domenica 30 gennaio 2011

POESIE

PREGHIERA.....



DIO MIO TI RINGRAZIO PERCHE' FAI CHE
QUESTO CUORE(DI TUTTI COLORO CHE TI AMANO)
NON SI ADDORMENTI NELLE COMUNI CERTEZZE,
ORMAI ARRESO ALLA TUA SOLA EVIDENZA E' STANCO
DI TUTTE LE FILOSOFIE E TEOLOGIE CHE COME TANTE CHIACCHIERE NON PERMETTONO DI
ASCOLTARLI NEL SILENZIO.
UN CUORE CHE RENDI CAPACE DI CONSUMARE
NEL SUO CALORE VIBRANTE OGNI INGIUNZIONE
DOGMATICA E TUTTE LE BANALITA' DI CUI TI
INCOLPANO COME SE FOSSI TU E NON LA
STUPIDITA'UMANA A RIVELARLE.
TI RINGRAZIO POICHE' LO FAI SPETTATORE DI
TUTTE LE ERESIE CHE SI ACCUSANO LE UNE
CON LE ALTRE D'ERESIA,E LO HAI RESO
ABBASTANZA SAGGIO DI NON PARTECIPARVI.
TU GLI PERMETTI DI SORRIDERE DI TANTE
PREOCCUPAZIONI INSULSE PER QUESTO E
PER L'ALTRO MONDO.
TI RINGRAZIO QUANDO FAI UN NULLA DEL MIO NULLA ED IN ESSO TI PERCEPISCI E TI
CONTEMPLI IN TUTTE LE FORME DI ME STESSO.
SIGNORE IL TUO MISTERO M'AVVOLGE E MI
INONDA DI LACRIME,SCIOGLIE IN TE QUESTA
PIETRA ILLUSORIA D'ATOMI.
OGNI MOMENTO CHE CONCEDI E' IL TUO MOMENTO
CHE INEBRIA OGNI PRESENTE,SOLO QUESTO VALE.
GRAZIE DEL MIO NULLA CHE E' LA COSA PIU' PREZIOSA CHE MI HAI DONATO,CHI LA TEME
TI TEME E SI ALLONTANA DA TE, O MISERICORDIOSO, DANDO ORIGINE ALLE VANE
CERTEZZE CHE PRIMA O POI SCOMPARIRANNO NELLA LORO STESSA ILLUSIONE.
OH VERITIERO, ARMONIA DI TUTTI I TUOI STATI!
SE E' COSI' BELLA,PRELUDIO D'INFINITO,LA LUCCIOLA CHE MI PONI TRA LE MANI,
ALLORA LA TUA LUCE.....
OH IMMENSO , UNICO DIO MIO!!!


N. NURUDDIN


Jami
                                                                                            





ASTAGHFIR ULLAH (PERDONAMI O SIGNORE):
PER OGNI DISATTENZIONE
PER IL SORRISO E L'ASCOLTO NEGATO
ASTAGHFIR ULLAH
"per non aver spiccato il volo dell'angelo
tirato verso la stalla dall'asino"*
ASTAGHFIR ULLAH
per ogni pensiero e parola nobile non espressa
per ogni silenzio infranto
per ogni cosa di piu' e per ogni cosa di meno.
ASTAGHFIR ULLAH
per ogni goccia di nettare non goduta
per ogni amarezza non accettata
per ogni illusione di passi fatti senza TE
per aver chiuso gli occhi quando la Luce avanzava
per ogni dimenticanza della Tua presenza
ASTAGHFIR ULLAH
ogni volta che il battito del cuore
non proclama la Tua Unita' nel Me
stringendosi per Te
espandendosi per Te.
N.NURUDDIN 1420)




EGLI E' CON NOI!!!
Totalmente inatteso il mio ospite giunse.
"Chi e'",chiese il mio cuore.
"La faccia della luna", disse la mia anima.
Quando entro' in casa
Tutti corremmo in strada, folli in cerca della luna.
"Sono qui",lui ci chiamo' dall'interno,
ma noi cercavamo fuori, ignari del suo richiamo.
Il nostro usignolo canta ebbro in giardino,
noi tubiamo come colombe:"Dove, dove, dove?".
Si raduno' una folla:"Dov'e' il ladro?".
E il ladro in mezzo a noi dice:
"Si', dov'e' il ladro?".
Tutte le nostre voci si mescolarono
E nessuna si distingueva dalle altre.
Egli e' con voi significa che cerca assieme a voi,
che vi e' più vicino di voi stessi,perché cercate fuori?
Diventate come neve che si scioglie,ripulite voi stessi da
RUMI
voi stessi.                                                                                   
Con l'amore la vostra voce interiore troverà una lingua
Che crescerà come un muto candido giglio nel cuore.
Jalal al-Din Rumi
Tratto da IN QUIETE 

sabato 29 gennaio 2011

Guido Ceronetti celebrazione A Modo Suo Louis-Ferdinand Céline

"Ma io, filosemita, celebro Céline"

Carta di identità di L. Celine
di Guido Ceronetti                                                            

Deploro fortemente che uno scrittore come Céline sia stato tolto dal calendario delle celebrazioni per il 2011 in Francia. Un ministro della Cultura, in qualsiasi governo francese, ha sufficiente autorità per resistere ad ogni gruppo privato di pressione, sia pure benemerito, come in questo caso. Céline non è un piccolo pesce; è uno dei massimi scrittori e testimoni del secolo. Il suo cinquantenario (morì nel 1961, a Meudon, in banlieue) non sarà ugualmente dimenticato. Si capisce: la Shoah è una ferita della storia dell’uomo che il tempo non può né deve sanare, e il grido di Rachele in Ramah seguita a irrorarla di lutto. Ma la paranoia antisemita di uno scrittore che non ha versato sangue di deportati va vista come una anomalia della psiche, un’ombra del Fato, il possesso di un demone incubo. Va analizzata come malattia e non elevata a colpa. «Ha una pallottola in testa» lo giustificava Lucette. Lui, l’episodio della Grande Guerra che l’aveva fatto congedare e medagliare in fretta, non l’aveva mai taciuto: l’agitava sempre, il suo congedo di invalido permanente per il settantacinque per cento: ma sopratutto a renderlo furiosamente antisemita era stata l’ossessione che gli ebrei — tutti, in massa, banchieri o straccioni — spingessero ad una nuova spaventosa guerra con la povera Germania, che fino a Hitler non pensava minimamente a difendersene. Nel Trentasette pubblicò il suo manufatto di deliri, Bagatelles pour un massacre, pestando perché la Francia non perdesse tempo a disfarsi dei suoi ebrei, a scrostarli dai muri, a cacciarli via «che non se ne parlasse più» : una scrittura così potente come la sua attirò come miele gli antidreyfusardi, senza guadagnargli le simpatie dei nazisti; per la Gestapo, Céline era più pazzo che utile. Anche come antisemita Céline fu un isolato: i comunisti lo esecrarono dopo Mea culpa, agli antisemiti bisognosi di «razzismo scientifico» o religioso, di motivazioni monotone e piatte, quel Vajont di metafore forsennate, che finivano in pura autodistruzione spense presto il favore iniziale; inoltre, incontenibile, sotto l’occhio dei tedeschi occupanti che rigettavano e temevano il suo zelo pacifista, picchiava pubblicamente anche contro la connerie aryenne (che renderei come fessaggine, stronzaggine ariana). Non furono le sciagurate metafore celiniane dei tre saggi antisemiti a riempire i treni dei deportati da sterminare: chi li avrà mai letti tra i burocrati di Vichy? In una guerra simile contro l’essenza umana (altro che «banalità del male» !) furono senza numero i paradossi tragici. Céline nel Semmelwei, nel Voyage, in Mort à crédit, nei suoi romanzi stilisticamente ultraviolenti del dopoguerra, nei suoi viaggi al seguito del governo collaborazionista in fuga a Sigmaringen, spinse fino all’indicibile l’espressione letteraria della pietà umana; fu un moderno, e rimane, incarnatore di Buddha, un angelo pieno di cicatrici, che sfoga una pena scespiriana. Aggiungi il suo lavoro fino all’ultimo giorno di strenuo medico dei poveri, che quasi mai si faceva pagare. Lucette, a Meudon, mi mostrò la poltrona dove Céline passava la notte di insonne a vita. Il paesaggio, dalla vetrata, erano le officine della Renault-Billancourt, una fumante galera umana, non scorgevi un albero. Di là gli cadevano gocce fisse di delirio, da scavare una pietra, sul cranio della pallottola di guerra, Erinne dettatrici di insulti feroci di satirico, di maniaco di persecuzione (motivato), di aperture denunciatrici di verità crudeli, di amore per la bellezza, di sorriso in travaglio. L’insonnia, alleata del Contrasto, violenta di chiaroscuro, è «madre di tutto» . Il secolo XX ci ha lasciato tre libri, generati direttamente da una interminabile sequela di calvari umani che ha appestato e stravolto la totalità del pianeta abitato o inabitato — e i tre grandi libri mi sono indicati essere i racconti e i diari ultimi di Kafka, i racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, e il Voyage au bout de la nuit di Céline. Comparando l’antisemitismo ormai sciolto negli acidi del Tempo di Céline, e il disastro filosofico di Martin Heidegger quando fu pervaso, tra 1933 e 1935, per vanità universitaria, per credulità da debilità mentale (quantunque giovane), di zelo filonazista nascostamente antisemita— mi sarebbe più facile, dovessi fare il minosse e pronunciarmi su entrambi, mandare semiassolto (o del tutto) Céline, astenendomi dall’incolpare Heidegger esclusivamente per motivi di prescrizione. Un pensatore non aveva nessun diritto di degradarsi a quel modo. Il discorso di rettorato del filosofo di Friburgo è peggio, è più mendace, più corruttore, di Bagatelles pour un massacre. Tuttavia, se di valori si parla, Heidegger è Heidegger. Se di gloria letteraria si parla, Céline, riplasmatore del linguaggio, petite musique, affrescatore e medico delle miserie umane, è Céline. Ingiusto e ridicolo, cancellarlo dalle celebrazioni del 2011. Era un’occasione per comprendere, riscoprire, analizzare. L’odio, Spinoza dixit, non può mai essere buono.

Fonte: Corriere della sera, 26/01/2011.



martedì 25 gennaio 2011

Maria Corti, l'Islam e Dante, 20 Aprile 2000

1. Professoressa Corti, riguardo al tema dell’influenza della cultura araba in Dante, può descrivere in primo luogo l’importanza che nel corso del Duecento ebbero i centri di diffusione della cultura araba principalmente quelli della Toledo di Alfonso decimo il Savio e del regno di Sicilia di Federico II?


Il Duecento è un secolo particolarissimo nella cultura italiana, perché è un secolo in cui i rapporti fra il mondo cristiano e il mondo musulmano si fanno molto più stretti, per tutta l’area mediterranea. E questo si deve soprattutto a un evento storico e alla grandezza di due personaggi che hanno dominato il Duecento, che sono Federico II, imperatore re di Sicilia e Alfonso decimo il Savio. Questi due personaggi, per ragioni particolari, nella loro infanzia furono molto legati al mondo arabo. Federico II, addirittura, visse da bambino quasi nell’ambiente arabo, dopo che morì sua madre. E a sua volta, Alfonso decimo, ebbe strettissimi rapporti familiari con le personalità della cultura araba. Questo contribuì a creare un fenomeno veramente affascinante che sarebbe bello che si ripetesse presso tutti i popoli: un fenomeno di trasmissione di cultura. Gli arabi portavano in Occidente soprattutto la cultura greca. La filosofia greca, la trascrivevano in arabo e poi i testi arabi venivano tradotti. Alfonso il Savio creò la famosa scuola di Toledo nella quale si traduceva tutto dai vari paesi del mondo, in castigliano, poi dal castigliano in latino o in francese antico.
2 . Dal punto di vista delle influenze indirette, come e cosa attinge Dante dal patrimonio di temi, motivi e idee di origine islamica, che, nel quadro del fenomeno dell’interdiscorsività, circolavano nella cultura in cui egli operava?

