mercoledì 30 giugno 2010

La cura della dimora

Prima parte di un trittico sull'argomento.
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Il rito e l’identità nelle forme culturali dell’abitare                               
Eduardo Zarelli

Tutte le etiche si fondano su un tipo di premessa: l’individuo è un membro di una comunità costituita da parti interdipendenti. L’etica della terra semplicemente dilata i confini della comunità per includere il suolo, le acque, le piante e gli animali: la Terra.
Aldo Leopold                                                                                     

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Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e “spirito” a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità.
I Greci ed i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius Loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna.
Vi erano vari tipi di Genius Loci. Le Ninfe vivevano nelle fontane, nei ruscelli e nel mare: non erano immortali, ma in genere avevano una lunga vita. Le Naiadi, ninfe delle sorgenti e dei laghi, apportavano fecondità.
Le Driadi erano spiriti degli alberi, dei boschi e delle foreste; secondo antichissimi miti, ogni Driade nasceva con un albero da custodire e viveva nell’albero stesso o nelle vicinanze. Poiché, quando il suo albero crollava, anche la driade moriva, gli dei punivano chi ne aveva causato la distruzione. Perché una città o fortezza rimanesse integra, il nume doveva continuare ad abitarvi.
I corvi rappresentano il Genius Loci della Torre di Londra. Una leggenda racconta che la fortezza sarebbe rimasta inespugnata fino a quando avessero continuato ad abitarvi.
Le oche sono collegate al Genius Loci del Campidoglio. Quando Roma, nel 390 a.C. fu invasa dai barbari provenienti dalla Gallia, le oche, starnazzando, svegliarono il console Mànlio Marco Capitolìno, che li mise in fuga. Omero, nell’Odissea, (XII. 205-6), descrive come le Ninfe tessevano di continuo insieme elementi diversi. Racconta Omero che, nella grotta dove trova rifugio Odisseo, sbarcando ad Itaca, “vi sono telai sublimi di roccia, dove le Ninfe / tessono drappi dai bagliori marini...”.
La classicità suggerisce, dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius Loci. I luoghi si guadagnano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati.
Tutte le culture tradizionali e sapienzali erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo. Carlos Castaneda, riportando le parole dell’uomo di medicina della tribù amerindia degli Hopi, Don Juan, parlava dell’esistenza di “luoghi di potere”, dove è possibile esercitare la “seconda attenzione”, o percezione sottile, il telema mercuriale. Rispettare un "territorio", proteggendolo ecologicamente invece di distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.
I sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città – cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l’abitare – che prevedeva primariamente l’individuazione del luogo idoneo per stabilire un nucleo urbano, in base a conoscenze di tipo cosmologico e divinatorio, ancorché geologiche e naturali. L’insediamento, in tal modo, diveniva il luogo in cui poteva esercitarsi la sacralità dell’abitare il microcosmo in simbiosi con il macrocosmo. Lo scopo della fondazione rituale di un luogo consisteva però anche nel “dovere scendere a patti” con il Genius Loci del luogo in cui si costruiva. L’energia propria al luogo naturale veniva richiamata e invitata a “collaborare” con gli abitanti di quell’insediamento. Gli antichi ritenevano che, all’identità propria al luogo, si sommasse l’energia propria alla sedimentazione dell’abitare e degli abitanti del luogo, generata dalle loro attività – sacre e/o profane – nel territorio. Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura involontariamente ecologica delle forme di civiltà.
Abitare, sulla scia della riflessione novecentesca di Heidegger e Kahn, voleva dire condurre ad espressione l’essenza dello spazio, un rapporto essenziale dell’uomo con l’essere. Abitare voleva dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi in chi viveva in quel dato posto, che la assorbiva in sé, rispettandola, rilanciandola in modo creativo; così l’abitare diveniva un atto sacro di corresponsione con l’energia spirituale della terra, che è la vita stessa.
Questo è il riferimento fenomenologico, che è alla base delle riflessioni dei teorici del pensiero ecologico, come Arne Naess, quando parlano della natura come di un “valore in sé”, che l’uomo deve rispettare perché ne è parte. L’ecologia olistica insegna che non esiste una cosa isolata, tutto è profondamente connesso: “la vita è fondamentalmente una”, una stessa sostanza vitale abbraccia ogni forma di vita. Una spontanea capacità di autoprodursi e di autoevolvere secondo un ordine proprio, che ci costituisce nel tessuto delle relazioni da cui dipende la vita dell’intero sistema.
Non si deve pensare però che costruire, architettare, edificare case ed edifici venisse ritenuto nell’antichità un’operazione riduttivamente impositiva e limitante.
Corrispondere all’identità propria del luogo rispettandola, significava corrispondere al divino la condizione umana: sacralizzare l’esistenza in modi autentici di vivere.
Per la maggior parte, le società native, nel mondo intero, avevano tre caratteristiche in comune: possedevano un rapporto intimo e cosciente con il loro luogo; erano stabili culture “sostenibili”, che spesso duravano migliaia d’anni; avevano una intensa vita cerimoniale e rituale. Il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò: idolatriamo una razionalità strumentale e un tipo riduttivo di “praticità”, che ha disincantato ogni aspetto della nostra cultura. Se intendiamo ristabilire un rapporto vivibile con la natura, sarà necessario riscoprire la saggezza di queste altre culture – consapevoli che il rapporto con la terra e il mondo naturale richiedeva l’intero loro essere – che, fino a qualche decennio fa, erano ancora presenti, per quanto residualmente, nelle consuetudini popolari di molte aree del Paese. Quelli che noi definiamo sbrigativamente i loro “riti e cerimonie” erano in realtà una sofisticata tecnologia spirituale e sociale, affinata in migliaia d’anni di esperienza e di consuetudine tradizionale, che manteneva quel delicato rapporto con ben maggiore successo di quanto facciamo noi. Tutte le culture tradizionali avevano festività e riti stagionali. Lo scopo di tali eventi era di rivivere periodicamente il topocosmo; dal greco topos, luogo, e cosmos, ordine del mondo. Il topocosmo è l’intero complesso di una data località concepito come un organismo vivente: non solo la comunità umana, ma la comunità totale comprendente la natura, il suolo, il paesaggio del posto. Il topocosmo non è solo l’effettiva e presente comunità vivente, ma anche l’entità continua della quale la presente comunità non è che la manifestazione corrente, nella coincidenza simbolica e reale tra l’eternità dell’essere e il fluire del divenire.
Se intendiamo realmente ricollegarci alla terra, dobbiamo cambiare la nostra percezione e il nostro modo di relazionarci, più che il nostro posto. Finché ci faremo limitare dall’utilitarismo razionalista, saremo separati dall’ecologia profonda del nostro luogo. Come sostiene Heidegger, “abitare non è primariamente occupare, ma l’avere cura e creare quello spazio nel quale qualcosa di individuale sorge e prospera”. Il rituale è essenziale, perché stabilisce le connessioni profonde tra cultura e natura. Fornisce comunicazione a tutti i livelli: tra la persona e la comunità, tra la comunità e il territorio e, attraverso questi livelli, tra l’umano e il non umano, nell’ambiente naturale. Il rituale ci fornisce uno strumento per imparare a pensare logicamente, analogicamente ed ecologicamente mentre facciamo l’esperienza, unica nella nostra cultura, invece di non opporci semplicemente alla natura o cercare di essere in comunicazione con essa, di trovare noi stessi nella natura, ovvero la chiave per un significato ontologico dell’esistenza e delle sue forme.
Faccio un esempio concreto e non banale: nella cultura popolare i prodotti della terra (l’olio, il vino) sono sacri, in quanto espressione dell’energia della terra, di cui portano impressa la traccia, la qualità essenziale. Mangiare i prodotti della terra che si attraversava era considerato un rito sacro, perché significava arricchirsi dell’energia di quel luogo. Per questo, Trakl individua nella figura del viandante il ricercatore dello spirito, colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e dell'emozione. Per questo motivo, a tavola gli vengono offerti “pane e vino”:
Alcuni nel loro errare
Giungono alla parte per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
Il viandante è colui che vive il Genius Loci proprio nel suo offrirsi di luogo in luogo, in quanto possiede “dentro” il senso archetipico dell’Heimat, dell’empatia della patria.
Si può così comprendere, dal punto di vista della fenomenologia di Heidegger (e del pensiero di Humboldt, prima di lui), il senso dell’affermazione: “La parola è sacra”. Quello squadernarsi del mondo nelle quattro direzioni del cielo, della terra, dei mortali e dei divini: un gioco di rimandi allusivi, per cui ogni lato del quadrato è se stesso solo nell’atto di rinviare agli altri. La parola di un certo luogo, la sua lingua, è l’espressione autentica del corrispondere dell'essere umano al Genius Loci di quella terra. La lingua corrisponde allo spirito di un luogo. Per questo, Rilke sosteneva che il poeta fosse “parlato” dalla fonte dell’essere (dell'energia impersonale del luogo). Per questo, Hölderlin scrive: “La parola è il fiore della bocca”. Il fiore è l'espressione dell'energia della terra non meno della voce, della parola. Il poeta è colui che coscientemente è “parlato” dall'energia della sua terra.
Di qui l’importanza della lingua di un luogo, del suo dialetto, perché porta in sé la testimonianza più immediata del Genius Loci. Nella manifestazione linguistica vi è quindi un fondamento evocativo sostanziale della cultura locale; ben oltre le forme della resistenza residuale ai margini della omogeneizzazione tecnomorfa della civilizzazione industriale, lo sforzo intenzionale per la sua sopravvivenza e per la consapevolezza del suo valore deve divenire uno sforzo dell’intera comunità d’appartenenza. Un luogo non può essere tradotto, come nessuna lingua può esser tradotta, come nessun panorama può essere tradotto, come nessun monumento può essere tradotto. Quando le costruzioni di un luogo non si sovrappongono, ma, al contrario, facilitano il trasparire del Genius Loci di un luogo, possiamo parlare di “raduno”: il permettere alle cose di essere tali. Scopo dell’architettura è la creazione di luoghi in cui la spazialità del Genius identitario si esprima in concordia con la ricerca dei propri sentimenti. La sensibilità interiore è in ogni dove. Da essa si può guardare la realtà nelle sue sfumature, che creano le differenze qualitative della culturalità dell’uomo, abbracciando una visione olistica per cui la totalità è composta di complementarietà identitarie. Il Genius Loci è per definizione pluralista e relativista: per dirla con Mircea Elide, “in ogni luogo vi è un centro del mondo” versus ogni unilateralismo e omogeneizzazione.
L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso.
In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi, responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma contribuisce all’armonia del tutto.
Quando Thoreau afferma chenella natura selvaggia sta la preservazione del mondo”, intende dire che una corretta disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia noi che la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza dell’azione o del discorso. Nel momento in cui la natura viene concepita come parte di noi si distrugge la possibilità stessa di salvaguardarla. La remissione di ogni tendenza assimilazionistica riconosce e rispetta l’alterità delle identità.
In questo approccio, rintracciabile nella sapienzialità delle culture preindustriali, ritroviamo composta la drammatica frattura dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica progressista. La visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un approccio scientifico olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti. Una scienza dei “legami vitali”, armonicamente coordinati nella coerenza della natura viva, sconvolti dalle micidiali incompatibilità culturali, psicologiche e fisiologiche della tecnosfera. Lo squilibrio dualistico dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l’artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i “progrediti” sugli “arretrati”. Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna considerare come centrale la questione ecologica, non già semplicisticamente nei suoi effetti ultimi, “ambientali”, ma nel suo significato profondo, ontologico, causale, di distacco fra cultura umana e natura.
In una civilizzazione ad alta entropia - generazione di un ordine sempre più accentuato in un determinato ambito, inducendo il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene - lo scopo prevalente della vita diviene quello di usare un elevato flusso energetico per creare l’abbondanza materiale e soddisfare ogni concepibile desiderio umano; la libertà umana viene quindi a coincidere con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, il sistema di valori materialista e ad alta entropia cerca di creare il “paradiso in Terra”, definendo lo scopo ultimo della nostra esistenza nella soddisfazione di ogni possibile bisogno voluttuario. La “realtà” è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Il dualismo pervade le nostre menti separate dai nostri corpi e i nostri corpi disgiunti dal “mondo circostante”. Soggiaciamo al progresso materiale, all’efficienza dell’automatismo, alla specializzazione posta al di sopra di qualsiasi altro valore e, di conseguenza, distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.
Feyerabend scrive che il razionalismo occidentale è legato, fin dalla sua origine, a derive totalitarie: “La scienza diventa anch’essa antidemocratica, nella misura in cui da arte si converte in impresa filosofica”; per il filosofo o per lo specialista, sapere cos’è un uomo non significa semplicemente conoscere, attraverso rapporti personali, molti uomini, uomini di diverse culture e di diverse classi sociali, ma cogliere un’essenza chiara, obbediente a chiare regole, che sia separata da processi così caotici e soggettivi: il concetto di uomo. Questo ci dovrebbe persuadere che la giustizia e la verità non si possono isolare da una forma di vita, che le forme speculative e i concetti astratti sono sostanziali al macchinismo della modernità e che la pretesa di ogni forma di razionalismo legato alla tradizione occidentale ha essenzialmente l’obiettivo di istituire forme politiche liberticide, che annichiliscono le comunità solidali e le identità sostanziali.
La cultura dominante ribalta la constatazione della realtà e descrive le leggi di natura come pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche e giuridiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo come “interiorizzazione della comunità”, da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura, tra forma e cultura, nel cuore incarnato dei popoli: vox populi, vox dei.
E questo ce lo dà l'Islam! (Janua Coeli)

