giovedì 22 luglio 2010

OGM E CRIMINE ORGANIZZATO

Mercoledì 21 luglio 2010

OGM E CRIMINE ORGANIZZATO
Da: LIBERASTAMPA
Di: Silvia Ribeiro ( Ricercatrice del Grupo ETC)

Tutti i semi transgenici esistenti sono controllati da sei imprese: Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf. Sono multinazionali del settore chimico che si impadroniscono delle compagnie di grani per controllare il mercato agricolo, vendendo semi che si legano agli agrotossici che esse producono ( erbicidi, insetticidi, ecc.).
Oltre a Monsanto, oramai indicata come il “villano” globale, tutte hanno una storia criminale che include, tra gli altri reati, gravi disastri ambientali e contro la vita umana. Tutte, una volta scoperte, hanno cercato di rifuggire le proprie colpe, tentando di deformare la realtà con menzogne e/o con la corruzione. Il fatto che tutti gli OGM siano omologati e che la contaminazione è un delitto per le vittime significa che qualunque paese autorizzi gli OGM di fatto consegna la propria sovranità alle decisioni di alcune multinazionali che agiscono secondo loro esigenza di lucrare. Inoltre, trattandosi di queste imprese, autorizzare la semina di OGM vuol dire consegnare i semi, i contadini e la sovranità alimentare a un pugno di criminali in grande scala. Crimine organizzato, legale.
Recentemente un tribunale in India si è pronunciato, dopo circa venti anni di richieste della parte lesa, su un caso che riguarda una di queste imprese: Dow. Parliamo di uno dei peggiori incidenti industriali della storia: un’enorme fuga “accidentale” di gas tossico della fabbrica agrochimica Union-Carbide, nel Bhopal in India, nel 1984. I comitati dei sopravvissuti (www.bhopal.net) stimano che sono morte più di 22 mila persone e che 500 mila hanno avuto conseguenze permanenti. 50 mila sono così malate da non poter lavorare per mantenersi. Recenti studi confermano che anche i figli delle vittime hanno avuto danni. La percentuale delle deformazioni nelle nascite in Bhopal è di 10 volte superiore al resto del paese, la frequenza del cancro molto più elevata della media. L’acqua di oltre 30 mila abitanti del Bhopal è ancora contaminata dalla fuga dei gas. Le vittime e i familiari hanno lottato duramente per decenni perché venissero curate e fossero pagate le spese mediche delle persone colpite, per la ripulitura del luogo e per portare a giudizio i responsabili.
Dow ha comprato la multinazionale Union-Carbide nel 2001. È stata una succulenta espansione della lucrosa vendita di agenti tossici e un modo di proseguire gli affari liberandosi dalla cattiva reputazione causata dall’incidente. Secondo il contratto di acquisto, Dow si sarebbe fatta carico di tutte le responsabilità della Union-Carbide. Dow aveva preventivato 2 miliardi e 200 milioni di dollari per potenziali risarcimenti dovuti all’amianto negli Stati Uniti, ma nemmeno un dollaro per pagare le indennizzazioni dovute in India, dimostrando che per loro la vita della gente dei paesi del sud del mondo non conta nulla. Non si è mai presentata nei tribunali in India. Anzi, ha assunto un atteggiamento aggressivo nei confronti delle vittime, chiedendo risarcimenti per migliaia di dollari a chiunque avesse manifestato davanti alla sede dell’impresa per il disastro del Bhopal.
L’8 giugno 2010, un tribunale ha emesso un verdetto per 8 dirigenti della Union- Carbide. La sentenza per la morte di 22 mila persone è di un cinismo feroce: due anni di carcere e circa 2 mila dollari di multa per ognuno di loro, nonostante nessuno dei sei sistemi di sicurezza della fabbrica fosse in funzione per così poter ridurre i costi . Warren Anderson, presidente della Union-Carbide al momento dell’esplosione e principale responsabile dell’incidente, è fuggito negli Stati Uniti dove continua a vivere nel lusso, difeso dalle richieste di estradizione dagli avvocati della Dow.
Lungi dall’essere un caso isolato, “ di un’azienda diversa”, Dow già aveva familiarità col genocidio. Ha fabbricato il napalm usato in Vietnam e condivide con Monsanto la produzione dell’Agente Arancio, anche questa sostanza tossica è stata usata in Vietnam e tuttora causa deformazioni nei nipoti delle vittime. Anche in quel caso, Dow e Monsanto hanno cercato di evitare qualunque compensazione, pagando alla fine una minuzia. Più recentemente, Dow si trova sotto processo per vendita e promozione – pur consapevole delle gravi conseguenze – dell’agrotossico Nemagon (DBCP) in vari paesi latinoamericani, che ha provocato sterilità nei lavoratori delle piantagioni di banane e deformazioni congenite nei loro figli (www.elparquedelashamacas.org). Questi orrori non sono un’eccezione, ma all’ordine del giorno nelle imprese di OGM, che sistematicamente disprezzano la vita umana, la natura e l’ambiente per aumentare i propri profitti. È bene ricordare, ad esempio, che Syngenta ha coltivato illegalmente mais transgenico in aree naturali protette del Brasile e, in seguito alle occupazioni per protesta da parte del Movimento dei Senza Terra, ha assoldato una milizia armata che ha sparato a bruciapelo a Keno, del MST, ammazzandolo. Monsanto in questo momento sta cercando di sfruttare la tragedia provocata dal terremoto a Haiti per imporre la contaminazione e la dipendenza del paese dai suoi semi modificati. DuPont ha continuato a vendere gli agrotossici – già proibiti negli Stati Uniti, come il Lannate (merhomyl) – nell’Ecuador, Costa Rica e Guatemala dove ha provocato l’avvelenamento di migliaia di contadini. Basf E Bayer sono accusate di fatti simili.
Possiamo credere a queste imprese sul fatto che gli OGM non hanno conseguenze ambientali né sulla salute e che se ci dovesse essere una contaminazione transgenica di tutto il mais, loro sarebbero vigili e la terrebbero sotto controllo?
Di ipharra.over-blog.it - Pubblicato in : decrescita                         

lunedì 12 luglio 2010

GUERRA CONTRO L'AFGHANISTAN DEI TALIBAN - DASHT-E LEILI

IL MASSACRO DI DASHT-E LEILI


                                                                         



Donald Rumsfeld Segretario alla Difesa durante l' invasione USA dell' Afghanistan. Nel corso delle trattative per negoziare la resa dei Talebani asserragliati a Mazar-i-Sharif, poichè si profilavano condizioni piuttosto miti per la resa, intervenne: "Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici".
Sette anni di lavaggio mentale mediatico ci hanno indotto a pensare ai Talebani come ad una banda di fanatici e semianalfabeti legati ad al-Qaeda e agIi attentati dell’ 11 settembre. In realtà, per la travagliata popolazione afgana, i talebani rappresentano coloro che finalmente, dopo 20 anni di guerre civili e di lotta contro l’ occupazione sovietica, seppero regalare al paese l’ unico periodo di stabilità e pace, interrotto clamorosamente ed ingiustificatamente dall’ aggressione americana e NATO.
Nel novembre del 2001, durante l' invasione americana dell' Afghanistan, varie migliaia di Talebani bersagliati dai bombardieri americani ed accerchiati dalle truppe dei "Signori della Guerra" dell' Alleanza del Nord, loro rivali storici che combattevano al fianco degli americani, si arresero alle truppe di Rashid Dostum, leader degli Uzbeki, temuto Signore della Guerra, che successivamente sarebbe diventato vice-ministro della difesa del governo Karzai. Dostum era assistito dagli uomini del 595 A-team delle Forze Speciali USA, da personale dell' esercito americano e della CIA. Dai 3000 ai 5000 prigionieri Talebani furono uccisi o fatti lentamente morire dopo la resa.