Il fenomeno dell’interdiscorsività è un fenomeno molto importante che è stato studiato da Bachtin. Quando due culture sono in stretto contatto, i vocaboli, le idee, i pensieri, i concetti di una cultura passano ovviamente all’altra e quindi non si riesce più a trovare la fonte diretta, perché quando un’espressione comincia a circolare non si sa più chi l’abbia creata o chi l’abbia messa in circolo. Questo è ciò che avviene per Dante. In Dante ci sono molti arabismi, che gli vengono per questo fenomeno dell’intertestualità. Non sono degli arabismi che Dante abbia appreso da un particolare libro. Un fenomeno che si può esemplificare subito è quello che ci dà l’episodio di Ulisse. In questa occasione Dante ci dice come Ulisse giunge alle colonne D’Ercole: "Là dove Ercole segnò i suoi riguardi a ciò che l’uom più oltre non si metta", cioè dove Ercole stesso ha messo il confine non si va. Dove sono le colonne D’Ercole? Sono nello stretto di Gibilterra, quindi lo stretto di Gibilterra, secondo questo concetto, era chiuso. Non si poteva uscire dallo stretto di Gibilterra. Ora, questa è una tradizione che è nata con gli arabi. Nel mondo greco e nel mondo latino, tutti passavano dentro e fuori dallo stretto di Gibilterra senza che succedesse niente. Gli arabi mettono questo divieto. E perché lo mettono? Lo mettono per poter meglio dominare il commercio marittimo nel Mediterraneo. Come è chiamato questo divieto in arabo? È chiamato safì, e noi lo sappiamo perché, per esempio, un autore contemporaneo di Dante, Guido delle Colonne, ha scritto un’opera in cui alle colonne c’era quella cosa che in saracenica lingua dicitur "safì", cioè che in lingua araba si chiama "safì". Questo divieto non lo troviamo accolto solo da Dante, ma lo troviamo, per esempio, in un’altra opera del Duecento che prova appunto questa circolarità: un trattato che si chiama "Il mare amoroso". In questo trattato, l’uomo per esprimere il desiderio che ha della donna dice: "la seguirei fino al braccio di safì, là dove una man dice nimo ci passi". Ora questo brano è sempre stato commentato in questo modo: siccome si chiama "braccio" di Gibilterra, allora il poeta avrebbe usato la metafora "mano". Invece non è così: c’era una statua di Maometto, altissima, in bronzo (poi dorata). E questa statua aveva la mano sinistra che era volta verso lo stretto di Gibilterra e faceva segno no: non dovete passare. Ora, questa è la prova di come si possano usare dei vocaboli della cultura araba, senza quasi pensare al fatto che siano arabi.
3. Dal punto di vista dell’intertestualità (ossia del rapporto con le fonti dirette con i testi e le opere della cultura araba), come giungono questi nelle diverse traduzioni sino a Dante? E quali autori, tra cui Brunetto Latini, hanno contribuito a fargliele conoscere?

La scuola di Toledo, come ho già accennato, aveva il compito di tradurre questi testi arabi in lingue abbordabili dai cristiani e dai mediterranei. Quindi, teoricamente, tutto quello che era tradotto alla scuola di Toledo si poteva leggere. Ma noi dobbiamo porci il problema di come Dante abbia avuto dei testi arabi tradotti. Dobbiamo avere la prova per dire che esiste un fenomeno di intertestualità, e soprattutto se esiste un fenomeno di fonte. Ora, noi sappiamo, per esempio, un dato molto importante: alla scuola di Toledo c’era un traduttore, che era Bonaventura da Siena (cioè un toscano), che faceva anche il notaio per re Alfonso. Ora, questi tradusse un libro che fu composto in arabo nell’ottavo secolo, questo libro è intitolato Liber Scalae Maometti (Libro della scala di Maometto). É un libro in cui si racconta il viaggio di Maometto nell’aldilà, accompagnato dall’arcangelo Gabriele nel paradiso e nell’inferno. Prima vanno in paradiso e dopo all’inferno: il purgatorio non c’è nella religione araba (e quindi questo non ci riguarda), ma Dante prende lo stesso anche per il purgatorio degli elementi da quest’opera. Quest’opera come è arrivata a Dante? Intanto, noi sappiamo che quest’opera era diffusa. Tanto è vero che Fazio degli Uberti nel Dittamondo la cita, a un certo verso dice: "il libro della scala". Quindi era un libro noto in Occidente: non era strano che Dante occupandosi dell’oltretomba leggesse un libro in cui Maometto va a fare un viaggio nell’oltretomba. Ma c’è anche qualche elemento in più, molto importante: Dante avvicinò molto Brunetto Latini. Brunetto Latini è un personaggio di enorme importanza. Noi in Italia non l’abbiamo ancora messo in luce, come hanno fatto invece in Spagna. Lo consideriamo quasi un maestro di Dante, un uomo che faceva dell’attività politica a Firenze. E invece, Brunetto Latini, non solo stette molto nella Castiglia (a Oviedo), ma fu amico di re Alfonso Decimo e, guarda caso, avvicinò alla corte di re Alfonso Decimo proprio il traduttore di quest’opera: Bonaventura da Siena. Ci stupirebbe che Brunetto Latini torna in Italia e, sapendo che Dante deve fare la Divina Commedia, non gli dice: "Guarda che c’è un’opera che tratta di questo". Quindi abbiamo molti elementi che ci portano a questa conclusione.
4. Lei ha preso in esame, nel saggio "Dante e la Torre di Babele", il pensiero linguistico di Dante, con particolare riferimento al primo libro De Vulgari eloquentia. Traendo spunto dall’interpretazione in chiave di allegoria laica e cittadina dell’episodio biblico della torre di Babele, lei sottolineava come Dante avesse colto la funzione sociale del segno linguistico. Anche il problema dell’origine delle lingue riceve nuova luce, se lo si rapporta al fatto che Dante vede nella confusio linguarum postbabelica, tra l’altro, un riflesso dell’imperfezione umana. Su queste tematiche è ritornata nel libro "Percorsi dell’invenzione". Qual è la sua posizione attuale su questi problemi?

Ho superato in parte quella posizione che avevo, l’ho migliorata. Ho migliorato gli esiti, perché, nel passare del tempo, mi sono resa conto che i contatti di Dante con Alfonso il Savio erano abbastanza robusti, come ci dimostra il passaggio di Brunetto Latini da Oviedo a Firenze. Dante, nel De vulgari eloquentia, ci descrive la torre di Babele. La descrive, nella prima parte, come è nella Bibbia: cioè la costruzione della torre. A un certo punto, comincia la seconda parte biblica, cioè la distruzione della torre di Babele da parte di Dio, per punizione. Donde la confusio linguarum, cioè: gli uomini non si capiscono più per divina punizione. Quando in passato descrissi questo, mi accorsi che in Alfonso il Savio nella Historia General, si racconta l’episodio della torre di Babele in modo molto simile a quello di Dante. Tutti e due dicono non che tutti gli uomini non si capissero l’uno con l’altro, ma che quelli di una confraternita (di una corporazione) si capivano tra di loro e non capivano quelli di un’altra corporazione. Quelli della stessa corporazione avevano eadem lingua, la stessa lingua. Questo lo dice anche Alfonso il Savio. Allora io in passato dicevo: chissà come mai questi due autori, così diversi, uno sta in Italia e uno sta in Spagna, dicono la stessa cosa? Ci sarà una fonte latina che non abbiamo ancora trovato che dava questa notizia. E invece, sono passati gli anni, io ho cercato la fonte latina, ma non c’è. Tutti quelli che parlano della torre di Babele come *Estor, Saint-Beuve*, ecc., non citano assolutamente questo episodio, parlano della confusione delle lingue generale. Ecco allora che mi sono persuasa che, questo motivo, Dante lo ha preso da Brunetto Latini, come motivo che si trovava nel testo arabo-latino (insomma il testo di Alfonso il Savio). Alfonso il Savio aveva una cultura che era quasi completamente di origine araba. Quindi questo sarebbe un nuovo elemento di cultura araba che abbiamo trovato, in questi anni con la ricerca, nel De vulgari eloquentia.
5. Professoressa Corti, lei nel libro "Percorsi dell’invenzione" ha analizzato attentamente l’episodio di Ulisse nel canto ventiseiesimo dell’Inferno, importante in quanto il suo naufragio nel viaggio oltre le colonne D’Ercole nello stretto di Gibilterra, simboleggia l’inevitabile esito del folle volo, ossia, della sua sete di sapere, della volontà di conoscere l’ignoto. In particolare, il divieto di oltrepassare quel luogo geografico simbolico - assente nella tradizione greca o latina - non sarebbe un’invenzione dantesca, in quanto deriverebbe piuttosto da un’idea di origine arabo–ispanica. Può ripercorrere le tappe della ricostruzione di questo tema?

Credo di essere la prima ad aver trovato delle prove che il mito del naufragio di Ulisse non è un’invenzione dantesca. C’è un saggio bellissimo di Fubini su Dante che ha inventato questo naufragio di Ulisse, ma invece la cosa non è vera. Perché? Abbiamo delle prove sicure: il geografo Strabone che nel Geografica, nel 58 d. C., scrive che sopra lo stretto di Gibilterra, nelle montagne, c’era una città che si chiamava "Odussea". Ora, Odussea come noi sappiamo è il nome di Ulisse perché Ulisse in greco si dice "Odisseus", quindi Odussea vuol dire "città di Odisseo", "città di Ulisse". Di fianco questa città, Strabone prova - soprattutto con testimonianze di studiosi greci che c’erano già stati - che c’era un tempio dedicato alla dea Atena, la protettrice di Ulisse. Ma - e qui viene il bello - in questo tempio c’erano, come souvenir appesi alle pareti, dei pezzi della nave di Ulisse naufragata, dei ricordi del naufragio del poeta. Quindi, a questo punto, non sappiamo da chi Dante abbia preso questa notizia, ma non l’ha inventata lui. Per di più, io ho trovato nella Historia General scritta da Alfonso il Savio, che si racconta di un viaggio di Ulisse fondatore di Lisbona (Lisbona si chiamerebbe "Ulissipona" cioè "territorio di Ulisse"), di un viaggio di ritorno: Ulisse ha la nostalgia poi di tornare da Penelope, dal figlio, ecc., parte, e la notte sogna il proprio naufragio. Quindi, questo tema del naufragio è un tema ricorrente nell’epoca medioevale in vari testi. Da quale testo Dante abbia preso questa notizia non possiamo saperlo, però egli aveva bisogno di questa notizia del naufragio, perché contrappone se stesso ad Ulisse. Ulisse è l’uomo alla ricerca della verità, l’ha persa ed è andato a fondo, mentre Dante ricercando la verità ha superato l’inferno è arrivato in purgatorio, e poi in paradiso. All’inizio dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, Dante mette dei versi che provengono dall’episodio di Ulisse, proprio per dire al lettore: "Sta attento che mi rifaccio là". Solo che Ulisse è morto, è andato a fondo ‘come altrui piacque la nave andò giù, mentre Dante ‘come altrui piacque, cioè come a Dio piacque - ripete questa espressione - sale in paradiso. Questo naufragio è anche servito a Dante perché ricalca un po’ la metafora del naufragio descritto da sant’Agostino, che è il naufragio dei filosofi che non cercano la verità, cercano degli errori e naufragano, prima di raggiungere il porto della verità. Ecco, noi sappiamo che Ulisse rappresenta qui quei filosofi, di cui parleremo, i filosofi dell’aristotelismo radicale, che Dante usa. Non solo, per un certo periodo, ha aderito a loro, ma poi avendoli abbandonati, ha fatto naufragare il suo personaggio che li rappresenta. Ulisse nell’inferno usa un’espressione di Boezio di Dacia: "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza". É quello che Ulisse disse ai suoi compagni di viaggio, che è una frase scritta nel De Summo Bono di Boezio di Dacia. Quindi i riferimenti sono tutti chiari: Ulisse diventa personaggio simbolico del naufragio dell’aristotelismo radicale.
6. Nell’inferno il contrappasso svolge una funzione centrale, ma il contrappasso - che è un tipo di punizione in stretta relazione alla colpa commessa - è però, come lei sottolinea, diffuso in tutta la letteratura religiosa e islamica. Ci può indicare i luoghi, come quello della nona bolgia dell’inferno (ove sono presenti i seminatori di discordia), in cui la similitudine tra la versione dantesca e quella araba è inequivocabile? E questo fenomeno di interdiscorsività e intertestualità, ovvero di riferimento a dei particolari testi?

Abbiamo detto prima che Dante ha conosciuto il Libro della Scala, il Liber Scalae Maometti, che era stato tradotto appunto da un fiorentino alla scuola di Toledo. Ora, questo libro Dante lo usa molto. (Do intanto la notizia che questo libro lo stiamo stampando adesso in un’edizione critica, lo sta stampando una mia allieva presso la casa editrice Guanda). In questo libro si parla di Maometto che arriva, girando l’inferno, dove sono i seminatori di discordia. Teniamo presente un fatto che a parer mio è importantissimo: seminatori di discordia, homines qui seminant discordiam è una metafora, la metafora della seminagione. Ora, Dante usa la stessa metafora della seminagione del libro della scala. Là si dice: "qui seminant discordiam", qui si dice "seminatori di discordia", e proprio nei seminatori di discordia, Dante esemplifica la teoria del contrappasso. Cos’è la teoria del contrappasso? Se l’uomo ha commesso delle colpe, verrà punito patendo in rapporto alla colpa che ha commesso. Questo concetto c’è anche nella religione cristiana, però il tipo di contrappasso che usa Dante, sia nell’inferno che nel purgatorio, gli viene dal mondo arabo e gli viene proprio da questo Libro della Scala. Infatti, proprio qui, nel Libro della Scala, parlando dei seminatori di discordia, l’autore arabo dice: "… come il seminatore di discordia usava la lingua… ecco che qui viene punito col taglio della lingua", e dà degli esempi precisi di questa legge del contrappasso.
7. Quali sono le principali analogie rintracciate nel suo importante libro "Dante e l’Islam" dallo studioso Miguel Asin Palacios, tra l’escatologia musulmana - in cui però non c’è posto per il purgatorio - e la visione di Dante? Palacios insiste in particolare sulle analogie con la mistica araba.