tratto da EST-OVEST

mercoledì 23 giugno 2010

Donne inglesi convertite all'Islam.

Migliaia di giovani donne della Gran Bretagna che vivono nel Regno Unito decidono di abbracciare l’Islam, ecco alcune delle loro storie.

Da sinistra: Sukina Douglas, Catherine Heseltine, Aqeela Lindsay Wheeler, Catherine Huntley and Joanne Bailey.

                                                  

 Sono tempi controversi per le donne inglesi che desiderano indossare l’hijab, il velo basico in Islam. Il mese scorso, il Belgio e’ stato il primo paese europeo a far passare la legge per bandire il burka (il piu’ coprente dei veli islamici), definendolo una “minaccia” alla dignita’ femminile, mentre la Francia sembra pronta a seguirne l’esempio. In Italia poco fa, una donna musulmana e’ stata multata di 500 euro (£430) per indossare tale tipo di velo fuori un ufficio postale.
Eppure mentre meno del 2% della popolazione partecipa settimanalmente alle funzioni religiose della Chiesa Anglicana, il numero delle donne che abbraccia la fede islamica e’ in continua crescita. Alla moschea centrale di Londra, di Regents’ park, le donne costituiscono approssimativamente i 2/3 dei “Nuovi Musulmani” che hanno pronunciato la dichiarazione di fede li’, e la maggior parte non raggiungono i 30 anni di eta’.
Le statistiche delle conversioni o ritorni sono sproporzionate in modo alquanto frustrante, difatti al tempo del censimento del 2001, risultavano come minimo 30.000 musulmani britannici convertiti nel Regno Unito. Stando a Kevin Brice, del Centre for Migration Policy Research, Swansea University, questo numero potrebbe aver raggiunto i 50.000, e la maggior parte di essi sono donne. Brice conferma: “Un’analisi basilare mostra che il numero crescente di donne giovani e con istruzione universitaria, si convertono all’Islam tra i 20 e i 30 anni d’eta’.”
“La societa’ del 21esimo secolo, e’ liberale e pluralista, in essa si puo’ liberamente scegliere la carriera che si vuole seguire, e l’ideologia politica, e si puo’ dunque scegliere cio’ che vogliamo essere spiritualmente” spiega Dr. Mohammad S. Seddon, lettore in Studi Islamici all’Universita’ di Chester. Oggigiorno esiste una sorta di “supermercato religioso” egli afferma.
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Joanne Bailey
Procuratore legale, 30, Bradford
               
“La prima volta che ho indossato il mio hijab in ufficio, ero molto tesa, rimasi fuori al telefono con un amico per lungo tempo: “Cosa potranno mai dire?” Quando mi decisi ad entrare, un paio di persone mi chiesero: ”Come mai stai indossando il velo? Non sapevo che tu fossi musulmana”.
Sono davvero l’ultima persona che ti saresti aspettata potesse convertirsi al’Islam: ero stata allevata in modo troppo protettivo, dalla classe media nel South Yorkshire. Non avevo quasi mai visto un musulmano prima di frequentare l’Universita’.
Nel mio primo lavoro in un ufficio di procuratori a Barnsley, ricordo di aver giocato il ruolo della donna single, giovane ed in carriera: ero ossessivamente a dieta, o a fare shopping e frequentare bar, ma non mi sentivo veramente a mio agio.
Poi un pomeriggio del 2004 tutto cambio’: stavo chiacchierando con un amico musulmano bevendo un caffe’, quando egli noto’ un piccolo crocifisso d’oro che portavo al collo. Mi chiese:”Credi in Dio allora?” Io lo indossavo per moda piuttosto che per motivi religiosi e gli rispossi:” No, non credo proprio” Ed egli inizio’ a parlarmi della sua fede.
Non ne tenni molto conto all’inizio, ma le sue parole mi rimasero impresse. Pochi giorni dopo, mi ritrovai ad ordinare una copia del Corano da internet.
Mi prese un bel po’ di tempo per trovare il coraggio e la forza di andare ad un evento sociale di donne gestito da un nuovo gruppo musulmano di Leeds. Mi ricordo che rimasi ad indugiare fuori la porta pensando:”Che cavolo ci faccio qui?”Mi immaginavo che sarebbero state vestite in abiti neri dalla testa ai piedi: “Cosa potevo avere in comune con loro, io: una venticinquenne inglese bionda?”
Ma quando entrai, nessuna di esse rispecchiava lo stereotipo della donna casalinga oppressa musulmana; erano tutti dottori, insegnanti e psichiatri. Fui colpita da quanto sembrassero soddisfatte e sicure.
Dopo quattro anni nel Marzo 2008, ho fatto la dichiarazione di fede in casa di amici. Al principio temevo di non aver fatto la cosa giusta, ben presto mi rilassai, e’ un po’ come iniziare un nuovo lavoro.
Pochi mesi dopo affrontai i miei genitori e gli dissi:”Ho qualcosa da dirvi” Ci fu silenzio e poi mia madre disse:”Sei diventata musulmana non e’ vero?” Ella scoppio’ in lacrime e continuo’ chiedendomi cose del tipo:”Cosa ti succedera’ quando ti sposerai? Dovrai coprirti? Cosa ne sara’ del tuo lavoro?”Cercai di rassicurarla che sarei sempre rimasta la stessa, ma ella sembrava troppo preoccupata del mio benessere.
Contrariamente a quello che la maggior parte della gente pensa, l’Islam non mi opprime; mi lascia essere la persona che sono sempre stata. Adesso sono molto piu’ riconoscente e soddisfatta delle cose che ho. Da pochi mesi, mi sono fidanzata con un procuratore musulmano che ho incontrato in un corso di formazione. Egli non contrario alla mia carriera, ma sono d’accordo con la prospettiva islamica sul ruolo tradizionale dell’uomo e della donna. Voglio badare a mio marito e ai miei figli, ma voglio anche la mia indipendenza. Sono fiera di essere inglese e sono fiera di essere musulmana, non vedo alcun conflitto tra queste due realta’.”
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Aqeela Lindsay Wheeler
Casalinga e madre, 26, Leicester