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Trent' anni di lotte
Nel 1973 un colpo di stato rovesciò la monarchia afgana e costrinse il re Zahir Shah all’ esilio. Iniziò un periodo travagliato per il paese. Nel 1978 conquistò il potere il Partito Democratico Popolare Afgano (partito socialista filo-comunista), il governo comunista fu però incapace di assicurare la stabilità al paese e questo non tanto e non solo per la nascente resistenza islamica, ma sopratutto per contrasti interni al partito stesso le cui fazioni contrapposte erano in lotta per il potere. Nel settembre 1979, il presidente Taraki, benvoluto dal popolo, fu ucciso a seguito di una congiura interna al partito, ordita dal vice primo ministro e capo della fazione rivale, Hafizullah Amin.
I sovietici decisero di incrementare l'appoggio militare pur di mantenere il governo comunista, ma, si convinsero che Hafizullah Amin era ormai un fattore di destabilizzazione dell'Afghanistan.
Il 24 dicembre 1979 l 'esercito sovietico ricevette l'ordine di invadere l'Afghanistan, tre giorni dopo le truppe entrarono nella capitale Kabul. L' Armata Rossa attaccò il palazzo presidenziale, Amin fu arrestato e successivamente giustiziato, le truppe sovietiche assunsero il controllo completo del paese.
Con l’ ingresso dei sovietici si andò però radicalizzando l’ opposizione islamica abbondantemente sovvenzionata, armata, addestrata ed appoggiata dagli Stati Uniti. Dopo nove anni di guerra, dopo aver perso quasi 14.000 uomini, ma soprattutto a causa dell’ avvento di Gorbaciov e del mutato quadro internazionale, l’ Armata Rossa abbandonò il paese. ( Non bisogna dimenticare che il ritiro dei Russi, avviene dopo il viaggio privato del miliardiario Hammer, che da Kabul si recò poi a Mosca, e di cui la stampa successivamente  non diede più notizie, sino all'avvento di Gorbaciov!! nota di Janua Coeli)
I mujaheddin si trovarono padroni dell’ Afganistan, ma i combattimenti proseguirono, questa volta tra le differenti fazioni dei mujaheddin. Le fazioni erano divise dai personalismi dei loro capi (i “Signori della Guerra”) ma soprattutto sulla base di differenze etniche profonde. L’ Afganistan è una nazione dove s’ incontrano popoli diversissimi per lingua e per etnìa: Pashtun, Tagiki, Hazari, Uzbeki, Turkmeni, popoli fieri e guerrieri che parlano lingue diverse e con tradizioni diverse. La diversità e l’ ambizione dei “Signori della Guerra”, diede vita ad un periodo di incertezza, alla disgregazione del tessuto sociale, alla spartizione del controllo della nazione.
L'irruzione sulla scena afgana dei Talebani
Nel paese devastato, i Talebani emersero come una forza in grado di portare l’ ordine e di ricostruire la società, seppure sotto la rigida etica fondamentalista. Si racconta che nella primavera del 1994, venendo a conoscenza del rapimento e dello stupro di due ragazze a un posto di blocco dei mujaheddin in un villaggio, vicino Kandahar, il locale mullah, Muhammad Omar, già veterano della resistenza antisovietica, organizzasse trenta compagni in un gruppo di combattimento e con esso riuscisse a salvare le ragazze facendo impiccare il comandante dei mujaheddin. Dopo questo incidente, sembra che gli interventi di questi religiosi-combattenti vennero sempre più richiesti dai contadini, afflitti dai soprusi dei mujaheddin.
I Talebani erano espressione del gruppo etnico Pashtun, maggioritario nel paese, ma seppero imporsi non solo con la forza ma anche stringendo alleanze con altre fazioni. S’ impadronirono dapprima di Kandahar, poi di Herat infine cinsero d’ assedio Kabul che conquistata nel 1996, fu poi perduta e di nuovo conquistata nel corso della lotta contro i Tagiki e gli Uzbeki dell’ Alleanza del Nord. Finalmente nell’ estate del 1998 i Talebani riuscirono a liberare la maggior parte del paese, tranne le estreme regioni nord orientali in cui si erano asserragliati gli ultimi “Signori della Guerra” della Alleanza del Nord.
L’ Emirato Islamico dell’ Afghanistan venne riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita ed il paese potè ritrovare unità e pace dopo trent’ anni di guerre.
Una volta al potere, i Talebani istituirono la sharia (legge islamica), che, come noto, prevede severissime pene per alcuni reati, come ad esempio l’ amputazione di una o di entrambe le mani per il reato di furto. Inoltre, poco dopo aver conquistato il potere, i Talebani vietarono la coltivazione dei papaveri da oppio. La produzione crollò da 4000 tonnellate nel 2000 (circa il 70% del totale mondiale) a 82 tonnellate nel 2001, quasi tutte raccolte nelle parti dell'Afghanistan ancora controllate dall'Alleanza del Nord. Con l’ invasione americana, alla fine del 2001, e con l’ istituzione del governo fantoccio di Karzai (soprannominato il "sindaco di Kabul" per sottolinearne la scarsissima autorità e supporto popolare in gran parte del paese) la produzione di oppio è aumentata drammaticamente ed è tutt’ ora in aumento. (vedi in questo stesso sito l' articolo di Massimo Fini "Bugie in TV sui seguaci del Mullah Omar")