Asin Palacios ha scritto un libro importantissimo è Storia della escatologia musulmana, però non cerca le fonti, dà un quadro della cultura araba. Ci fornisce moltissimi testi arabi che parlano dell’oltretomba, dove c’è Maometto che va a visitare l'inferno e il paradiso, ma da qui, noi abbiamo solamente notizie che questi testi circolavano. C’erano notizie di interdiscorsività, ma non di fonte, non di intertestualità. Non c’è nessuno dei testi dati da Asin Palacios, che si possa provare essere una fonte di Dante. Per esserlo bisogna che nel testo che è fonte e nel testo che subisce la fonte, ci siano non solo i racconti di eguali episodi, cioè corrispondenze tematiche, ma ci devono essere corrispondenze formali. Ho appena detto che, per esempio, nel Libro della Scala c’è la metafora dei seminatori di discordia e Dante prende i seminatori ... quegli elementi ci devono essere, cioè delle corrispondenze formali, per cui io possa dire: "Dante ci ha messo gli occhi sopra". Ora questo con Asin Palacios, purtroppo, non si può fare, perché non era nemmeno nelle sue intenzioni. Asin Palacios voleva semplicemente dire: "Guardate quanti testi arabi hanno trattato l’argomento della commedia di Dante". Nella sua difesa lo dice: "Non mi sono occupato di fonti, mi sono occupato di dare un panorama arabo". Mentre invece noi sappiamo che il Libro della Scala è una fonte. Non solo c’è l’episodio del seminatore di discordia, ma che c’è tutto Malebolge. Le bolge di Malebolge vengono quasi tutte da queste. Non è questa la sede, non abbiamo i testi davanti per discutere questo fenomeno, però sia l’episodio dei ladri coi serpenti, sia l’episodio dei fraudolenti avvolti nelle fiamme, vengono fuori tutti in dal Libro della Scala. Non solo, ma cosa più importante di tutte, viene fuori la città di Dite. Dante mette un altro inferno, poi mette la città di Dite, e poi un basso inferno. Il basso inferno viene dagli arabi, la città di Dite pure. Essa è descritta da Dante allo stesso modo di come, nel Libro dalla Scala, è descritta l’abitatio diaboli: ci sono delle case tutte infuocate, hanno un fuoco perenne che le distrugge (e chi si ricorda la città di Dite di Dante sa che c’è questo fuoco). Non solo, ma addirittura ci sono dei valla, cioè delle fortificazioni, su cui stanno queste (e lo stesso nella città di Dite). Ci sono i diavoli che girano intorno alle porte, ma c’è una porta principale dalla quale si scende al basso inferno (e c’è anche questo nel Libro della Scala). Abbiamo veramente gli elementi per dire che siamo in presenza di una fonte di Dante.
Credo che Dante ce l’abbia voluto indicare. Dante spesso, quando usa una fonte, dà dei segnali perché i lettori capiscano che fonte ha usato. Qui che segnali usa? Un segnale divertentissimo, ma nessuno lo ha notato: le case le chiama "meschite". "Meschite" è un termine arabo per indicare la casa e la moschea. Siamo quindi fuori di ogni dubbio che Dante qui ha usato la fonte precisa.
8. Professoressa Corti, può illustrare la rilevanza da lei definita strutturale del testo arabo "Il Libro della Scala" dell’ottavo secolo, che descrive il viaggio all’inferno e l’ascensione al paradiso da parte di Maometto guidato dall’arcangelo Gabriele, nell’indicazione di Dante secondo un modello analogico del suo viaggio nel mondo ultraterreno e della costruzione interna di quest’ultimo nella Divina Commedia.

Dunque, già con quello che ho detto si prova che l’inferno dantesco è strettamente legato al viaggio di Maometto, nel Libro della Scala. Molto importante è il fenomeno anche per quanto riguarda il paradiso. Il purgatorio naturalmente non c’è nella religione araba. Nel paradiso Dante si ispira a una concezione araba, che lo stesso San Tommaso chiama metafisica della luce di origine araba, dice che gli arabi sono più importanti nel piano dello studio della metafisica della luce. Ma cos'è la metafisica della luce? È lo studio della luce come elemento che coincide quasi con la divinità: la divinità è luce (claritas) come ha detto nel testo latino. Dante prende senza dubbio qualche cosa da qui, e prende anche alcuni concetti nella struttura generale del viaggio nel paradiso: per esempio, il concetto che la luce divina non si può fissare. Non si può guardare in faccia Dio: ci si acceca! Dante parla della perdita della visione di Dio, e questo avviene identico, con le stesse frasi, nel Libro della Scala. Anzi, in quell’opera si dice una cosa che Dante ripete proprio alla lettera: "…quando non ho più potuto vedere cogli occhi, l’ho sentita nel cuore la presenza di Dio". Ecco, questo c’è in tutti e due i testi. In Dante c’è anche un concetto che è chiaramente spiegato dagli arabi: non potendo guardare la luce di Dio direttamente bisogna guardarla indirettamente, cioè vederla riflessa in qualche cosa. Solo allora la si può vedere. Dante che cosa fa? La vede riflessa negli occhi di Beatrice, e continua a dire che negli occhi di Beatrice vede la luce di Dio. Questi sono tutti elementi della struttura stessa. Un altro elemento fondamentale del paradiso è l’identificarsi della luce con la musica, e col fatto che gli angeli ruotino in circolo. Questo girare continuo dei cherubini e delle alte sfere angeliche produce la musica, che è la musica divina che si unisce alla luce e al canto degli angeli. Sono tutti elementi che si trovano già nel mondo arabo.
9. In un suo saggio di taglio più strettamente filosofico, "Dante: a un nuovo crocevia", vengono indagati i rapporti tra Dante e la grammatica speculativa, la logica modista. Quali sono i rapporti tra Dante che, si ricordi, con sottigliezza nel De Monarchia si serve dell’argomentazione sillogistica e la logica medioevale?

Io mi sono sempre domandata, prima di approfondire gli studi della logica formale medioevale, perché Dante dovendo fare un trattato che è intitolato De vulgari eloquentia (cioè vuol dire dell’eloquentia, della scrittura elegante, dell’eloquenza volgare e non della grammatica) ci descrive nei primi quattordici capitoli tutti i dialetti d’Italia? Per quale motivo? Sembra quasi inspiegabile, cosa c’entrava parlare dei dialetti d’Italia? In fondo nessuno lo spiega. Lo si può fare se ci si collega alle ricerche che Dante ha fatto sulla logica formale. Dante, studiando questi aristotelici radicali, è venuto a contatto con un concetto che lo ha entusiasmato, un concetto che noi oggi conosciamo attraverso dei linguisti americani (Chomsky, ecc.): gli universali linguistici. Dante ha pensato in questo modo: "Questi filosofi studiano tutte le lingue del globo e trovano che tutte hanno qualche cosa in comune, e questi elementi comuni costituiscono gli universali linguistici". Dante che vuol studiare la lingua della poesia quindi pensa: ".. allora io prendo tutti i dialetti italiani, li faccio passare tutti, e faccio vedere che in questi non ci sono gli universali linguistici, sono dei dialetti, semplicemente dialetti". Invece il linguaggio poetico che Dante crea con lo stil novo è un linguaggio che Dante definisce fatto coi simplicissima signa. Questi "simplicissimi signa" sono i prima principia della logica di questi filosofi medievali, cioè sono gli universali linguistici. Dante fa un discorso molto raffinato, molto complesso (mi scuso di volgarizzarlo così, con poche parole semplici): la gente, quando parla usa le varie parlate, ma quando fa poesia usa i simplicissima signa, cioè usa gli universali linguistici. Per questo il linguaggio della poesia è un linguaggio formale, dove non si deve comunicare agli altri, ma si comunica a se stessi (con il proprio linguaggio poetico). Dante ha in comune con Cavalcanti questa concezione. Con Cavalcanti ebbe in comune tutta la teoria aristotelica che però poi Dante non accetta, perché per scrivere la Divina Commedia, ha bisogno della solidità del mondo cattolico. Però coglie questo concetto di simplicissima signa che è un concetto profondissimo che possiamo ritrovare. Quindi, la teoria dei simplicissima signa in Dante è importantissima, perché, non solo è un preannuncio di quella che sarà la teoria moderna degli universali linguistici, ma dà anche questo carattere di universalità al linguaggio poetico, di fronte alle parlate che lui ha descritto prima nell’opera (che invece sono le parlate comuni). A questo punto diventa anche chiaro perché Dante abbia parlato dei dialetti italiani. Per usare la stessa immagine: come per i filosofi modisti, non ci sono gli universali linguistici, ma solo dei segnali che fanno capire che devono essere altrove e per affermarlo esaminano e descrivono tutte le lingue, così Dante esamina e descrive tutte le parlate italiane, per poter sostenere che non ci sono gli universali linguistici. Sono presenti invece nel "dolce stil novo" che è la creazione poetica di Dante.
10. Professoressa Corti, dopo gli studi di Gilson, Nardi, e altri, sembra definitivamente superato il luogo comune della scarsa originalità filosofica di Dante, soprattutto se si pensa alla ricchezza di motivi speculativi presenti nel Convivio. Per altro, la dipendenza di Dante da fonti che solo recentemente sono state individuate, ci consente non solo di fare esercizi di esegesi intertestuale ma anche di analizzare l’originalità della ricezione dantesca di vari testi filosofici. Può dare qualche esempio in proposito?

Certo. Posso dare come esempio proprio il Convivio. Noi adesso abbiamo citato il De vulgari eloquentia, che già ci ha mostrato come la teoria degli universali linguistici viene fuori in Dante (che poi non verrà più fuori per molti secoli). Ma nel Convivio il discorso diventa proprio strettamente filosofico. Dante nei primi tre trattati del Convivio segue la filosofia degli aristotelici radicali, e la descrive anche in quelle canzoni con una bellissima donna che gli appare: "amor che nella mente mi ragiona..." (uno dei versi più belli della letteratura italiana). Poi ha una crisi. Sta cominciando l’inferno, sta cominciando la Commedia, quando ha una crisi. Per cui crea il personaggio di Ulisse come antitetico a sé e lo manda a fondo, come abbiamo visto prima. Mentre lui si salva, perché non segue più gli aristotelici radicali, segue invece la filosofia tomistica. Ecco, nel quarto trattato del Convivio, che è stato scritto a distanza dai primi tre, notiamo come il linguaggio filosofico di Dante muta parecchio. Può stupire questa cosa, ha stupito anche molti studiosi questo fatto: che Dante ritorni all’Aristotele quale è descritto da san Tommaso e non all’Aristotele quale è descritto dagli aristotelici radicali. Che Aristotele è? È l’Aristotele autore dell’Etica nicomachea, che è l’opera che è commentata nel Convivio di Dante. L’Etica nicomachea era un’opera che trattava di tutte le forme della moralità. Ci sono descritti tutti i vizi e tutte le virtù, e c’è veramente un superamento rispetto alla posizione dei primi tre trattati. Un superamento che è dovuto al nuovo influsso che Dante riceve da san Tommaso. Nei primi tre trattati, quando segue l’aristotelismo radicale, Dante usa anche una traduzione araba (ci siamo daccapo con l’arabo) alessandrina - fatta ad Alessandria D’Egitto - dell’Etica nicomachea. Vediamo proprio che Dante supera - ma lo fa spesso anche nella Commedia, di superare un pensiero passato e di portarlo alla fase attuale della ricerca - questa visione degli aristotelici radicali (che era stata accolta anche dagli arabi), e arriva invece alla concezione tomistica. Quindi, questo approfondimento di Dante, questo superamento della concezione a cui si era fermato il Cavalcanti (il Cavalcanti è aristotelico radicale per tutta la vita), mostra un travaglio filosofico interiore che è per noi segnale della profondità della riflessione filosofica dantesca.





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Biografia di Maria Corti
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domenica 23 gennaio 2011

La caduta del tâghût tunisino

gennaio 23, 2011 di ummusama
Nel Nome di Allah, il sommamente Misericordioso, Colui che dona misericordia
La caduta dell’idolo Zîn ash-Shayâtîn[1], chiamato [a torto] Zîn Al ‘Âbidîn[2] (Ben Ali)
La Lode spetta ad Allah, pace e benedizioni sull’ultimo dei Messaggeri.