“Da adolescente pensavo che tutte le religioni fossero davvero patetiche. Solevo trascorrere i miei fine settimana ubriaca fuori al centro ricreativo, in sandali dal tacco a spillo e minigonna. Ecco come la pensavo: perche’ imporsi dei limiti? Si vive una volta sola.
All’universita’ , vivevo come tutte le studentesse, bevendo ed andando in discoteca, ma mi svegliavo sempre il giorno dopo coi postumi della sbornia pensando quale fosse il fine di tutto questo.
Durante il secondo anno incontrai Hussein. Sapevo che era musulmano, ma ci stavamo innamorando, dunque misi completamente da parte la questione religiosa. Ma sei mesi dopo l’inizio della nostra relazione, egli mi disse che continuare questa relazione era ‘contro la sua fede’.
Ero davvero sconvolta. Quella notte rimasi a leggere due libri sull’Islam che Hussein mi aveva dato. Mi ricordo di essere scoppiata in lacrime perche’ mi sentivo troppo travolta. Pensavo: “Questo potrebbe essere l’intero significato della vita” Ma avevo tante domande: perche’ dovrei coprirmi il capo? Perche’ non posso mangiare quello che voglio?
Iniziai a parlare con donne musulmane all’universita’ , le quali stravolsero completamente il mio punto di vista. Erano ben istruite, stimate e veramente trovavano il velo come liberatorio. Ero convinta, e tre settimane dopo mi convertii ufficialmente all’Islam.
Quando lo raccontai a mia madre poche settimane dopo, non credo che ella lo prese seriamente. Fece un po’ di commenti del tipo:”Perche’ vorresti indossare il velo? Hai dei capelli cosi’ belli” sembrava che non capisse quello che intendessi.
All’universita’ la mia migliore amica si rivolto’ completamente contro di me: non riusciva a capacitarsi di come fosse possible che una settimana prima andassi in discoteca e la settimane seguente avessi abbandonato tutto e mi fossi convertita all’Islam. Ella era molto vicina al mio vecchio modo di vivere, dunque non rimpiango troppo di non averla piu’ come amica.
Scelsi il nome di Aqeela perche’ significa “giudiziosa ed intelligente” ed era quello a cui aspiravo a diventare quando mi convertii all’Islam sei anni fa. Divenni una persona completamente diversa: ognicosa che aveva a che fare con Lindsay, l’avevo cancellato dalla memoria.
La cosa piu’ difficile fu cambiare il modo in cui mi vestivo perche’ avevo sempre seguito la moda. La prima volta che provai un hijab, ricordo di essermi seduta di fronte allo specchio, pensando:”Ma cosa ci faccio con un pezzo di stoffa sulla mia testa? Sembro folle!” Adesso mi sentirei nuda senza, e soltanto occasionalmente sogno ad occhi aperti il vento che mi soffia tra i capelli. Una volta o due, sono ritornata a casa scoppiando in lacrime perche’ mi sentivo scialba, ma era la mia vanita’.
E’ davvero un sollievo non sentire piu’ quella pressione. Indossare l’hijab mi ricorda che tutto cio’ che ho bisogno di fare e’ servire Dio ed essere umile. Ho anche attraversato delle fasi in cui mi sentivo di indossare il niqab perche’ sentivo che era molto piu’ appropriato ma puo’ anche causare qualche disagio.
Qaundo la gente nota che una ragazza bianca indossa il niqab, presume che si siano abbandonate le proprie radici “per seguire una branco di Asiatici”. Ho anche vissuto episodi di razzismo in cui ragazzi adolescenti mi urlavano in strada: “Togliti questo affare dalla testa, tu bianca b***”
Dopo gli episodi delgli attentati a Londra, avevo timore di camminare per la strada per paura di una ritorsione.
In linea generale, ho una vita molto felice. Ho sposato Hussein ed abbiamo un bambino di un anno, Zakir. Cerchiamo di seguire i ruoli tradizionali islamici: sono principalmente casalinga e madre, e lui va a lavoro. Sognavo una splendida carriera come psicologa, ma adesso non aspiro piu’ a questo.
Diventare una musulmana non e’ stato molto semplice. Questa vita puo’ qualche volta farti sentire come in prigione con molte regole e restrizioni, ma crediamo che saremo ricompensati nella vita oltre la morte.”
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Catherine Heseltine
Maestra materna, 31, Nord Londra

"Se mi aveste chiesto all’eta’ di 16 anni, se mi fossi mai interessato diventare musulmana, avrei risposto:”No, grazie” Ero troppo felice di bere, partecipare a festini varii ed avere i miei amici. Sono cresciuta nella Londra del Nord, non abbiamo mai praticato la religione a casa; ho sempre pensato fosse una cosa fuori moda e irrilevante. Ma quando incontrai quello che poi divenne il mio promesso, Syed, alla sesta classe, egli sfido’ tutti i miei preconcetti. Era giovane, musulmano, credente in Dio, eppure era normale. L’unica differenza era che egli, a differenza di tutti gli altri adolescenti, non beveva.
Un anno dopo, avevamo perso la testa l’uno per l’altra, ma ci chiedemmo subito: come avremmo potuto continuare a restare insieme se lui era musulmano ed io no?
Prima di incontrare Syed, non mi ero mai chiesta veramente in cosa credessi; mi definivo agnostica casuale per osmosi. Dunque iniziai a leggere alcuni libri sull’Islam giusto per curiosita’. All’inizio, il Corano mi prese a livello intellettuale; l’aspetto emotivo e spirituale non arrivo’ subito. Amavo le spiegazioni del mondo naturale e scopri’ che ben 1500 anni fa l’Islam sanciva diritti alle donne che quest’ultime non hanno conquistato nella societa’ occidentale fino a tempi recenti. Fu una rivelazione.
La religione non era esattamente una cosa “leggera” di cui parlare, dunque per tre anni tenni il mio interesse per l’Islam soltanto per me stessa.
Ma durante il mio primo anno di universita’, Syed ed io decidemmo di sposarci, dunque capii che era tempo di parlarne ai miei genitori. La reazione iniziale di mia madre fu:” Non potreste andare soltanto a vivere insieme all’inizio?” Ella era preoccupata che stessi affrettando il mio matrominio e di conseguenza precipitando verso il ruolo della donna nella famiglia musulmana; nessuno capi’ quanto seriamente stavo prendendo la mia conversione religiosa. Mi ricordo di uscire per cena con mio padre, che mi esortava:”Dai su, bevi un bicchiere di vino, non lo diro’ a Syed!” Molte persone davano per certo che mi stavo convertendo all’Islam per rendere la mia famiglia felice, non perche’ ci credessi.
Piu’ tardi nel corso dello stesso anno, festeggiammo con un bella cerimonia bengali, ed andammo a vivere in un appartamento insieme, ma non ero certo incatenata al lavandino della cucina. Non indossavo ancora l’hijab, indossavo una bandana oppure un cappelino per iniziare.
Ero solita attirare molto l’attenzione di ragazzi quando frequentavo discoteche, bar, dovetti lasciar andare. Gradualmente adottai la mentalita’ islamica, desideravo che la gente mi giudicasse per la mia intelligenza e il mio carattere, non per quelo che apparivo. Stavo diventando piu’ forte.
Non avevo mai fatto parte di una minoranza religiosa prima, dunque era un grande cambiameto, ma i miei amici erano molto comprensivi. Alcuni erano rimasti scioccati:”Che cosa? Niente bere, niente droghe, niente sesso? Io non ce la farei!” E ci volle un po’ di tempo per i miei amici maschietti all’universita’ di ricordarsi di non darmi il bacetto sulla guancia quando ci si incontrava. Dovevo dire:”Mi dispiace, e’ una regola musulmana”
Col tempo divenni piu’ praticante di mio marito. Iniziammo a dividerci anche in altri campi. Alla fine penso che la responsabilita’ del matrimonio era troppo per lui; divenne distante e disinteressato. Dopo sette anni insieme, decisi di divorziare.
Quando ritornai a vivere con i miei, la gente era molto stupita che io indossassi ancora l’hijab. Ma stavo rafforzando la mia fede: inizia ad acquisire un senso di me stessa come musulmana, indipendentemente da lui. L’Islam mi ha dato una guida ed un fine. Sono impegnata con la Commissione Musulmana degli Affari Pubblici, e conduco campagne contro l’islamofobia, e la discriminazione contro le donne nelle moschee, la poverta’ e la situazione in Palestina. Quando la gente ci definisce ”estremisti” o “la parte vulnerabile oscura della politica inglese” penso sia ridicolo. Ci sono tanti problemi nella comunita’ musulmana, ma quando la gente si sente sotto assedio, il progresso e’ ancora piu’ difficile.
Mi sento ancora di far parte della societa’ bianca inglese, ma sono anche musulmana. C’e’ voluto un po’ di tempo per far coesistere queste due identita’ , ma adesso mi sento molto piu’ sicura essendo chi sono. Faccio parte di entrambe queste realta’ e nessuno potra’ strapparmi questo senso di appartenenza."
                                                                         *******
Sukina Douglas
Poetessa della lingua parlata, 28, Londra