L' invasione americana dell' ottobre 2001
La credenza generale è che alla richiesta da parte di Bush di consegnare i leader di al Qaeda agli Stati Uniti, i Talebani abbiano opposto un netto rifiuto. In realtà le cose non andarono proprio così.
I Talebani, giudicando che le accuse non erano sufficientemente provate per concedere questa “estradizione forzata”, proposero, in risposta, di consegnare Bin Laden al Pakistan, (paese con cui avevano sempre avuto buoni rapporti anche per la presenza dell’ etnìa Pashtun da tutte e due le parti del confine) affinchè fosse processato in un tribunale internazionale sottoposto alle leggi della Sharia.
Il 7 ottobre, poco prima dell'inizio dell'invasione, i Talebani si dichiararono pubblicamente disposti a processare Bin Laden in Afghanistan attraverso un tribunale islamico. Gli USA rifiutarono anche questa offerta giudicandola insufficiente. Infine il 14 ottobre, iuna settimana dopo lo scoppio della guerra, i Talebani acconsentirono a consegnare Bin Laden a un paese terzo per un processo, ma sempre se fossero state fornite prove del coinvolgimento di Bin Laden negli eventi dell' 11 settembre.
In realtà pare che gli Stati Uniti avessero pianificato l'invasione dell'Afghanistan ben prima dell'11 settembre. Il 18 settembre 2001 Niaz Naik ex-Ministro degli Esteri pakistano dichiarò che a metà luglio dello stesso anno venne informato da alcuni ufficiali superiori statunitensi che un'azione militare contro l'Afghanistan sarebbe iniziata nell'ottobre seguente. Naik dichiarò anche che, sulla base di quanto detto dagli ufficiali, gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato al loro piano persino nell'eventualità di una resa di bin Laden da parte dei Talebani. ("... it was doubtful that Washington would drop its plan even if Bin Laden were to be surrendered immediately by the Taleban...)
Naik affermò anche che sia l'Uzbekistan sia la Russia avrebbero partecipato all'attacco, anche se in seguito ciò non si è verificato.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non autorizzò l'uso della forza contro l'Afghanistan in nessuna risoluzione.
Dasht-E Leili
Il 21 novembre 2001 circa 8000 tra soldati Talebani e civili di etnia Pashtun si arresero a Konduz al comandente dell' Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum. La maggior parte di loro non fu vista mai più. Il fatto non passò sotto silenzio e quasi subito sulla stampa occidentale apparvero articoli che si chiedevano cosa fosse successo e, sopratutto, quanto fossero coinvolti gli americani in quello che aveva tutta l' aria di essere un massacro ed un crimine di guerra (vedi ad esempio l' articolo sul Guardian del 2 dicembre 2001)
Il sito in cui erano stati seppelliti i corpi della gran parte dei Talebani fu sottoposto ad indagini da parte degli esperti di medicina forense dell' associazione Medici per i Diritti Umani (Physicians for Human Rights) che disseppellirono ed analizzarono alcuni corpi giungendo alla conclusione che mostravano i segni di morte per soffocamento. Physicians for Human Rights ed Amnesty International richiesero che il sito venisse preservato in modo da poter portare avanti altre indagini su quello che appariva come uno dei peggiori crimini di guerra, ma nulla accadde. (A dimostrazione della doppia morale adoperata dai media, si ricorderà che il ritrovamento di 45 corpi a Racak in Kosovo causò ampi clamori sulla stampa e quindi sull' opinione pubblica e costituì un pretesto importante per gli attacchi NATO contro la Serbia). Ma il tentativo di far cadere l' episodio nell' oblio fallì grazie al lavoro del documentarista irlandese Jamie Doran che, inseguendo le notizie del massacro, si recò nel 2002 sul posto dove ebbe modo di intervistare testimoni, partecipanti, ufficiali, sopravvissuti, nonchè specialisti di medicina forense. Nacque così un documentario che fu trasmesso in Europa ed in altre nazioni del mondo (non negli USA) nell' estate del 2002 e che fu anche trasmesso al parlamento europeo. Inoltre il regista Jamie Doran fu autore anche di alcuni articoli sulla stampa internazionale per denunciare ciò che aveva visto e la congiura del silenzio attorno il massacro di Dasht-E Leili.
Di seguito riportiamo alcuni stralci dell' articolo a firma di Jamie Doran che fu pubblicato nel settembre 2002 su "Le Monde Diplomatique" :
... Kabul cadde praticamente senza colpo ferire: i taliban fuggivano da Kokcha, a nord-est, e da Taloqan e Mazar verso sud, in direzione di Kunduz. Circa 15.000 uomini, tra cui molti venuti da altri paesi per combattere a fianco dei taliban, si troveranno intrappolati in questa città, presa d'assedio dagli effettivi due volte più numerosi dell'Alleanza del Nord. Alcuni riuscirono a fuggire attraverso uno stretto corridoio verso sud; molti passarono dall'altra parte, pur di salvare la pelle (un fenomeno molto comune nella guerra afghana). Quanto a quelli rimasti, la loro sorte era nelle mani dei negoziatori. Al centro delle trattative si trovava Amir Jhan, altro signore della guerra, che godeva della fiducia generale.
«I comandanti di Kunduz erano tutti miei commilitoni e amici: alcuni anni fa avevamo combattuto fianco a fianco. Perciò mi fu chiesto di mettermi in collegamento con i capi dell'Alleanza del Nord, per porre fine a tutto questo attraverso il negoziato piuttosto che con le armi. Alcuni di quei comandanti - tra cui Marzi Nasri, Agi Omer e Arbab Hasham - hanno convinto quelli di al Qaeda e vari gruppi di stranieri ad arruolarsi nelle nostre file».
La prima proposta di accordo con l'Alleanza del Nord prevedeva che i comandanti taliban consegnassero le armi alle Nazioni unite o a qualsiasi altra forza internazionale, in cambio di alcune garanzie.
«Ero presente quando i mullah (taliban) Faisal e Nori arrivarono insieme con altri a Kalai Janghi per incontrare i generali Dostum, Maqaq e Atta. C'erano anche alcuni americani e qualche inglese. Si è deciso che se avessero consegnato le armi, i combattenti afghani di Kunduz avrebbero potuto far ritorno alle loro case, mentre quelli di al Qaeda e gli stranieri sarebbero stati consegnati alle Nazioni unite».
L'immensa fortezza di Kalai Janghi, nei dintorni di Mazar, adottata come quartier generale prima dai taliban e poi da Dostum, sarà al centro dei successivi eventi. Mentre già si stava discutendo l'accordo intervenne il segretario alla difesa americano, Donald Rumsfeld. Lo preoccupava l'idea che la fine negoziata dell'assedio potesse consentire ai combattenti stranieri di andarsene liberamente.
«Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan - quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i taliban - fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici». È stata più volte citata un'altra sua frase, pronunciata poco dopo: «Mi auguro che siano uccisi o catturati. Si tratta di persone che hanno commesso azioni terrificanti».
I comandanti dell'Alleanza del Nord non potevano permettersi di ignorare le dichiarazioni del loro principale alleato e finanziatore, e d'altra parte non erano particolarmente motivati per contestarle. La vendetta, che qui si chiama «Intiqaam», è come uno sport nazionale in Afghanistan.
C'era nell'aria la sensazione di un massacro imminente. La città era come investita una ventata sanguinaria.
Amir Jhan, consapevole dell'estrema gravità del momento, correva instancabilmente da un comando all'altro nel tentativo di fermare quello che ormai appariva come un epilogo inevitabile. Infine, il 21 novembre si arrivò a un accordo: tutte le forze taliban si sarebbero arrese all'Alleanza del Nord contro la promessa di avere salva la vita. Circa 470 taliban provenienti da altri paesi (alcuni dei quali sospettati di appartenere ad al Qaeda) saranno portati a Kalai Janghi e rinchiusi nei tunnel sotterranei di quell'immensa fortezza. Il 25 novembre 2001, due agenti della Cia arrivano sul posto per procedere agli interrogatori individuali. Nel frattempo scoppia una rivolta: alcuni taliban colgono di sorpresa le guardie, si impossessano delle loro armi e aprono il fuoco, uccidendo nel giro di pochi minuti l'agente della Cia Johnny «Mike» Spann e una trentina di soldati dell'Alleanza del Nord.
Segue uno scontro a fuoco, che si intensifica quando i taliban riescono a mettere le mani sul deposito d'armi del fortino che si trova - per quanto ciò possa sembrare assurdo - poco lontano dal luogo in cui erano rinchiusi i prigionieri. Le forze speciali di terra Usa chiedono un intervento aereo, mentre i britannici della Sas passano al contrattacco. Al terzo giorno di combattimenti, nella fortezza non c'è più un solo taliban in vita: una circostanza insolita, dato che al termine di qualsiasi operazione militare rimane sempre sul terreno qualche superstite, sia pure gravemente ferito. Gli eventi di Kalai Janghi monopolizzano l'attenzione dei giornalisti occidentali, richiamati in massa dalla resa di Kunduz. Da un complesso vicino relativamente al sicuro, o anche da postazioni più distanti, inviano servizi dai toni sensazionalisti, tanto più che tra gli 86 uomini rimasti nei tunnel sotterranei di Kalai Janghi si scopre un taliban americano, John Walker Lindh.
Sembra incredibile che in quel momento nessuno abbia avuto l'idea di chiedersi quale fosse stata la sorte degli altri soldati sconfitti a Kunduz. Soltanto dopo la proiezione di alcuni spezzoni del nostro documentario davanti al parlamento europeo di Strasburgo si sono levati appelli per un'inchiesta internazionale indipendente sulla sorte di quelle migliaia di uomini .... La loro fine lascerà sull'Alleanza del Nord, sui media occidentali, sull'Onu, sul governo Usa e sui militari americani un'ombra che non potrà scomparire mai più.
In un'altra fortezza, mai citata dagli organi di informazione occidentale, avrà inizio la strage di circa 3.000 prigionieri.
Ascoltiamo di nuovo Amir Jhan, che aveva preso parte ai negoziati per la resa: «Li avevo contati uno per uno: erano in 8.000. Ne rimanevano 3.015. Ma tra questi 3.015 c'erano anche molti pashtun locali, di Kunduz o delle città vicine, non compresi nel conto dei prigionieri che si erano consegnati. E gli altri, che fine avevano fatto?» La risposta a questa domanda si trova, almeno in parte, sotto quella duna lunga cinquanta metri, nel deserto di Dasht Leili.
Il conto è semplice: più di 5.000 uomini mancano all'appello. Qualcuno sarà riuscito a fuggire; qualche altro potrebbe aver ottenuto la libertà in cambio di denaro, e molti sono stati forse venduti ai servizi di sicurezza dei rispettivi paesi, per subire un destino forse peggiore della morte. Ma in maggioranza quei prigionieri, secondo vari testimoni oculari che abbiamo potuto ascoltare durante i sei mesi della nostra inchiesta, sono lì, sepolti sotto la sabbia. Nessuno dei testimoni che abbiamo interrogato ha ricevuto un soldo da noi, e tutti rischiano grosso per aver accettato di collaborare al nostro film. La tragedia inizia nella fortezza di Kalai Zeini, sulla via che conduce da Mazar a Shiberghan. Questa costruzione, immensa anche a confronto di altre enormi costruzioni afghane, è stata il campo di transito delle migliaia di uomini catturati a Kunduz. Ufficialmente si trattava di trasferire i prigionieri al carcere di Shiberghan, dove sarebbero stati detenuti in attesa di essere interrogati dagli esperti americani, che dovevano selezionare quelli da trasferire a Guantanamo (Cuba).
A Kalai Zeini, i prigionieri ricevono l'ordine di sedersi per terra in un vasto campo recintato. Poco dopo arriva un convoglio di camion carichi di container metallici. I prigionieri sono costretti ad avanzare in fila indiana per andare a stiparsi nei container. Ecco il racconto di un ufficiale dell'Alleanza del Nord, che ha accettato di parlare a condizione di mantenere l'anonimato: «Noi eravamo responsabili della consegna dei prigionieri, e per il tratto da Zeini a Shiberghan abbiamo caricato 25 container. In ciascuno ne abbiamo fatti entrare circa 200.
Schiacciati come sardine in quegli scatoloni metallici senz'aria, nel buio pesto e a una temperatura di oltre 30°, i taliban gridano implorando clemenza. La risposta non tarda ad arrivare, come conferma un altro militare afghano: «Ho sparato sui container per praticare qualche foro per l'aria, e ci sono stati dei morti». Domanda: «Dunque, lei ha sparato per forare i container. Chi le ha dato quest'ordine?» Risposta: «Ce lo hanno ordinato i comandanti».
Ma dietro la sincerità di quest'uomo è facile intuire un'estrema crudeltà. Abbiamo potuto constatare che molti dei fori da pallottole si trovavano nella parte bassa o media dei container e non più in alto, come sarebbe stato logico se davvero l'intenzione fosse stata quella di far respirare i prigionieri.