La Ummah assiste oggi alla caduta di uno dei più grandi idoli e tiranni [che abbia conosciuto]. Per lungo tempo, si è gonfiato d’orgoglio, ha tiranneggiato, oppresso e schiacciato [la sua popolazione], ha seminato la corruzione e il disordine sulla Terra e si è attribuito delle caratteristiche divine e [relative al]la Signoria… Si tratta del tâghût tunisino chiamato: Zîn Al ‘Âbidîn, che sarebbe stato più giusto chiamare: l’obbrobrio degli adoratori o ancora: dei corruttori (Shîn Al ‘Abidîn wa-t-Talihîn).
In effetti, egli ha preteso la stessa cosa che pretese il suo predecessore nella tirannia, il primo Faraone che, rivolgendosi ai dignitari, disse:
Per voi non conosco altra divinità che me (Corano XXVIII. Al-Qasas, 38)
Sono io il vostro signore, l’altissimo (Corano LXXIX. An-Nâzi‘ât, 24)
Vi mostro solo quello ch’io vedo e vi guido sulla via della rettitudine (Corano XL. Al-Ghâfir, 29)

Ecco cosa il suo comportamento, le sue parole e le sue azioni hanno lasciato trasparire lungo tutto il corso del suo regno e della sua dominazione sul paese e la sua popolazione.
La sua preoccupazione prima e principale durante tutto il periodo del suo regno era quella di combattere l’Islâm e i musulmani, di opporsi alla purificazione e alla castità… di impedire alle tunisine di indossare l’hijâb e di impedire l’apparizione di qualsiasi aspetto di religiosità o di pratica visibile in seno a questo paese e alla sua popolazione. Sotto il suo regime, le prigioni rigurgitavano di credenti monoteisti, il cui solo torto era di non aver creduto al taghût e di aver creduto in Allah l’Onnipotente.
Così, eccolo ora caduto col permesso di Allah, dopo che la sua tirannia, la sua oppressione e la sua miscredenza sono durate per più di due decenni. È stato umiliato, terrorizzato, espulso e maledetto, senza rimpianto, dal suo [stesso] popolo e dall’insieme della gente. E ciò, mentre l’Islâm è rimasto saldo, stabilito e radicato nel cuore dei suoi adepti  in  seno alla popolazione tunisina.
L’Islâm andrà di progresso in progresso e di vittoria in vittoria, qualunque sia la repulsione che ciò ispiri ai tirranni criminali.
Questo avvenimento grave e importante, e tutto ciò che suscita intorno a sé a livello di reazioni e di punti di vista, merita di essere studiato e analizzato al fine di trarne le lezioni del passato e dell’avvenire… È d’altra parte ciò che ci ha spinto ad annotare le osservazioni seguenti:
In primo luogo: Esprimiamo la nostra gratitudine nei confronti di Allah l’Altissimo, Che ci ha permesso, così come alle nostra famiglie in Tunisia, di avere la meglio sul regno di questo tiranno maledetto: Shîn Al ‘Âbidîn. In effetti, Allah ha posto il terrore nel suo cuore, attraverso il grido di collera delle popolazioni musulmane che ripetevano: “Allahu Akbar”. Gli hanno strappato il potere e il regno infiggendogli l’umiliazione, dopo lunghi anni di orgoglio e despotismo. Il soccorso di Allah ai musulmani indeboliti tra i figli della Tunisia contro questo Faraone e i suoi soldati è [infine] arrivato.
Allah dice:
Poiché la vittoria non viene che da Allah, l’Eccelso, il Saggio (Corano III. Âl-‘Imrân, 126)
Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi. Quando tiravi non eri tu che tiravi, ma era Allah che tirava (Corano VIII. Al-‘Anfâl, 17)
Le lodi, il merito e i favori appartengono ad Allah, Che a cacciato e posto fine a questo taghût e ai suoi soldati.
Seguitando, ci teniamo ad esprimere la nostra gratitudine nei confronti delle nostre famiglie e verso il popolo musulmane eroico della nostra benamata Tunisia per i sacrifici che hanno presentato e per il sangue puro e integro che è colato nella lotta dinanzi a questo taghût e ai suoi soldati, con l’obiettivo di proteggere le loro anime, i loro diritti, le loro sacralità e le rivendicazioni giuste che difendevano. Essi hanno ravvivato in seno alle popolazioni della Ummah lo spirito di dignità, di sacrificio e di Jihâd, nonostante molte persone avrebbero scommesso che questo spirito fosse stato annientato e fosse scomparso.
Ci era stato detto: “Il popolo tunisino è morto”; due tiranni tra i peggiori despoti che la nostra epoca abbia conosciuto: Burguiba e Ben Ali hanno governato i tunisini per diversi decenni e due generazioni si sono succedute sotto il loro regno. Ma noi diciamo loro che i popoli non muoiono… I cuori che racchiudono la testimonianza dell’Unicità: “Lâ ilâha illa Allah” non muoiono e non moriranno mai. Queste popolazioni possono certo indebolirsi, tuttavia non muoiono. Esse possono rapidamente ritrovare la via, sollevarsi, rivoltarsi e far sgorgare tutto il potenziale nascosto in esse, in modo tale che se ne possano concretamente sentire gli effetti nella vita reale. Per poco che esse siano alimentate da qualche ragione di vivere, potranno infine liberarsi dalle loro catene, dalla perfidia e dalle macchinazioni dei despoti ingiusti e criminali.
Dunque ancora e ancora, una decina di volte, un grande ringraziamento ai nostri, uomini e donne tra i figli della Tunisia benamata, poiché colui che non ringrazi la gente non ringrazia Allah.

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In secondo luogo:
I partiti politici laici locali, con tutta la ripugnanza che ispirano, rappresentano l’altra sfaccettatura tetra del regime di Ben Ali. Essi non hanno dispiegato il minimo sforzo o giocato il minimo ruolo in questo istante di sollevazione benedetta effettuata dal popolo tunisino musulmano dinanzi al tiranno e al suo regime. Abbiamo di conseguenza il diritto di essere fieri e di dire che questa sollevazione benedetta dinanzi al tiranno è una rivolta popolare tunisina e islamica e che è ben lungi dalle direzioni e dagli orientamenti dei laici, dai loro programmi e dai loro incerti obiettivi. Evidentemente, altre persone cercheranno di sfruttare l’avvenimento a loro favore e di servirsene per la loro ascesa, al prezzo del sangue e dei sacrifici pagati dalla popolazione tunisina musulmana. Questa è stata la constatazione cui siamo pervenuti fin dai primi giorni che hanno seguito la rivolta benedetta.
In terzo luogo:
La caduta del regime di Shîn Al ‘Âbidîn, strappata di forza sotto la pressione delle popolazioni, ha comportato la distruzione delle ambiguità propagate dai sapienti del palazzo e dell’irjâ’, che si sono impegnati a porre la loro scienza al servizio della protezione dei governanti tirannici e miscredenti. In effetti, essi hanno voluto persuadere la gente dell’impossibilità di rivoltarsi contro di essi e contro i loro regimi… Hanno fatto credere loro che fosse una fitna e che si trattasse dell’opzione che comportava il maggiore dei mali per il paese e i suoi abitanti. Hanno scoraggiato la gente e sono stati responsabili del cumulo di umiliazione, di degradazione, di sottosviluppo e di povertà che la Tunisia e la sua popolazione hanno dovuto subire per decenni.
E oggi, allo scopo di sciupare la vittoria tunisina e al fine di provare che avevano ragione a proposito delle ambiguità da loro stessi propagate, eccoli di nuovo che si ispirano mutualmente, tra tiranni arabi e loro simpatizzanti tra i collaboratori e i sapienti dell’irjâ’. In effetti, essi hanno approvigionato in armi ex elementi dei servizi segreti e della guardia privata del presidente in fuga; questi ultimi hanno provocato il caos nelle strade, si sono messi ad uccidere gente pacifica e a seminare il panico e il terrore nelle abitazioni. Soprattutto, non volevano lasciare che la gente godesse di questa vittoria, poiché temevano che essi pensassero che sarebbe stato facile, in seguito, sbarazzarsi del resto dei governanti tirannici e miscredenti del mondo arabo. Era ancora un mezzo per dare credito alla teoria dei sapienti dell’irjâ’, [teoria] che sostiene come la sollevazione dei popoli miseri e oppressi contro i tiranni dell’ingiustizia e della miscredenza rappresenterebbe una fitna, una cattiva opzione e un male maggiore.
Ma noi diciamo ai tiranni e ai loro agenti: economizzate le vostre lacrime menzognere versate sul conto dell’onore [del popolo]… Il sortilegio dello stregone è stato sconfitto, il vostro stratagemma e [i vostri] inganni sono stati svelati… il vostro inganno è stato svelato dinanzi a tutti. Voi siete una calamità… una malattia incurabile che bisogna eradicare, foss’anche amputando un membro del corpo se ce ne fosse bisogno. E i giorni a venire ce lo dimostreranno.
In effetti, se oggi è il turno della Tunisia, domani sarà quello della Siria ferita; dopodomani il turno dell’Egitto prigioniero… eppoi quello della Libia asservita dal suo taghût e dai suoi figli… e così di seguito, col permesso di Allah, si succederanno le rivolte contro i tiranni, il loro regno e i loro regimi corrotti.
Siamo coscienti del fatto che l’onore ha [inevitabilmente] un prezzo, ma qualunque sia il prezzo da pagare, sarà molto meno costoso di quello dell’umiliazione, della degradazione e della servitù ai tawâghit.
In quarto luogo:
 Il fatto che i tawâghit sauditi abbiano accettato di dare rifugio al loro fratello, Shîn Al ‘Âbidîn, tâghût di Tunisia, mentre [perfino] gli Stati miscredenti dell’Occidente l’avessero rifiutato, è una decisione che dimostra diverse cose. Prima di tutto [ciò conferma il detto]: “Chi si somiglia di piglia”. Poi, l’attitudine adottata dal regime saudita costituisce una prova supplementare di validità del giudizio che abbiamo emesso riguardo questo regime miscredente, poiché una volta di più esso prova di essere l’alleato degli altri tawâghît, e di sostenere i loro regimi miscredenti che seminano la corruzione in seno alla popolazione oppressa. Ciò prova altresì che il regime saudita è andato così oltre nella sua lordura, da farsi beffe del fatto di aggiungere alla lista delle sue brutture quella di dare rifugio a un taghût miscredente.
Inoltre, ciò prova a qual punto il regime saudita si faccia beffe della sua [stessa] popolazione, poiché non presta alcuna attenzione alla sua volontà o ai suoi desideri. Il fatto di trovarsi su una riva, mentre le aspirazioni del suo popolo sono sulla riva opposta, non imbarazza minimamente questo regime, poiché si immagina che ciò non gli possa per nulla nuocere. In effetti, [il regime] conta sui sapienti dell’irjâ’ e del palazzo reale che detengono i mezzi per ammaliare i popoli allo scopo di colpevolizzarli e di anestetizzarli nel momento stesso in cui osino dire una parola di verità dinanzi ai governanti tirannici.
Inoltre, accogliendo il taghût tunisino, il regime dimostra di essere il compare [fedele] dei tawâghît arabi e dei loro regimi traditori e corrotti, tanto prima che dopo la loro caduta. È il primo responsabile del loro mantenimento e della loro sicurezza. Il regime saudita si augura anche di utilizzare la presenza del tiranno tunisino sul suo territorio come mezzo di pressione e di sedizione sul popolo tunisino musulmano allo scopo di trasmettere ad esso e alle altre popolazioni musulmane il messaggio seguente: “Non crediate che la sollevazione contro i tiranni sia una cosa semplice e una scelta facile come immaginate… Lo provano il caos e il disordine che ha fatto seguito alla rivolta dei tunisini contro il potere in carica…”. Essi si immaginano [senza dubbio] di trovare un mezzo per far rientrare il tiranno fuggito, perché governi di nuovo il popolo tunisino. Ma ne sono lontani!
Non sappiamo se ridere o piangere quando veniamo a sapere che, allo scopo di disorientare le popolazioni, i sapienti del palazzo reale fanno credere loro che la reazione del regime saudita deriverebbe dal principio di offerta di protezione, qual’è menzionato nel versetto:
E se qualche idolatra ti chiede asilo, concediglielo affinché possa ascoltare la Parola di Allah, e poi rimandalo in sicurezza. Ciò in quanto è gente che non conosce! (Corano IX. At-Tawba, 6)



