzin. Il Vescovo protestante della cittá, signora Maria Jepsen, si è detta favorevole a patto che gli abitanti del quartiere prendano parte ad una discussione preventiva. Il Vescovo si è dichiarata soddisfatta che le Religioni non Evangeliche ad Amburgo non siano piú costrette a nascondersi in cortili e garage e che in cittá è possibile trovare Sinagoghe, Moschee, anche col minareto, Templi e Logge. Inoltre il Vescovo si è detto sicura che ad Amburgo nessuno si sarebbe sognato di sottoscrivere un divieto per la costruzione dei minareti come in Svizzera.
Il Vescovo, signora Jepsen, era giá salito agli onori delle cronache quando, alla conclusione di un congresso di delegati della Chiesa Protestante tedesca, aveva chiesto ai suoi colleghi pronti a tornare nelle loro diocesi di appartenenza, di non fermarsi a fare benzina ai distributori Shell a causa delle politiche colonialiste della compagnia.

In Italia la Lega pensa ad una legge anti-minareti sul modello svizzero.
Pubblicatoda Stefano il 21 dicembre 2009 su Il Derviscio


ABBONAMENTO NATALIZIO AD EURASIA, LA RIVISTA DI STUDI GEOPOLITICI








Su richiesta della Direzione di Eurasia,
Pubblichiamo questo spot pubblicitario. Janua Coeli

Cari Amici, Lettori ed Abbonati,

l'Editore, la Direzione e la Redazione di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”, vi augurano buone feste ed un felice anno nuovo.

Abbiamo pronto per voi un regalo di Natale che speriamo vi riuscirà gradito: chi s'abbonerà a “Eurasia” entro il 31 dicembre godrà d'un trattamento speciale!

L'abbonamento per 3 numeri costerà € 45 anziché € 50. L'abbonamento per 5 numeri costerà € 70 anziché € 80. L'abbonamento sostenitore (5 numeri + 2 quaderni di geopolitica) costerà € 90 anziché € 100.

È semplicissimo usufruire di quest'offerta. Effettuate entro e non oltre il 31 dicembre 2009 il versamento con bollettino postale sul c.c.p. 14759476 intestato a: Edizioni all’insegna del Veltro, viale Osacca 13, 43100 Parma, precisando come causale: “Abbonamento a Eurasia”. Per maggiore sicurezza, potete notificare l'avvenuto versamento tramite posta elettronica all'indirizzo amministrazione@eurasia-rivista.org  oppure a insegnadelveltro1@tin.it .

Vi ricordiamo che le Edizioni all'Insegna del Veltro assicurano agli abbonati di “Eurasia” (anche a quelli che lo sono già, o che si abboneranno dopo il 31 dicembre), oltre alla regolare spedizione direttamente a casa vostra della rivista, anche uno sconto del 10% sul prezzo di copertina dei seguenti titoli:

Karl Haushofer, Italia, Germania e Giappone, pp. 27, € 5,00 (-10% = € 4,50) [I sostenitori lo riceveranno gratuitamente]

Karl Haushofer, Lo sviluppo dell'idea imperiale nipponica, pp. 64, € 6,00 (-10% = € 5,40) [Gratis ai sostenitori]

Johann von Leers, L'Inghilterra. L'avversario del continente europeo, pp. 61, € 6,00 (-10% = € 5,40)

Martino Conserva, Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, pp. 83, € 9,00 (-10% = € 8,10)

Alessandro Lattanzio, Terrorismo sintetico, pp. 184, € 20,00 (-10% = € 18,00)

Yves Bataille, Alessandro De Rienzo, Stefano Vernole, La lotta per il Kosovo, pp. 160, € 18,00 (-10% = € 16,20)

Karl Haushofer, Il Giappone costruisce il suo impero, pp. 445, € 23,65 (-10% = € 21,28)

Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, pp. 142, € 15,00 (-10% = € 13,50)

Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, pp. 192, € 20,00 (-10% = € 18,00)

François Thual, Il mondo fatto a pezzi, pp. 130, € 15,00 (-10% = € 13,50)

Per quanti rinnovano l'abbonamento, lo sconto del 10% sarà esteso all'intero catalogo.

Grazie a speciali convenzioni, gli abbonati di “Eurasia” godranno d'agevolazioni anche presso altre imprese, in particolare:

“Corsi di Arabo on Line” (http://www.corsiarabo.com/)  garantisce il 10% di sconto sulle normali tariffe per ogni tipo di corso.

“Fuoco Edizioni” (http://www.fuoco-edizioni.it/home.html)  garantisce il 30% di sconto sui prezzi di copertina dell'intero catalogo.

Tenetevi aggiornati su queste promozioni tramite la pagina: http://www.eurasia-rivista.org/offerte-e-promozioni


* * *

“Eurasia” non è una rivista commerciale, bensì scientifica. È una rivista “impegnata”, perché il suo scopo non è quello di far soldi, bensì quello di sostenere un'idea – senza però pregiudiziali ideologiche. La missione di “Eurasia” è promuovere in Italia lo studio della geopolitica, la conoscenza delle dinamiche internazionali ed il dibattito informato sulla politica estera. In tal senso, si può dire che “Eurasia” svolga un servizio civico per il nostro paese. E chi ci sostiene, lo svolge assieme a noi.

Dal 2004 ad oggi “Eurasia” ha pubblicato 17 volumi, e proprio in questi giorni sta uscendo il diciottesimo. Centinaia sono stati i contributi usciti sulle sue pagine. Tra le molte personalità che hanno offerto il proprio contributo ricordiamo, solo a titolo di esempio, i nomi di Sergej Baburin, Vishnu Bhagwat, Franco Cardini, Noam Chomsky, Michel Chossudovski, Stefania e Vittorio Craxi, Alì Daghmoush, Alain De Benoist, Henry De Groussouvre, Aleksandr Dugin, William Engdahl, Vagif Gusejnov, Trad Hamade, Vladimir Jakunin, Khaled Mashaal, Fabio Mini, Sergio Romano, Israel Shamir, Gennadij Zjuganov, Danilo Zolo e molti altri accademici, politici, militari, giornalisti ed intellettuali che sarebbe troppo lungo elencare.

In questi cinque anni abbondanti d'attività, “Eurasia” ha raccolto la stima e la considerazione di numerosi lettori ed addetti ai lavori. Molte delle previsioni avanzate sulle pagine di “Eurasia” in tempi non sospetti si sono nel frattempo avverate: dal raffreddarsi dei rapporti tra Turchia e Israele, pronosticato quando ancora apparivano saldamente alleati, alla “nuova guerra fredda” tra Mosca e Washington, fino alla crisi economico-finanziaria degli Stati Uniti d'America. Il mondo multipolare, di cui scrivevamo quando la potenza unipolarista degli USA era al suo apice, è oggi chiaramente distinguibile all'orizzonte, se non già una realtà presente. Alcuni dei cambiamenti auspicati dalle pagine della nostra rivista sono nel frattempo effettivamente avvenuti nella politica estera italiana. Tutto questo ci rafforza nella convinzione di essere sulla giusta strada e nella speranza d'essere utili alla cultura ed alla politica italiane.

“Eurasia” può crescere ancora, ma ha bisogno del vostro sostegno. Se come noi credete in ciò che facciamo e scriviamo, ci sono molteplici modi per aiutarci.

Il più semplice ed immediato è quello di abbonarsi o acquistare “Eurasia”. Il prezzo di € 18 a numero è alla portata delle tasche di tutti, visto che ogni anno escono solo 3 o 4 numeri. Gli abbonati godono poi d'uno sconto e delle offerte sopra descritte.

Ogni lettore si può fare anche promotore della rivista, raccomandandola ad amici e colleghi; se è un giornalista o un blogger può parlarne nella sua pubblicazione, e se è un libraio venderla nel suo negozio.