Un tassista locale si era fermato a uno dei distributori di carburante improvvisati che costellano le strade principali: «Il giorno in cui i prigionieri sono stati trasportati da Kalai Zeini a Shiberghan, mi ero fermato per fare il pieno. Sentivo un odore strano, e ne chiesi la causa all'addetto."Voltati e guarda", mi disse. C'erano tre camion con sopra dei container. E da lì scorrevano rivoli di sangue. Mi si drizzarono i capelli per l'orrore. Volevo andarmene, ma non potevo muovermi perché uno dei camion [che sbarrava la strada] aveva un guasto; così sono stato costretto ad aspettare che lo togliessero di mezzo». L'indomani, mentre si trovava davanti alla sua abitazione a Shiberghan, fu colpito da uno spettacolo non meno orrendo: «Ho visto passare altri tre camion carichi di contenitori dai quali colava sangue».
Non tutti i container sigillati avevano beneficiato dei «fori di areazione». In alcuni, lasciati ermeticamente chiusi per quattro o cinque giorni, i prigionieri erano morti asfissiati. Quando infine furono aperti, di loro non rimaneva altro che un ammasso di corpi in decomposizione, urina, feci, vomito e sangue.
Chiunque entri nel carcere di Shiberghan non può fare a meno di chiedersi chi mai abbia potuto pensare di stipare in questa struttura, prevista per un massimo di 500 detenuti, un numero di prigionieri quindici volte maggiore. È stato veramente un caso se la maggior parte di quelli che avrebbero dovuto rimanere qui non sono mai arrivati? I container, con il loro carico di carne macellata, si fermarono in fila davanti all'edificio. Uno dei soldati che li avevano scortati era presente quando i comandanti del carcere ricevettero l'ordine di far sparire al più presto le prove di quanto era accaduto: «La maggior parte dei container erano forati dalle pallottole. In ciascuno erano stati rinchiusi circa 150 o 160 uomini. Erano morti quasi tutti, tranne qualcuno che respirava ancora. Gli americani hanno dato ordine a quelli di Shiberghan di portarli lontano da lì prima che venissero filmati dal satellite».
Questa accusa di coinvolgimento americano sarà cruciale per ogni inchiesta futura. Il diritto internazionale in materia - come del resto le leggi nazionali e le leggi di guerra - riposa in larga misura sull'accertamento della catena gerarchica degli ordini che hanno portato a commettere il crimine. In altri termini, si tratterà di sapere chi fosse alla testa dei responsabili di quanto è accaduto a Shiberghan.
Abbiamo individuato due dei camionisti, provenienti da regioni diverse: l'uno e l'altro, separatamente e in giorni diversi, ci hanno accompagnati nello stesso punto del deserto. Erano visibilmente scossi per aver partecipato in prima persona a questi fatti, e i loro resoconti del percorso da Kalai Zeini a Shiberghan e quindi a Dasht Leili sono agghiaccianti: 1° camionista: «C'erano circa 25 container. I prigionieri stavano malissimo perché lì dentro non potevano respirare; perciò hanno sparato sulle pareti. Molti di loro sono morti. A Shiberghan hanno scaricato quelli che davano chiaramente segni di vita. Ma c'erano parecchi taliban feriti e altri erano svenuti per la debolezza. Quelli, li abbiamo portati in un posto chiamato Dasht Leili, dove li hanno finiti a colpi d'arma da fuoco. Sono tornato qui tre volte, e a ogni viaggio ho trasportato 150 prigionieri. Urlavano e piangevano davanti alle armi spianate. Eravamo in dieci o quindici camionisti a fare lo stesso percorso».
Secondo camionista: «A Mazar mi hanno requisito il camion senza darmi un soldo. Hanno preso il mio camion e ci hanno caricato sopra un container, e io ho dovuto trasportare i prigionieri da Kalai Zeini a Shiberghan e poi a Dasht Leili, dove i soldati li hanno ammazzati.Alcuni erano ancora vivi, feriti o svenuti. Li hanno portati qui, gli hanno legato le mani e gli hanno sparato. Ho fatto quattro viaggi andata e ritorno per trasportare i prigionieri. In tutto ne avrò portato circa 550 o 600».
Primo camionista: «Nel carcere di Shiberghan c'erano alcuni jumbish (afghani di origine uzbeka). Non ho visto americani qui a Dasht Leili, ma li avevo visti nel carcere: può darsi che fossero dentro i camion».
Secondo camionista, (interrogato sulla presenza degli americani): «Sì, erano con noi qui a Dasht Leili» «In quanti erano?» «In parecchi; saranno stati trenta o quaranta. Ci hanno scortati le prime due volte; poi, nei due viaggi successivi, non li ho più visti».
A distanza di mesi, le tracce dei bulldozer sono ancora visibili sul luogo della strage, a Dasht Leili. I cadaveri erano stati gettati in una fossa e nascosti sotto tonnellate di sabbia. Secondo testimonianze oculari, i sopravvissuti al trasporto da Kalai Zeini al carcere di Shiberghan hanno subìto, per mano dei militari americani, una sorte non molto migliore di quella dei loro compagni d'armi sepolti sotto la sabbia. Un soldato afghano afferma di aver visto un militare americano uccidere un prigioniero dicendo che «Quando ero in servizio a Shiberghan, ho visto un soldato americano spezzare il collo a un prigioniero. Altre volte gli rovesciavano addosso dell'acido o qualcosa del genere. Gli americani facevano quello che volevano, noi non avevamo nessun potere per impedirglielo ... Tutto era sotto il controllo del comandante americano».
Un generale dell'Alleanza del Nord, pure di stanza a Shiberghan in quei giorni, ha dichiarato: «Li ho visti con i miei occhi colpirli a pugnalate nelle gambe, tagliargli la barba e i capelli, mozzargli la lingua. A volte pareva che lo facessero solo per divertirsi. Portavano fuori un prigioniero, lo pestavano a volontà e poi lo ributtavano in cella. Ma a volte non li riportavano dentro. A volte i prigionieri scomparivano».
Tutte le persone intervistate nel nostro film si sono dichiarate disponibili a deporre davanti a qualsiasi istanza internazionale o Tribunale che persegua i crimini venuti alla luce grazie alla loro testimonianza; e se ne avranno l'occasione, sono anche pronte a identificare i militari americani coinvolti.
Dato il lungo tempo trascorso, sarà probabilmente difficile trovare le prove delle torture e degli omicidi perpetrati all'interno del carcere di Shiberghan. Ma a quattro chilometri da quella prigione c'è una fossa comune che contiene probabilmente i resti di migliaia di uomini uccisi. Se è vero che militari americani erano effettivamente coinvolti, o sono stati anzi all'origine della catena di comando che ha portato all'ordine di eliminare questi prigionieri, come affermano numerose testimonianze, o se hanno assistito senza intervenire all'esecuzione sommaria di centinaia di uomini, devono rispondere di crimini di guerra.
Il massacro di My Lai, nel 1968, per il quale il tenente William Calley è stata giudicato da una corte marziale, può sembrare roba d'altri tempi; può darsi che per molti aspetti, da allora il mondo sia cambiato. Ma i capisaldi del diritto e della giustizia sono ancora gli stessi. E chi è innocente non dovrebbe temere che la verità venga a galla.
Jamie Doran - settembre 2002 - Le Monde Diplomatique
Concludiamo riportando alcune frasi di un articolo che il prof. Edward Herman ha scritto nel 2004 sul massacro di Dasht-E Leili. L' autore è Professore Emerito alla Wharton School, University of Pennsylvania, economista e studioso analista dei media:
The UN Security Council and Kofi Annan will never do anything that the United States opposes strongly, and there are no international bodies with investigative and punitive powers that will move against U.S. desires, and none will be established for special investigation and the pursuit of justice. With some honorable but powerless exceptions the world’s NGOs (organizzazioni non governative Nota del curatore del sito) will not make much noise about a U.S.-approved massacre, nor will the Western (and especially U.S.) media and “humanitarian intervention” intellectuals. (.....) So once again we see how smoothly the system works, with power determining which massacres are worthy of attention and indignation, and that power causing everybody else to fall in line—the craven allies who remain silent; Kofi Annan and the UN adjusting nicely to the “political sensitivity” of dealing with a U.S.-sponsored massacre; the NGOs, a few calling for an investigation, but most of them quiet and channeling their benevolence in accord with funding sources and practicality; the mainstream media, as always, recognizing the unworthiness of the victims of U.S.
gilgamesh58 - ottobre 2008                                                          
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Inopinatamente nel luglio del 2009 un articolo su The New York Times ha riportato almeno momentaneamente l' attenzione sulla vicenda. L' articolo di James Risen, dal titolo "U.S. Inaction Seen After Taliban P.O.W.’s Died " formula anche accuse abbastanza dirette all' amministrazione Bush:
"...Bush administration officials repeatedly discouraged efforts to investigate the episode, according to government officials and human rights organizations. American officials had been reluctant to pursue an investigation — sought by officials from the F.B.I., the State Department, the Red Cross and human rights groups — because the warlord, Gen. Abdul Rashid Dostum, was on the payroll of the C.I.A. and his militia worked closely with United States Special Forces in 2001, several officials said. They said the United States also worried about undermining the American-supported government of President Hamid Karzai, in which General Dostum had served as a defense official...." (The New york Times - 10 luglio 2009)
...Secondo funzionari di governo e le organizzazioni per i diritti umani, gli esponenti dell' amministrazione Bush ripetutamente scoraggiarono i tentativi per nvestigare sull' episodio. I funzionari governativi statunitensi sono sempre stati riluttanti a mandare avanti una qualche indagine sull' argomento, intentata dall' F.B.I., dal Dipartimento di Stato, dalla Croce Rossa e dai gruppi per i diritti umani, in quanto il signore della guerra gen. Abdul Rashid Dostum era a libro paga della C.I.A. e la sua milizia nel 2001 aveva lavorato in stretta cooperazione con le Special Forces statunitensi. Le stesse fonti spiegavano come l' amministrazione statunitense fosse anche preoccupata di indebolire il governo di Karzai, creato e sostenuto dagli americani, nel quale il generale Dostum era stato ministro della difesa...
il giornalista Risen si pone la domanda se l' amministrazione Obama avrà la voglia, la volontà, l' interesse di avviare una seria indagine.
Tre giorni dopo il primo articolo, un editoriale sempre sul NYT rincara la dose:
"Add this to the Bush administration’s sordid legacy: a refusal to investigate charges that forces commanded by a notorious Afghan warlord — and American ally..."
ed inoltre a riguardo delle responsabilità dirette americane:
"They say American forces accepted the surrender of prisoners jointly with General Dostum. A NATO base was near the grave site...."
(The New York Times - 13 luglio 2009)
Nel frattempo l' ingombrante Dostum, signore della guerra alleato degli americani, ha fatto sapere che secondo i suoi dati solo circa 200 prigionieri talebani morirono e comunque a causa delle ferite e per malattia.
Nel frattempo i gruppi per i diritti umani hanno espresso il documentato timore che le prove possano essere state distrutte. Nel 2008, un' altro team di esperti di medicina forense ingaggiati dalle Nazioni Unite hanno scoperto che nella zona sono stati eseguiti grandi sbancamenti che suggeriscono che le fosse comuni erano state rimosse. Secondo Risen l' opera di rimozione va avanti già da anni: "Satellite photos obtained by The Times show that the site was disturbed even earlier, in 2006".
Nel frattempo, infine, il "volto nuovo" l' "idealista" presidente Obama ha rafforzato l' impegno militare statunitense in Afghanistan mandando altri 21000 soldati e pianificando l' invio di altre truppe a combattere la crescente resistenza...
gilgamesh58 ultima modifica agosto 2009
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fonti - approfondimenti:
"The Convoy of Death" il documentario sul massacro di Dasht-E Leili
Un trailer (durata 5 min.) del documentario di Doran
L' articolo di Doran su Le Monde Diplomatique
La traduzione del precedente
L' articolo di Edward Herman
Film Accuses U.S. of Atrocities at Dasht-i-Leili
Le parole di Rumsfeld riportate dall ' Herald Tribune
Un articolo di The Guardian sul documentario di Doran
La traduzione del precedente
Intervista a Jamie Doran autore del documentario
l' articolo su The New york Times del luglio 2009