Rispondiamo a questi ciarlatani che dissimulano la scienza e che utilizzano menzogne e sortilegi contro le popolazioni, che questo versetto fu rivelato a proposito degli associatori [idolatri] di base e non dei musulmani, mentre il tiranno cui avete offerto rifugio e asilo, è un zindîq[3] apostata di coloro aventi commesso un’apostasia aggravata[4] e composta[5]. Egli ha miscreduto, apostatato, aggravato la sua apostasia, ucciso, saccheggiato, depredato e combattuto l’Islâm e i musulmani pubblicamente e alla luce del sole. Ha seminato la corruzione sulla terra, ha oppresso un popolo musulmano per più di due decenni, ha lavorato duramente allo scopo di seminare la turpitudine in seno a loro… Nessuno ha il diritto di offrire asilo e rifugio a un tale individuo e di impedire l’applicazione della pena legale su di lui; e colui che lo faccia, incorrerà nella maledizione di Allah, dei Suoi Angeli e di tutta la gente, come precisato nell’hadîth autentico il cui il Profeta (sallAllahu ‘alayhi waSallam) disse: “Colui che offra rifugio a un innovatore [ossia colui che abbia introdotto un’innovazione che comporti l’applicazione della pena legale] incorre nella maledizione di Allah, degli Angeli e dell’insieme della gente. Non sarà accettato da parte sua né atto obbligatorio né atto raccomandato [nel Giorno della Resurrezione]”[6]. Disse anche (pace e benedizioni di Allah su di lui): “Che Allah maledica colui che offre rifugio ad un innovatore”[7]. Ecco la parte riservata ai tawâghît sauditi nella religione di Allah, per aver offerto rifugio al loro fratello nella miscredenza, l’ingiustizia e la tirannia: la maledizione di Allah, degli Angeli e dell’umanità intera, che assaporino dunque la maledizione del popolo.
In quinto luogo:
Ci rivolgiamo francamente ai nostri fratelli e alle nostre famiglie tunisine dicendo loro: Avete compiuto il primo passo verso la vittoria, ma il cammino che resta da percorrere è il più duro. Ne avete attraversato la metà e realizzato, attraverso la vostra sollevazione, la metà della vittoria… avete fatto cadere il taghût e la sua famiglia, ma l’altra metà della vittoria resta da compiere, e cioè: che cosa avverrà dopo la sua caduta? Forse che un altro taghût lo sostituirà? Un taghût vestito a nuovo, accompagnato da nuovi slogans menzogneri? Forse che Shîn Al ‘Âbidîn è partito per essere sostituito dal peggiore dei criminali?
La vostra azione si fermerà là? Con la caduta del tâghût e della sua famiglia, e dopo nient’altro? Forse che la vecchia classe politica di questo tiranno, che è stata complice di tutti i suoi crimini, continuerà ad occupare il paesaggio politico tunisino sotto gli occhi di tutti?
Forse che il problema risiede unicamente nella persona del tâghût, senza tener conto del regime e dei suoi stretti collaboratori, che hanno eseguito questa politica criminale contro il popolo tunisino musulmano, che hanno vegliato alla sua applicazione e che continuano fino ad oggi a coordinare la loro azione con quella del tâghût fuggito?
Tali sono le questioni che ci preoccupano e che preoccupano ogni osservatore impensierito e animato da benevolenza verso la vostra rivolta, la vostra lotta e i vostri sforzi. In effetti, noi pensiamo che la risposta concreta a tutto ciò cominci col fatto di restare vigili e di non chiudere gli occhi, non potete dormire sugli allori prima di aver eradicato tutti i resti e le sequele lasciate da questo tâghût e dal suo vecchio regime, votate a perire col permesso di Allah.
Sicuramente, temiamo che la fiamma della vostra rivolta si spenga troppo presto, prima ancora che possiate condurre a termine la vostra missione; sarebbe allora difficile ravvivare questa fiamma.
Nel passato, sono le popolazioni [dei nostri paesi] che hanno pagato il prezzo più alto per liberarsi dal giogo della colonizzazione e dagli invasori e, in fondo, sono dei tawâghît criminali che hanno raccolto i frutti dei loro sforzi, della loro lotta e dei loro sacrifici. Sono dei tiranni criminali che parlano la nostra stessa lingua e che hanno il nostro stesso colore di pelle, ma i cui cuori somigliano a quelli dei lupi e delle volpi che si sono alleati coi nemici della Ummah, contro la Ummah e i suoi figli… Hanno governato il paese con una lancia di ferro e di fuoco e di politiche ancora più ingiuste di quelle adottate dai colonizzatori stessi. Ecco esattamente l’esperienza che non ci auguriamo di vedersi riprodurre per le nostre famiglie e la popolazione della Tunisia benamata.
In sesto luogo:
Gli Stati Uniti, con l’aiuto di altri paesi occidentali, così come dei loro agenti tra la gente della nostra origine, hanno già progettato i loro piani diabolici per il “dopo Ben Ali”. Questi piani si riassumono come segue:

1 – Mettere al potere un regime che allo stesso titolo del precedente veglierà a proteggere gli interessi degli Stati Uniti e dei paesi occidentali nella regione in generale e più particolarmente in Tunisia; che si tratti dei loro interessi politici, di sicurezza, economici o culturali, ivi compreso il riconoscimento dello Stato di Israele e delle relazioni amichevoli con esso.
2 – Sorvegliare l’Islâm politico con le sue dimensioni dogmatica e jihadica, impedirgli di progredire e di emergere, per timore che possa accedere a posizioni decisionali e influenti in seno alla società tunisina.
3 – Concedere uno spazio di libertà maggiore, paragonato alla situazione sotto il regime del tiranno dannato, in particolare per ciò che riguarda la libertà di culto a livello individuale e privato, fintantoché questa libertà non sfoci nel punto n˚ 2 precedentemente citato.
Ecco le principali caratteristiche del prossimo regime secondo la strategia degli Stati Uniti, secondo i loro desideri e la loro volontà, così come quella dei loro agenti provenienti dall’interno della società tunisina.
Ma noi diciamo agli Stati Uniti e a coloro che hanno aderito alla loro alleanza e alla loro strategia che il popolo tunisino è un popolo musulmano sunnita e omogeneo nella sua appartenenza religiosa e comunitaria. Non vi si riscontrano il comunitarismo o il settarismo confessionale che potrebbe porre in pericolo la sua armonia religiosa o la sua unità. In effetti, il caso contrario è spesso sfruttato allo scopo di dividere i popoli secondo il famoso principio: “divide et impera”. Così, questo popolo musulmano ha pienamente diritto a vivere in conformità con la sua appartenenza islamica, tanto sul piano politico che sul piano economico e sociale. I tunisini hanno il diritto di governare e di essere governati dall’Islâm. Le nostre famiglie in Tunisia – che Allah le protegga – non devono arrossire avanzando una tale rivendicazione e non devono in alcun caso accontentarsi si un’altra [opzione] che fosse al di sotto dello stabilimento di un regime che li governerà con l’Islâm.
Vedete bene tuttavia i comunisti e gli altri non religiosi tra la gente della nostra specie – in quanto rappresentanti dell’altro lato oscuro del regime e della tirannia di Ben Ali – non esitare un istante, con tutta la sfacciataggine e l’insolenza che ciò implica, a fare in modo che la Tunisia sia governata secondo le loro teorie, i loro principi e i loro valori atei e liberticidi e secondo la jâhiliyya occidentale intrusa inventata e ignobile.
Chi, di questi due gruppi, dovrebbe avere più vergogna? Chi sarebbe meglio si tirasse indietro e cessasse di rivendicare una maniera di governo conforme ai suoi giudizi e alle sue leggi? Colui che reclami che il paese e il popolo siano governati dal giudizio e dalla legislazione di Allah, il Creatore di tutte le creature e il Signore dei mondi, o piuttosto colui che rivendichi che il paese e il popolo siano governati dalle leggi del tâghût, le leggi della miscredenza, le leggi dell’ateismo, della perversione e della dissolutezza? Quale dei due gruppi ha maggior diritto di vivere in sicurezza? E quale dovrebbe maggiormente dar prova di pudore e di ritegno?

Allah l’Altissimo dice:

È la giustizia dell’ignoranza che cercano? Chi è migliore di Allah nel giudizio, per un popolo che crede con fermezza? (Corano V. Al-Mâ’idah, 50)
Ora, qualunque giudizio diverso da quello di Allah è un giudizio del tempo dell’Ignoranza (al-jâhiliyya). L’Altissimo dice anche:
Allah decide con equità, mentre coloro che essi invocano all’infuori di Lui, non decidono nulla. In verità Allah è colui che tutto ascolta e osserva (Corano XL. Ghâfir, 20)
E ancora:
Come potrei temere i soci che Gli attribuite, quando voi non temete di associare ad Allah coloro, riguardo ai quali, non vi ha fatto scendere nessuna autorità? Quale dei due partiti è più nel giusto, [ditelo] se lo sapete (Corano VI. Al-An‘âm, 81)
Così, colui che non aspiri ad essere governato dall’Islâm, colui che veda nel governo dell’Islâm qualcosa di imbarazzante di cui si debbano vergognare lui, la sua famiglia e il suo popolo, costui non è né credente, né musulmano; manca poco che sia un soldato tra i partigiani del tâghût decaduto, anche se pretenda apparentemente di opporvisi.
Allah l’Altissimo dice:
No, per il tuo Signore, non saranno credenti finché non ti avranno eletto giudice delle loro discordie e finché non avranno accettato senza recriminare quello che avrai deciso, sottomettendosi completamente (Corano IV. An-Nisâ’, 65)
E ancora:
Non hai visto coloro che dicono di credere in quello che abbiamo fatto scendere su di te e in quello che abbiamo fatto scendere prima di te, e poi ricorrono all’arbitrato del tâghût, mentre è stato loro ordinato di rinnegarli? Ebbene, Satana vuole precipitarli nella perdizione (Corano IV. An-Nisâ’, 60)
Queste persone che vogliono ricorrere al giudizio del tâghût e alle sue leggi al di fuori di Allah, la loro pretesa di essere credenti (supponendo che lo pretendano davvero) non è che una pretesa fassa e menzognera; si danno delle arie (da credenti) nonostante non siano stati gratificati [della fede] e ne siano sprovvisti; il peso del peccato di cui si caricano attraverso questa falsa pretesa, mentre sono colpevoli del contrario, è ancora più pesante e ben peggiore del fardello del kufr in sé stesso.

In settimo luogo:
Ha sempre fatto parte della politica dei tawaghît arabi di cui Ben Ali faceva parte, il fatto di svuotare la scena politica di personalità dotate di una leadership attiva. E semmai un personaggio che si distinguesse per la sua capacità d’occupare un tale ruolo fosse emerso, sarebbe stato immediatamente vittima di assassinio, di imprigionamento o di esilio. L’obiettivo è che i popoli perdano fiducia nella capacità di un cambiamento in meglio e che tutte le loro speranze siano legate alla persona del tiranno e del suo regime, come se si trattasse della sola opzione possibile e concepibile, e come se ogni tentativo di fare a meno di lui fosse sinonimo di distruzione e di caos per il paese e i suoi abitanti.
In effetti, in seguito ai decenni sventurati che hanno caratterizzato il regno del tâghût, la via tunisina musulmana manca oggi crudelmente di una leadership islamica forte, indipente e carismatica, capace di rappresentare le aspirazioni, le ambizioni, la cavalleria e l’eroismo del popolo tunisino musulmano. Per cui, quest’ultimo deve agire in fretta per trovare e far emergere i suoi leaders islamici sul terreno, dei leaders sinceri, competenti e indipendenti che parleranno a loro nome e che proteggeranno i sacrifici e le realizzazioni del popolo.
Così, non ci auguriamo, in questo periodo di transizione, di vedere il popolo tunisino musulmano seguire o allearsi ai partiti politici laici sviati o sospetti, qualunque bisogno li spinga a fare ciò, poiché l’alleato di un popolo fa parte di esso: “Colui che li prenda per alleati sarà dei loro” e “colui che rafforzi il rango di un popolo ne farà parte”. State dunque in guardia, o servi di Allah!
In compenso, facciamo appello alla creazione di un gruppo islamico indipendente che adotti il Corano e la Sunnah secondo la via dei Pii Predecessori, come metodologia, che vi si tenga fermamente, e che possieda una leadership forte e indipendente capace di essere all’altezza di questa religione così come all’altezza delle aspirazioni e delle ambizioni del popolo tunisino musulmano.
In ottavo luogo:
Infine, noi diciamo a tutti i popoli dominati da decenni dall’oppressione e dalla tirannia dei tawaghît: è giunto il tempo per voi di rovesciare questi tiranni ingiusti e di sbarazzarvi dei loro sistemi corrotti e miscredenti, conformemente alla parola del Profeta (sallAllahu ‘alayhi waSallam): “A meno che vediate in loro una miscredenza evidente, di cui abbiate una prova chiara proveniente da Allah”.
Certamente! È tempo di liberarvi dall’umiliazione, dalla paura e dal degrado. È tempo per voi di vivere come Uomini liberi, e non come schiavi sotto la servitù di altri schiavi o come un gregge sulla terra dei suoi padroni.
Sappiate che una sola cosa vi separa dalla vittoria e dal trionfo, dall’onore e dalla dignità: dovete spezzare le sbarre della paura lo spazio di una sola ora, poiché il tâghût non ha la forza di misurarsi col popolo per più di una battaglia, purché il popolo sia unito. E se egli cerchi di opporsi al popolo per la seconda o la terza battaglia, ne uscirà soltanto più fragile e indebolito. L’onorevole esperienza tunisina ne è la perfetta illustrazione.
Se volete distaccarvi dal tâghût, dovete prima liberarvi dalla paura che opprime i vostri petti. Il diavolo vi ispira questa paura a prezzo dell’onore e della dignità, vi fa temere i suoi alleati tra i tawâghît, rendendo piacevoli ai vostri occhi l’umiliazione, il degrado e la servitù agli uomini. Ora, il riscatto da tutto ciò è indubitabilmente più oneroso di quello dall’onore; Allah l’Altissimo dice:
Certo è Satana che cerca di spaventarvi con i suoi alleati. Non abbiate paura di loro, ma temete Me se siete credenti (Corano III. Âl-‘Imrân, 175)
E anche