Chi ha un'attività economica o educativa può stringere una convenzione con “Eurasia”, concedendo agevolazioni ai nostri abbonati – cosa che può anche ripercuotersi positivamente sulla propria attività, facendola conoscere ai nostri lettori ed invogliandoli ad aderire.

I più volenterosi possono anche proporsi per collaborazioni dirette con la rivista. Chiunque possieda competenze scientifiche, giornalistiche, editoriali, cartografiche, linguistiche o informatiche può essere molto utile ad “Eurasia”, e collaborando con noi potrà arricchire il suo bagaglio d'esperienze ed il suo curriculum.

Il mondo sta cambiando, con o senza di noi; assieme, possiamo far sentire la nostra voce!

L'Editore, la Direzione e la Redazione di “Eurasia”

17 dicembre 2009











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sabato 19 dicembre 2009

ALI E L' ELEFANTE

Alì era un catanese, un catanese del 1200.

Suo padre Fathi gli aveva lasciato due eredità molto ingombranti: la prima era quel nome, Alì, che immediatamente lo individuava come siciliano di origine araba e di religione musulmana. Ciò gli comportava molti problemi con i suoi concittadini, ma Alì sopportava tutto con pazienza anche perchè egli era orgoglioso di essere catanese almeno quanto di essere di origine araba e musulmano. La seconda “ingombrante eredità” lasciatagli da suo padre era stata niente di meno che un elefante. Il pachiderma, arrivato in Sicilia dall’Africa come “trattore” per dissodare il campicello di famiglia, era sopravissuto a Fathi ed era pervenuto in eredità ad Alì alla morte del padre.

Quando Federico II represse le ultime scintille della rivolta musulmana a Entella e Gaito ed esiliò tutti i musulmani di Sicilia a Lucera di Capitanata, Alì dovette lasciare la sua casa nella campagna catanese e, seguendo le sorti dei suoi correligionari, trovò rifugio e nuova vita all’ombra del palazzo imperiale lucerino, entrando a far parte della guarnigione militare saracena insieme all’elefante, cui era stato dato il nome di “Alfio”, storpiatura dell’arabo “Al-fil”, che vuol dire semplicemente “l’elefante”.

Quando nel 1237 Federico II organizzò una spedizione in Padania per ridurre all’obbedienza i comuni leghisti ribelli, ad Alì venne ordinato di unirsi alla spedizione e di condurre con sè Alfio, l’elefante, con il compito di guidarlo attraverso le fila nemiche per gettarvi scompiglio e terrore. E così Alì partì, insieme ad altri 10.000 saraceni, a rinforzare l’esercito imperiale, a ulteriore riprova di come i musulmani duosiciliani siano sempre stati in prima fila ogni qualvolta s'è trattato di versare il proprio sangue per la nostra patria.

E dopo alterne vicende arrivò il giorno di Cortenuova. Presso questa località padana l’esercito imperiale affrontò quello della Lega, in tutto si scontrarono 35.000 soldati. L'esercito imperiale, fingendo di ritirarsi per l’inverno verso l'alleata Cremona, si portò invece sul più favorevole territorio di Cortenuova organizzando un’imboscata alla coalizione milanese-bresciana, indotta dalla finta mossa federiciana, a ritirarsi dal campo di battaglia.

I saraceni e i bergamaschi attaccarono l’esercito leghista a diverse ondate inducendolo ad affrettare la ritirata. Al calare della notte, Federico ordinò ai suoi uomini di dormire con l'armatura addosso, poiché l’indomani, alle prime luci dell'alba, avrebbero dovuto sferrare l’attacco decisivo. Infatti, il Podestà di Milano aveva deciso di ritirarsi sfruttando il buio della notte. Ma il terreno, reso molle e fangoso dalle piogge di novembre, rallentava molto la ritirata e così fu ordinato di abbandonare il Carroccio a Cortenuova insieme a tutti i bagagli ingombranti e pesanti. A malincuore i soldati avevano obbedito abbandonando il Carroccio, proprio emblema di guerra, spogliato però di ogni stendardo e vessillo.

All'alba del 27 novembre Federico ordinò alla cavalleria di lanciarsi all'inseguimento dell'esercito leghista in rotta. Il vero massacro e il conseguente annientamento dell'esercito della Lega si perpetrò proprio in quel momento. I bergamaschi massacrarono selvaggiamente milanesi e bresciani che cercavano di lasciare frettolosamente il campo di battaglia senza più nemmeno combattere. Chi riusciva a scappare dalla violenza degli orobici, si gettava nel fiume Oglio in piena, dove annegava senza scampo. Alla fine del massacro, si contarono circa 10.000 morti per l'esercito della Lega Lombarda, e moltissimi prigionieri. Tra di essi anche 300 nobili di Milano, Alessandria, Torino e Vercelli, lo stesso podestà di Milano, nonché Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia. Federico II, dopo la schiacciante vittoria, fece un ingresso trionfale nella città alleata di Cremona, portando come trofeo il Carroccio, trainato da un elefante, il nostro Alfio, che recava lo stendardo imperiale. Sul Carroccio era legato il Podestà di Milano con un cappio al collo. Il suo destino era ormai segnato; oltre alla pesante umiliazione subita, Federico II lo rinchiuse in diverse prigioni della Puglia, ed alla fine, decise di metterlo al patibolo. Il Carroccio venne inviato con una missiva al Pontefice a Roma.A guerra terminata. Alì, per i servigi resi, ottenne, in deroga al decreto di esilio, di poter tornare nella nativa Catania con un buon vitalizio e con l’obbligo di prendersi cura di Alfio l’elefante vita natural durante, cosa che Alì fece molto volentieri in quanto Alfio era per lui più di un parente stretto. Alì si stabili in una casetta sul mare presso il castello Ursino e tutti i giorni portava Alfio a passeggio sulla spiaggia. Ben presto l’elefante divenne l’amico di tutti i catanesi, in particolare dei ragazzetti che approfittavano della mansuetudine dell’animale per saltargli in groppa e giocare con la sua proboscide. La gente portava da mangiare al suo beniamino ed al suo padrone e tutti erano felici di condividere un po’ della loro vita e della loro giornata con Alfio, dilettandosi a farsi raccontare da ‘Alì la giornata di Cortenuova, quando Alfio aveva umiliato la Lega! Ed Alì non si sottraeva al racconto, che aveva ormai imparato a memoria attrezzandosi addirittura con cartelloni dipinti a vivaci colori che riportavano le scene salienti di quella esaltante giornata. Ma il tempo passa per tutti, ed un bel giorno Alfio venne trovato morto nella sua stalla sulla spiaggia. Aveva vissuto quasi 120 anni ed era ormai stanco della vita. Fu seppellito con tutti gli onori in una tomba che rimase sulla spiaggia per tanto tempo, fino a quando nel 1600 la lava dell’Etna la coprì per sempre. Ma alcuni di quei ragazzi, ormai uomini, che avevano giocato e fraternizzato con Alfio vollero che fosse ricordato per sempre. Si ricordarono che nei sotterranei dell’anfiteatro romano c’era la statua di un elefante che risaliva - si diceva - agli antichi Romani. La statua fu recuperata, ripulita, sistemata e fu quindi collocata nella piazza principale della città, davanti al duomo di Sant’Agata. Con quel monumento la città non si sarebbe più dimenticata di Alfio che diventò da allora il simbolo stesso di Catania, simbolo di forza, di onore e ... di vittoria sulla Lega, nonchè augurio di un pronto riscatto per le nostre Due Sicilie!