SREBRENICA

OLTRE AL DANNO, ORA PURE LO SCHIAFFO MORALE MONDIALE…
Una delle domande che mi fanno spesso in Bosnia è :
“Come viene ricordato il massacro di Srebrenica in Italia?”          
Questa è la mia risposta:
Ricordato quel giorno in Italia? Mi piange il cuore, perchè solo chi avrà un parente o un conoscente in Bosnia si ricorderà di quei terribili giorni… anche tra i musulmani che sono in Italia, purtroppo sembra che sia una questione dimenticata da tutti.
Forse qualcuno lo farà, qualcuno no, ma di sicuro non sarà come quando viene ricordato l’ olocausto. Mi spiego in Italia già un mese prima fanno pubblicità ad eventi e manifestazioni che ricordano quel giorno, anche in tv si vedono film sulle vittime dell’ olocausto. Purtroppo per noi essendo musulmani e quindi appartenenti ad una religione molto” scomoda” in occidente, questo giorno per le vittime della Bosnia sarà molto difficile ricordarlo. E’ scomodo ricordarsi di quel giorno perchè pesa molto sulla coscienza della gente, perchè tutti sono stati in silenzio ad aspettare, e nessuno ha fatto nulla. Nessuno ha pensato a quelle donne quegli uomini quei bambini uccisi, solo perchè la loro colpa era quella di essere musulmani. Penso sempre a quelle donne che invece hanno perso i loro mariti, i loro figli e alla fine non hanno neanche una tomba su cui piangere, non hanno neanche ottenuto un risarcimento morale che invece io ritengo sia giusto e dovuto visto che ancora adesso soffrono per la loro perdita, anche se questo non può far rivivere chi è morto.
Come donna, ma sopratutto come mamma credo che si debba avere il diritto di avere almeno una tomba su cui piangere dato che alla fine non è rimasto più nulla e tuttora oltre che la perdita dolorosa subita c’è pure il dolore che ogni giorno lacera il cuore di queste persone che devono lottare per avere uno straccio di informazione per poter avere una tomba dove poter ricordare i propri cari. Come donna e come mamma è assurdo pensare che chi ha compiuto quel massacro sia ancora in giro a festeggiare come se niente fosse, l’ unica consolazione è che al Giorno del Giudizio pagherà per tutto il male che ha fatto, pagherà per tutta la sofferenza che ha creato, pagherà per tutto il futuro che ha distrutto ed interotto. Lo so che chi ha perso i propri famigliari fa fatica ad andare avanti lo so che è difficile ogni volta che arriva l’ 11 luglio ed ogni anno è sempre più pesante perchè il dolore purtroppo è ancora vivo perchè oltre il proprio dolore si aggiunge un altro dolore che forse fa più male di quello subito ed è il fatto che a livello mondiale a parte nei paesi a maggioranza islamica, nessuno si ricordi di quelle povere vittime innocenti. In Italia si dice così:” Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”.
A livello europeo il giorno della memoria per levittime di srebrenica è stato riconociuto ufficialmente, ora sta a noi combattere per ottenere questo giorno anche in Italia!
Inoltre come se non bastasse la Fifa, ha rifiutato di osservare un minuto di silenzio per Srebrenica, stasera si gioca la finale dei mondiali, e questa è la spiegazione del perchè non si farà:
La Fifa ha respinto la richiesta di osservare un minuto di silenzio prima della finale mondiale di domani sera a Johannesburg per ricordare il 15esimo mo anniversario del massacro di Srebrenica, dove nel luglio 1995 ottomila musulmani furono uccisi dai serbo-bosniaci.
La richiesta, hanno riferito i media a Sarajevo, era giunta dalla sezione bosniaca della Società per i popoli minacciati (Spm), una organizzazione non governativa con sede in Germania. Sottolineando che il mondo intero ricorda con grande dolore e tristezza il genocidio di Srebrenica, il segretario generale della Fifa Jerome Valcke ha detto che la richiesta non poteva tuttavia essere accolta dal momento che l’11 luglio coincide anche con la detenzione e la condanna di Nelson Mandela e dei suoi compagni quasi 50 anni fa. Tale data, ha spiegato, «è di enorme importanza per tutto il continente africano». Una spiegazione questa definita «uno schiaffo ai superstiti di Srebrenica» da Fadila Memisevic, responsabile della sezione bosniaca della Ong.
Inutile dirvi che in Bosnia le autorità sono a dir poco sconcertate e posso anche aggiungermi io allo sconforto, uno schiaffo morale difficile da cancellare.
E la chiesa Serbo- Ortodossa associazione criminale cosa fa?
Benedice gli assassini e criminali di guerra. Ecco il link per vedere alcune foto di quei momenti
Ricordo inoltre che solo il 31/03/2010 le autorità Serbe attualmente in carica hanno ammesso pubblicamente il loro errore ed hanno chiesto ufficilamente scusa, dopo 15 anni le uniche parole che sono riusciti a dire è stato SCUSA.
Per il popoplo di Srebrenica e di tutte le atre vittime della Bosnia, per i sopravvissuti (tra cui mio marito) per tutti quei poveri bambini innocenti, per tutto quel futuro interotto, per tutto questo vi chiedo NON DIMENTICATE SREBRENICA E LA BOSNIA.
Posted by Deborah Callegari Hasanagic su Mondo Raro