"Prima di incontrare l’Islam, il mio sguardo era fisso sull’Africa. Ero stata allevata come una rastafariana e solevo portare folli lunghi treccine: meta’ bionde e meta’ nere. Poi nel 2005 il mio ex ragazzo ritorno’ da una viaggio in Africa e annuncio’ che aveva abbracciato l’Islam. Ero furiosa e gli dissi che “stava perdendo le sue radici africane”. Perche’ cercava di trasformarsi in Arabo? Era una realta’ cosi’ estranea rispetto al mio modo di vivere. Ogni volta che vedevo una donna musulmana nella strada pensavo:”Ma perche’ devono coprirsi in quel modo? Non hanno caldo?” Mi sembrava ingiusto, oppressivo.
L’Islam era gia’ nella mia coscienza , ma quando iniziai a leggere l’autobiografia di Malcolm X all’universita’, qualcosa si scosse dentro di me. Un giorno dissi alla mia migliore amica Munira:”Mi sto innamorando dell’Islam”. Ella rise e disse:”Calmati , Sukina!” Ella inizio’ ad esplorare la realta’ islamica soltanto per provarmi che stavo in errore, ma ben presto comincio’ a crederci anche lei.
Mi sono sempre battuta appassionatamente per i diritti delle donne; non c’era alcun modo che potessi credere in una religione che cercava di denigrarmi come tale. Ma le cose cambiarono quando mi ritrovai a leggere un libro di una femminista marocchina, che disfece tutte le mie opinioni negative: l’Islam non opprimeva le donne, era la gente a farlo.
Prima di abbracciare questa fede, feci un esperimento. Mi coprii abbigliandomi con una gonna stile zingaresco ed uscii. Ma non mi sentivo scialba; mi sentivo bellissima. Capii che non ero una sorta di comodita’ sessuale di cui gli uomini potessero avere desiderio; voglio essere giudicata per il mio contributo mentale.
Munira ed io recitammo la nostra shahada (dichiarazione di fede) insieme pochi mesi dopo, mi taglia le treccine per rinnovarmi: era l’inizio di una nuova vita. Tre settimane dopo la nostra conversione, ci furono gli attentati di Londra (7/7); improvvisamente diventammo le nemiche numero uno. Non avevo mai provato cosa fosse il razzismo a Londra prima, ma nelle settimane dopo gli attentati, la gente mi gettava uova contro dicendomi: “Ritorna al tuo paese” anche se questo e’ il mio paese.
Non sto cercando di scappare chi sono. Alcune persone si vestono in stile arabo o pakistanese, ma io sono inglese e caraibica, dunque il mio vestito nazionale e’ rappresentato Primark e Topshop, con strati di veli colorati comprati al charity shop. Sei mesi dopo il mio ritorno all’Islam, ritornai insieme al mio ex e ci sposammo. Le regole in casa nostra sono diverse, perche’ noi siamo diversi, ma mio marito non si sognerebbe mai di impartirmi ordini; non e’ il modo in cui sono stata allevata.
Prima di trovare l’Islam, ero una ribelle senza una causa, ma adesso ho un fine nella mia vita: posso indentificare i miei difetti e lavorarci sopra per diventare una persona migliore. Per me essere musulmana significa contribuire alla nostra societa’, non importa da dove vieni."
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Catherine Huntley
Assistente alle vendite al dettaglio, 21, Bournemouth

I miei genitori hanno sempre pensato che fossi anormale anche prima di abbracciare l’Islam. Nei primi anni dell’adolescenza mi trovarono a guardare la tv un venerdi sera e mi dissero:”Ma che fai a casa? Non hai amici con cui uscire?”
La verita’ era che io non amavo gli alcolici, non avevo mai fumato, non ero molto presa dai ragazzi. Voi pensate che sarebbero dovuti esserne contenti. Sono sempre stata una persona molto spirituale, dunque quando iniziai a studiare l’Islam nei primi anni delle superiori, qualcosa scatto’. Avrei trascorso tutta la pausa del pranzo al computer a leggere infomrazioni sull’Islam. Avevo pace nel cuore e niente altro importava. Era un’esperienza bizzarra, avrei ritrovato me stessa, e la persona che trovai era diversa da ogni altro che conoscevo.
Avevo raramente visto un musulmano prima, dunque non avevo alcun preconcetto, ma i miei genitori non avevano una mentalita’ cosi’ aperta. Nascosi i miei libri islamici e veli in un cassetto, perche’ avevo paura che mi scoprissero.
Quando decisi di parlarne ai miei genitori, erano inorriditi e dissero:”Ne riparleremo quando avrai diciotto anni.” Ma la mia passione per l’Islam diventava piu’ forte. Iniziai a vestirmi in modo piu’ modesto e digiunavo segretamente durante il Ramadhan. Diventai brava a condurre una doppia vita finche’ un giorno, quando avevo diciassette anni, non potetti piu’ aspettare.
Sgattaiolai fuori casa, misi il mio velo in una busta e presi il treno per Bournemouth. Sicuramente apparvi un po’ svitata quando sul vagone del treno tirai fuori il mio hijab e lo aggiustai usando il coperchio di un bidone dei rifiuti come specchio. Una coppia di persone anziane mi guardo’ in malo modo, ma non mi tocco’ affatto. Per la prima volta nella mia via, mi sentivo me stessa.
Una settimana dopo la mia conversion, mia madre venne di filato nella mia stanza e disse:”Hai qualcosa da dirmi?”Ella tiro’ fuori dalla sua tasca il mio certificate di conversion. Penso che avrebbero preferito trovare qualsiasi altra cosa a questo punto, droghe, sigarette, preservative, perche’ al minimo avrebbero potuto illudersi che si trattava della tipica ribellione adolescenziale.
Riusci’ a scorgere la paura nei suoi occhi. Non riusciva a capire perche’ volessi rinunciare alla mia liberta’ per amore di una religione straniera. Perche’ volessi mai unirmi a tutti questi terroristi e suicidi?
Era difficile essere musulmani a casa dei miei genitori. Non dimentichero’ mai una sera, c’erano due donne in burka sulla prima pagina di un quotidiano, ed essi iniziarono a scherzare:”Catherine presto sara’ cosi’”
Neppure gli piaceva che pregassi cinque volte al giorno; pensavano fosse “un’ossessione”. Pregavo di fronte la porta della mia camera dunque mia madre poteva entrare, ma ella preferiva chiamarmi: “Catherine, vuoi una tazza di te?” soltanto per farmi interrompere.
Quattro anni dopo ancora mio nonno diceva cose del tipo: “Le donne musulmane devono camminare tre passi indietro ai loro mariti”. Mi faceva davvero arrabbiare, perche’ questo e’ un fatto culturale, non religioso. Il mio promesso sposo, che ho incontrato otto mesi fa, e’ dell’Afghanistan e crede che la donna musulmana sia come una perla e che suo marito sia la conchiglia che la protegge. Io apprezzo questo modo un po’ fuorimoda di vedere la vita: e sono contenta che una volta sposati sara’ lui a pagare i conti. Ho sempre desiderato diventare una casalinga.
Voler sposare un afgano ha rappresentato la ciliegina sulla torta per i miei genitori. Pensano che adesso io sia completamente andata fuori di testa. Il matrimonio sara’ celebrato in una moschea, dunque non credo parteciperanno. Mi fa un po’ male pensare che non indossero’ quel bellissimo abito nuziale da favola, circondata dalla mia famiglia. Ma spero che la mia nuova vita con mio marito sara’ molto piu’ felice. Creero’ quell’atmosfera a casa che ho sempre desiderato, senza sentire il dolore della gente che mi giudica.”
tradotto da cinzia amatullah
fonte: http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/faith/article7135026.ece /faith/article7135026.ece


MY PROFILE From Times Online May 29, 2010


Young. British. Female. Muslim.

Thousands of young British women living in the UK decide to convert to Islam - here are some of their storiesSarah Harris It’s a controversial time for British women to be wearing the hijab, the basic Muslim headscarf. Last month, Belgium became the first European country to pass legislation to ban the burka (the most concealing of Islamic veils), calling it a “threat” to female dignity, while France looks poised to follow suit. In Italy earlier this month, a Muslim woman was fined €500 (£430) for wearing the Islamic veil outside a post office.
And yet, while less than 2 per cent of the population now attends a Church of England service every week, the number of female converts to Islam is on the rise. At the London Central Mosque in Regent’s Park, women account for roughly two thirds of the “New Muslims” who make their official declarations of faith there – and most of them are under the age of 30.
Conversion statistics are frustratingly patchy, but at the time of the 2001 Census, there were at least 30,000 British Muslim converts in the UK. According to Kevin Brice, of the Centre for Migration Policy Research, Swansea University, this number may now be closer to 50,000 – and the majority are women. “Basic analysis shows that increasing numbers of young, university-educated women in their twenties and thirties are converting to Islam,” confirms Brice.
“Our liberal, pluralistic 21st-century society means we can choose our careers, our politics – and we can pick and choose who we want to be spiritually,” explains Dr Mohammad S. Seddon, lecturer in Islamic Studies at the University of Chester. We’re in an era of the “religious supermarket”, he says.

Related Links
The niqab, fact v fiction

Joanne Bailey
Solicitor, 30, Bradford

“The first time I wore my hijab into the office, I was so nervous, I stood outside on the phone to my friend for ages going, ‘What on earth is everyone going to say?’ When I walked in, a couple of people asked, ‘Why are you wearing that scarf? I didn’t know you were a Muslim.’
“I’m the last person you’d expect to convert to Islam: I had a very sheltered, working-class upbringing in South Yorkshire. I’d hardly even seen a Muslim before I went to university.
“In my first job at a solicitor’s firm in Barnsley, I remember desperately trying to play the role of the young, single, career woman: obsessively dieting, shopping and going to bars – but I never felt truly comfortable.
“Then one afternoon in 2004 everything changed: I was chatting to a Muslim friend over coffee, when he noticed the little gold crucifix around my neck. He said, ‘Do you believe in God, then?’ I wore it more for fashion than religion and said, ‘No, I don’t think so,’ and he started talking about his faith.
“I brushed him off at first, but his words stuck in my mind. A few days later, I found myself ordering a copy of the Koran on the internet.
“It took me a while to work up the courage to go to a women’s social event run by the Leeds New Muslims group. I remember hovering outside the door thinking, ‘What the hell am I doing here?’ I imagined they would be dressed head-to-toe in black robes: what could I, a 25-year-old, blonde English girl, possibly have in common with them?
“But when I walked in, none of them fitted the stereotype of the oppressed Muslim housewife; they were all doctors, teachers and psychiatrists. I was struck by how content and secure they seemed. It was meeting these women, more than any of the books I read, that convinced me that I wanted to become a Muslim.
“After four years, in March 2008, I made the declaration of faith at a friend’s house. At first, I was anxious that I hadn’t done the right thing, but I soon relaxed into it – a bit like starting a new job.
“A few months later, I sat my parents down and said, ‘I’ve got something to tell you.’ There was a silence and my mum said, ‘You’re going to become Muslim, aren’t you?’ She burst into tears and kept asking things like, ‘What happens when you get married? Do you have to cover up? What about your job?’ I tried to reassure her that I’d still be me, but she was concerned for my welfare.
“Contrary to what most people think, Islam doesn’t oppress me; it lets me be the person that I was all along. Now I’m so much more content and grateful for the things I’ve got. A few months ago, I got engaged to a Muslim solicitor I met on a training course. He has absolutely no problem with my career, but I do agree with the Islamic perspective on the traditional roles for men and women. I want to look after my husband and children, but I also want my independence. I’m proud to be British and I’m proud to be Muslim – and I don’t see them as conflicting in any way.”