CATANIA

Pubblicato da Mustafa Sabato 4 Luglio 2009 su : La Terza Sicilia - L'Islam nelle Due Sicilie

EDIZIONI ALL'INSEGNA DEL VELTRO

In riferimento all'articolo di Claudio Mutti su Hamvas e Kerenyi ecco i tre volumi apparsi nelle Edizioni " del Veltro":














Per ordinare inviare un messaggio al seguente indirizzo:  insegnadelveltro1@ tin.it  dove siano chiaramente riportate le seguenti indicazioni:



1) Autore, titolo, prezzo e quantità dei libri che si desiderano acquistare.


2) Recapito a cui spedire gli articoli.


venerdì 18 dicembre 2009

Hamvas, Kerényi e i teologi antichi



Bela Hamvas
Come altri maestri dell’antichità, così anche Orfeo, Pitagora, Eraclito ed Empedocle ci parlano oggi attraverso una serie di frammenti: brandelli di frase o addirittura parole singole che l’acribia dei filologi ha ricavato dalle citazioni contenute negli scritti di autori coevi o successivi. I quali, è evidente, hanno trascelto le citazioni che corrispondevano alla loro sensibilità, alla loro prospettiva e alle loro esigenze, per cui oggi “una mente intelligente capisce che Eraclito parla di volta in volta in modi diversi a Platone, ad Aristotele, a uno scrittore ecclesiastico cristiano, a Hegel, a Nietzsche” (1).


La rassegna della ricezione di Eraclito potrebbe continuare. Marx, per esempio, riuscì a leggere in un frammento dell’Efesino (2) la descrizione di quel processo di scambio che si effettua in “due metamorfosi opposte che si integrano a vicenda: trasformazione della merce in denaro e ritrasformazione del denaro in merce” (3). Anche Carlo Michelstaedter si rispecchiò in Eraclito, ma vi trovò un filosofo della persuasione (4). György Lukács, invece, vide in Eraclito uno strumento involontario dei “distruttori della Ragione”: da Kierkegaard, che usò “l’astratta generalità, storicamente condizionata, della dialettica eraclitea” (5) come un’arma nella sua lotta contro Hegel, fino a Baeumler e a tutti quei “seguaci fascisti” (6) di Nietzsche che, per fare di quest’ultimo un “’solitario’ precursore di Hitler” (7), accentuano l’importanza della sua derivazione da Eraclito.


Tra i “seguaci fascisti” di Nietzsche, Lukács avrebbe potuto benissimo citare Oswald Spengler, che in Eraclito ammirò il custode delle tradizioni avite e l’avversario inconciliabile della nascente democrazia (8); preferì invece colpire bersagli viventi, come Béla Hamvas; o come Károly Kerényi, sebbene quest’ultimo non fosse propriamente un “distruttore della Ragione”.


Anche per Béla Hamvas la parentela ideale tra Eraclito e Nietzsche è strettissima. Nel saggio su Il posto di Eraclito nella spiritualità europea, che è del 1936, egli presenta l’Efesino come il portavoce di uno stile “eroico, regale, sublime” che costituisce l’antitesi radicale della morale democratica: “Aborrì la democrazia come nessun altro, prima e dopo di lui, se prescindiamo da Nietzsche”. E la derivazione di Nietzsche da Eraclito è da Hamvas affermata nel modo più esplicito: “Quell’atteggiamento che da Nietzsche in poi viene definito come pessimismo tragico-eroico, quasi contemporaneamente e con pari forza prese forma nel mondo ionico con Eraclito, nella Magna Grecia con Empedocle, in Attica con Eschilo”.


Così, schierandosi “oggettivamente” a fianco dei “seguaci fascisti” di Nietzsche, Béla Hamvas si candidava ad essere fulminato dall’anatema del rampollo del banchiere Loewinger-Lukács, che nell’Ungheria “liberata” avrebbe svolto a pieno ritmo la sua attività di Grande Inquisitore (9). Nel 1947 Lukács formulerà il capo d’accusa contro Hamvas nei termini seguenti: “L’età del fascismo non è soltanto l’età della mostruosità bestiale, ma anche l’età dell’eroismo superumano e del sacrificio di sé (…) Kállai, Hamvas e quelli che la pensano come loro, quando all’epoca dell’egemonia fascista rigonfiano la loro condotta sociale, soggettivamente comprensibile in una certa misura, fino a farle acquisire le dimensioni dell’idea cosmica e, contemporaneamente, del principio della vera arte, si astraggono dalla sostanza della realtà e, astraendosi, si immergono nel Nulla” (10). Di conseguenza, un articolo commissionato dal medesimo Lukács bollerà Béla Hamvas come “il più torbido cultore del neomisticismo ungherese” (11) e metterà sotto accusa la collana di tascabili curata da Hamvas e dedicata ai maestri della filosofia: dai presocratici a Heidegger, “capofila del tenebroso esistenzialismo fascista” (12). Il Grande Inquisitore manderà al macero i volumi già stampati e farà fondere i piombi di quelli in corso di stampa, mentre Hamvas verrà inserito nella famigerata “Lista B” e democraticamente epurato dal posto di lavoro presso la Biblioteca della Capitale.


Anche Károly Kerényi sarà tra le vittime di Lukács: “il mio principale nemico degli ultimi tempi” (13), secondo una definizione di quest’ultimo che ne diede Kerényi stesso in una lettera a Franz Altheim. Benché divenuto socio (il 6 agosto 1946) dell’Accademia Ungherese delle Scienze, Károly Kerényi dovrà rinunciare per sempre a ritornare in Ungheria. Temporaneamente apolide, alla fine di quell’anno non saprà ancora “dove e come [potrà] continuare ad operare” (14), ma nel 1948 verrà assunto al C.G. Jung-Institut di Zurigo e potrà stabilirsi definitivamente in Svizzera. D’altronde Kerényi era approdato nel Canton Ticino nel 1943, “in un momento di riavvicinamento dell’Ungheria ufficiale alle potenze occidentali” (15). Cittadino elvetico dal 1962, morirà il 14 aprile 1973.


Béla Hamvas, esiliato in patria, vivrà facendo prima l’ortolano e poi il magazziniere. Morirà qualche anno prima di Kerényi, il 7 novembre 1968.