                                                              

sabato 3 luglio 2010

Intervista all’Ambasciatore iraniano in Italia M. A. Hosseini

“Nessuno potrà mai isolare l’Iran”.
Iran :::: Tiberio Graziani, Matteo Pistilli :::: 2 luglio, 2010 ::::

Venerdì 25 giugno, Matteo Pistilli e il direttore Tiberio Graziani hanno incontrato per Eurasia Sua Eccellenza l’Ambasciatore della Repubblica Islamica dell’Iràn presso lo Stato italiano, Seyyed Mohammad Alì Hosseini.


                                                                 
Nel corso dell’incontro, l’Ambasciatore ha espresso il giudizio di Teheran sulle recenti sanzioni ONU ed esposto il ruolo della Repubblica Islamica nell’ambito regionale e mondiale con particolare riferimento ai rapporti che intrattiene con la Turchia, la Cina, la Russia e il Brasile.
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Su iniziativa degli USA, la Repubblica islamica dell’Iràn è stata recentemente sottoposta a nuove sanzioni da parte dell’ONU. A queste sanzioni hanno aderito anche la Cina e la Russia, due paesi generalmente non ostili all’Iràn. Come valuta Teheran la nuova posizione internazionale di Mosca e Pechino? Quali gli effetti a medio e lungo termine sulle relazioni tra questi due paesi e la Repubblica dell’Iran?
Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.

