Bela Hamvas
Come altri maestri dell’antichità, così anche Orfeo, Pitagora, Eraclito ed Empedocle ci parlano oggi attraverso una serie di frammenti: brandelli di frase o addirittura parole singole che l’acribia dei filologi ha ricavato dalle citazioni contenute negli scritti di autori coevi o successivi. I quali, è evidente, hanno trascelto le citazioni che corrispondevano alla loro sensibilità, alla loro prospettiva e alle loro esigenze, per cui oggi “una mente intelligente capisce che Eraclito parla di volta in volta in modi diversi a Platone, ad Aristotele, a uno scrittore ecclesiastico cristiano, a Hegel, a Nietzsche” (1).
La rassegna della ricezione di Eraclito potrebbe continuare. Marx, per esempio, riuscì a leggere in un frammento dell’Efesino (2) la descrizione di quel processo di scambio che si effettua in “due metamorfosi opposte che si integrano a vicenda: trasformazione della merce in denaro e ritrasformazione del denaro in merce” (3). Anche Carlo Michelstaedter si rispecchiò in Eraclito, ma vi trovò un filosofo della persuasione (4). György Lukács, invece, vide in Eraclito uno strumento involontario dei “distruttori della Ragione”: da Kierkegaard, che usò “l’astratta generalità, storicamente condizionata, della dialettica eraclitea” (5) come un’arma nella sua lotta contro Hegel, fino a Baeumler e a tutti quei “seguaci fascisti” (6) di Nietzsche che, per fare di quest’ultimo un “’solitario’ precursore di Hitler” (7), accentuano l’importanza della sua derivazione da Eraclito.
Tra i “seguaci fascisti” di Nietzsche, Lukács avrebbe potuto benissimo citare Oswald Spengler, che in Eraclito ammirò il custode delle tradizioni avite e l’avversario inconciliabile della nascente democrazia (8); preferì invece colpire bersagli viventi, come Béla Hamvas; o come Károly Kerényi, sebbene quest’ultimo non fosse propriamente un “distruttore della Ragione”.
Anche per Béla Hamvas la parentela ideale tra Eraclito e Nietzsche è strettissima. Nel saggio su Il posto di Eraclito nella spiritualità europea, che è del 1936, egli presenta l’Efesino come il portavoce di uno stile “eroico, regale, sublime” che costituisce l’antitesi radicale della morale democratica: “Aborrì la democrazia come nessun altro, prima e dopo di lui, se prescindiamo da Nietzsche”. E la derivazione di Nietzsche da Eraclito è da Hamvas affermata nel modo più esplicito: “Quell’atteggiamento che da Nietzsche in poi viene definito come pessimismo tragico-eroico, quasi contemporaneamente e con pari forza prese forma nel mondo ionico con Eraclito, nella Magna Grecia con Empedocle, in Attica con Eschilo”.
Così, schierandosi “oggettivamente” a fianco dei “seguaci fascisti” di Nietzsche, Béla Hamvas si candidava ad essere fulminato dall’anatema del rampollo del banchiere Loewinger-Lukács, che nell’Ungheria “liberata” avrebbe svolto a pieno ritmo la sua attività di Grande Inquisitore (9). Nel 1947 Lukács formulerà il capo d’accusa contro Hamvas nei termini seguenti: “L’età del fascismo non è soltanto l’età della mostruosità bestiale, ma anche l’età dell’eroismo superumano e del sacrificio di sé (…) Kállai, Hamvas e quelli che la pensano come loro, quando all’epoca dell’egemonia fascista rigonfiano la loro condotta sociale, soggettivamente comprensibile in una certa misura, fino a farle acquisire le dimensioni dell’idea cosmica e, contemporaneamente, del principio della vera arte, si astraggono dalla sostanza della realtà e, astraendosi, si immergono nel Nulla” (10). Di conseguenza, un articolo commissionato dal medesimo Lukács bollerà Béla Hamvas come “il più torbido cultore del neomisticismo ungherese” (11) e metterà sotto accusa la collana di tascabili curata da Hamvas e dedicata ai maestri della filosofia: dai presocratici a Heidegger, “capofila del tenebroso esistenzialismo fascista” (12). Il Grande Inquisitore manderà al macero i volumi già stampati e farà fondere i piombi di quelli in corso di stampa, mentre Hamvas verrà inserito nella famigerata “Lista B” e democraticamente epurato dal posto di lavoro presso la Biblioteca della Capitale.