Béla Hamvas e Károly Kerényi erano coetanei, essendo nati ambedue nel 1897. Entrambi erano originari di territori sottratti all’Ungheria dal Trattato del Trianon: Hamvas era nativo di Pozsony (Bratislava), assegnata alla Cecoslovacchia, mentre Kerényi era di Temesvár (Timişoara), assegnata alla Romania. Dopo lo scoppio del conflitto, Hamvas era partito volontario per il fronte russo ed era stato ferito due volte; Kerényi era stato riformato.
Nel 1919 Hamvas si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Budapest, dove la sua famiglia si era trasferita dalla Slovacchia. In quel medesimo anno, Kerényi conseguiva il dottorato in filologia classica con una dissertazione su Platone e Longino; dal 1920 al 1924 proseguì gli studi a Greifswald e a Berlino, quindi insegnò latino e greco in un ginnasio di Budapest. Ottenne la libera docenza nel 1927, pubblicando a Tubinga un lavoro sul romanzo greco-orientale, Die griechisch-orientalische Romanliteratur in religionsgeschichtlicher Beleuchtung.
Già prima del 1927, però, Kerényi aveva ricevuto incarichi di insegnamento presso l’ateneo budapestino. E fu verosimilmente nell’ambiente universitario che Hamvas e Kerényi si conobbero. “Il primo incontro dei due – scrive un biografo di Hamvas – poté
forse avere il carattere formale di un incontro fra docente e studente, con quel carattere fuori dall’usuale che si dava spesso con gli uomini della generazione della guerra” (16). In una lettera
del 20 gennaio 1936, indirizzata allo scrittore Zsigmond Remenyik (1900-1962), Hamvas descriverà nei termini seguenti l’atmosfera ambientale che regnava intorno a Kerényi: “Quando lo conobbi, le condizioni in cui egli viveva erano sgradevoli e vergognose. Si circondava di persone alle quali ci si poteva avvicinare solo turandosi il naso. Per di più, giudaismo penetrante. Che cos’è che chiamo giudaismo? La passiva propensione all’imborghesimento, il lento sprofondare nella vita comoda, nel libretto di risparmio e nello snobismo. Qualcosa di sfacciatamente profano e di insolentemente provocatorio, lepidezza di importazione inglese e francese. Qui tutto è falso, anche il sorriso. Lui stava al centro e con altezzosa indulgenza recitava la commedia per loro, i quali sentivano che ciò era più eccitante del jazz e più raffinato del cocktail, perché qui non si giocava con le frivolezze, ma con gli dèi. Era il contrario del giardino di Academo e l’opposto dell’eros platonico. Mancavano del tutto la serietà, la purezza, l’autenticità” (17).
Ben diversa la rievocazione di Angelo Brelich (1913-1977), che si era iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia nel 1933 e frequentava le lezioni sulla religione greca tenute settimanalmente da Kerényi. “Quei venerdì sera si distaccavano completamente dal resto dell’insegnamento nella Facoltà; l’aula era insolitamente affollata, e non solo di studenti interessati al mondo classico: vi affluivano anche adulti, noti letterati, artisti. Il giovane professore parlava in toni insoliti, tutt’altro che professorali, freddi e distaccati; le sue lezioni erano, in un certo senso, anche esibizioni, come quelle di un concertista o di un attore. Lui però sembrava realmente ‘preso’ dalla sua ‘parte’: era un entusiasta, nel senso migliore del termine, e trasmetteva l’entusiasmo al suo pubblico. La religione greca, che egli sembrava scoprire volta per volta, diventava una scoperta per tutti; la ‘religione’ – concetto che solitamente suscitava una sorta di repulsione – rivelava una dimensione mai sospettata. Kerényi, poi, faceva sensazione anche perché appariva come un uomo vivo, di cultura vissuta: pur parlando di religione greca, gli capitava di citare scrittori come D. H. Lawrence, Thomas Mann e altri. E ancora: non teneva gli allievi a distanza ma dava del tu ai più fedeli, che lo chiamavano per nome” (18).
Nell’estate del 1934 Hamvas e Kerényi partirono insieme per un viaggio in Dalmazia. In quell’occasione Hamvas lesse a Kerényi un saggio che, “come le altre opere importanti, non uscì mai dallo stato di manoscritto” (19). Si trattava di Álarc és koszorú [Maschera e corona], in cui Hamvas sosteneva che in Ungheria un rinnovamento culturale non poteva nascere da un’azione individuale, ma dall’attività di un gruppo solidale: “L’unica modalità è quella del circolo. Il circolo di coloro che, con la fusione completa delle loro vite, creano un nuovo spirito e una nuova condizione d’esistenza per la comunità” (20). Hamvas pensava che solo lui e Kerényi potessero costituire il nucleo iniziale di un simile organismo. Ma ciò comportava una impersonalità di cui Kerényi non era capace: “Credeva che dipendesse solo da lui. Da lui, sì, da lui. Non era in grado di sacrificare il proprio egocentrismo?” (21)
Hamvas ritornerà sull’argomento Kerényi nel 1945, rievocando “il tentativo eroico (greco-pagano) di creare una nuova comunità magiara” (22). In una nota autobiografica di Hamvas si possono leggere le righe seguenti: “L’esigenza dei giovani che si raccoglievano intorno a noi rendeva legittimo questo interrogativo: in che modo si può creare una comunità facendo ricorso a mezzi sacrali e così arrestare un popolo intero sulla via della decadenza? Avvenne nel 1934-’35. Nel corso di un’estate trascorsa insieme, usando il libro sul Circolo di George, indicazioni, pretese esplicite, convinsi Kerényi della necessità di tale creazione. Egli capì la grandezza delle cose, come è dimostrato dallo studio su Dioniso (l’unità dell’umanità, il ‘superamento di tutte le frontiere’, come diceva lui). Il titolo dello studio era Álarc és koszorú; il suo concetto era lo svilupparsi dell’immagine della corona dalla maschera: la fusione universale. Al centro stava il concetto del Kreis. Il mio pensiero fondamentale è questo: individualmente il rinnovamento è impossibile, perché l’Io è sempre stato anarchico e lo rimane. Collettivamente, istituzionalmente, è altrettanto impossibile rinnovarsi, perché l’istituzione non dà disposizioni ‘universalmente’ e non emana una ‘legge’, ma necessariamente deve stare nell’epoca, è unilaterale e ‘ordina’ soltanto. Occorre un rinnovamento esistenziale, e di questo rinnovamento è focolare il ‘circolo’ (Kreis), ovvero la ‘Corona’. Allora la nostra comunità di lavoro portò il nome di Stemma, che significa corona. Kerényi però mise se stesso al centro del circolo e si presentò come iniziatore: non solo come guida, ma come punto centrale. Qui il tentativo fallì. La situazione fu aggravata dal fatto che egli non si rese conto di ciò che accadeva. Non comprese il carattere sacrale dell’impresa e, allorché (conseguentemente alla propria posizione sociale e per effetto della propria enorme vanità attiva) si mise al centro, la corona si disintegrò e il circolo cessò di esistere. Questo mio tentativo, però, non fu totalmente consapevole, ma deliberato e disinteressato. Fui stimolato dalla dolorosa mancanza dell’autentica comunità, avvertita in tutta quanta la mia vita. Desideravo fondare. Bengel dice: Gründen ist tiefer, denn bauen (23). Questa decisione è oggi più viva che mai“ (24).
Nell’agosto del 1935 uscì a Budapest il primo volume della rivista annuale “Sziget” [Isola]. Oltre a due articoli di Kerényi (Könyv és görögség [Libro e mondo greco] e Sophron [Sofrone]), a due articoli di Hamvas (Bruegel e Az írás platonizmusa [Il platonismo della scrittura]), il fascicolo conteneva uno scritto del saggista, narratore e drammaturgo László Németh (1901-1975), che esercitò una grande influenza nell’Ungheria degli anni Trenta e Quaranta. László Németh, del quale era apparso in quell’anno un carteggio con Kerényi (25), rievocava il suo incontro con quest’ultimo, avvenuto nel 1934 in una delle riunioni settimanali del gruppo Stemma: “Feci conoscenza con Il significato del libro nella cultura greca, recitato, in mezzo ad un gruppo di amici, tra brindisi e allegria, dall’autore stesso. Lirica pura – esclamai appena terminata la lettura, sentendomi però immediatamente imbarazzato dal fatto che il termine ‘pura’, usato da me nel suo significato proprio, potesse essere avvertito soltanto da orecchie estranee nel senso di ‘mera’ o semplicemente come ‘soltanto’. Inoltre, riferita ad un’opera scientifica, la parola ‘lirica’ figura di solito come termine dispregiativo. Per uno studioso affidabile il non essere lirico è motivo di orgoglio” (26). László Németh, “profondamente convinto dell’assoluta superiorità della letteratura greca” (27), aveva al suo attivo un romanzo uscito nel 1930 e intitolato Gyász [Lutto], nel quale hybris e nemesis agiscono come forze centrali di tutta la vicenda; era il primo della serie “greca” di Németh, che sarebbe proseguita nel 1936 con Bűn [Colpa] e nel 1947 con Iszony [Orrore] (28). Il primo numero di “Sziget” conteneva poi un articolo di Sándor Gallus intitolato Exisztenciális őskortudomány [Scienza esistenziale della preistoria] e un articolo dell’egittologo Aladár Dobrovits, Föld és egyiptomi lényeg [Territorio ed essenza egizia].