Aqeela Lindsay Wheeler
Housewife and mother, 26, Leicester

“As a teenager I thought all religion was pathetic. I used to spend every weekend getting drunk outside the leisure centre, in high-heeled sandals and miniskirts. My view was: what’s the point in putting restrictions on yourself? You only live once.
“At university, I lived the typical student existence, drinking and going clubbing, but I’d always wake up the next morning with a hangover and think, what’s the point?
“It wasn’t until my second year that I met Hussein. I knew he was a Muslim, but we were falling in love, so I brushed the whole issue of religion under the carpet. But six months into our relationship, he told me that being with me was ‘against his faith’.
“I was so confused. That night I sat up all night reading two books on Islam that Hussein had given me. I remember bursting into tears because I was so overwhelmed. I thought, ‘This could be the whole meaning of life.’ But I had a lot of questions: why should I cover my head? Why can’t I eat what I like?
“I started talking to Muslim women at university and they completely changed my view. They were educated, successful – and actually found the headscarf liberating. I was convinced, and three weeks later officially converted to Islam.
“When I told my mum a few weeks later, I don’t think she took it seriously. She made a few comments like, ‘Why would you wear that scarf? You’ve got lovely hair,’ but she didn’t seem to understand what it meant.
“My best friend at university completely turned on me: she couldn’t understand how one week I was out clubbing, and the next I’d given everything up and converted to Islam. She was too close to my old life, so I don’t regret losing her as a friend.
“I chose the name Aqeela because it means ‘sensible and intelligent’ – and that’s what I was aspiring to become when I converted to Islam six years ago. I became a whole new person: everything to do with Lindsay, I’ve erased from my memory.
“The most difficult thing was changing the way I dressed, because I was always so fashion-conscious. The first time I tried on the hijab, I remember sitting in front of the mirror, thinking, ‘What am I doing putting a piece of cloth over my head? I look crazy!’ Now I’d feel naked without it and only occasionally daydream about feeling the wind blow through my hair. Once or twice, I’ve come home and burst into tears because of how frumpy I feel – but that’s just vanity.
“It’s a relief not to feel that pressure any more. Wearing the hijab reminds me that all I need to do is serve God and be humble. I’ve even gone through phases of wearing the niqab [face veil] because I felt it was more appropriate – but it can cause problems, too.
“When people see a white girl wearing a niqab they assume I’ve stuck my fingers up at my own culture to ‘follow a bunch of Asians’. I’ve even had teenage boys shout at me in the street, ‘Get that s*** off your head, you white bastard.’ After the London bombings, I was scared to walk about in the streets for fear of retaliation.
“For the most part, I have a very happy life. I married Hussein and now we have a one-year-old son, Zakir. We try to follow the traditional Muslim roles: I’m foremost a housewife and mother, while he goes out to work. I used to dream of having a successful career as a psychologist, but now it’s not something I desire.
“Becoming a Muslim certainly wasn’t an easy way out. This life can sometimes feel like a prison, with so many rules and restrictions, but we believe that we will be rewarded in the afterlife.”



Catherine Heseltine
Nursery school teacher, 31, North London

“If you’d asked me at the age of 16 if I’d like to become a Muslim, I would have said, ‘No thanks.’ I was quite happy drinking, partying and fitting in with my friends.
“Growing up in North London, we never practised religion at home; I always thought it was slightly old-fashioned and irrelevant. But when I met my future husband, Syed, in the sixth form, he challenged all my preconceptions. He was young, Muslim, believed in God – and yet he was normal. The only difference was that, unlike most teenage boys, he never drank.
“A year later, we were head over heels in love, but we quickly realised: how could we be together if he was a Muslim and I wasn’t?
“Before meeting Syed, I’d never actually questioned what I believed in; I’d just picked up my casual agnosticism through osmosis. So I started reading a few books on Islam out of curiosity.
“In the beginning, the Koran appealed to me on an intellectual level; the emotional and spiritual side didn’t come until later. I loved its explanations of the natural world and discovered that 1,500 years ago, Islam gave women rights that they didn’t have here in the West until relatively recently. It was a revelation.
“Religion wasn’t exactly a ‘cool’ thing to talk about, so for three years I kept my interest in Islam to myself. But in my first year at university, Syed and I decided to get married – and I knew it was time to tell my parents. My mum’s initial reaction was, ‘Couldn’t you just live together first?’ She had concerns about me rushing into marriage and the role of women in Muslim households – but no one realised how seriously I was taking my religious conversion. I remember going out for dinner with my dad and him saying, ‘Go on, have a glass of wine. I won’t tell Syed!’ A lot of people assumed I was only converting to Islam to keep his family happy, not because I believed in it.
“Later that year, we had an enormous Bengali wedding, and moved into a flat together – but I certainly wasn’t chained to the kitchen sink. I didn’t even wear the hijab at all to start with, and wore a bandana or a hat instead.
“I was used to getting a certain amount of attention from guys when I went out to clubs and bars, but I had to let that go. I gradually adopted the Islamic way of thinking: I wanted people to judge me for my intelligence and my character – not for the way I looked. It was empowering.
“I’d never been part of a religious minority before, so that was a big adjustment, but my friends were very accepting. Some of them were a bit shocked: ‘What, no drink, no drugs, no men? I couldn’t do that!’ And it took a while for my male friends at university to remember things like not kissing me hello on the cheek any more. I’d have to say, ‘Sorry, it’s a Muslim thing.’
“Over time, I actually became more religious than my husband. We started growing apart in other ways, too. In the end, I think the responsibility of marriage was too much for him; he became distant and disengaged. After seven years together, I decided to get a divorce.
“When I moved back in with my parents, people were surprised I was still wandering around in a headscarf. But if anything, being on my own strengthened my faith: I began to gain a sense of myself as a Muslim, independent of him.
“Islam has given me a sense of direction and purpose. I’m involved with the Muslim Public Affairs Committee, and lead campaigns against Islamophobia, discrimination against women in mosques, poverty and the situation in Palestine. When people call us ‘extremists’ or ‘the dark underbelly of British politics’, I just think it’s ridiculous. There are a lot of problems in the Muslim community, but when people feel under siege it makes progress even more difficult.
“I still feel very much part of white British society, but I am also a Muslim. It has taken a while to fit those two identities together, but now I feel very confident being who I am. I’m part of both worlds and no one can take that away from me.”



Sukina Douglas
Spoken-word poet, 28, London
“Before I found Islam, my gaze was firmly fixed on Africa. I was raised a Rastafarian and used to have crazy-long dreadlocks: one half blonde and the other half black.
“Then, in 2005, my ex-boyfriend came back from a trip to Africa and announced that he’d converted to Islam. I was furious and told him he was ‘losing his African roots’. Why was he trying to be an Arab? It was so foreign to how I lived my life. Every time I saw a Muslim woman in the street I thought, ‘Why do they have to cover up like that? Aren’t they hot?’ It looked oppressive to me.
“Islam was already in my consciousness, but when I started reading the autobiography of Malcolm X at university, something opened up inside me. One day I said to my best friend, Muneera, ‘I’m falling in love with Islam.’ She laughed and said, ‘Be quiet, Sukina!’ She only started exploring Islam to prove me wrong, but soon enough she started believing it, too.
“I was always passionate about women’s rights; there was no way I would have entered a religion that sought to degrade me. So when I came across a book by a Moroccan feminist, it unravelled all my negative opinions: Islam didn’t oppress women; people did.
“Before I converted, I conducted an experiment. I covered up in a long gypsy skirt and headscarf and went out. But I didn’t feel frumpy; I felt beautiful. I realised, I’m not a sexual commodity for men to lust after; I want to be judged for what I contribute mentally.
“Muneera and I took our shahada [declaration of faith] together a few months later, and I cut my dreadlocks off to represent renewal: it was the beginning of a new life.
“Just three weeks after our conversion, the 7/7 bombings happened; suddenly we were public enemy No 1. I’d never experienced racism in London before, but in the weeks after the bombs, people would throw eggs at me and say, ‘Go back to your own country,’ even though this was my country.
“I’m not trying to shy away from any aspect of who I am. Some people dress in Arabian or Pakistani styles, but I’m British and Caribbean, so my national dress is Primark and Topshop, layered with colourful charity-shop scarves.
“Six months after I converted, I got back together with my ex-boyfriend, and now we’re married. Our roles in the home are different, because we are different people, but he would never try to order me around; that’s not how I was raised.
“Before I found Islam, I was a rebel without a cause, but now I have a purpose in life: I can identify my flaws and work towards becoming a better person. To me, being a Muslim means contributing to your society, no matter where you come from.”