Innanzitutto dovrei fare delle precisazioni in merito all’ultima risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza. L’interferenza del Consiglio di Sicurezza nella questione nucleare iraniana sin da subito è stata un’azione illegittima e in contrasto con lo statuto delle Nazioni Unite. Il compito principale del Consiglio di Sicurezza è quello di occuparsi della pace e della sicurezza qualora dovessero subire delle minacce. Però il programma nucleare iraniano è un programma pacifico, civile, da sempre monitorato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica o attraverso i sopralluoghi dei suoi ispettori, oppure e contemporaneamente, attraverso le istallazioni di telecamere a circuito chiuso in tutti i luoghi dei siti iraniani. Sempre l’Agenzia ed i suoi ispettori sin dal primo momento e in più di 20 occasioni, hanno pubblicato dei rapporti in cui chiariscono che il programma nucleare iraniano non ha nessuna deviazione verso un uso militare. Questo significa che il programma nucleare iraniano – sottolineo pacifico, sotto controllo dell’Agenzia, con la certificazione della stessa Agenzia dell’inesistenza di alcuna violazione delle regole e dei regolamenti internazionali – non può essere considerato una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale. Perciò qualsiasi interferenza del Consiglio di Sicurezza riguardo al nostro programma nucleare civile e pacifico è da considerarsi illegale, faziosa, priva di valore. Pertanto le risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza per imporre delle sanzioni alla Repubblica Islamica dell’Iràn sono da considerarsi in contrasto con lo statuto delle stesse Nazioni Unite, perché queste risoluzioni mirano a privare gli iraniani dai loro diritti naturali. Sappiamo tutti che lo statuto dell’Onu non permette al Consiglio di agire in modo tale da privare le nazioni ed i popoli dai loro diritti naturali. Lo stesso Consiglio di Sicurezza non agisce invece laddove esistono effettivamente delle minacce reali e concrete, a livello sia regionale sia internazionale, nei confronti della pace e della sicurezza. L’ultimo esempio è la mancanza di una adeguata reazione nei confronti del barbaro massacro perpetrato dal regime sionista in acque internazionali, a danno di pacifisti della Flottiglia pacifista che portava aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Oppure la mancanza di una seria ed adeguata reazione da parte de Consiglio di Sicurezza per togliere l’assedio alla Striscia di Gaza che da più di tre anni sta privando la popolazione della Striscia stessa dei più elementari diritti naturali, ossia avere il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria e così via. Purtroppo il silenzio, l’indifferenza e la debolezza del Consiglio di Sicurezza di fronte a questi crimini permette la perpetuazione della situazione oggi esistente. Ancora a questo proposito, prendiamo atto di quella che è un’azione frettolosa e sconsiderata degli Stati Uniti d’America per imporre tali sanzioni. Perché gli statunitensi hanno agito in questa direzione proprio in corrispondenza dell’accordo di Teheran, ossia l’accordo trilaterale fra l’Iràn, il Brasile e la Turchia sulla questione nucleare. La dichiarazione dell’accordo di Teheran è stata resa pubblica in data 17 maggio 2010 dopo sette mesi di negoziati; abbiamo visto il Brasile e la Turchia adoperarsi veramente con molta serietà e, di conseguenza, anche l’Iran ha dimostrato la necessaria flessibilità. Questo è stato un passo da parte iraniana per creare fiducia, anche a dimostrazione della possibilità di una costruttiva interazione fra le parti. La cosa interessante è anche che lo stesso presidente nordamericano aveva chiesto ai presidenti del Brasile e della Turchia di cercare d’arrivare ad un risultato positivo. Ma subito dopo che l’accordo è stato reso pubblico abbiamo osservato gli americani accelerare l’approvazione della risoluzione 1929 che non vuole fare altro che rafforzare le sanzioni contro il popolo iraniano. Qui siamo di fronte ad una politica ipocrita nei confronti della questione nucleare iraniana. Per quanto riguarda Cina e Russia devo dire che la Repubblica Islamica dell’Iran ha ampi rapporti con ambedue i paesi, in base ai reciproci interessi; naturalmente l’ampiezza di queste relazioni tra l’Iran e la Cina e tra l’Iran e la Russia comporta anche delle aspettative da parte iraniana; la maggior parte di quelle riguardanti il programma nucleare iraniano sono rimaste disattese . Un esempio ne è il fatto che i due paesi, la Cina e la Russia, hanno approvato l’ultima risoluzione nei confronti dell’Iran. Questa decisione ha scosso in qualche modo l’opinione pubblica iraniana ed ha messo sotto pressione alcune autorità del nostro paese. Ciò nonostante noi pensiamo che per questi due paesi sia ancora aperta la porta; ovviamente l’auspicio che noi formuliamo è che si adoperino per correggere l’errore appena compiuto.
Dunque Teheran lascia uno spiraglio per Mosca e Pechino. Pochi giorni fa (il 21 giugno), il sito del Ministero degli Esteri russo ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per criticare la decisione degli USA e d’alcuni paesi europei d’inasprire unilateralmente le sanzioni contro l’Iràn. Queste sanzioni sono focalizzate sui cosiddetti “beni a duplice uso”; Mosca ha mostrato delusione per le ulteriori sanzioni contro l’Iràn, approvate da Washington, che vanno ben oltre il già esistente regime di sanzioni Onu contro Teheran. Questa dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri russo a mio avviso si inserisce proprio in quella strategia di rettifica e di correzione di cui parlava prima, o sbaglio?
Quello che ho capito ascoltando le sue parole è che i russi sono d’accordo con le sanzioni approvate nel quadro del Consiglio di Sicurezza ma sono contrari ad un loro ampliamento da parte degli USA e dei paesi europei. Però noi riteniamo che la risoluzione del Consiglio nei confronti del programma nucleare pacifico iraniano sia una decisione ingiustificata. Però nello stesso tempo quanto lei mi leggeva dimostra la contrarietà di Mosca ad un inasprimento unilaterale delle decisioni del Consiglio voluto sia dagli Stati Uniti d’America sia da alcuni paesi europei. Perciò, da questo punto di vista, posso dire che sì, si tratta di una presa di posizione positiva.
I rapporti economici tra l’Iràn e l’Italia sono sempre stati molto buoni. La Farnesina, tuttavia, negli ultimi tempi, allineandosi alle direttive di Washington volte ad isolare Teheran, ha espresso regolarmente posizioni antiraniane: come valuta il governo iraniano l’atteggiamento di Roma?
Alcune posizioni espresse da parte di talune autorità italiane sono posizioni poco amichevoli e non corrispondenti alla realtà ed allo spirito di amicizia che ha da sempre caratterizzato i rapporti fra l’Iràn e l’Italia. Sono dell’idea che una maggiore conoscenza della realtà iraniana, ovvero un maggiore realismo, aiuterebbero a correggere incomprensioni di questo genere. Le relazioni economiche fra l’Iràn e l’Italia sono da sempre buone e sono improntate ad alcuni fattori, per esempio gli interessi reciproci, le collaborazioni in molti settori, la complementarietà delle due economie. Si fondano anche sul fatto che l’Iràn è un mercato di 70 milioni di consumatori e insieme ai suoi paesi confinanti raggiunge quota 300 milioni: è interesse degli imprenditori italiani trovare sempre nuovi mercati, ed è interesse dell’Iràn potersi avvalere delle tecnologie italiane. Questi ed altri fattori, da sempre, costituiscono la cornice ed i pilastri su cui si fondano i nostri rapporti commerciali. Vorrei comunque sottolineare che l’Iràn, data la sua posizione unica, le sue dimensioni, non è un Paese che qualcuno riuscirà mai ad isolare. Parliamo di un Paese e di una nazione con 7 mila anni di storia alle spalle; un Paese che oltre ad avere la fortuna di un così ricco ed enorme bagaglio di cultura e civiltà ha anche la fortuna di avere il futuro costituito dai suoi giovani; un Paese altrettanto fortunato perché ricco di molte ricchezze naturali; un Paese con sbocco sul mare aperto, che oramai ha raggiunto e superato l’autosufficienza in molti settori industriali; un Paese che può essere considerato capofila nella propria regione. Pertanto vedete che gli sforzi trentennali di Washington per isolare l’Iràn e per imporgli le sanzioni hanno fino a questo momento sortito degli effetti assolutamente contrari. Basti leggere più approfonditamente i sondaggi di opinione (non parlo tanto di quelli condotti a livello internazionale, quanto di quelli riguardanti le popolazioni mediorientali) per capire quali sono i Paesi più amati e quali sono i Paesi più odiati dall’opinione pubblica nella nostra regione; forse finalmente si capirà quali sono gli Stati realmente isolati in questo momento.
Recentemente alcuni quotidiani legati al governo italiano, hanno espressamente evidenziato il coinvolgimento di Israele, in particolare attraverso il Mossad, nell’addestramento e finanziamento della guerriglia curda nel nord dell’Iraq con lo scopo di destabilizzare le confinanti regioni curde in Turchia e Iran. L’attacco curdo alla base di Iskenderun, avvenuto in contemporanea con l’assalto alle navi della Flottiglia verso Gaza, sembra essere un avvertimento e una azione di depistaggio per impedire la reazione turca all’azione di guerra compiuta da Israele ai danni dei cittadini e delle navi turche. La volontà di combattere il terrorismo curdo e gli indipendentismi della regione possono costituire un punto di intesa e collaborazione tra Turchia e Iran?
La Repubblica Islamica d’Iràn e la Turchia hanno preoccupazioni ed interessi comuni nella regione. Ciò ha comportato una collaborazione molto efficace tra l’Iràn e la Turchia per contrastare il terrorismo. Gruppi terroristici sono costituiti ed appoggiati da alcune potenze al di fuori della nostra regione. Questi stessi gruppi sono attivi nelle zone di frontiera fra Iràn, Turchia e Iràq e stanno cercando di compiere attività di spionaggio e destabilizzanti. Il regime sionista da sempre ha avuto una parte attiva nell’incoraggiare gruppi terroristici a creare instabilità nella regione. Ma nello stesso tempo, come dicevo poc’anzi, le buone collaborazioni tra i Paesi della regione hanno impedito finora a questi gruppi terroristici ed ai loro sostenitori di avere successo.
Le nuove relazioni tra l’Iràn e la Turchia sembrano prefigurare un nuovo orientamento geopolitico del quadrante vicino e mediorientale. Considerando che la Turchia è un paese membro della NATO, ritiene che lo “strappo” di Ankara avrà ripercussioni nell’ambito dell’alleanza atlantica, e se sì quali?
Per quanto concerne la seconda parte della sua domanda, dovrebbero essere gli amici turchi a rispondere, perché sono loro a conoscere le logiche interne all’alleanza atlantica. Però debbo dire che gli ultimi avvenimenti a livello regionale e internazionale fanno pensare che forse questo secolo vedrà la nascita di nuove potenze. Ci saranno grandi cambiamenti a livello internazionale e il mondo finalmente uscirà dall’unipolarismo. Tra le potenze emergenti possiamo nominare appunto l’Iràn, la Turchia, il Brasile, l’India; questo significa che ci sarà un nuovo Medio Oriente dove il ruolo e l’influenza delle potenze egemoniche esterne sarà ridotto al minimo, ed il ruolo dei paesi islamici nella regione sarà rafforzato molto di più.
Una delle questioni più controverse all’ordine del giorno è quella della consegna all’Iràn dei sistemi di difesa aerea S-300 da parte della Russia. Negli ultimi mesi si sono susseguite voci che alternativamente confermano o smentiscono il congelamento dell’accordo, anche se dopo l’ultimo giro di sanzioni sembra che la Russia propenda verso la decisione di non consegnare all’Iran questa importante tecnologia militare che può scongiurare l’attacco da parte di Israele. Come considera questa marcia indietro della Russia, unita al voto favorevole alle nuove sanzioni contro l’Iran? Ci saranno ripercussioni nei futuri rapporti tra Iran e Russia?
Effettivamente ci sono state delle dichiarazioni contrastanti da parte delle autorità russe: i ritardi accennati hanno di volta in volta avuto motivazioni politiche o tecniche. Malgrado ciò, la collaborazione tra i due paesi in generale avviene nel quadro di normali relazioni. Se fosse vero che i russi avessero deciso di non consegnare all’Iràn questo sistema S-300, tale decisione sarebbe una violazione rispetto agli accordi presi precedentemente tra i due Paesi. Ricordiamo che il prestigio, il credito degli Stati deriva dalla loro fedeltà agli impegni contratti con gli altri. Perciò sicuramente una eventuale inadempienza da parte russa nei confronti di un accordo di così vecchia data susciterebbe la grande sfiducia degli iraniani nei confronti di Mosca, e noi non lo auspichiamo. Vorrei però precisare che se l’Iràn non avrà questo sistema di difesa non subirà, credetemi, grandi danni, perché abbiamo la nostra industria di difesa molto sviluppata ed i nostri tecnici giovani ma molto bravi sono al lavoro; siamo in grado di produrre quello di cui abbiamo bisogno per assicurarci la nostra difesa. Nonostante le ingiuste sanzioni imposte al nostro Paese in questi anni l’Iràn non ha mai cessato di andare avanti anche sulla strada dello sviluppo scientifico e tecnologico. E come dicevo prima siamo veramente autosufficienti, possiamo pensare ai nostri diversi fabbisogni nei vari settori senza dover dipendere dall’estero. Comunque ci auguriamo che i russi siano adempienti verso l’accordo già firmato e non permettano che i rapporti tra i due Paesi vengano danneggiati da episodi come questo.
L’Iràn è un paese osservatore dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS). Al recente vertice dell’Organizzazione, tenutosi a Tashkent il 10 e 11 giugno, Teheran ha inviato una sua delegazione. Qual è l’attuale ruolo dell’Iràn nell’Organizzazione eurasiatica?
L’Iràn ha partecipato a questo vertice con una delegazione iraniana capeggiata dal nostro Ministro degli Esteri.
In tutte le consultazioni avviate fino a questo momento, i membri della conferenza di Shanghai sono concordi sull’importanza del ruolo della presenza iraniana. Voi sapete che la conferenza di Shanghai ha come priorità gli obiettivi della lotta al narcotraffico, della lotta al crimine organizzato, nonché lo sviluppo economico. E proprio qui vediamo come ci siano molteplici interessi e preoccupazioni comuni tra i Paesi della regione. Sicuramente questi interessi e queste preoccupazioni porteranno ad una sempre maggiore convergenza tra i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Comunque l’Iràn è un Paese in prima linea in quegli obiettivi primari dell’Organizzazione, perciò la presenza iraniana alla conferenza sicuramente aiuterà altri membri ad un più veloce raggiungimento degli obiettivi previsti.
Mohammad Alì Hosseini è ambasciatore della Repubblica Islamica d’Iràn in Italia.
L’intervista – a cura di Tiberio Graziani, Antonio Grego e Matteo Pistilli – è stata rilasciata venerdì 25 giugno 2010, presso l’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iràn in Italia.