L’argomento del rapporto tra paesaggio e spirito, accennato nell’articolo di Dobrovits, costituì il tema di una conferenza che Károly Kerényi tenne nell’estate del 1935 a Keszthely sul Balaton, nel quadro dei corsi estivi dell’Università di Pécs (29). In questo ateneo Kerényi aveva ottenuto nel 1934 la cattedra di Filologia greca e latina e storia antica.
Per Béla Hamvas il 1935 è l’anno dell’incontro con l’opera di Julius Evola, che viene da lui paragonato a Eraclito e ad Empedocle. “Non è possibile – scrive in un articolo dedicato a Rivolta contro il mondo moderno – dubitare della sua serietà; la sua attendibilità non è dimostrata tanto dalle note, quanto dalla dottrina che se ne ricava (…) È il tipo di un pensatore nuovo, che con una definizione vecchia, accomodante, è stato chiamato anche ‘filosofo della vita’; ma per lui questa formula è scorretta. (…) Da un certo punto di vista è un filosofo arcaico, in quanto è universalistico e ingenuo. Evola non è il cosiddetto specialista: non è un sociologo, non è uno psicologo, non è uno storico, non si occupa di gnoseologia, non privilegia il punto di vista biologico, o estetico, o politico, o morale, o filologico. L’oggetto del suo pensiero è l’’intero’. Non solo la cultura, ma anche l’uomo; non solo la natura, ma anche il soprannaturale; non solo l’anima, ma anche lo spirito; non solo la vita, ma ciò che è oltre la vita. E non tutto separatamente, ma tutto questo insieme. (…) Non conosce problemi specifici, differenziazioni. Il suo pensiero è come quello di Eraclito o di Empedocle: arcaico. L’oggetto del libro di Evola è l’intero, anzi, l’’intero’ nella crisi” (30).
Arriviamo così alla nascita del saggio Herakleitos helye az európai szellemiségben [Il posto di Eraclito nella spiritualità europea], che Stemma pubblica a Budapest nel 1936, in un volume intitolato Herakleitos múzsái vagy a természetről. Pontos irányítás az élet célja felé [Le Muse di Eraclito ovvero sulla natura. Puntuale indicazione del fine della vita]. Oltre al saggio di Hamvas, il volume contiene un’Introduzione del filologo Dénes Kövendi e una raccolta di frammenti di Eraclito, nell’originale greco e nella traduzione ungherese dello stesso Hamvas.
Due di tali frammenti furono usati da Sándor Weöres (1912-1989) come epigrafe per una sua poesia, Medeia [Medea] (31). Weöres fu una sorta di Rimbaud magiaro, sul quale “ebbero un influsso decisivo i testi tibetani che lesse su indicazioni di Béla Hamvas” (32). Di quest’ultimo, d’altronde, Weöres si dichiarò seguace (33), riecheggiandone alcuni temi nella sua produzione poetica (34). Prima di ispirarsi al tema di Stonehenge, trattato da Hamvas nel 1940 (35), nel 1938 pubblicò un sonetto intitolato Herakleitos (36); più tardi scrisse anche un Orpheus (37).
Nell’aprile del 1936 esce il secondo volume di “Sziget”. I nomi nuovi sono quello di Dénes Kövendi, che firma un saggio di argomento filologico (Physica naturaliter platonica) e quello di Antal Szerb (1901-1945), che scrive su Don Chisciotte e Sancho Panza. Autore di A Pendragon legenda [La leggenda dei Pendragon], una parodia delle storie gotiche inglesi, due anni prima Szerb aveva vinto, con una sua storia della letteratura ungherese, il premio della rivista “Erdélyi Helikon” [Elicona transilvano]. László Németh è presente con due poesie: l’ode Platóni pillanat [Momento platonico] e il sonetto Egy [Uno].
Béla Hamvas firma ben tre articoli. Nel primo, Rilke levelei [Lettere di Rilke] (38), viene esposta la tesi secondo cui nel Novecento la lirica si rifugia nelle opere non destinate alla pubblicazione, come lettere e diari. Nel secondo, Az Aphaia-templom [Il tempio di Afea] (39), Hamvas affronta il tema del genius loci, che nella sua produzione successiva avrà una certa importanza. Il terzo articolo, Nietzsche és a George-kör [Nietzsche e il circolo di George] (40), è una critica della posizione assunta dal George-Kreis nei confronti di Nietzsche e segna la fine del periodo della collaborazione di Hamvas col circolo di Kerényi.
Fu probabilmente la rottura con Kerényi la causa del fatto che Hamvas, a quanto risulta, non incontrò personalmente Julius Evola nel corso delle conferenze tenute da quest’ultimo a Budapest, conferenze che videro invece la presenza di Kerényi (41). Una conferenza di Evola, ben documentata, ebbe luogo il 24 aprile 1942 in una sala del Nemzeti Múzeum (42); un’altra, o più di una, fu verosimilmente tenuta in un periodo precedente, ma non anteriormente al 1936, anno in cui è attestata la prima visita dello scrittore italiano in Ungheria (43). Nel periodo che va dal 1937 al 1940, Evola segnalava al pubblico italiano i nomi di Károly Kerényi (44) e di Angelo Brelich (45) e richiamava sulla kerényiana Religione antica l’attenzione di René Guénon (46), il quale nel 1945 la recensì in maniera piuttosto favorevole su “Études traditionnelles” (47). È dunque ben lungi dall’essere esatta l’affermazione di Kerényi secondo cui a “scoprirlo” in Italia sarebbe stato Cesare Pavese (48), che nel 1948 fece pubblicare da Einaudi la prima edizione italiana di Einführung in das Wesen der Mythologie (49).
Nel 1937 e nel 1938 apparvero le prime edizioni di un breve scritto intitolato Pythagoras und Orpheus: Präludien zu einer Zukünftigen Geschichte der Orphik und des Pythagoreismus, nel quale Kerényi si occupava delle relazioni tra orfismo e pitagorismo. Il saggio di Kerényi non sfuggì all’attenzione di uno studioso cui si deve un’ampia esposizione delle dottrine pitagoriche, Vincenzo Capparelli, il quale, dopo avere riassunto il contenuto di Pythagoras und Orpheus, concludeva negando che Kerényi avesse recato “un notevole contributo di chiarificazione sulla questione dei rapporti orfico-pitagorici” (50).
Orfeo, Pitagora, Eraclito ed Empedocle sono figure centrali in Scientia sacra (51), l’opera di sintesi che Hamvas iniziò a scrivere nel 1943. Eraclito e Pitagora, al pari di Lao-tze, Confucio, Buddha, Zarathustra e Thoth, rappresentano la crisi che ebbe luogo nella storia umana intorno all’anno 600 a. C., una crisi che Hamvas paragona al “calare di una cortina” (52). Eraclito e Pitagora sono i giudici dell’umanità decaduta e ogni loro parola possiede il “taglio apocalittico” (53) del giudizio cui si trova sottoposta la vita dopo che si è staccata dall’essere. Ai loro nomi, Hamvas accosta quello di Empedocle: “La figura di quest’uomo affascina fin dal primo istante. Egli si muove con una coscienza illimitata; sembra che sia in possesso di un sapere ugualmente valido nella geodesia, nell’astronomia, nella religione, nell’insegnamento, nella medicina, nel governo dello stato, nella metafisica, nella poesia. Negli ultimi tempi, si è diventati abbastanza diffidenti nei confronti di questa versatilità del grande uomo dell’età primordiale, e la versatilità delle figure anteriori alla storia è stata considerata una leggenda. (…) È ovvio che lo specialista odierno, nella sua prospettiva ristretta e limitata, sia istintivamente scettico nei riguardi di un’individualità umana di ampiezza cosmica e di respiro universale” (54). Empedocle e gli altri “teologi antichi” sono persone sacre, manifestazioni di un archetipo che Hamvas chiama “il Maestro della Vita”. “Il senso della loro universalità – egli scrive - è il loro carattere superumano. Quel sicuro e consapevole sfolgorio che appare nelle loro parole e nelle loro azioni e che trabocca dalle loro persone anche attraverso aneddoti spesso stupidi, rende quasi sperimentabile con i sensi questo carattere superumano” (55). Orfeo, Eraclito, Pitagora, Empedocle e ancora, in qualche modo, Platone (56), rappresentano nel mondo greco quel tipo di uomo “che è ancora possibile scorgere sulla soglia della storia, senza che la perfezione del suo essere sia raggiungibile da parte dell’uomo storico” (57). Sono epifanie di un archetipo che Hamvas chiama “l’uomo venuto dall’alto” (58), il quale “irradia sugli strati inferiori le forze provenienti dall’alto ed innalza il mondo inferiore” (59).
In Anthologia humana (60), un florilegio della “saggezza di cinquemila anni” compilato da Hamvas nell’immediato dopoguerra, il capitolo dedicato al mondo greco e a Roma ripropone gran parte dei frammenti di Eraclito tradotti nel 1936, nonché i Versi aurei pitagorici.