Catherine Huntley
Retail assistant, 21, Bournemouth

“My parents always thought I was abnormal, even before I became a Muslim. In my early teens, they’d find me watching TV on a Friday night and say, ‘What are you doing at home? Haven’t you got any friends to go out with?’
“The truth was: I didn’t like alcohol, I’ve never tried smoking and I wasn’t interested in boys. You’d think they’d have been pleased.
“I’ve always been quite a spiritual person, so when I started studying Islam in my first year of GCSEs, something just clicked. I would spend every lunchtime reading about Islam on the computer. I had peace in my heart and nothing else mattered any more. It was a weird experience – I’d found myself, but the person I found wasn’t like anyone else I knew.
“I’d hardly ever seen a Muslim before, so I didn’t have any preconceptions, but my parents weren’t so open-minded. I hid all my Muslim books and headscarves in a drawer, because I was so scared they’d find out.
“When I told my parents, they were horrified and said, ‘We’ll talk about it when you’re 18.’ But my passion for Islam just grew stronger. I started dressing more modestly and would secretly fast during Ramadan. I got very good at leading a double life until one day, when I was 17, I couldn’t wait any longer.
“I sneaked out of the house, put my hijab in a carrier bag and got on the train to Bournemouth. I must have looked completely crazy putting it on in the train carriage, using a wastebin lid as a mirror. When a couple of old people gave me dirty looks, I didn’t care. For the first time in my life, I felt like myself.
“A week after my conversion, my mum came marching into my room and said, ‘Have you got something to tell me?’ She pulled my certificate of conversion out of her pocket. I think they’d rather have found anything else at that point – drugs, cigarettes, condoms – because at least they could have put it down to teenage rebellion.
“I could see the fear in her eyes. She couldn’t comprehend why I’d want to give up my freedom for the sake of a foreign religion. Why would I want to join all those terrorists and suicide bombers?
“It was hard being a Muslim in my parents’ house. I’ll never forget one evening, there were two women in burkas on the front page of the newspaper, and they started joking, ‘That’ll be Catherine soon.’
“They didn’t like me praying five times a day either; they thought it was ‘obsessive’. I’d pray right in front of my bedroom door so my mum couldn’t walk in, but she would always call upstairs, ‘Catherine, do you want a cup of tea?’ just so I’d have to stop.
“Four years on, my grandad still says things like, ‘Muslim women have to walk three steps behind their husbands.’ It gets me really angry, because that’s the culture, not the religion. My fiancé, whom I met eight months ago, is from Afghanistan and he believes that a Muslim woman is a pearl and her husband is the shell that protects her. I value that old-fashioned way of life: I’m glad that when we get married he’ll take care of paying the bills. I always wanted to be a housewife anyway.
“Marrying an Afghan man was the cherry on the cake for my parents. They think I’m completely crazy now. He’s an accountant and actually speaks better English than I do, but they don’t care. The wedding will be in a mosque, so I don’t think they’ll come. It hurts to think I’ll never have that fairytale wedding, surrounded by my family. But I hope my new life with my husband will be a lot happier. I’ll create the home I’ve always wanted, without having to feel the pain of people judging me.”

lunedì 21 giugno 2010

Obama, le Elezioni ed Hollywood.

Obama, McCain e le banche.
                                                                                                             
Von Stefano Comi
9.November 2008
Chi sono stati i finanziatori delle elezioni presidenziali americane.

La maggioranza dei membri del Congresso Americano, Democratici e Repubblicani, ricevono la maggior parte dei loro contributi dai comitati di azione politica, i quali sono costantemente impegnati a raccogliere fondi presso le lobby d’affari. I democratici di solito ottengono grandi finanziamenti dai sindacati, cosa che succede di raro ai repubblicani.
Alcuni membri del Congresso, sopratutto gli indipendenti, ricevono a volte finanziamenti da gruppi fortemente ideologici come I movimenti ecologici o la lobby delle armi.
Quasi sempre, la configurazione dei mecenati cambia quando il candidato viene eletto. Ció è comprensibile, poiché le lobby preferiscono l’investimento sicuro su un senatore eletto piuttosto che l’incognita di un candidato.
La proporzione dei finanziamenti dei gruppi di interesse commerciale aumenta, per repubblicani e democratici quando la candidatura ha grosse possibilitá di trasformarsi in elezione o quando l’elezione è avvenuta.
Solo un candidato democratico molto liberale continuerà ad ottenere piú soldi dai sindacati che non dai gruppi industriali e finanziari.
Detto questo, vediamo quali sono state le principali risorse dei due candidati di queste elezioni, McCain e Obama, divise in due tabelle, la prima per categorie di interessi, la seconda dei donatori “privati”.
McCain
Tabella 1 per Categorie:
1 Retired $32,321,744
2 Lawyers/Law Firms $9,662,840
3 Real Estate $8,108,317
4 Securities & Investment $7,961,526
5 Misc Business $5,364,002
6 Health Professionals $4,929,819
7 Misc Finance $4,624,247
8 Republican/Conservative $3,977,805
9 Business Services $3,142,238
10 Commercial Banks $2,185,869
11 Insurance $2,156,892
12 Oil & Gas $2,119,516
13 General Contractors $1,902,869
14 Civil Servants/Public Officials $1,863,948
15 Misc Manufacturing & Distributing $1,656,803
16 Education $1,646,670
17 Computers/Internet $1,437,328
18 Construction Services $1,125,171
19 Lobbyists $1,102,583
20 Automotive $1,039,147
McCain
Tabella 2 donazioni private:
Merrill Lynch $359,070
Citigroup Inc $296,151
Morgan Stanley $262,777
Goldman Sachs $228,695
JPMorgan Chase & Co $215,042
US Government $195,505
AT&T Inc $185,063
Credit Suisse Group $178,053
PricewaterhouseCoopers $166,470
Blank Rome LLP $161,826
Wachovia Corp $159,107
US Army $158,170
UBS AG $147,465
Bank of America $143,026
Greenberg Traurig LLP $142,137
Gibson, Dunn & Crutcher $141,446
US Dept of Defense $129,725
FedEx Corp $125,654
Lehman Brothers $115,707
Bear Stearns $113,050
Obama
Donazioni per categorie:
1 Retired $40,053,318
2 Lawyers/Law Firms $36,755,162
3 Education $19,345,775
4 Securities & Investment $12,653,140
5 Misc Business $12,239,151
6 Business Services $10,104,393
7 Health Professionals $9,446,425
8 Real Estate $8,678,676
9 TV/Movies/Music $7,264,467
10 Computers/Internet $7,251,335
11 Civil Servants/Public Officials $6,949,758
12 Democratic/Liberal $5,512,685
13 Printing & Publishing $5,467,923
14 Misc Finance $5,153,537
15 Other $3,434,670
16 Hospitals/Nursing Homes $3,304,156
17 Commercial Banks $2,938,556
18 Non-Profit Institutions $2,502,689
19 Construction Services $2,329,996
20 Insurance $1,847,5
Obama
Donazioni private:
University of California $909,283
Goldman Sachs $874,207
Harvard University $717,230
Microsoft Corp $714,108
Google Inc $701,099
JPMorgan Chase & Co $581,460
Citigroup Inc $581,216
National Amusements Inc $543,859
Time Warner $508,148
Sidley Austin LLP $492,445
Stanford University $481,199
Skadden, Arps et al $473,424
Wilmerhale Llp $466,679
UBS AG $454,795
Latham & Watkins $426,924
Columbia University $426,516
Morgan Stanley $425,102                                                             
IBM Corp $415,196
University of Chicago $414,555
US Government $400,819
Ci vuole poco per notare che le somme a disposizione dei comitati elettorali di Obama sono state di gran lunga superiori alle somme a disposizione di McCain. Se per le elezioni valgono gli stessi parametri utili nelle guerre convenzionali, la vittoria di Obama era quindi scontata dall’inizio. Ma da questi elenchi si possono trarre anche altre conclusioni.
Intanto nelle liste dei donatori privati è interessante vedere che, soprattutto le banche, hanno finanziato, anche se in misura diversa, entrambi i candidati. È il caso di Goldman Sachs, JP Morgan, Citigroup, Morgan Stanley, Unione Banche Svizzere (UBS). Curiosa la presenza di Lehman Brothers fra i donatori di McCain. Lehman Brothers è la banca che ha raccolto tonnellate di “titoli spazzatura” (Junk Bonds) dai depositi delle immobiliari americane e le ha rivendute a banche pubbliche ed amministrazioni europee raccogliendo cifre astronomiche per poi “fallire”, lasciando partiti, governi e amministrazioni europee con le braghe di tela. Interessante anche uno spartiacque ancora visibile dalla presenza di gruppi industriali e interessi militari nella lista di McCain e da quella di Universitá (cinque!) fra i donatori di Obama. L’altra chicca è rappresentata dalla presenza di Time Warner (Warner Brothers – CNN) nella lista di Obama. Hollywood ha fatto la sua scelta e, probabilmente, ha contribuito non solo finanziariamente a costruire il mito di Obama.
Nei prossimi quattro anni, eventualmente otto, toccherà ad Obama saldare il suo debito coi suoi mecenati presenti e futuri.
Chi vivrá vedrá.
“ L’altra chicca è rappresentata dalla presenza di Time Warner (Warner Brothers – CNN) nella lista di Obama. Hollywood ha fatto la sua scelta e, probabilmente, ha contribuito non solo finanziariamente a costruire il mito di Obama”.