Anche Károly Kerényi sarà tra le vittime di Lukács: “il mio principale nemico degli ultimi tempi” (13), secondo una definizione di quest’ultimo che ne diede Kerényi stesso in una lettera a Franz Altheim. Benché divenuto socio (il 6 agosto 1946) dell’Accademia Ungherese delle Scienze, Károly Kerényi dovrà rinunciare per sempre a ritornare in Ungheria. Temporaneamente apolide, alla fine di quell’anno non saprà ancora “dove e come [potrà] continuare ad operare” (14), ma nel 1948 verrà assunto al C.G. Jung-Institut di Zurigo e potrà stabilirsi definitivamente in Svizzera. D’altronde Kerényi era approdato nel Canton Ticino nel 1943, “in un momento di riavvicinamento dell’Ungheria ufficiale alle potenze occidentali” (15). Cittadino elvetico dal 1962, morirà il 14 aprile 1973.
Béla Hamvas, esiliato in patria, vivrà facendo prima l’ortolano e poi il magazziniere. Morirà qualche anno prima di Kerényi, il 7 novembre 1968.
Béla Hamvas e Károly Kerényi erano coetanei, essendo nati ambedue nel 1897. Entrambi erano originari di territori sottratti all’Ungheria dal Trattato del Trianon: Hamvas era nativo di Pozsony (Bratislava), assegnata alla Cecoslovacchia, mentre Kerényi era di Temesvár (Timişoara), assegnata alla Romania. Dopo lo scoppio del conflitto, Hamvas era partito volontario per il fronte russo ed era stato ferito due volte; Kerényi era stato riformato.
Nel 1919 Hamvas si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Budapest, dove la sua famiglia si era trasferita dalla Slovacchia. In quel medesimo anno, Kerényi conseguiva il dottorato in filologia classica con una dissertazione su Platone e Longino; dal 1920 al 1924 proseguì gli studi a Greifswald e a Berlino, quindi insegnò latino e greco in un ginnasio di Budapest. Ottenne la libera docenza nel 1927, pubblicando a Tubinga un lavoro sul romanzo greco-orientale, Die griechisch-orientalische Romanliteratur in religionsgeschichtlicher Beleuchtung.
Già prima del 1927, però, Kerényi aveva ricevuto incarichi di insegnamento presso l’ateneo budapestino. E fu verosimilmente nell’ambiente universitario che Hamvas e Kerényi si conobbero. “Il primo incontro dei due – scrive un biografo di Hamvas – poté
forse avere il carattere formale di un incontro fra docente e studente, con quel carattere fuori dall’usuale che si dava spesso con gli uomini della generazione della guerra” (16). In una lettera
del 20 gennaio 1936, indirizzata allo scrittore Zsigmond Remenyik (1900-1962), Hamvas descriverà nei termini seguenti l’atmosfera ambientale che regnava intorno a Kerényi: “Quando lo conobbi, le condizioni in cui egli viveva erano sgradevoli e vergognose. Si circondava di persone alle quali ci si poteva avvicinare solo turandosi il naso. Per di più, giudaismo penetrante. Che cos’è che chiamo giudaismo? La passiva propensione all’imborghesimento, il lento sprofondare nella vita comoda, nel libretto di risparmio e nello snobismo. Qualcosa di sfacciatamente profano e di insolentemente provocatorio, lepidezza di importazione inglese e francese. Qui tutto è falso, anche il sorriso. Lui stava al centro e con altezzosa indulgenza recitava la commedia per loro, i quali sentivano che ciò era più eccitante del jazz e più raffinato del cocktail, perché qui non si giocava con le frivolezze, ma con gli dèi. Era il contrario del giardino di Academo e l’opposto dell’eros platonico. Mancavano del tutto la serietà, la purezza, l’autenticità” (17).
Ben diversa la rievocazione di Angelo Brelich (1913-1977), che si era iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia nel 1933 e frequentava le lezioni sulla religione greca tenute settimanalmente da Kerényi. “Quei venerdì sera si distaccavano completamente dal resto dell’insegnamento nella Facoltà; l’aula era insolitamente affollata, e non solo di studenti interessati al mondo classico: vi affluivano anche adulti, noti letterati, artisti. Il giovane professore parlava in toni insoliti, tutt’altro che professorali, freddi e distaccati; le sue lezioni erano, in un certo senso, anche esibizioni, come quelle di un concertista o di un attore. Lui però sembrava realmente ‘preso’ dalla sua ‘parte’: era un entusiasta, nel senso migliore del termine, e trasmetteva l’entusiasmo al suo pubblico. La religione greca, che egli sembrava scoprire volta per volta, diventava una scoperta per tutti; la ‘religione’ – concetto che solitamente suscitava una sorta di repulsione – rivelava una dimensione mai sospettata. Kerényi, poi, faceva sensazione anche perché appariva come un uomo vivo, di cultura vissuta: pur parlando di religione greca, gli capitava di citare scrittori come D. H. Lawrence, Thomas Mann e altri. E ancora: non teneva gli allievi a distanza ma dava del tu ai più fedeli, che lo chiamavano per nome” (18).