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(1) Martin Heidegger, Aletheia (Eraclito, Frammento 16), in: Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1980, p. 178.
(2) Framm. 21 Flacelière. Cfr. Plutarco, Sulla E di Delfi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, p. 24: “Il fuoco si tramuta diventando tutte le cose – secondo quanto afferma Eraclito – e tutte le cose si tramutano in fuoco, nella stessa maniera che l’oro si muta in denaro e il denaro in oro”.
(3) Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Newton Compton, Roma 1970, p. 97.
(4) Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano 2003. Idem, La persuasione e la retorica, Adelphi, Milano 1982.
(5) György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1970, vol. I, p. 261.
(6) Gy. Lukács, op. cit., p. 391.
Karoly Kerenyi
(7) Gy. Lukács, op. cit., p. 392.
(8) “Quest’uomo fiero ed inflessibile ama la differenza tra quelli che dominano e quelli che ubbidiscono e possiede un profondo rispetto per I costumi e le istituzioni della tradizione, non più sacri per la democrazia (…) La democrazia inizia il suo dominio ed Eraclito è troppo rigido e caparbio per cedere o lamentarsi inutilmente” (Oswald Spengler, Eraclito, Settimo Sigillo, s.d., pp. 10-11).
(9) O, se si preferisce, di “direttore di coscienze”, per usare la leggiadra definizione che di Georg Loewinger alias György Lukács venne data da Ferenc Fischel alias François Fejtő. Secondo il saggista ebreo-cattolico-marxista-liberale, infatti, Lukács “esercitava nel paese l’autorità di un vero e proprio ‘direttore di coscienze’ (…) Egli era la prova vivente della tolleranza del regime verso le menti più sottili” (F. Fejtő, Ungheria 1945-1957, Einaudi, Torino 1957, pp. 122-123). Ricordiamo agli immemori che la tolleranza di Lukács si manifestò nella sua attività di consulenza per la compilazione del Catalogo della stampa fascista e antidemocratica, un vero e proprio Index librorum prohibitorum che venne pubblicato tra il 1945 e il 1946 dal governo a maggioranza centrista. Sul rogo dei libri nell’Ungheria “liberata”, cfr. C. Mutti, Il Vangelo secondo Lukács, “Letteratura-Tradizione”, I, 4, giugno-agosto 1998, p. 34.
(10) Lukács György, Az absztrakt művészet magyar elméletei [Le dottrine ungheresi dell’arte astratta], Budapest 1947.
(11) Keszi Imre, Egy állami intézmény, amelyet ideje lenni államosítani. Az Egyetemi Nyomda kultúrpolitikája [Un’istituzione statale che sarebbe ora di statalizzare. La politica culturale della Tipografia Universitaria], “Szabad Nép”, 25 aprile 1948.
(12) Ibidem.
(13) Lettera a Franz Altheim del 3 febbraio 1950; cit. da Volker Losemann, I “Dioscuri”: Franz Altheim e Karl Kerényi. Tappe di una amicizia, in AA. VV., Károly Kerényi: incontro con il divino, a cura di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 1999, p. 27.
14) Mario Untersteiner e Carlo Kerényi: due spiriti europei in un epistolario, a cura di Dino Pieraccioni, estr. da “Nuova Antologia”, n. 2162, aprile-giugno 1987, p. 321, n. 81.
(15) Károly Kerényi, Selbstbiographisches, in Werkausgabe, V, 2, p. 435.
(16) Darabos Pál, Hamvas Béla. Egy életmű fiziognómiája II., vol. I, Farkas Lőrinc Imre Könyvkiadó, Budapest 1997, p. 40.
(17) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260.
(18) Angelo Brelich, cit. da János György Szilágyi, Religio Accademici, in AA. VV., Károly Kerényi: incontro con il divino, cit., p. 9.
19) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260.
(20) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260
(21)Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 261.
(22) Hamvas Béla, Biblia és romantika [Bibbia e romanticismo], verbale delle conversazioni avute con Lajos Szabó e Béla Tábor nel corso del 1945-1946, dattiloscritto, p. 85.
(23) Bengel, Johann Albrech, teologo protestante tedesco, 1667-1752 (Nota di B. Hamvas).
(24) Hamvas Béla, Biblia és romantika, cit.
(25) Németh László – Kerényi Károly Levélváltása, Válasz, Budapest 1935.
(26) Németh László, Sziget és alkotás [Isola e creazione], “Sziget”, I, 1935, p. 28.
(27) Maria Teresa Angelini, I romanzi di László Németh fra grecità e cristianesimo, “RSU. Rivista di Studi Ungheresi”, 5, 1990, p. 41.
(28) Tradotto in italiano (dalla traduzione tedesca) col titolo Una vita coniugale, Einaudi, Torino 1965.
(29) Prima ed. ungh.: Táj és szellem [Paesaggio e spirito], “Sziget”, II, 1936, pp. 9-24. Prima ed. tedesca: Die Welt als Geschichte, “Zeitschrift für universalgeschichtliche Forschung“, II, 1936. In italiano: Paesaggio e spirito, in: Karl Kerényi, La Madonna ungherese di Verdasio, Armando Dadò, Locarno 1996, pp. 17-32.
(30) Hamvas Béla, Modern Apokalipszis. A világkrizis irodalma, [Apocalissi moderna. La letteratura della crisi] “Társadalomtudomány” [Sociologia], a. XV, n. 2-3, aprile-settembre 1935, pp. 113-127.
(31) Weöres Sándor, Medeia, in: Egybegyűjtött írások [Scritti raccolti], vol. II, Magvető, Budapest 1973, pp. 255-270.
(32) Paolo Ruzicska, Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia, Milano 1963, p. 741.
(33) “Ringrazio il mio maestro Béla Hamvas per aver potuto scrivere questo libro: egli ha creato in me l’armonia”. Così scrive Weöres Sándor all’inizio di A teljesség felé (“Próza-vázlatok”) [Verso la perfezione (“Schizzi in prosa”)], Tericum, Budapest 1995, p. 5.
(34) Cfr. Stonehenge. Álom az ősvilágról [Stonehenge. Sogno del mondo arcaico], in: Weöres S., Merülő Saturnus [Saturno sommerso], Magvető, Budapest 1968, pp. 15-21.
(35) Hamvas Béla, Stonehenge. A szikla eksztázisa, “Napkelet”, 7, 1940, pp. 337-342; trad. it. di C. Mutti in: B. Hamvas, Da Eraclito a Guénon, Aragno, Torino 1999, pp. 39-47).
(36) “Non dir cattivi Dio e la vita. A loro – non chiedere la gioia in elemosina. – Tiepida pozza di felicità – non è il mondo, né esiste per soccorrerti. – Quel che ti fu spacciato come Dio – è un idolo sgraziato variopinto; - nient’altro fa che stare lì, ieratico, - a guardar cosa mendican da lui. – È ben altro! È di più! Per lui ho il canto, - non parole. Bontà, giustizia, mente – che cosa hanno a che far con l’infinito? – Sbagli, se dici che il mondo è cattivo – perché non hai avuto la tua pappa: - esisti tu per lui, non lui per te”. (Traduzione nostra, da: Weöres S., Herakleitos, in Egybegyűjtött írások, cit., vol. I, p. 190).
(37) Weöres S., Orpheus, in Egybegyűjtött írások, cit., vol. II, pp. 271-277.
(38) “Sziget”, II, 1936, pp. 25-32.
(39) “Sziget“, II, 1936, pp. 57-58.
(40) “Sziget“, II, 1936, pp. 83-103.