Li temete? Allah ha più diritto di essere temuto,se siete credenti :(Corano IX. At-Tawba, 13)



Ci rivolgiamo altresì ai tawâghît al potere dicendo loro: “Sappiate analizzare i vostri popoli così come i movimenti popolari con molta attenzione, prima che sia troppo tardi e prima di mordervi le mani, il giorno in cui i rimorsi non vi saranno di alcuna utilità. Non lasciatevi ingannare dalla calma apparente del vulcano in ebollizione che non attende altro che il momento [opportuno] per esplodere. Non contate sulle vostre milizie criminali, considerate a torto come delle forze di sicurezza, con troppa fiducia mentre la sola sicurezza su cui vegliano è quella del tâghût, del suo palazzo e della sua famiglia.. Queste milizie non vi serviranno a nulla dinanzi alla collera delle popolazioni.
Dunque comprendete correttamente i vostri popoli e riconciliatevi con loro prima che giunga il giorno in cui né la comprensione né l’intesa, né la pace o la riconciliazione vi serviranno. Quel giorno, direte la stessa cosa che ha detto il tâghût tunisino al suo popolo: “Vi ho capiti, sì, vi ho capiti. Oggi vi ho finalmente capiti. Farò questo e quello”. Per poi mettersi ad illuderli con false speranze, come il diavolo che faccia delle promesse ai suoi alleati, ma la sua comprensione è giunta troppo tardi, nel momento in cui l’intesa e il dialogo non potevano che lasciar spazio ai rimpianti.
Insomma, la tirannia è un piacere effimero seguito dai rimorsi, dalla tortura e dalla maledizione dei popoli fino al Giorno del Giudizio:
Non c’è altro compenso per colui che agisce così se non l’obbrobrio in questa vita e il castigo più terribile nel Giorno della Resurrezione. Allah non è incurante di quello che fate (Corano II. Al-Baqara, 85)
Numerosi sono gli esempi ma poche persone ne traggono le lezioni necessarie. E non vi è forza né potenza che in Allah.

Abdul Mun’im Mustafa Halîma
Abû Bassîr At-Tartûssî
Redatto il 14/2/1432 dell’Hijrah – 18 gennaio 2011 (calendario gregoriano)
la presente traduzione è basata sulla versione francese (che Allah ricompensi le traduttrici âmîn)
Sito in arabo:

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[1] Letteralmente: “Lo spendore dei démoni”.
[2] Letteralmente: “Lo splendore degli adoratori”.
[3] Zindîq significa: falso devoto, irreligioso o ancora miscredente [ndt francese].
[4] L’apostasia aggravata (Riddatu Mughalladha) è citata in opposizione all’apostasia semplice (Riddatu Mujarrada). In effetti, l’apostasia è di due tipi: semplice o aggravata. Essa può essere aggravata in sé (es. Insultare Allah o il Suo Profeta) o a causa di tutto ciò che l’accompagna come corruzione, decadenza, omicidio e guerra contro l’Islam e i musulmani. In uno Stato Islamico, la pena legale relativa al colpevole di un’apostasia aggravata è applicata senza domanda di pentimento preliminare (Istitâba). Contrariamente all’apostasia semplice in cui è data al colpevole l’occasione di ritrattare e di pentirsi prima dell’applicazione della pena [ndt francese].
[5] Apostasia composta (Murakkaba): questo termine è talvolta impiegato come sinonimo dell’apostasia aggravata o può voler dire la somma di diversi tipi e diverse cause di miscredenza riunite nella stessa persona, e Allah è il più Sapiente [ndt francese].
[6] Al-Bukhârî.
[7] Muslim.



sabato 22 gennaio 2011

Ermanno Visintainer, Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako, Vox Populi, Pergine Valsugana 2010

Cupola of the Yassawi Mausoleum in Türkistan (Turkestan). The mausoleum has been built between 1397 and ca. 1600 and still looks unfinished. However, the minor cupola presents fine tilework.

                                                                                        

Nato verso il 1100 a Sayrâm (odierno Xinjiang), Ahmed ibn Ibrâhîm ibn ‘Alî è noto con l'appellativo di Yesevî (Yassawi) dal nome della città di Yesî (odierno Kazakistan), dove fece i suoi primi studi. La sua istruzione proseguì a Bukhara, dove fu discepolo di Yûsuf Hamadânî (441/1049-535/1140); tornato a Yesî, vi morì nel 562/1166-1167. In seguito Yesî fu chiamata Türkistan, donde il titolo di Hadrat-i Turkestân attribuito ad Ahmed. Sulla sua tomba e sulla vicina moschea, lungo la riva del Sîr-Darya, nell'VIII secolo dell'Egira Tamerlano fece erigere un mausoleo a doppia cupola, che, completato nell'801/1398, divenne meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente di Uzbechi e Kazaki.
Infatti la Yeseviyye, l'ordine iniziatico fondato da Ahmed Yesevî, attraverso le sue varie diramazioni svolse un ruolo fondamentale nell'islamizzazione delle tribù turche e nell'adattamento dell'Islam all'ambiente delle steppe. Nelle pratiche del sufismo vennero integrati diversi elementi tipici della cultura centroasiatica: la partecipazione promiscua di uomini e donne alle assemblee rituali, il sacrificio di vittime animali e la consumazione del banchetto (shilen) presso i sepolcri dei santi, l'uso del turco nelle recitazioni di testi diversi dall'orazione canonica. Ibn Battuta, il quale visitò l'accampamento invernale di ‘Alâ' ad-dîn Tarmâshirîn (1326-1334), sultano della Transoxiana, riferisce (III, 36) che dopo l'orazione mattutina quest'ultimo recitava il dhikr in lingua turca.
La Yeseviyye fu una confraternita di nomadi che si diffuse su una vasta porzione dello spazio eurasiatico: dal Turkestan cinese alla regione della Volga, dalle Steppe dei Kirghisi al Khorasan, all'Azerbaigian, all'Anatolia, dove produsse uomini come Yûnus Emre (m. 1320?), il più grande santo e poeta dell'età selgiuchide.
Poeta, oltre che santo, fu d'altronde lo stesso Ahmed Yesevî, sotto il nome del quale ci è pervenuto un Dîvân-i Hikmet ("Canzoniere della Saggezza"). Composto probabilmente in una lingua vicina a quella del Qutadgu Bilik (la prima opera letteraria della cultura musulmana d'epoca qarakhanide, sec. XI), il Canzoniere ci si presenta oggi in una lingua ciagatai alquanto tarda. Undici hikmet di questo Canzoniere (componimenti articolati in quartine di versi in metrica sillabica) sono stati riportati nel testo originale, con traduzione italiana a fronte, nella monografia che Ermanno Visintainer ha intitolata a Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako. Questo saggio del turcologo trentino (preceduto da una Presentazione dell'ambasciatore della Repubblica del Kazakhstan presso la Repubblica Italiana e da una Prefazione dello scrittore Pietrangelo Buttafuoco) inquadra la "vita leggendaria" di Ahmed Yesevî in un contesto culturale, quello centroasiatico, di cui viene messa in luce la caratteristica varietà di forme tradizionali: dal monoteismo uranico precursore di quello islamico al taoismo venuto dalla Cina, dall'arcaico sciamanesimo autoctono allo zoroastrismo irradiatosi dall'Iran, dal buddhismo al cristianesimo nestoriano e manicheo.
Illustrando l'eredità spirituale di Ahmed Yesevî attraverso una rassegna delle pratiche e degli insegnamenti che furono trasmessi alle successive generazioni di discepoli, l'Autore si sofferma in particolare sulla "khalvet, la solitudine ascetica". In effetti Ahmed Yesevî attribuì grande importanza al ritiro spirituale, sicché è possibile considerare la Khalvetiyye, che si sviluppò nella regione caucasica e si diffuse in Anatolia, come un'appendice occidentale della Yeseviyye. Per quanto concerne filiazioni di questo genere e, in particolare, la questione della derivazione della Naqshbendiyye e della Bektashiyye, le due confraternite più diffuse nel mondo turco e poi irradiatesi in gran parte del continente eurasiatico, l'Autore mantiene un atteggiamento di corretta cautela: sia riguardo al rapporto tra Ahmed Yesevî e Hâjjî Bektâsh, sia riguardo alla nascita della Naqshbendiyye, che, se fosse ricollegabile alla Yeseviyye, rappresenterebbe "l'eredità spirituale del Maestro verso Oriente in senso lato, dal subcontinente indiano all'Indonesia, ma anche ad Occidente, verso il mondo anatolico" (p. 135).

Hajji BektashVeli



Inserita il 17/01/2011 alle 11:47:18                                          
Recensione scritta da Claudio Mutti
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Hajji Bektash Veli «Der heilige Hadschi Baktāsch»; türkische Schreibweise: Hacı Bektaş Veli war ein muslimischer Mystiker (Sufi) aus Khorasan, der in der zweiten Hälfte des 13. Jahrhunderts in Anatolien lebte und wirkte. Nach ihm ist die Bektaschi-Tariqa (Bektaschi-Derwisch-Orden) benannt, die aber aller Wahrscheinlichkeit nach nicht von ihm selbst gegründet wurde. Über sein Leben ist nicht viel bekannt. Es gilt zwar als gesichert, dass eine Person mit diesem Namen existiert hat und bedeutenden Einfluss auf die Bevölkerung Anatoliens hatte. Alles weitere fällt jedoch größtenteils in den Bereich der Legende.Die Hauptquelle für das Leben Hajji Bektash Velis ist die Walāyat-Nāma aus dem späten 15. Jahrhundert. Hadschi Baktāsch wurde in Nischapur im Westen Khorasans (heute Iran) geboren. Nach der Walāyat-Nāma war er der Sohn eines gewissen SayyidImam Mūsā al-Kāẓim, des 7. Imams der Imamiten. Jedoch ist das ein ganz offensichtlicher Fehler des Autors, denn seine Angabe ist, zeitlich betrachtet, unmöglich. Ebenfalls ist es durch andere Quellen nicht nachweisbar, ob er tatsächlich aus Nischapur stammte. Die Bezeichnung "Khorasan erenleri""die Heiligen Khorasans") war bei den turkmenischen Nomaden Anatoliens ein allgemeiner Ehrentitel für viele Mystiker und religiöse Gelehrten, denn das ostpersische Khorasan war zu jener Zeit ein Zentrum der islamischen Blütezeit. Anders betrachtet ist die Bezeichnung aber auch gleichzeitig ein Indiz dafür, dass Hadschi Baktāsch wohl tatsächlich aus Khorasan stammte und mit hoher Wahrscheinlichkeit persischer, denn zur Lebzeit Hadschi Baktāschs hatte sich das Reich der Rum-Seldschuken zu einer Fluchtstätte für persische Gelehrten und Heilige entwickelt, die aus ihrer Heimat aufgrund der mongolischen Invasion fliehen mussten - das ist wohl der Kern der türkischen Redewendung. (siehe auch: Rumi, Attar) Muhammad bin Musā und, so wird behauptet, ein Urenkel des (türk. Abstammung war
Der Legende nach war er zum Zeitpunkt seiner Flucht nach Anatolien ein vierzigjähriger Derwisch der Yesevi-Tariqa und der khalifa (Stellvertreter) Ahmad Yasawis, des Begründers des Ordens. Aber auch diese Behauptung ist zeitlich betrachtet unmöglich und ist eher als eine spätere Innovation aufzufassen, welche die beiden Heiligen zusammenführen soll.
Glaubhafter ist hingegen die Annahme, dass Hajji Bektash Veli zu den Qalandari-Sufis Bābā Rassul-Allāh Eliyās Khorāsānīs (1240 hingerichtet) gehört hat. Diese Annahme wird durch frühe Chronographen der Mevlevi-Derwische indirekt bestätigt, die ihn als einen anti-orthodoxen Mystiker mit "gnostischer Illumination" beschrieben, welcher "die Scharia vollkommen ablehnte" - Eigenschaften, die für ostpersische Qalandari-Mystiker jener Zeit sehr typisch waren.
Hajji Bektash Veli ließ sich in Sulucakarahöyük (heute Hacıbektaş, Provinz Nevşehir) nieder, möglicherweise aus dem Grund, weil es dort zur damaligen Zeit wenig Tekkes gab. Sulucakarahöyük war ein entlegener Ort, weit entfernt von den Zentren Anatoliens, wo das politische Geschehen und ein reger Handel stattfanden.
Aggiunto da Janua Coeli il 21.01.2011




mercoledì 19 gennaio 2011

Il veicolo linguistico dell'egemonia atlantica



“Non vi lasciate sedurre da quell’anglomania che regna da qualche anno in qua in alcuna parte d’Italia”. (Metastasio, Lettera al Rovatti del 18 gennaio 1775)