Nell’estate del 1934 Hamvas e Kerényi partirono insieme per un viaggio in Dalmazia. In quell’occasione Hamvas lesse a Kerényi un saggio che, “come le altre opere importanti, non uscì mai dallo stato di manoscritto” (19). Si trattava di Álarc és koszorú [Maschera e corona], in cui Hamvas sosteneva che in Ungheria un rinnovamento culturale non poteva nascere da un’azione individuale, ma dall’attività di un gruppo solidale: “L’unica modalità è quella del circolo. Il circolo di coloro che, con la fusione completa delle loro vite, creano un nuovo spirito e una nuova condizione d’esistenza per la comunità” (20). Hamvas pensava che solo lui e Kerényi potessero costituire il nucleo iniziale di un simile organismo. Ma ciò comportava una impersonalità di cui Kerényi non era capace: “Credeva che dipendesse solo da lui. Da lui, sì, da lui. Non era in grado di sacrificare il proprio egocentrismo?” (21)
Hamvas ritornerà sull’argomento Kerényi nel 1945, rievocando “il tentativo eroico (greco-pagano) di creare una nuova comunità magiara” (22). In una nota autobiografica di Hamvas si possono leggere le righe seguenti: “L’esigenza dei giovani che si raccoglievano intorno a noi rendeva legittimo questo interrogativo: in che modo si può creare una comunità facendo ricorso a mezzi sacrali e così arrestare un popolo intero sulla via della decadenza? Avvenne nel 1934-’35. Nel corso di un’estate trascorsa insieme, usando il libro sul Circolo di George, indicazioni, pretese esplicite, convinsi Kerényi della necessità di tale creazione. Egli capì la grandezza delle cose, come è dimostrato dallo studio su Dioniso (l’unità dell’umanità, il ‘superamento di tutte le frontiere’, come diceva lui). Il titolo dello studio era Álarc és koszorú; il suo concetto era lo svilupparsi dell’immagine della corona dalla maschera: la fusione universale. Al centro stava il concetto del Kreis. Il mio pensiero fondamentale è questo: individualmente il rinnovamento è impossibile, perché l’Io è sempre stato anarchico e lo rimane. Collettivamente, istituzionalmente, è altrettanto impossibile rinnovarsi, perché l’istituzione non dà disposizioni ‘universalmente’ e non emana una ‘legge’, ma necessariamente deve stare nell’epoca, è unilaterale e ‘ordina’ soltanto. Occorre un rinnovamento esistenziale, e di questo rinnovamento è focolare il ‘circolo’ (Kreis), ovvero la ‘Corona’. Allora la nostra comunità di lavoro portò il nome di Stemma, che significa corona. Kerényi però mise se stesso al centro del circolo e si presentò come iniziatore: non solo come guida, ma come punto centrale. Qui il tentativo fallì. La situazione fu aggravata dal fatto che egli non si rese conto di ciò che accadeva. Non comprese il carattere sacrale dell’impresa e, allorché (conseguentemente alla propria posizione sociale e per effetto della propria enorme vanità attiva) si mise al centro, la corona si disintegrò e il circolo cessò di esistere. Questo mio tentativo, però, non fu totalmente consapevole, ma deliberato e disinteressato. Fui stimolato dalla dolorosa mancanza dell’autentica comunità, avvertita in tutta quanta la mia vita. Desideravo fondare. Bengel dice: Gründen ist tiefer, denn bauen (23). Questa decisione è oggi più viva che mai“ (24).
Nell’agosto del 1935 uscì a Budapest il primo volume della rivista annuale “Sziget” [Isola]. Oltre a due articoli di Kerényi (Könyv és görögség [Libro e mondo greco] e Sophron [Sofrone]), a due articoli di Hamvas (Bruegel e Az írás platonizmusa [Il platonismo della scrittura]), il fascicolo conteneva uno scritto del saggista, narratore e drammaturgo László Németh (1901-1975), che esercitò una grande influenza nell’Ungheria degli anni Trenta e Quaranta. László Németh, del quale era apparso in quell’anno un carteggio con Kerényi (25), rievocava il suo incontro con quest’ultimo, avvenuto nel 1934 in una delle riunioni settimanali del gruppo Stemma: “Feci conoscenza con Il significato del libro nella cultura greca, recitato, in mezzo ad un gruppo di amici, tra brindisi e allegria, dall’autore stesso. Lirica pura – esclamai appena terminata la lettura, sentendomi però immediatamente imbarazzato dal fatto che il termine ‘pura’, usato da me nel suo significato proprio, potesse essere avvertito soltanto da orecchie estranee nel senso di ‘mera’ o semplicemente come ‘soltanto’. Inoltre, riferita ad un’opera scientifica, la parola ‘lirica’ figura di solito come termine dispregiativo. Per uno studioso affidabile il non essere lirico è motivo di orgoglio” (26). László Németh, “profondamente convinto dell’assoluta superiorità della letteratura greca” (27), aveva al suo attivo un romanzo uscito nel 1930 e intitolato Gyász [Lutto], nel quale hybris e nemesis agiscono come forze centrali di tutta la vicenda; era il primo della serie “greca” di Németh, che sarebbe proseguita nel 1936 con Bűn [Colpa] e nel 1947 con Iszony [Orrore] (28). Il primo numero di “Sziget” conteneva poi un articolo di Sándor Gallus intitolato Exisztenciális őskortudomány [Scienza esistenziale della preistoria] e un articolo dell’egittologo Aladár Dobrovits, Föld és egyiptomi lényeg [Territorio ed essenza egizia].