(41) In una lettera in tedesco scritta a Kerényi il 19 ottobre 1957 (Archivio Statale di Marbach), Evola esordisce così: “Egregio Professore, è ormai trascorso un lungo tempo, da quando ci siamo incontrati a Budapest in occasione delle mie conferenze presso il Kulturbund della contessa Zichy”.
(42) C. Mutti, La Grande Influence de René Guénon en Roumanie, suivi de Julius Evola en Europe de l’Est, Akribeia, Saint-Genis-Laval 2002, pp. 180-184.
(43) C. Mutti, op. cit., pp. 177-180. Cfr. C. Mutti, Julius Evola sul fronte dell’Est, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998, pp. 39-41.
(44) Il libro di Kerényi La religione antica nelle sue linee fondamentali (trad. di D. Cantimori, Zanichelli, Bologna 1940) fu recensito da Evola nell’articolo Vita degli antichi. Il “sacro”, “Corriere Padano”, 15 maggio 1940, ora in: J. Evola, I testi del Corriere Padano, Edizioni di Ar, Padova 2002, pp. 380-384. La medesima recensione apparve in “Bibliografia fascista”, a. XV (1940), n. 7, ora in: J. Evola, Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia fascista”, vol. II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1995, pp. 70-76. Sul "non encomiabile atteggiamento" che nel nuovo clima politico postbellico Angelo Brelich terrà nei confronti del suo primo recensore e sulle "poco note avventure trasformiste" di Brelich, si vedano due saggi di Giovanni Casadio: Franz Altheim: dalla storia di Roma alla storia universale, in F. Altheim, Deus invictus, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p. 29, nonché Locale versus globale nello studio della religione greca, in D. Giacometti, Metaponto. Gli dei e gli eroi nella storia di una polis di Magna Graecia, L. Giordano, Cosenza 2005, pp. 239-271.
(45) Evola pubblicò sul “Diorama filosofico quindicinale”, la pagina di “Regime fascista” da lui diretta, due articoli di Angelo Brelich: Antica spiritualità eroica (25 febbraio 1937) e Giove e l’idea romana dello Stato (18 gennaio 1940). Il saggio di Angelo Brelich Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’Impero romano (Istituto di numismatica e archeologia dell’Università, Budapest 1937) fu recensito da Evola in “Bibliografia fascista”, a. XIII (1938), n. 6; ora in: J. Evola, Esplorazioni e disamine, cit., pp. 168-171. La stessa recensione, intitolata La concezione romana del post mortem, uscì anche sul “Corriere Padano” del 5 aprile 1938 (ora in: J. Evola, I testi del Corriere Padano, cit., pp. 312-314).
(46) Il 29 ottobre 1949 René Guénon scriverà ad Evola: “Sono molto stupito di quanto mi riferite a proposito di Károly Kerényi, perché mi ricordo che in passato me ne avevate parlato in una maniera molto favorevole; doveva essere nel 1939 o nel 1940, e in quella occasione mi avevate spedito il suo libro La religione antica (…)” (René Guénon, Lettere a Julius Evola, Sear, Borzano 1996, p. 110). Lo stupore di Guénon è dovuto al fatto che Evola gli ha parlato in termini non positivi dei Prolegomeni alla mitologia come scienza, scritti da Kerényi in collaborazione con Carl G. Jung e apparsi un anno prima in edizione italiana (trad. di Angelo Brelich, Einaudi 1948). La comparsa di questo libro (che nella successiva edizione di Boringhieri del 1972 recherà il titolo Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia) produsse in Evola, notoriamente assai critico nei confronti di Jung, una certa delusione nei confronti di Kerényi che se lo era “associato”. In uno scritto siglato “Ea” (pseud. di Evola) ed intitolato L’esoterismo – L’inconscio – La psicanalisi leggiamo: “lo Jung si è associato ad un moderno studioso di mitologia, il Kerényi, che non manca di una certa qualificazione, e che incomprensibilmente gli ha affidato l’interpretazione ‘scientifica’ di vari miti classici” (Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, vol. III, p. 389. Kerényi viene citato da Evola anche nella Dottrina del risveglio (Roma 1995, p. 40 e 66n.), in Metafisica del sesso, Roma 1994, pp. 94, 156, 206, 272) e in L’arco e la clava (Roma 1995, pp. 57, 90-93).
(47) René Guénon, Recensioni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, pp. 53-57.
(48) Il 5 ottobre 1964 Kerényi scriveva a Furio Jesi: “Cesare Pavese fu precisamente colui che, in Italia, mi scoprì, e forse non soltanto nell’ambito della storia delle religioni, ma in quello della cultura italiana in generale” (Furio Jesi – Károly Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, Quodlibet, Macerata 1999, p. 19).
(49) C.G. Jung – K. Kerényi, Einführung in das Wesen der Mythologie, Pantheon, Amsterdam-Leipzig-Zürich 1941 (poi Gerstenberg, Hildesheim 1980).
(50) Vincenzo Capparelli, La sapienza di Pitagora, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, vol. I, p. 335. Prima edizione: CEDAM 1944.
(51) Hamvas B., Scientia sacra. Az őskori emberiség szellemi hagyománya [Scientia sacra. La tradizione spirituale dell’umanità primordiale], Magvető, Budapest 1988.
(52) B. Hamvas, Scientia sacra (trad. di C. Mutti), 2 voll., Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2000-2001, vol. I, p. 15.
(53) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 25.
(54) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 57.
(55) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 58.
(56) Hamvas scrisse alcuni articoli su Platone: A XX. Század Platon-képe [L’immagine di Platone nel XX secolo], “Athenaeum”, vol. XXIV (1938), pp. 72-80; Az örök filozófus. Hozzászólás a Magyar Filozófiai Társaság “A filozófia története” cimű, 1941. május 6-án tartott vitájához [Il filosofo eterno. Intervento al dibattito della Società Filosofica Ungherese intitolato “La storia della filosofia” e svoltosi il 6 maggio 1941], “Athenaeum, vol. XXVII (1941), pp. 437-438; Az archaikus közösség. A teljes magyar Platón megjelenése alkalmából [La comunità arcaica. In occasione della pubblicazione dell’opera omnia di Platone in ungherese], “Társadalomtudomány”, 4-5, 1943, pp. 475-483. L’opera omnia di Platone in ungherese (Platon összes művei, 2 voll. Magyar Filozófiai Tarsaság, Budapest 1943) comprende tre traduzioni di Hamvas: Menon [Menone], I, pp. 357-400, A kisebb Hippias [L’Ippia minore], I, pp. 445-564, A nagyobb Hippias [L’Ippia maggiore], I, pp. 465-499.
(57) B. Hamvas, Scienza sacra, vol. I, p. 123.
(58) B. Hamvas, Scientia sacra, ibidem.
(59) B. Hamvas, Scientia sacra, ibidem.
(60) Hamvas B., Anthologia humana. Ötezer év bölcsesége [Anthologia humana. La saggezza di cinquemila anni], Egyetemi Nyomda, Budapest 1947.