La lingua del sì                                                             

Come le analoghe denominazioni relative agli Arabi, ai Turchi, agli Austriaci, ai Russi e ad altri popoli costruttori d'imperi, così anche Romanus è uno di quegli aggettivi e sostantivi che, dopo aver indicato l'appartenenza ad una comunità nazionale o tribale o ad un luogo particolare, persero quasi del tutto l'originario valore etnico per rivestire un'accezione giuridica e politica. Fu così che tra il IV e il V sec. d. C. l'africano Agostino poté scrivere che nell'Impero romano "omnes Romani facti sunt et omnes Romani dicuntur" (1) e un alto funzionario imperiale d'origine gallica, Claudio Rutilio Namaziano, componeva l'ultimo inno in onore di Roma celebrandone la missione: "Fecisti patriam diversis gentibus unam, (...) urbem fecisti quod prius orbis erat" (2).
Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un'unica patria per le diversae gentes comprese tra l'Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un'unica lingua comune, poiché nella parte orientale, sia prima sia dopo la divisione ufficiale tra Arcadio ed Onorio, non giunse mai a termine il processo di romanizzazione linguistica. "E' noto che il Latino trovò sempre molta difficoltà a imporsi in quei territori in cui si trovò in concorrenza col Greco, lingua che aveva, presso gli stessi Romani colti, un maggiore prestigio storico e culturale" (3). Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell'esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell'ecumene imperiale non potevano adempiere.
Con la fine dell'Impero d'Occidente, ebbe luogo quella frantumazione della latinità che favorì il processo di formazione delle parlate romanze, sicché sul principio del sec. XIV l'Europa appariva agli occhi di Dante articolata in tre aree linguistiche: quella corrispondente alle parlate germaniche e slave nonché all'ungherese, quella greca e quella neolatina, all'interno della quale egli poteva ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d'oc), francese (lingua d'oil) e italiano (lingua del sì). Ma Dante era ben lungi dall'usare l'argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, solo la restaurazione dell'unità imperiale avrebbe potuto far sì che l'Italia, "il bel paese là dove il sì suona" (4), tornasse ad essere "il giardin dello 'mperio" (5). E l'impero aveva la sua lingua, il latino, poiché, come diceva lo stesso Dante, "lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile" (6).
Se nella visione di Dante l'identità linguistica e quella nazionale rimanevano all'interno dell'ideale cornice dell'Impero, con la fine del Medio Evo venne in primo piano il nesso di lingua, nazione e Stato nazionale. Tale nesso "si rafforzò poi per il sorgere d'una politica linguistica degli stati, si ravvivò nelle polemiche letterarie e in quelle religiose, acquistò colore e vivacità nelle fantasie popolaresche o semidotte sui caratteri delle lingue e nazioni europee, e assunse, infine, la dignità d'una idea centrale nelle meditazioni di Francesco Bacone e di Locke, di Vico e di Leibnitz sulla storia linguistica e civile dei popoli" (7).
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, quando in alcune parti d'Europa venne proclamato il principio dell'autonomia politica delle nazionalità, la lingua diventò bandiera di lotta politica. "Se chiamiamo popolo gli uomini che subiscono le medesime influenze esterne sui loro organi vocali e che, vivendo insieme, sviluppano continuamente la propria lingua comunicando sempre tra loro; dovremo dire che la lingua di questo popolo deve essere di necessità quella che è e non può essere diversa. (...) Tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da lui parlata" (8). Così, attraverso queste parole di Fichte, si esprime il nazionalismo romantico agl'inizi dell'Ottocento, mentre si manifesta l'esigenza che ad ogni unità statale corrisponda una parallela unità linguistica. "Ogni sistema linguistico, in quanto condizione di reciproca comprensione e affratellamento, è una spinta verso un disegno politico di indipendenza, di unità" (9). Dove l'aspirazione all'autonomia era ostacolata dalla dispersione della nazione in una serie di entità politiche subnazionali, il richiamo all'unità linguistica diventava fattore di unità; ma se il progetto d'autonomia doveva confrontarsi con una formazione statale sopranazionale, allora l'enfatizzazione dell'identità linguistica veniva a costituire un fattore di ulteriore disgregazione dello spazio politico europeo.
Per quanto riguarda in particolare il Risorgimento italiano, se esso da una parte contribuì alla disgregazione dello spazio politico europeo sottraendo all'impero absburgico i territori italiani direttamente o indirettamente soggetti all'Austria, dall'altra si trattò pur sempre di un processo unitario, perché il potere dei Savoia si estese su tutta una Penisola che era precedentemente frazionata in sette entità politiche. Fu così che nel Regno d'Italia la scuola, la burocrazia e l'esercito modificarono le condizioni linguistiche e contribuirono alla diffusione della lingua comune; all'azione degli organi del nuovo Stato unitario si aggiunse quella svolta dalla stampa (quotidiana, periodica e non periodica) e dagli spettacoli, poi dal cinema sonoro e dalla radio.
Con la Grande Guerra, che favorì la temporanea convivenza di soldati originari di ogni parte del territorio nazionale, il lessico italiano si arricchì di unità lessicali provenienti da vari dialetti. Ma le sorti della lingua italiana furono decise dagli esiti della successiva guerra mondiale: l'invasione e l'occupazione dell'Italia e il suo inserimento nell'area geopolitica egemonizzata dalle Potenze atlantiche segnarono l'inizio di un processo linguistico che ha condotto alla nascita dell'attuale itanglese. Giacomo Devoto ha registrato l'avvio di tale processo usando la terminologia anodina e fredda del glottologo: "Una impronta interessante anglo-americana lasciarono, irradiando da Napoli, i ragazzi detti sciuscià (dall'inglese "shoeshine"), in quanto si offrivano come "lustratori di scarpe". Anche segnorina, riferita al significato restrittivo di "passeggiatrice", è sì l'italiano "signorina", ma la pronuncia E della vocale protonica vi è rimasta come traccia della pronuncia normale sulla bocca dei militari anglo-americani a Napoli, e cioè del filone che le ha assicurato la fortuna" (10).


L'influsso inglese sull'italiano

La lingua inglese, diventata egemone nel corso di quel "secolo americano" che ha visto la conquista statunitense dell'Europa, fino al XVIII secolo esercitò sull'italiano un influsso praticamente irrilevante. Nel Dugento troviamo attestato un unico anglicismo, sterlina; nel Trecento è documentata la presenza di poche voci del lessico commerciale; fra il Quattrocento e il Cinquecento abbiamo una quarantina di termini, peraltro scarsamente diffusi, attinenti alla vita politica e civile dell'Inghilterra; al Seicento, il secolo dei primi dizionari italiano-inglesi, risalgono milord e rum; nel Settecento, per lo più attraverso la mediazione del francese, entrano in italiano e vi attecchiscono numerosi anglicismi appartenenti soprattutto al lessico politico, a riconferma della conclusione tratta da Arturo Graf al termine di un suo celebre studio: "l'anglomania e l'influsso inglese furono nel Settecento uno dei fatti più notabili della storia nostra, produttivo di effetti molteplici" (11).
Ma è nel corso dell'Ottocento che si fanno più strette le relazioni culturali tra Italia e Inghilterra. Grande è in quel secolo la fortuna italiana di poeti quali Alexander Pope, John Milton e George Byron e di romanzieri quali Walter Scott, Fenimore Cooper e Charles Dickens, nonché la diffusione di opere storiche, giuridiche, scientifiche e tecniche tradotte dall'inglese in italiano. Gli anglicismi ottocenteschi si presentano spesso in forma adattata (abolizionista, assolutista, radicale, boicottare, ostruzionismo ecc.); ma a volte compaiono in forma non adattata, come nel caso di leader, meeting, premier, budget, o di self government e platform ("programma di partito" nell'inglese d'America), cui però subentrano successivamente i calchi autogoverno e piattaforma. Dato l'interesse per il sistema politico inglese, particolarmente vivo tra i liberali italiani del secolo decimonono, il numero degli anglicismi è elevatissimo nella terminologia politica; ma se ne diffondono parecchi anche nel settore della moda (dandy, jersey, plaid, smoking, tight ecc.), dei mezzi di comunicazione (ferry-boat, tandem, cab, tunnel ecc.), delle attività agonistiche (foot-ball, tennis, base-ball ecc.), del commercio (copyright, manager, stock ecc.), della gastronomia (sandwich, brandy, whisky ecc.) e in altri campi ancora (12).
Nella prima metà del Novecento, la lingua europea più conosciuta in Italia era il francese. Le prime cattedre universitarie di inglese vennero istituite nel 1918; a quel medesimo anno risale la nascita dell'Istituto Britannico fiorentino, che, "con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario" (13). La Grammatica ragionata della lingua inglese di V. Grasso, pubblicata a Palermo nel 1924, arriva all'ottava edizione nel 1965; il Corso di lingua inglese moderna di M. Hazon esce in ventitré edizioni fra il 1933 e il 1963; la Grammatica della lingua inglese per gli alunni degli istituti tecnici, ginnasi moderni e scuole commerciali di G. Orlandi conosce tre edizioni e tre ristampe fra il 1923 e il 1935. Nondimeno nella prima metà del secolo la conoscenza dell'inglese rimane piuttosto limitata, sicché "molte volte la pronunzia italiana delle parole inglesi rispecchia la forma grafica della parola, cioè si pronunziano le parole inglesi come se fossero italiane o si adottano soluzioni di compromesso; e questo prova come la maggior parte dei prestiti dall'inglese siano giunti per via scritta, a differenza di quanto era avvenuto precedentemente per i prestiti dal francese, giunti in gran parte per via orale" (14). Gli anglicismi che, in forma sia adattata sia non adattata, penetrano in italiano fino alla Seconda Guerra Mondiale riguardano le attività agonistiche (bob, corner, dribblare, goal, golf, rally ecc.), il campo degli affari (business, slogan, traveller's cheque, trust ecc.), il mondo dello spettacolo (cast, film, gag, girl, music-hall, recital, vamp ecc.), l'abbigliamento (golf, nylon, slip, trench ecc.), i rapporti sociali e politici (boss, fair play, gentlemen's agreement, isolazionismo, obiettore di coscienza ecc.) e ad altri campi semantici di vario genere (bar, camping, carta carbone, clacson, cow-boy, globe-trotter, hobby, jolly, pipeline, proibizionismo, sex appeal, stilografica ecc.).
Ma a determinare la definitiva prevalenza dell'inglese sul francese furono la sconfitta dell'Europa nella Seconda Guerra Mondiale e l'ampia diffusione della "cultura" anglo-americana nell'area egemonizzata dagli Stati Uniti d'America; in seguito all'assorbimento della Penisola nell'Occidente a guida statunitense, un numero enorme di anglicismi e di americanismi invade la lingua italiana e i suoi stessi dialetti (15). Una percentuale consistente riguarda il mondo della musica, dei balli e dello spettacolo: boogie-woogie, rock and roll, juke-box, night-club, strip-tease, show, happening, quiz ecc.; dei giochi: bowling, flipper, minigolf ecc.; dell'alimentazione: fast food, pop corn, drink ecc.; dell'abbigliamento: baby-doll, beauty-case, blue-jeans, montgomery, topless ecc.; dei trasporti: guardrail, jet, scooter, ski-lift, terminal ecc.; delle attività produttive e commerciali: full time e part time, leasing, marketing, self-service, supermarket, discount, duty free, franchising ecc.; delle professioni: hostess, steward, tour operator, baby-sitter, dog-sitter, call-girl, escort ecc.; dell'informatica: computer, bit, hardware, mouse, internet, web, link, e-mail, social network, bannare, chattare ecc.; della vita sociale: escalation, establishment, leadership, public relations, top secret, privacy ecc.; della delinquenza: kidnapping, killer, racket, pusher, new economy, hedge fund, subprime, broker ecc.; perfino degli stati d'animo: relax, stress, suspense ecc. Ma c'è di più: sono penetrati nell'uso italiano anche acronimi (NATO, VIP, AIDS ecc.), suffissi (come -ale in demenziale, dirigenziale ecc.), interiezioni e didascalie fumettistiche avvertite come tali (sigh, gulp, wow), perfino nomi personali (William, Rudy, Jessica ecc.). Oltre all’abominevole okay, addirittura l’avverbio della risposta affermativa: yes.
Non bisogna quindi meravigliarsi più di tanto, se da un convegno di Federlingue (Associazione italiana di servizi linguistici) tenuto nel 2010 è emerso che negli ultimi otto anni l'uso di anglicismi e americanismi nei testi italiani è aumentato del 773% (16).