L’argomento del rapporto tra paesaggio e spirito, accennato nell’articolo di Dobrovits, costituì il tema di una conferenza che Károly Kerényi tenne nell’estate del 1935 a Keszthely sul Balaton, nel quadro dei corsi estivi dell’Università di Pécs (29). In questo ateneo Kerényi aveva ottenuto nel 1934 la cattedra di Filologia greca e latina e storia antica.
Per Béla Hamvas il 1935 è l’anno dell’incontro con l’opera di Julius Evola, che viene da lui paragonato a Eraclito e ad Empedocle. “Non è possibile – scrive in un articolo dedicato a Rivolta contro il mondo moderno – dubitare della sua serietà; la sua attendibilità non è dimostrata tanto dalle note, quanto dalla dottrina che se ne ricava (…) È il tipo di un pensatore nuovo, che con una definizione vecchia, accomodante, è stato chiamato anche ‘filosofo della vita’; ma per lui questa formula è scorretta. (…) Da un certo punto di vista è un filosofo arcaico, in quanto è universalistico e ingenuo. Evola non è il cosiddetto specialista: non è un sociologo, non è uno psicologo, non è uno storico, non si occupa di gnoseologia, non privilegia il punto di vista biologico, o estetico, o politico, o morale, o filologico. L’oggetto del suo pensiero è l’’intero’. Non solo la cultura, ma anche l’uomo; non solo la natura, ma anche il soprannaturale; non solo l’anima, ma anche lo spirito; non solo la vita, ma ciò che è oltre la vita. E non tutto separatamente, ma tutto questo insieme. (…) Non conosce problemi specifici, differenziazioni. Il suo pensiero è come quello di Eraclito o di Empedocle: arcaico. L’oggetto del libro di Evola è l’intero, anzi, l’’intero’ nella crisi” (30).
Arriviamo così alla nascita del saggio Herakleitos helye az európai szellemiségben [Il posto di Eraclito nella spiritualità europea], che Stemma pubblica a Budapest nel 1936, in un volume intitolato Herakleitos múzsái vagy a természetről. Pontos irányítás az élet célja felé [Le Muse di Eraclito ovvero sulla natura. Puntuale indicazione del fine della vita]. Oltre al saggio di Hamvas, il volume contiene un’Introduzione del filologo Dénes Kövendi e una raccolta di frammenti di Eraclito, nell’originale greco e nella traduzione ungherese dello stesso Hamvas.
Due di tali frammenti furono usati da Sándor Weöres (1912-1989) come epigrafe per una sua poesia, Medeia [Medea] (31). Weöres fu una sorta di Rimbaud magiaro, sul quale “ebbero un influsso decisivo i testi tibetani che lesse su indicazioni di Béla Hamvas” (32). Di quest’ultimo, d’altronde, Weöres si dichiarò seguace (33), riecheggiandone alcuni temi nella sua produzione poetica (34). Prima di ispirarsi al tema di Stonehenge, trattato da Hamvas nel 1940 (35), nel 1938 pubblicò un sonetto intitolato Herakleitos (36); più tardi scrisse anche un Orpheus (37).
Nell’aprile del 1936 esce il secondo volume di “Sziget”. I nomi nuovi sono quello di Dénes Kövendi, che firma un saggio di argomento filologico (Physica naturaliter platonica) e quello di Antal Szerb (1901-1945), che scrive su Don Chisciotte e Sancho Panza. Autore di A Pendragon legenda [La leggenda dei Pendragon], una parodia delle storie gotiche inglesi, due anni prima Szerb aveva vinto, con una sua storia della letteratura ungherese, il premio della rivista “Erdélyi Helikon” [Elicona transilvano]. László Németh è presente con due poesie: l’ode Platóni pillanat [Momento platonico] e il sonetto Egy [Uno].
Béla Hamvas firma ben tre articoli. Nel primo, Rilke levelei [Lettere di Rilke] (38), viene esposta la tesi secondo cui nel Novecento la lirica si rifugia nelle opere non destinate alla pubblicazione, come lettere e diari. Nel secondo, Az Aphaia-templom [Il tempio di Afea] (39), Hamvas affronta il tema del genius loci, che nella sua produzione successiva avrà una certa importanza. Il terzo articolo, Nietzsche és a George-kör [Nietzsche e il circolo di George] (40), è una critica della posizione assunta dal George-Kreis nei confronti di Nietzsche e segna la fine del periodo della collaborazione di Hamvas col circolo di Kerényi.