Scritto da Claudio Mutti il 15.12.2009 su claudiomutti.com

sabato 5 dicembre 2009

Reciprocitá - Un assurdo diventato politicamente corretto.




Pubblicato su Il Derviscio
il 3 Dicembre 2009 da Stefano


Chiesa di S.Antonio da Padova in Istanbul


Come previsto dal Decreto Legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 (T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e dal relativo regolamento di attuazione (Decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n.394), allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dal diritto internazionale generale.
Inoltre, il cittadino extracomunitario che soggiorni in territorio italiano e sia titolare della carta di soggiorno o di un permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato, di lavoro autonomo e familiari gode dei diritti civili che la legge riconosce al cittadino italiano senza che vi sia necessità di verificare l’esistenza della condizione di reciprocità. Né esistono, allo stato, accordi bilaterali che prevedano, per lo straniero, condizioni meno favorevoli di quelle previste dalle norme interne.
Chiaro?
Quello della reciprocitá è stato fino a ieri un cavallo di battaglia di Borghezio e della sua specie politica. E fin qui…
Ora l’onda è trasbordata e nel dibattito “dacci oggi il nostro argomento anti-islamico quotidiano” è diventato tema anche dei seri critici dell’Islam per dire che, grazie al fatto che viviamo in democrazia, siamo disposti a chiudere un occhio e vi lasciamo costruire le moschee, peró …
Ecco, proviamo a costruire una storia attorno a questo peró.
Dunque …
Abdullah, manovale pakistano, Ahmed, fruttivendolo turco, Mustafa, operaio egiziano, tutti e tre regolarmente immigrati, tutti e tre regolarmente umiliati dal rito annuale del rinnovo del visto dopo attese anche di dodici ore allo sportello dell’ufficio unico, dopo mesi di incertezza nell’attesa dello stesso, sottoposti al dileggio e al dispetto sul posto di lavoro, guardati con diffidenza dai vicini, sfruttati da proprietari di appartamenti affittati a prezzi criminali, rinchiusi in casa la sera con la famiglia per non apparire invadenti e per paura delle aggressioni di gorilla senza cervello in libertá o dall’arbitrio di ronde supermotivate, decidono di incontrarsi il venerdí per la preghiera comunitaria.
Nel giro di pochi mesi il cerchio si allarga e, con una ventina di bosniaci, malesi, senegalesi e di due italiani convertiti, la preghiera si sposta nel magazzino della frutta di Ahmed che ogni venerdí viene sgombrato per l’occasione.
Fin dal primo giorno, come vuole la tradizione, viene organizzata una cassa per i bisognosi (Bait ul-mal) e per le opere di Dio.
Nel giro di qualche anno nel magazzino di Ahmed vengono a pregare musulmani di tutto il quartiere. Lo spazio non basta piú e la cassa è piena.



All’angolo della via c’è un’officina dismessa e cosí Abdullah, Ahmed e Mustafa si mettono alla ricerca del proprietario e prendono i primi contatti con gli organismi di quartiere. Si fa un’assemblea nella palestra della scuola alla quale interviene la cittadinanza. Fortunatamente non c’è la Lega, ma un amministratore comunale pone la questione della reciprocitá. Perché se nei “loro” paesi è vietato costruire chiese, noi dovremmo permettere loro di costruire moschee?



STOP!



1) Nella maggior parte dei casi questa affermazione è falsa. Non so se esistono chiese in Pakistan, ma ce ne sono ad Istanbul, al Cairo, a Damasco. Bagdad, e perfino (udite udite) in Iran, con tanto di campanili e campane. Non ci sono chiese alla Mecca dove, peraltro, non esiste una comunità cristiana. Per i numerosi lavoratori filippini in Arabia Saudita sono stati trovati accordi per la celebrazione della messa.

2) Chi dovrebbe garantire la reciprocitá con gli Stati Islamici? Abdullah? Ahmed? Mustafa? Turchia e Egitto non sono Stati Islamici, e Abdullah è una persona fisica senza nessuna veste politica o diplomatica.

3) Cosa dovrebbero fare Abdullah, Ahmed e Mustafa per garantire la reciprocitá coi loro paesi d’origine? Tornare a casa e costruire una chiesa? Per chi?

4) Se la moschea in Italia nasce grazie ad una colletta privata di cittadini musulmani, chi pagherà la chiesa “reciproca” a Kuala Lumpur o Sanaa? Abdullah? Ahmed? Mustafa? Borghezio, Daniela Santanché? Allam Cristiano Magdi?



5) Da quando Erdogan regge la Turchia, la pena di morte é stata abolita, la libertá di espressione allargata, la lotta contro le torture incentivata. Otto miliardi di Euro sono stati stanziati per sviluppare l’agricoltura nelle regioni abitate dai curdi. Erdogan ha permesso canali televisivi multilingue spezzando cosí il tabú della “turchicitá” sancito dall’art. 301 della Costituzione, ha riformato la legge sulle fondazioni che permetterá alle Chiese Cattolica e Ortodossa di usufruire di privilegi aboliti dallo “Stato laico”. Erdogan cerca un avvicinamento all’Armenia e ha invitato il governo Armeno alla fondazione di una Commissione comune di studiosi e storici che elaborino una ricerca scientifica su quello che viene chiamato “il genocidio armeno”. Allora permetteremo “reciprocamente” ad Ahmed di aprire la sua moschea? E Abdullah potrá pregare nella moschea di Ahmed? Se no, dovremo fare dei controlli all’ingresso? Turchi sí, pakistani no, egiziani cosí cosí? E chi fará i controlli? I militari di La Russa? Le ronde di Maroni? O mandiamo direttamente Borghezio la Santanché e Allam Magdi Cristiano?

6) Con chi dovranno “reciprocare” i musulmani italiani, nati da genitori italiani e con progenitori italiani fino a Muzio Scevola che vogliono aprire una moschea? In una moschea italiana quindi, potranno pregare immigrati provenienti da paesi “non reciproci”?

Facciamo qualche passo avanti.
Se la reciprocitá significa, tu puoi fare qui quello che io posso fare a casa tua, cosa faremo di Zhara?
Zhara è cittadina saudita trasferita in Italia dopo aver sposato un ingegnere italiano. Ora Zhara vuole fare la patente di guida. Le diremo che non la puó fare perché le donne, anche italiane, non possono fare altrettanto in Arabia Saudita? È logico?



Amina, una ragazza di origine afgana, ha chiesto di iscriversi all’universitá di Perugia. La metteremo alla porta perché i talebani che ancora amministrano il suo villaggio vietano alle donne, anche italiane se mai ce ne fossero, di andare a scuola? È questa la logica della reciprocitá? O non siamo piuttosto di fronte alla logica di chi si arrampica sugli specchi nel tentativo di dire correttamente NO agli immigrati, NO alla cultura diversa, NO a tutto ció che non conosco, NO all’Islam senza doversi sporcare le mani con la parola “fobia” o, peggio, “razzismo”?
Mano sul cuore. Reciprocitá, in questo contesto, è una stupidaggine grande come una casa e non è un caso che a chiederla non siano autorevoli rappresentanti della Chiesa, ma i soliti pinocchietti spaventati da Mangiafuoco e, ultimamente, firme autorevoli del giornalismo italiano. E “reciprocitá” fa parte di quella strategia che vuole reiteratamente presentare l’Islam come un problema.
Allam Cristiano Magdi si converte al cattolicesimo? Daniela Santanché da i numeri davanti alla moschea? Il 19% degli svizzeri votano contro la costruzione di minareti che nessuno voleva costruire? Il problema è l’Islam! È logico? Nessuno sente la nota stonata in tutto questo?
Questo paradigma altro non è che una Matrix costruita artificialmente dentro la quale sono ormai prigionieri milioni che si sono bevuti il cervello davanti al lato B dell’ultima ballerina brasiliana. Ecco il succo del problema.
Reciprocamente parlando.




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