venerdì 2 luglio 2010

Intervista a Maurizio Blondet, giornalista e scrittore italiano, sul coinvolgimento d’Israele nel progetto islamofobia in Occidente.


Sul suo sito abbiamo letto un articolo sul coinvolgimento della società israeliana di sicurezza aeroportuale, la ICTS, negli attentati terroristici e dirottamenti come il caso di del nigeriano, Umar Farouk Abdulmutallab, e non solo. Secondo l’articolo in questione, che cita il giornale Haarez, la ICTS fornisce la sicurezza negli aereoporti negli undici paesi europei fra cui Francia, Gran Bretagna, Spagna, Ungheria, Romania, Russia ecc. Israele sarebbe coinvolto in questi attentati? Perché?
Perché qui c'è una strategia della tensione, strategia anti islamica, per creare uno stato d'animo collettivo in Occidente contro i cosiddetti terroristi islamici. Nel caso di questo Abdulmutallab, il cosiddetto terrorista a bordo di un aereo nel giorno di Natale, possiamo dire che questo giovanotto nigeriano è riuscito a salire su questo aereo che partiva da Amsterdam, diretto per gli Stati Uniti. La sicurezza dell'aeroporto di Amsterdam, Schiphol, è affidata a questa ditta israeliana, ICTS, che impiega gli ex agenti di Shin Bet e Mossad, quindi diciamo che sono degli esperti. Ma questo ragazzo, secondo un testimone - un'altro passeggero - è stato apparentemente fatto salire sull'aereo senza il passaporto. È stato accompagnato all'imbarco da un uomo, sulla cinquantina, elegantemente vestito, che diceva ai controllori che ritirano la carta dell’imbarco: “Voi fatelo salire perché è del Sudan. E noi facciamo sempre così”! Ma questi noi chi saranno? Mah! La testimonianza è molto credibile perché il passeggero che l’ha raccontata è un famoso avvocato americano e quindi ci fa pensare al peggio. C'è stato qualcosa di creare un attentato False flag, cioè un’operazioni sotto falsa bandiera. Del resto questo ci fa pensare: cosa faceva la ICTS che ha il compito di controllare, considerando i ripetuti insuccessi avvenuti nella sorveglianza di diec10-11 aeroporti in tutta Europa. In passato sempre la CTIS ha lasciato passare, ad esempio, a Charles de Gaulle di Parigi quel terroristo islamico che in realtà è un inglese Richard Reid, convertitosi all'Islam, che indossava le scarpe con una piccola quantità di esplosivo e cercò di fare esplodere sull'aereo. Anche questa volta un'aereo diretto verso l’America. In realtà chiunque abbia viaggiato negli Stati Uniti sa che da l'11 settembre in poi partire su un'aereo senza mostrare il passaporto è veramente impossibile e quindi la cosa è veramente strana. Naturalmente ulteriori notizie non si hanno perché tutto è stato poi messo a tacere.
Lei nel suo articolo sostiene che già anche nell'attentato dell'11/9, gli aerei che colpirono le Twin Towers,  erano gestiti dalla ICTS.
 All’aeroporto di Boston Logan International c'era sempre la ICTS, che è praticamente una multinazionale, il cui direttore generale, si chiama Ezra Harel, è un israeliano anche se abita in Olanda. La cosa più interessante è che subito dopo l'11 settembre, George Bush, allora presidente USA, emanò un decreto d’urgenza che metteva al riparo la ICTS, da ogni futura causa per danni in relazione ai fatti dell'11/9. Cioè la metteva al riparo da accuse di negligenza che fossero state fatte, come mai? Perché aveva così al cuore questa azienda israeliana il presidente Bush? Non lo so. Le risposte sono possibili però lascio agli ascoltatori la conclusione.
Sempre su quest'articolo Lei parla di un'altro episodio in cui il 14 dicembre del 2009, il Times di Londra ha pubblicato un servizio con molte foto, con documento in farsi, in cui l'Iran viene accusato di fabbricare l’iniziatore a neutroni. Si può palare un pò di più?
Sì, c'è stata questa mal informazione con un documento in farsi giunto al Times,che però subito anche gli alti agenti della CIA l’hanno semplicemente definito come falso, anzi uno di questi agenti, di cui ora mi sfugge il nome, ha detto che queste false informazioni le fanno di solito gli inglesi oppure il Mossad d’Israele. È chiaro che c'è una strategia al fine di creare tensioni che probabilmente in questa fase addirittura è diretta contro il debolissimo presidente Obama che ha dei guai interni. Con il suo tentativo molto debole che poi è fallito ha chiesto ad Israele un pò di ragionevolezza nei rapporti coi palestinesi. Fatto questo che lo ha fatto odiare dai dirigenti israeliani attualmnete al governo.
Quindi possimo dire che questa è stata una mossa sempre nella direzione di influenzare l'opinione pubblica per quanto rigurada il programma nucleare iraniano?
Sì certo. Adesso è chiaro che c'è questa idea che sembra avere successo perché se si chiede in giro che la gente è convinta che l'Iran si stia facendo una bomba atomica grazie appunto alla propaganda, però in realtà non è così. Perché l'arricchimento dell'uranio è ben lontano dal punto in cui ci si può fare la bomba atomica. Queste informazioni all'innesco per una bomba atomica iraniana, che sono state definite false e nessuno le dà più credito nei giorni seguenti, indica che c'era la volontà di falsare, di creare uno stato di allarme contro l'Iran, ingiustificato. Questo giustifica la strategia di tensione che è manovrata da Israele.
Molti analisti parlano di un progetto israeliano di islamofobia. Facendo riferimento a tutto quello che abbiamo detto finora, possiamo dire che la guerra israeliana contro l'Iran ma anche contro tutto il mondo islamico, adesso viene combattuta soprattutto sul piano mediatico?
Per il momento sì. Perché effettivamente a loro (israeliani) interessa che in questa fase l'Occidente imponga delle sanzioni ancora più dure sull'Iran, perché probabilmente non è così facile fare giustificare un'attacco aereo contro le installazioni nucleari iraniane e quindi guadagnano in qualche modo tempo politicamente, inducendo i paesi importanti, come la Russia, ad approvare le punizioni economiche contro Teheran.
A cura di Amani
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