Fu probabilmente la rottura con Kerényi la causa del fatto che Hamvas, a quanto risulta, non incontrò personalmente Julius Evola nel corso delle conferenze tenute da quest’ultimo a Budapest, conferenze che videro invece la presenza di Kerényi (41). Una conferenza di Evola, ben documentata, ebbe luogo il 24 aprile 1942 in una sala del Nemzeti Múzeum (42); un’altra, o più di una, fu verosimilmente tenuta in un periodo precedente, ma non anteriormente al 1936, anno in cui è attestata la prima visita dello scrittore italiano in Ungheria (43). Nel periodo che va dal 1937 al 1940, Evola segnalava al pubblico italiano i nomi di Károly Kerényi (44) e di Angelo Brelich (45) e richiamava sulla kerényiana Religione antica l’attenzione di René Guénon (46), il quale nel 1945 la recensì in maniera piuttosto favorevole su “Études traditionnelles” (47). È dunque ben lungi dall’essere esatta l’affermazione di Kerényi secondo cui a “scoprirlo” in Italia sarebbe stato Cesare Pavese (48), che nel 1948 fece pubblicare da Einaudi la prima edizione italiana di Einführung in das Wesen der Mythologie (49).
Nel 1937 e nel 1938 apparvero le prime edizioni di un breve scritto intitolato Pythagoras und Orpheus: Präludien zu einer Zukünftigen Geschichte der Orphik und des Pythagoreismus, nel quale Kerényi si occupava delle relazioni tra orfismo e pitagorismo. Il saggio di Kerényi non sfuggì all’attenzione di uno studioso cui si deve un’ampia esposizione delle dottrine pitagoriche, Vincenzo Capparelli, il quale, dopo avere riassunto il contenuto di Pythagoras und Orpheus, concludeva negando che Kerényi avesse recato “un notevole contributo di chiarificazione sulla questione dei rapporti orfico-pitagorici” (50).
Orfeo, Pitagora, Eraclito ed Empedocle sono figure centrali in Scientia sacra (51), l’opera di sintesi che Hamvas iniziò a scrivere nel 1943. Eraclito e Pitagora, al pari di Lao-tze, Confucio, Buddha, Zarathustra e Thoth, rappresentano la crisi che ebbe luogo nella storia umana intorno all’anno 600 a. C., una crisi che Hamvas paragona al “calare di una cortina” (52). Eraclito e Pitagora sono i giudici dell’umanità decaduta e ogni loro parola possiede il “taglio apocalittico” (53) del giudizio cui si trova sottoposta la vita dopo che si è staccata dall’essere. Ai loro nomi, Hamvas accosta quello di Empedocle: “La figura di quest’uomo affascina fin dal primo istante. Egli si muove con una coscienza illimitata; sembra che sia in possesso di un sapere ugualmente valido nella geodesia, nell’astronomia, nella religione, nell’insegnamento, nella medicina, nel governo dello stato, nella metafisica, nella poesia. Negli ultimi tempi, si è diventati abbastanza diffidenti nei confronti di questa versatilità del grande uomo dell’età primordiale, e la versatilità delle figure anteriori alla storia è stata considerata una leggenda. (…) È ovvio che lo specialista odierno, nella sua prospettiva ristretta e limitata, sia istintivamente scettico nei riguardi di un’individualità umana di ampiezza cosmica e di respiro universale” (54). Empedocle e gli altri “teologi antichi” sono persone sacre, manifestazioni di un archetipo che Hamvas chiama “il Maestro della Vita”. “Il senso della loro universalità – egli scrive - è il loro carattere superumano. Quel sicuro e consapevole sfolgorio che appare nelle loro parole e nelle loro azioni e che trabocca dalle loro persone anche attraverso aneddoti spesso stupidi, rende quasi sperimentabile con i sensi questo carattere superumano” (55). Orfeo, Eraclito, Pitagora, Empedocle e ancora, in qualche modo, Platone (56), rappresentano nel mondo greco quel tipo di uomo “che è ancora possibile scorgere sulla soglia della storia, senza che la perfezione del suo essere sia raggiungibile da parte dell’uomo storico” (57). Sono epifanie di un archetipo che Hamvas chiama “l’uomo venuto dall’alto” (58), il quale “irradia sugli strati inferiori le forze provenienti dall’alto ed innalza il mondo inferiore” (59).
In Anthologia humana (60), un florilegio della “saggezza di cinquemila anni” compilato da Hamvas nell’immediato dopoguerra, il capitolo dedicato al mondo greco e a Roma ripropone gran parte dei frammenti di Eraclito tradotti nel 1936, nonché i Versi aurei pitagorici.
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(1) Martin Heidegger, Aletheia (Eraclito, Frammento 16), in: Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1980, p. 178.