9.November 2008

Scritto da Stefano Comi su http://www.radio-utopie.de/  il 9.novembre 2008

domenica 20 giugno 2010

MATRIDHAM (La Madre di Dio)

mercoledì 30 aprile 2008
                                                                                                
Tradizione e tradizionalismo

Estratto di un articolo apparso sulla rivista "Sodalitium". L'articolo sebbene abbia una finalità critica nei confronti dei cultori dell'esoterismo cristiano, è utile per capire il ruolo (fondamentale e positivo per noi), di Panunzio all'interno del tradizionalismo cattolico. (Si riportano a margine due note dell'articolo).
                                                                     *************
(...) Dall’esperienza evoliana provengono quasi tutti i futuri capofila del "tradizionalismo cattolico": Primo Siena e Silvio Vitale, Fausto Belfiori e Fausto Gianfranceschi, Roberto De Mattei (discepolo di Zolla) e Riccardo Pedrizzi, Piero Vassallo (ex Figlio del Sole) e Pino Tosca, Franco Cardini (allievo di Mordini) e Maurizio Blondet, Carlo Fabrizio Carli e Gabriele Fergola ecc. ecc. Ma con Evola e Guénon ci troviamo in un tradizionalismo che - malgrado (?) le radici maistriane - non può essere certo definito cattolico, ma piuttosto esoterico; anzi, sotto molti aspetti, anticattolico, se non massonico (11). Chi fece, allora, da ponte tra il tradizionalismo esoterico acattolico ed il tradizionalismo (esoterico) cattolico? Sergio Sotgiu, in un articolo pubblicato sul Giornale del 21 maggio 1998, attribuisce ad Attilio Mordini (12) e Silvano Panunzio (13) quel processo "di conversione al cattolicesimo di elementi di formazione tradizionale che avevano in precedenza mostrato poca o punta simpatia per la religione cristiana". Non è certo questo il luogo per fare una storia del tradizionalismo italiano (14). Per restare nel nostro tema, quello cioè di Alleanza Cattolica, basti accennare a quella che è più che una curiosità: la fondazione, il 29 settembre 1956, festa di San Michele Arcangelo, dell’Alleanza Cattolica Tradizionalista (15). La scelta di San Michele è simbolica: "Castel Sant’Angelo [è] simbolo insonne della ‘terza Roma dello Spirito Santo’ che si erge vigile tra la ‘Roma dei Cesari’ riassunta dal Colosseo, e la ‘Roma dei Papi’ simboleggiata dalla vaticana Basilica di San Pietro" (Primo Siena) (16). La prima Alleanza Cattolica fu promossa dalla rivista veronese Carattere, fondata nel dicembre del 1954 da Primo Siena, che il giovane Cantoni chiamava "l’ultima voce [profetica] sulla crisi" del mondo moderno (17). "Il cattolicesimo di ‘Carattere’ aveva i suoi punti di riferimento in Papini, ispiratore di Adolfo Oxilia e della rivista l’Ultima (18), in Attilio Mordini, in Domenico Giuliotti e in Silvano Panunzio; era un cattolicesimo che si disse, perciò, ‘ghibellino’ e, proprio in quanto tale, sempre prestò un’adeguata attenzione critica all’opera di Julius Evola..." (19). Su L’Ultima scrivevano Panunzio e Mordini, e furono Panunzio (e Mordini) gli "ostetrici" che fecero nascere a una seconda vita (quella della "via cavalleresca di un cristianesimo aristocratico e ghibellino") (11) Primo Siena e tanti altri... Ma qual’era la "Tradizione" di Panunzio e di Carattere? Essa è "via sacra che conduce entro il cuore della Realtà ovvero del Tempio (iniziazione=in-ire)". Una Tradizione "che non sia anonima, non sia generica, non sia opinabile, non sia immaginaria, non sia volubile, non sia inesistente, ma porti chiaramente impresso uno dei nomi seguenti: Cristianesimo, Giudaismo, Islamismo, Buddismo, Confucianesimo, Taoismo, Parsismo". "Tutte queste famiglie possono, più o meno, ricondursi alla Tradizione originaria, o Tradizione adamitica" (20). Il Cristianesimo è quindi "uno dei nomi" della Tradizione, seppur il più perfetto, e di qual ‘Cristianesimo’ si tratti, si può immaginare... O meglio, ce lo spiega Mordini quando identifica ‘l’Uomo universale’," unica e valida misura di ogni gerarchia", cioè ‘l’Adam Qadmon’ della Cábala, con l’Homo Christus Jesus! (21). (...)

15) Essa si trasformò il 25 ottobre 1959, festa di Cristo Re, in Alleanza Tradizionale [o Trascendente] Michele Arcangelo (ATMA). "Appello Sacro" e "Interni princìpi" dell’ATMA sono stati ripubblicati su Metapolitica, n. 1, gennaio-marzo 1999, p. 2-4.
21) Questa idea ritorna spesso in Mordini. Ad esempio: "unica e valida misura di ogni gerarchia è l’Uomo universale, su cui ogni antica religione tradizionale ordina ogni suo mito (si pensi a Prometeo, a Krishna, al Buddha Maitreya e, persino, all’Adam Qadmon per la Qabbala ebraica!), e che per l’Incarnazione si rivela quale Homo Christus Jesus" (in Adveniat Regnum, n. 1, nov.-dic. 1963, p. 8); "l’unità del genere umano è l’uomo universale che i cristiani chiamano Homo Christus Jesus, gli ebrei seguaci della Qabbala Adam Kadmon, i musulmani el-Insanul-Kâmil" (Il Ghibellino, 1961, n. 6, ripreso in A. Mordini, Il cattolico ghibellino (a cura di C.F. Carli, Settimo Sigillo, Roma, 1989, p. 85).

Pubblicato da Matridham a 09.36
                                                                                                         
20/06/10
Dal Cile: Ha muerto Silvano Panunzio (1918-2010)
di Sergio Fritz Roa
Mi amable amigo, el señor Primo Siena, me acaba de comunicar una noticia que me entristece. ¡Ha muerto el notable Silvano Panunzio!
Debo reconocer que para mí Panunzio fue el último autor tradicionalista que logró captar mi respeto. Junto con Nasr, Borella y Hani son los últimos grandes del pensamiento tradicional.
Para quienes aun no conocen quien fuera este auténtico tradicionalista, al cual Guénon estimó mucho, les invito a estudiarlo, aunque lamentablemente salvo algún artículo, es poco lo que hay en español. Y, sin embargo, les aseguro que su consecuencia, libertad y franqueza en el lenguaje son únicas, como además su labor doctrinal que mostró sendas donde la Metafísica es central, a aquellos católicos que aun son capaces de indagar en lo que tiene de Universal dicha Tradición, como en los aspectos particulares de la misma, que la enriquecen y le dan un sello propio.
Pubblicato da Aldous a 07.04

La Politica americana con l'aiuto di Hollywood

Dal Washington consensus all’Hollywood consensus

Matteo Pistilli // 18 giugno 2010                                              

Conosciamo bene l’importanza che hanno sempre avuto i vecchi e nuovi mass media nella gestione anglo-americana del mondo. Sin dai tempi del colonialismo inglese infatti il ruolo della cultura dominante (e di massa) era fondamentale nel dare significati etici al dominio (missione di civiltà) e dopo, quando nel momento in cui l’impero inglese perdeva le proprie colonie, si mirò a creare un “impero della mente” (formula di Aldous Huxley) così da tentare di continuare a gestire il mondo tramite stati d’animo collettivi, quindi la cultura ed il potere finanziario…probabilmente con l’imperialismo americano in decadenza stiamo assistendo alla stessa operazione.
Oggi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica degli anni novanta, passata la sbornia da “fine della storia”, la costruzione di vere e proprie credenze condivise dall’intera umanità è fondamentale per gli Usa, superpotenza che seguendo quello che considera il proprio “destino manifesto”, ha l’obiettivo di controllare e tutelare il mondo intero. Infatti se l’uso del “soft power” cinematografico e informativo è stato ben presente nelle ultime decine di anni, ora si sta assistendo ad un vero e proprio giro di vite, collegato alle nuove sfide poste in essere all’unipolarismo Usa e anche alle nuove possibilità che le nuove tecnologie, internet per prima, pone. E’ quindi evidente l’uso che si è fatto negli ultimi anni di piattaforme del web, caratterizzate dalla proprietà statunitense, come Facebook, Twitter, Youtube che sebbene siano coperte da un manto di democraticità, in realtà sono le maggiori protagoniste di un digital divide molto pericoloso, che riguarda non solo gli utenti che raggiungono internet, ma proprio il dominio dei siti internet planetari. E’ infatti poco etico che piattaforme informative come queste, siano diffuse in tutto il mondo, ma allo stesso tempo siano controllate e rispondano a regole etiche, ideologiche e ad interessi che sono caratterizzati da un’origine geografica e politica statunitense: non è un caso che molte cosiddette “rivoluzioni colorate” sponsorizzate da Washington siano teleguidate attraverso questi mezzi. Ed è quindi naturale che spesso alcuni Stati tentino di controllarne i contenuti, è semplicemente una forma di difesa verso lo strapotere Usa sui mass-media. Strapotere che si può rintracciare anche nella censura dei satelliti televisivi: quelli utilizzati maggiormente nella sfera d’influenza americana (nord-atlantica) oscurano infatti le televisioni non gradite (come per esempio alcune in lingua araba), così da controllare fermamente la pluralità dell’informazione. Tutto questa costruzione cinematografica della realtà ha come simbolo maggiore ovviamente Hollywood e la costruzione del consenso ad una specifica cultura attuata attraverso questo (da leggere i lavori di John Kleeves al riguardo). Quello che ci dovrebbe far pensare è che se i films girati in questo vero e proprio centro culturale globale sono solo il 5 o 6% del totale, i film americani proiettati nel mondo corrispondono invece al 50% del totale; se si tiene presente che le multinazionali dell’informazione che operano a livello globale non sono che quattro, il quadro comincia ad essere evidente.
Ma non ci vuole molto a rendersi conto di questo vero e proprio dominio “culturale” e dell’importanza che riveste il collegamento fra politica Usa e mass media per l’odierno dominio globale: solo negli ultimissimi giorni abbiamo assistito a scelte di “politica interna” americana che hanno dell’incredibile per chi, come noi, aspira al ritorno del Politico: per tentare di chiudere la falla petrolifera nel Golfo del Messico è stato chiamato niente meno che il regista di Titanic James Cameron, dopodichè è stato ascoltato l’attore Kevin Costner al congresso sullo stesso problema; per chiudere in bellezza si può citare la nomina dell’attore George Clooney a membro a vita del Council on Foreign Relations potentissimo think thank capace di influenzare, anzi di dettare, la politica estera degli stati Uniti, e che, detto per inciso, ospita anche Michael Douglas e Warren Beatty.
E’ per tutti questi motivi che provocatoriamente si può parlare di un passaggio dal Washington consensus all’Hollywood consensus: se il primo stava a significare le politiche comuni portate avanti da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale concertate ovviamente col governo statunitense di Washington, dove hanno sede comune e dal quale quindi partivano le direttive politiche ed economiche dirette a tutto il globo, ora, con l’emergere di nuove potenze che mettono in discussione (per ora solo teoricamente) l’egemonia nord-americana su queste agenzie mondiali, il centro del sistema atlantico si sta definitamene spostando sul “soft power”, sul dominio del cuore e delle menti dei diversi popoli del pianeta ed è in questo senso possiamo parlare di Hollywood consensus. E’ infatti giunto il momento in cui quel dominio degli stati d’animo, torna ad essere l’unica azione che, grazie alla totale egemonia sui mezzi informativi, può ancora garantire l’attuale status quo unipolare e unilaterale, ma chiaramente al prezzo della diffusione di concetti falsati, stili di vita non adeguati ai vari popoli e conseguenti distorsioni etiche, culturali, comportamentali. La consapevolezza della situazione mondiale, continentale e nazionale è l’unico mezzo per opporsi ad un tale sterminato sistema di forze, per non cadere nei tranelli dell’informazione, troppo spesso accettata acriticamente, pilotata a fini strategici; fini deleteri per la libertà ed il benessere dell’Europa e dell’Asia (Eurasia), dell’Africa e dell’America Indiolatina.
Matteo Pistilli