La lingua dello yes

Il glottologo Paolo Zolli, che a metà degli anni Settanta elencava buona parte dei termini elencati più sopra per esemplificare "l'influsso prepotente dell'inglese sull'italiano in quest'ultimo dopoguerra" (17), osservava: "Il modello di vita americano, al quale l'occidente guarda, fa sì che si adoperino anglicismi in luogo di parole italiane che pure esistono, o potrebbero esistere" (18). Che esistano parole italiane corrispondenti sotto il profilo semantico agli anglicismi e americanismi attualmente in voga, lo ha cercato di dimostrare un volenteroso dilettante, compilando una sorta di Appendix Probi adeguata alla bisogna (19). Il fatto che iniziative di questo genere non vengano assunte dagl'italianisti universitari è emblematico della colpevole indifferenza con cui gl'intellettuali assistono a una situazione così grave. Particolarmente emblematico, nonché drammatico, è che i dizionari della lingua italiana, adottando non il criterio normativo, bensì quello "della massima indiscriminata apertura", registrino qualunque vocabolo dell'itanglese, da acker (sic) a zapping (20).
Perfino un autorevole cruscante, Giovanni Nencioni, ha affermato con noncuranza che "non conviene dar peso agli anglismi di moda, snobistici, destinati a tramontare (...) né a quelli che ammiccano intenzionalmente all'appartenenza al costume straniero, come fast food, che in bocca italiana ha la stessa intenzione connotativa di pizza o spaghetti in bocca americana". Il vero problema sarebbero invece gli anglicismi scientifici e soprattutto quelli tecnologici, a proposito dei quali Nencioni richiama un analogo precedente della storia linguistica italiana: "la penetrazione, nell'Italia settecentesca, della cultura illuministica per mezzo del principale suo strumento, la lingua francese, che inondò l'italiano di francesismi, provocando una sdegnata reazione puristica" (21).
Ma l'analogia storica proposta da Nencioni zoppica un po'; d'altronde è lui stesso a rilevare la differenza tra il francese del XVIII secolo e il tipo di inglese attualmente in uso: "Quel francese era la raffinata voce del più elevato strato etico e speculativo di una cultura nazionale non molto settorializzata e radicata in un profondo humus umanistico", mentre l'inglese globalizzato "ha assunto il compito di pragmatico interprete di relazioni internazionali e di diffusore dell'attività scientifica e tecnologica del mondo anglosassone (e del restante mondo che condivide quell'attività), con spirito, se non culturalmente neutrale, prevalentemente strumentale. Funge infatti da lingua settorialmente specificata (bancaria, commerciale, diplomatica, informatica ecc.) oppure circùita, nei suoi limiti di lingua naturale, quei risultati delle scienze pure ed applicate che negli aspetti più esoterici ed essenziali si servono di codici artificiali accessibili ai soli iniziati" (22).
Il confronto tra il ruolo svolto dal francese settecentesco e quello dell'inglese odierno costituisce un argomento che potrebbe essere approfondito richiamando le considerazioni svolte a suo tempo da Giacomo Leopardi circa i francesismi. "Certo è - leggiamo nello Zibaldone - che non ripugna alla natura né delle lingue, né degli uomini, né delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell'eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d'idee con parole e modi appresi e ricevuti da un'altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com'è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l'influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa" (23). I francesismi che penetravano nell'italiano fra il Settecento e l'Ottocento erano dunque degli europeismi, mentre gli anglicismi odierni sono in realtà degli occidentalismi, se mi è lecito far uso di tali termini. In secondo luogo, se Leopardi riteneva che l'influenza del francese sull'italiano non pregiudicasse i princìpi dell'eleganza e del bello, chi potrebbe seriamente sostenere la compatibilità di tali princìpi con la lingua dello yes?
Infatti la condizione sulla quale il Leopardi insiste è che il barbarismo, oltre a non essere l'inutile doppione di un vocabolo italiano, "non ripugni dirittamente, anzi punto, all'indole generale e all'essenza della lingua, né all'orecchio e all'uso de' nazionali" (24). Ora, parole come spot, flash, staff, team, soft, hard, freak, punk ecc. ripugnano per l'appunto "all'indole generale e all'essenza" dell'italiano a causa della diversità di struttura fonetica, mentre l'italiano sembra aver perso la sua tradizionale capacità di adattare al proprio sistema fono-morfologico la parola straniera (ad es. trasformando beef-steak in bistecca) o di realizzare calchi formali (ad es. riproducendo skyscraper nella forma grattacielo).
La posizione di Nencioni riferita più sopra sembra confermare quella di un brillante intellettuale non specialista, il quale, volendo servirsi dei risultati acquisiti dall'indagine etimologica per dedurne informazioni relative alla storia del popolo italiano e chiarirne in particolare i rapporti coi vicini europei e mediterranei, ha preso in esame i prestiti francesi, germanici, iberici ed arabi, ma ha escluso gli anglicismi, in quanto la caterva alluvionale di parole inglesi e americane si è riversata "sull'Italia, non sulla lingua italiana. (...) Restano inglesi, non diventano italiano" (25). Verissimo. In genere gli anglicismi, a differenza dei prestiti provenienti da altre lingue (completamente assimilati al sistema fono-morfologico dell'italiano), mantengono l'aspetto formale originario, anche se spesso vengono trascritti con una grafia imprecisa e pronunciati in maniera approssimativa. Rientrano dunque in quella categoria di parole di prestito che i glottologi tedeschi chiamano Fremdwo"rter, "parole straniere", e che dovrebbero essere, "dalla maggior parte dei parlanti colti, ritenuti come un corpo estraneo, come una moneta straniera" (26).
Così almeno teorizzava Carlo Tagliavini (1903-1982), il quale preferiva chiamare "prestiti di moda" quelli che lo svizzero Ernst Tappolet (1870-1939) aveva chiamati Luxuslehnwörter, "prestiti di lusso" (27). Ma l'attuale invasione linguistica angloamericana non è più riducibile a un fenomeno di moda e tanto meno di lusso, sicché tali definizioni andrebbero aggiornate e il fenomeno dovrebbe essere considerato alla luce di esplorazioni in ambiti extralinguistici. Ma la linguistica accademica non è solita occuparsi di fattori che essa ritiene estranei al proprio campo d'indagine, quali il collaborazionismo della classe politica, la complicità di un ceto intellettuale mercenario e il conformismo della plebe dei dominati. Il nesso tra questione linguistica e questione politico-sociale si trova invece esplicitamente indicato in una riflessione del già citato Zibaldone leopardiano: "Per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, - annotava il poeta in data 16 marzo 1821 - bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani" (28).

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1. Sant'Agostino, Ad Psalmos, LVIII, 1.
2. Rutilio Namaziano, De reditu, I, 63-66.
3. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 174.
4. Dante, Inf. XXXIII, 80.
5. Dante, Purg. VI, 105.
6. Dante, Convivio, I, 5.
7. T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, Bari 1965, p. 10.
8. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 58 e 69.
9. G. Devoto, Il linguaggio d'Italia, Rizzoli, Milano 1974, p. 295.
10. G. Devoto, op. cit., pp. 327-328.
11. A. Graf, L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Loescher, Torino 1911, p. 426.
12. A. Benedetti, Le traduzioni italiane da Walter Scott e i loro anglicismi, Olschki, Firenze 1974; A. L. Messeri, Voci inglesi della moda accolte in italiano nel XIX secolo, "Lingua nostra", XV, 1954, pp. 47-50; A. L. Messeri, Anglicismi ottocenteschi riferiti ai mezzi di comunicazione, "Lingua nostra", XVI, 1955, pp. 5-10; A. L. Messeri, Anglicismi nel linguaggio politico italiano nel '700 e nell''800, "Lingua nostra", XVIII, 1957, pp. 100-108.
13. I. Baldelli in: B. Migliorini e I. Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.
14. P. Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 60.
15. Per gli anglicismi del secondo dopoguerra, cfr. I. Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, Olschki, Firenze 1972; I. Klajn, Su alcuni anglicismi nella recente terminologia linguistica, "Lingua nostra", XXXV, 1974, pp. 86-87; G. Rando, Anglicismi nel "Dizionario moderno" dalla quarta alla decima edizione, "Lingua nostra", XXX, 1969, pp. 107-112; G. Rando, Influssi inglesi nel lessico italiano contemporaneo, "Lingua nostra", XXXIV, 1973, pp. 111-120. Per gli anglicismi nei dialetti italiani, cfr. A. Menarini, Sull'"italo-americano" degli Stati Uniti, in Ai margini della lingua, Sansoni, Firenze 1947, pp. 145-208; O. Parlangeli, Anglo-americanismi salentini, "Lingua nostra", IX, 1948, pp. 83-86; G. Tropea, Americanismi in Sicilia, "Lingua nostra", XVIII, 1957, pp. 82-85; G. Tropea, Ancora sugli americanismi del siciliano, "Archivio glottologico italiano", XLIV, 1959, pp. 38-56, XLVIII, 1963, pp. 170-175, LVIII, 1973, pp. 165-182; G. Rando, Alcuni anglicismi nel dialetto di Filicudi Pecorini, "Lingua nostra", XXVIII, 1967, pp. 31-32.
16. Il nostro uso di parole inglesi è cresciuto del 773% in otto anni, "Corriere della Sera", 10 marzo 2010.
17. P. Zolli, op. cit., pp. 67-68.
18. P. Zolli, op. cit., p. 67.
19. A. Mezzano, L'antibarbaro. Vocabolario dell'italianità, Jivis Editore (mancano le indicazioni del luogo e della data d'edizione).
20. G. Devoto - G. C. Oli, Nuovo dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1987.
21. G. Nencioni, Il destino della lingua italiana, Accademia della Crusca, Firenze 1995, p. 3.
22. G. Nencioni, op. cit., pp. 5-6. L'evocazione di concetti quali "esoterismo" e "iniziazione", in relazione all'attuale funzione dell'inglese, mi induce qui ad una digressione che cercherò di contenere entro limiti accettabili. Più d'una volta sono stato tentato di riconoscere nell'inglese odierno le caratteristiche di una "lingua sacra", ma, ovviamente, in quel senso invertito del termine che si rapporta all'idea di "controiniziazione", intesa nel senso precisato da René Guénon. Infatti, come la fase attuale della Zivilisation occidentale è caratterizzata da una parodia della spiritualità (il fenomeno New Age), del diritto sacro (i "diritti umani"), del culto dei martiri (la Shoah), del messianismo escatologico (la vaticinata fine della storia all'insegna dell'universal trionfo liberalcapitalista), della musica liturgica (il jazz, il rock ecc.), dei luoghi di pellegrinaggio (Auschwitz, lo Yad Vashem, New York), così l'Occidente ha pure una sua parodistica "lingua sacra": l'inglese per l'appunto. Nella sua funzione di lingua mondialista, l'inglese si presenta dunque come una parodia caricaturale di quelle lingue, propriamente sacre o anche solo liturgiche, che hanno svolto o ancora svolgono una funzione spirituale di universalità rispetto ad una corrispondente ecumene tradizionale: tali sono, per esempio, lingue quali il cinese, il sanscrito, il latino, l'arabo.
23. G. Leopardi, Zibaldone, 2501-2502.
24. G. Leopardi, op. cit., 2503.
25. R. Sermonti, Il linguaggio della lingua, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2008, p. 87.
26. C. Tagliavini, op. cit., p. 171.
27. "Quando (...) la parola mutuata corrisponde perfettamente o quasi ad una voce già esistente nel lessico indigeno, ci troviamo dinanzi ad uno di quei prestiti che il Tappolet chiama 'di lusso' (Luxuslehnwörter) e che forse meglio si potrebbero chiamare 'di moda'" (C. Tagliavini, op. cit., p. 273).
28. G. Leopardi, Zibaldone, 799.

Inserita il 20/12/2010 alle 11:09:02
Scritto da Claudio Mutti
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