(2) Framm. 21 Flacelière. Cfr. Plutarco, Sulla E di Delfi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, p. 24: “Il fuoco si tramuta diventando tutte le cose – secondo quanto afferma Eraclito – e tutte le cose si tramutano in fuoco, nella stessa maniera che l’oro si muta in denaro e il denaro in oro”.
(3) Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Newton Compton, Roma 1970, p. 97.
(4) Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano 2003. Idem, La persuasione e la retorica, Adelphi, Milano 1982.
(5) György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1970, vol. I, p. 261.
(6) Gy. Lukács, op. cit., p. 391.
Karoly Kerenyi
(7) Gy. Lukács, op. cit., p. 392.
(8) “Quest’uomo fiero ed inflessibile ama la differenza tra quelli che dominano e quelli che ubbidiscono e possiede un profondo rispetto per I costumi e le istituzioni della tradizione, non più sacri per la democrazia (…) La democrazia inizia il suo dominio ed Eraclito è troppo rigido e caparbio per cedere o lamentarsi inutilmente” (Oswald Spengler, Eraclito, Settimo Sigillo, s.d., pp. 10-11).
(9) O, se si preferisce, di “direttore di coscienze”, per usare la leggiadra definizione che di Georg Loewinger alias György Lukács venne data da Ferenc Fischel alias François Fejtő. Secondo il saggista ebreo-cattolico-marxista-liberale, infatti, Lukács “esercitava nel paese l’autorità di un vero e proprio ‘direttore di coscienze’ (…) Egli era la prova vivente della tolleranza del regime verso le menti più sottili” (F. Fejtő, Ungheria 1945-1957, Einaudi, Torino 1957, pp. 122-123). Ricordiamo agli immemori che la tolleranza di Lukács si manifestò nella sua attività di consulenza per la compilazione del Catalogo della stampa fascista e antidemocratica, un vero e proprio Index librorum prohibitorum che venne pubblicato tra il 1945 e il 1946 dal governo a maggioranza centrista. Sul rogo dei libri nell’Ungheria “liberata”, cfr. C. Mutti, Il Vangelo secondo Lukács, “Letteratura-Tradizione”, I, 4, giugno-agosto 1998, p. 34.
(10) Lukács György, Az absztrakt művészet magyar elméletei [Le dottrine ungheresi dell’arte astratta], Budapest 1947.
(11) Keszi Imre, Egy állami intézmény, amelyet ideje lenni államosítani. Az Egyetemi Nyomda kultúrpolitikája [Un’istituzione statale che sarebbe ora di statalizzare. La politica culturale della Tipografia Universitaria], “Szabad Nép”, 25 aprile 1948.
(12) Ibidem.
(13) Lettera a Franz Altheim del 3 febbraio 1950; cit. da Volker Losemann, I “Dioscuri”: Franz Altheim e Karl Kerényi. Tappe di una amicizia, in AA. VV., Károly Kerényi: incontro con il divino, a cura di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 1999, p. 27.
14) Mario Untersteiner e Carlo Kerényi: due spiriti europei in un epistolario, a cura di Dino Pieraccioni, estr. da “Nuova Antologia”, n. 2162, aprile-giugno 1987, p. 321, n. 81.
(15) Károly Kerényi, Selbstbiographisches, in Werkausgabe, V, 2, p. 435.
(16) Darabos Pál, Hamvas Béla. Egy életmű fiziognómiája II., vol. I, Farkas Lőrinc Imre Könyvkiadó, Budapest 1997, p. 40.
(17) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260.
(18) Angelo Brelich, cit. da János György Szilágyi, Religio Accademici, in AA. VV., Károly Kerényi: incontro con il divino, cit., p. 9.
19) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260.
(20) Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 260
(21)Béla Hamvas, in: Darabos Pál, op. cit., p. 261.
(22) Hamvas Béla, Biblia és romantika [Bibbia e romanticismo], verbale delle conversazioni avute con Lajos Szabó e Béla Tábor nel corso del 1945-1946, dattiloscritto, p. 85.
(23) Bengel, Johann Albrech, teologo protestante tedesco, 1667-1752 (Nota di B. Hamvas).
(24) Hamvas Béla, Biblia és romantika, cit.
(25) Németh László – Kerényi Károly Levélváltása, Válasz, Budapest 1935.
(26) Németh László, Sziget és alkotás [Isola e creazione], “Sziget”, I, 1935, p. 28.
(27) Maria Teresa Angelini, I romanzi di László Németh fra grecità e cristianesimo, “RSU. Rivista di Studi Ungheresi”, 5, 1990, p. 41.
(28) Tradotto in italiano (dalla traduzione tedesca) col titolo Una vita coniugale, Einaudi, Torino 1965.
(29) Prima ed. ungh.: Táj és szellem [Paesaggio e spirito], “Sziget”, II, 1936, pp. 9-24. Prima ed. tedesca: Die Welt als Geschichte, “Zeitschrift für universalgeschichtliche Forschung“, II, 1936. In italiano: Paesaggio e spirito, in: Karl Kerényi, La Madonna ungherese di Verdasio, Armando Dadò, Locarno 1996, pp. 17-32.