sabato 12 giugno 2010

"Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo,ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato di Israele" Ariel Sharon,25 marzo 2001

Frasi celebri sioniste.
Ieri alle 13.30                                                                       


Ecco una lista delle "migliori" frasi pronunciate dai premier di quell'"unica democrazia del medioriente" che è Israele:

David Ben Gurion
Primo Ministro d’Israele, 1949 - 1954, 1955 - 1963
“Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti.”
-- David Ben Gurion, 1937, Ben Gurion and the Palestine Arabs, Oxford University Press, 1985.
”Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba”.
-- David Ben-Gurion, Maggio 1948, agli ufficiali dello Stato Maggiore. Da: Ben-Gurion, A Biography, by Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978.
“Ci sono stati l’anti-semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro in questo cosa centravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?”
– Riportato da Nahum Goldmann in Le Paraddoxe Juif (The Jewish Paradox), pp. 121-122.
"I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto dei villaggi arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi di questi villaggi arabi, e io non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più. Non soltanto non esistono i libri, ma neanche i villaggi arabi non ci sono più. Nahlal è sorto al posto di Mahlul, il kibbutz di Gvat al posto di Jibta; il kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tal al-Shuman. Non c’è un solo posto costruito in questo paese che non avesse prima una popolazione araba.”
-- David Ben Gurion, citato in The Jewish Paradox, di Nahum Goldmann, Weidenfeld and Nicolson, 1978, p. 99.
"Tra di noi non possiamo ignorare la verità ... politicamente noi siamo gli aggressori e loro si difendono … Il paese è loro, perché essi lo abitavano, dato che noi siamo voluti venire e stabilirci qui, e dal loro punto di vista gli vogliamo cacciare dal loro paese.”
-- David Ben Gurion, riportato a pp 91-2 di Fateful Triangle di Chomsky, che apparve in "Zionism and the Palestinians pp 141-2 di Simha Flapan che citava un discorso del 1938.
"Se avessi saputo che era possibile salvare tutti i bambini della Germania trasportandoli in Inghilterra, e soltanto la metà trasferendoli nella terra d’Israele, avrei scelto la seconda soluzione, a noi non interessa soltanto il numero di questi bambini ma il calcolo storico del popolo d’Israele”.
-- David Ben-Gurion (Citato a pp 855-56 in Ben-Gurion di Shabtai Teveth).

Golda Meir
Primo Ministro d’Israele, 1969 - 1974
"Non esiste una cosa come il popolo palestinese … Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il oro paese. Essi non esistono.”
--Golda Meir, dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969.
"Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.”
-- Golda Meir, 8 marzo 1969.
"A tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità, se è interessato allo stato d’Israele. E bene che le cose vengano dette chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada.”
-- Golda Meir, 1961, in un discorso alla Knesset, riportato su Ner, ottobre 1961
"Questo paese esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso. Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità.”
-- Golda Meir, Le Monde, 15 ottobre 1971

Yitzhak Rabin
Primo Ministro d’Israele, 1974 - 1977, 1992 - 1995
"Uscimmo fuori, Ben-Gurion ci accompagnava. Allon rifece la sua domanda, ‘Che cosa si doveva fare con la popolazione palestinese?’ Ben-Gurion ondeggiò la mano in un gesto che diceva ‘cacciateli fuori!”
-- Yitzhak Rabin,versione censurata delle memorie di Rabin, pubblicata sul New York Times, 23 ottobre 1979.
"[Israele vorrà] creare nel corso dei prossimi 10 o 20 anni le condizioni per attrarre naturalmente e volontariamente una migrazione dei rifugiati dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania verso la Giordania. Per ottenere questo dobbiamo arrivare ad un accordo con Re Hussein e non con Yasser Arafat."
-- Yitzhak Rabin (un "Principe di Pace" secondo Clinton), spiega il suo metodo di pulizia etnica dei territori occupati senza sollevare scalpore nel mondo. (Riportato da David Shipler sul The New York Times, 04/04/1983 citando i commenti di Meir Cohen al comitato affari esteri e difesa della Knesset del 16 marzo.)

Menachem Begin
Primo Ministro d’Israele, 1977 – 1983
"[I palestinesi] sono bestie che camminano su due gambe.”
Discorso alla Knesset di Menachem Begin Primo Ministro israeliano, riportato da Amnon Kapeliouk, "Begin and the 'Beasts’," su New Statesman, 25 giugno 1982.
"La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta … Gerusalemme è e sarà per sempre la nostra capitale. Eretz Israel verrà ricostruito per il popolo d’Israele. Tutta quanta. E per sempre.”
-- Menachem Begin, il giorno dopo il voto all’ONU sulla divisione della Palestina.

Yizhak Shamir
Primo Ministro d’Israele, 1983 - 1984, 1986 - 1992
"I vecchi dirigenti del nostro movimento ci hanno lasciato un chiaro messaggio di prendere Eretz Israel dal mare al fiume Giordano per le future generazioni, per un’aliya di massa (=immigrazione ebraica), e per il popolo ebraico, che tutto quanto sarà radunato in questo paese.”
-- Dichiarazione dell’ex primo Ministro Yitzhak Shamir al ricordo funebre dei primi dirigenti del Likud, novembre 1990. Servizio locale di Radio Gerusalemme.
"Determinare la terra d’Israele è l’essenza del sionismo. Senza determinazione, noi non realizziamo il sionismo. E’ semplice.”
- Yitzhak Shamir,su Maariv, 02/21/1997
"(I palestinesi) saranno schiacciati come cavallette... con le teste sfracellate contro i massi e le mura.”
-- Yitzhak Shamir a quel tempo Primo Ministro d’Israele in un discorso ai coloni ebrei, New York Times, 1 aprile 1988

Benjamin Netanyahu
Primo Ministro d’Israele, 1996 - 1999
"Israele avrebbe dovuto approfittare dell’attenzione del mondo sulla repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia espulsione degli arabi dei territori."
-- Benyamin Netanyahu, allora vice ministro degli esteri, ex Primo Ministro d’Israele, in un discorso agli studenti della Bar Ilan University, dal giornale israeliano Hotam, 24 novembre 1989.


Ehud Barak
Primo Ministro d’Israele, 1999 - 2001
" I palestinesi sono come coccodrilli, più gli date carne, più ne vogliono”….
-- Ehud Barak, a quel tempo Primo Ministro d’Israele – 28 agosto 2000. Apparso su Jerusalem Post, 30 agosto, 2000
"Se pensassimo che invece di 200 vittime palestinesi, 2.000 morti metterebbero fine agli scontri in un colpo, dovremmo usare più forza....”
-- Il Primo Ministro israeliano Ehud Barak, citato dall’Associated Press, 16 novembre 2000.
"Sarei entrato in un’organizzazione terroristica.”
--risposta di Ehud Barak a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Ha'aretzr, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese.
Ariel Sharon
Primo Ministro d’Israele, 2001 – ad oggi
"E’ dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo sono stati dimenticati. Il primo di questi è che non c’è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l’espropriazione delle loro terre.”
-- Ariel Sharon, Ministro degli esteri d’Israele, parlando ad una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet, Agenzia France Presse, 15 novembre 1998.
"Tutti devono muoversi, correre e prendere quante più cime di colline (palestinesi) possibile in modo da allargare gli insediamenti (ebraici) perché tutto quello che prenderemo ora sarà nostro... Tutto quello che non prenderemo andrà a loro.”
-- Ariel Sharon, Ministro degli esteri d’Israele, aprendo un incontro del partito Tsomet Party, Agenzia France Presse, 15 novembre 1998.
“Ogni volta che facciamo qualcosa tu mi dici che l’America farà questo o quello…devo dirti qualcosa molto chiaramente: Non preoccuparti della pressione americana su Israele. Noi , il popolo ebraico, controlliamo l’America, e gli americani lo sanno.”
-- Ariel Sharon, Primo Ministro d’Israele, 31 ottobre 2001, risposta a Shimon Peres, come riportato in un programma della radio Kol Yisrael.
"Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d’Israele.”
-- Ariel Sharon, Primo Ministro d’Israele, 25 marzo 2001 citato dalla BBC News Ondine.



Tratto da Facebook riportato da Gabriele Repaci
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