(30) Hamvas Béla, Modern Apokalipszis. A világkrizis irodalma, [Apocalissi moderna. La letteratura della crisi] “Társadalomtudomány” [Sociologia], a. XV, n. 2-3, aprile-settembre 1935, pp. 113-127.
(31) Weöres Sándor, Medeia, in: Egybegyűjtött írások [Scritti raccolti], vol. II, Magvető, Budapest 1973, pp. 255-270.
(32) Paolo Ruzicska, Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia, Milano 1963, p. 741.
(33) “Ringrazio il mio maestro Béla Hamvas per aver potuto scrivere questo libro: egli ha creato in me l’armonia”. Così scrive Weöres Sándor all’inizio di A teljesség felé (“Próza-vázlatok”) [Verso la perfezione (“Schizzi in prosa”)], Tericum, Budapest 1995, p. 5.
(34) Cfr. Stonehenge. Álom az ősvilágról [Stonehenge. Sogno del mondo arcaico], in: Weöres S., Merülő Saturnus [Saturno sommerso], Magvető, Budapest 1968, pp. 15-21.
(35) Hamvas Béla, Stonehenge. A szikla eksztázisa, “Napkelet”, 7, 1940, pp. 337-342; trad. it. di C. Mutti in: B. Hamvas, Da Eraclito a Guénon, Aragno, Torino 1999, pp. 39-47).
(36) “Non dir cattivi Dio e la vita. A loro – non chiedere la gioia in elemosina. – Tiepida pozza di felicità – non è il mondo, né esiste per soccorrerti. – Quel che ti fu spacciato come Dio – è un idolo sgraziato variopinto; - nient’altro fa che stare lì, ieratico, - a guardar cosa mendican da lui. – È ben altro! È di più! Per lui ho il canto, - non parole. Bontà, giustizia, mente – che cosa hanno a che far con l’infinito? – Sbagli, se dici che il mondo è cattivo – perché non hai avuto la tua pappa: - esisti tu per lui, non lui per te”. (Traduzione nostra, da: Weöres S., Herakleitos, in Egybegyűjtött írások, cit., vol. I, p. 190).
(37) Weöres S., Orpheus, in Egybegyűjtött írások, cit., vol. II, pp. 271-277.
(38) “Sziget”, II, 1936, pp. 25-32.
(39) “Sziget“, II, 1936, pp. 57-58.
(40) “Sziget“, II, 1936, pp. 83-103.
(41) In una lettera in tedesco scritta a Kerényi il 19 ottobre 1957 (Archivio Statale di Marbach), Evola esordisce così: “Egregio Professore, è ormai trascorso un lungo tempo, da quando ci siamo incontrati a Budapest in occasione delle mie conferenze presso il Kulturbund della contessa Zichy”.
(42) C. Mutti, La Grande Influence de René Guénon en Roumanie, suivi de Julius Evola en Europe de l’Est, Akribeia, Saint-Genis-Laval 2002, pp. 180-184.
(43) C. Mutti, op. cit., pp. 177-180. Cfr. C. Mutti, Julius Evola sul fronte dell’Est, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998, pp. 39-41.
(44) Il libro di Kerényi La religione antica nelle sue linee fondamentali (trad. di D. Cantimori, Zanichelli, Bologna 1940) fu recensito da Evola nell’articolo Vita degli antichi. Il “sacro”, “Corriere Padano”, 15 maggio 1940, ora in: J. Evola, I testi del Corriere Padano, Edizioni di Ar, Padova 2002, pp. 380-384. La medesima recensione apparve in “Bibliografia fascista”, a. XV (1940), n. 7, ora in: J. Evola, Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia fascista”, vol. II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1995, pp. 70-76. Sul "non encomiabile atteggiamento" che nel nuovo clima politico postbellico Angelo Brelich terrà nei confronti del suo primo recensore e sulle "poco note avventure trasformiste" di Brelich, si vedano due saggi di Giovanni Casadio: Franz Altheim: dalla storia di Roma alla storia universale, in F. Altheim, Deus invictus, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p. 29, nonché Locale versus globale nello studio della religione greca, in D. Giacometti, Metaponto. Gli dei e gli eroi nella storia di una polis di Magna Graecia, L. Giordano, Cosenza 2005, pp. 239-271.
(45) Evola pubblicò sul “Diorama filosofico quindicinale”, la pagina di “Regime fascista” da lui diretta, due articoli di Angelo Brelich: Antica spiritualità eroica (25 febbraio 1937) e Giove e l’idea romana dello Stato (18 gennaio 1940). Il saggio di Angelo Brelich Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’Impero romano (Istituto di numismatica e archeologia dell’Università, Budapest 1937) fu recensito da Evola in “Bibliografia fascista”, a. XIII (1938), n. 6; ora in: J. Evola, Esplorazioni e disamine, cit., pp. 168-171. La stessa recensione, intitolata La concezione romana del post mortem, uscì anche sul “Corriere Padano” del 5 aprile 1938 (ora in: J. Evola, I testi del Corriere Padano, cit., pp. 312-314).
(46) Il 29 ottobre 1949 René Guénon scriverà ad Evola: “Sono molto stupito di quanto mi riferite a proposito di Károly Kerényi, perché mi ricordo che in passato me ne avevate parlato in una maniera molto favorevole; doveva essere nel 1939 o nel 1940, e in quella occasione mi avevate spedito il suo libro La religione antica (…)” (René Guénon, Lettere a Julius Evola, Sear, Borzano 1996, p. 110). Lo stupore di Guénon è dovuto al fatto che Evola gli ha parlato in termini non positivi dei Prolegomeni alla mitologia come scienza, scritti da Kerényi in collaborazione con Carl G. Jung e apparsi un anno prima in edizione italiana (trad. di Angelo Brelich, Einaudi 1948). La comparsa di questo libro (che nella successiva edizione di Boringhieri del 1972 recherà il titolo Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia) produsse in Evola, notoriamente assai critico nei confronti di Jung, una certa delusione nei confronti di Kerényi che se lo era “associato”. In uno scritto siglato “Ea” (pseud. di Evola) ed intitolato L’esoterismo – L’inconscio – La psicanalisi leggiamo: “lo Jung si è associato ad un moderno studioso di mitologia, il Kerényi, che non manca di una certa qualificazione, e che incomprensibilmente gli ha affidato l’interpretazione ‘scientifica’ di vari miti classici” (Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, vol. III, p. 389. Kerényi viene citato da Evola anche nella Dottrina del risveglio (Roma 1995, p. 40 e 66n.), in Metafisica del sesso, Roma 1994, pp. 94, 156, 206, 272) e in L’arco e la clava (Roma 1995, pp. 57, 90-93).
(47) René Guénon, Recensioni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981, pp. 53-57.
(48) Il 5 ottobre 1964 Kerényi scriveva a Furio Jesi: “Cesare Pavese fu precisamente colui che, in Italia, mi scoprì, e forse non soltanto nell’ambito della storia delle religioni, ma in quello della cultura italiana in generale” (Furio Jesi – Károly Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, Quodlibet, Macerata 1999, p. 19).
(49) C.G. Jung – K. Kerényi, Einführung in das Wesen der Mythologie, Pantheon, Amsterdam-Leipzig-Zürich 1941 (poi Gerstenberg, Hildesheim 1980).
(50) Vincenzo Capparelli, La sapienza di Pitagora, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, vol. I, p. 335. Prima edizione: CEDAM 1944.
(51) Hamvas B., Scientia sacra. Az őskori emberiség szellemi hagyománya [Scientia sacra. La tradizione spirituale dell’umanità primordiale], Magvető, Budapest 1988.
(52) B. Hamvas, Scientia sacra (trad. di C. Mutti), 2 voll., Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2000-2001, vol. I, p. 15.
(53) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 25.
(54) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 57.
(55) B. Hamvas, Scientia sacra, vol. I, p. 58.
(56) Hamvas scrisse alcuni articoli su Platone: A XX. Század Platon-képe [L’immagine di Platone nel XX secolo], “Athenaeum”, vol. XXIV (1938), pp. 72-80; Az örök filozófus. Hozzászólás a Magyar Filozófiai Társaság “A filozófia története” cimű, 1941. május 6-án tartott vitájához [Il filosofo eterno. Intervento al dibattito della Società Filosofica Ungherese intitolato “La storia della filosofia” e svoltosi il 6 maggio 1941], “Athenaeum, vol. XXVII (1941), pp. 437-438; Az archaikus közösség. A teljes magyar Platón megjelenése alkalmából [La comunità arcaica. In occasione della pubblicazione dell’opera omnia di Platone in ungherese], “Társadalomtudomány”, 4-5, 1943, pp. 475-483. L’opera omnia di Platone in ungherese (Platon összes művei, 2 voll. Magyar Filozófiai Tarsaság, Budapest 1943) comprende tre traduzioni di Hamvas: Menon [Menone], I, pp. 357-400, A kisebb Hippias [L’Ippia minore], I, pp. 445-564, A nagyobb Hippias [L’Ippia maggiore], I, pp. 465-499.
(57) B. Hamvas, Scienza sacra, vol. I, p. 123.
(58) B. Hamvas, Scientia sacra, ibidem.
(59) B. Hamvas, Scientia sacra, ibidem.
(60) Hamvas B., Anthologia humana. Ötezer év bölcsesége [Anthologia humana. La saggezza di cinquemila anni], Egyetemi Nyomda, Budapest 1947.
Scritto da Claudio Mutti il 15.12.2009 su claudiomutti.com