venerdì 30 aprile 2010

LA MANO DI FATIMA

                                                                      

Ha cenato al Ristorante in Fiera, ha dormito a Palazzo Sant´Elena, ha passato il pomeriggio fra il Lanza e la Taverna del Gufo: Ildefonso Falcones, avvocato di Barcellona, uno dei più famosi scrittori del mondo ('La cattedrale del mare´ ha venduto quattro milioni di copie) é stato ospite di Foggia la scorsa settimana.
Falcones é venuto a presentare il suo secondo romanzo, 'La mano di Fatima´ (Longanesi). Un affresco storico sul mosaico di razze e di fedi della Spagna del XVI secolo. Un romanzo storico che narra della cacciata dei musulmani dalla Spagna da parte dei re cristiani e delle autorità cattoliche nel 1568. Un racconto duro e affascinante che punta i riflettori sulle vessazioni e le violenze subite da un popolo, quello dei moriscos, di cui poco si conosce.
Tra i rivoltosi musulmani stanchi di ingiustizie e umiliazioni, spicca il personaggio di Hernando, il ragazzo che si batterà per la sua gente affrontando la guerra, l´amore, eterne passioni, vendette e avventure, conducendo il lettore in un emozionante viaggio nel tempo.
Spagna, 1568. L´Alpujarra é una porzione di terra andalusa, montuosa, che racchiude le province di Granada e di Almeria ed è popolata da una folta colonia di musulmani da tempo costretti alla conversione al cattolicesimo da parte della Corona degli Asburgo. I moriscos (così li chiamavano) sono un popolo fiero, legato alla propria identità, che inevitabilmente passa per il loro credo religioso: sono pronti a dare battaglia contro i cristiani e ad evitare così una sottomissione sempre più invasiva e radicale
È in questo periodo che Ildefonso Falcones ha ambientato il suo secondo romanzo. L´autore non abbandona la trattazione storica, ripercorrendo nelle sua fluviale narrativa la tragedia dei moriscos che stimola la riflessione sull´intolleranza e il fanatismo di cristiani e musulmani che, pur nelle differenze di fede religiosa, diventano sorprendentemente simili quando, negli altalenanti esiti della storia, assurgono al ruolo ora di vincitore, ora di vinto.
La narrazione degli eventi della Cordova del XVI secolo, peró, non fa che da sfondo, da scenario accattivante al fiume narrativo della vicenda. Come per la piú classica delle fiction di ambientazione storica, infatti, il romanzo dello spagnolo stacca dal fondo della veridicità storica la vicenda del giovane Hernando e la pone al centro della narrazione, in un crescendo di avvenimenti filtrati dal racconto, mai noioso, della vita di un uomo che fa i conti con le eterne passioni di odio, amore, speranza e disillusione, continuando a lottare per il proprio destino e per quello del suo popolo.Un romanzo storico modello Promessi Sposi, pertanto, aggiornato ai tempi della telenovela storica, ritagliato su una vicenda che ha tutti gli ingredienti del triangolo amoroso complicato da intrighi, tradimenti e amori contrastati, in cui la storia come istoria, indagine e ricerca di fatti, recupera il suo significato primigenio di visione, rappresentazione di fatti narrati perché visti.
Così, la lettera che l´ambasciatore spagnolo a Parigi indirizza al re Filippo II per riferire circa le continue proteste delle donne musulmane costrette a subire violenze e soprusi di ogni genere dal parroco cristiano del villaggio, non é che il pretesto storico da cui l´autore prende le mosse per raccontare la storia letteraria della vita di Hernando, stigmatizzato da quegli occhi azzurri che ne testimoniano l´imbarazzante senso di ambiguità da cui per tutta la vita tenterà di emanciparsi. In questo tempo di “preparazione” alla pulizia etnica della Padania alla quale assistiamo in bilico tra indifferenza e sgomento, siamo di fronte ad una opportunità per le Due Sicilie: portare quell’energia, quell’iniziativa, quella vitalità “morisca” che la Padania stolta rifiuta, qui nelle Due Sicilie, quale contributo “storico” alla sua rinascita!

E Allah, che tiene fra due dita il destino dell’uomo e dell’umanità intera, ne sa di più.

Pubblicato da Mustafa a 08.26

martedì 20 aprile 2010

LA RUSSIA CHIAVE DI VOLTA DEL SISTEMA MULTIPOLARE.

                                          La Russia chiave di volta del sistema multipolare

1/2010 gen-mar :::: Tiberio Graziani :::: 19 aprile, 2010 ::::     
[Editoriale del numero 1/2010]

Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale
Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.
Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni
Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.
La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.
La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:
1.le politiche di modernizzazione;
2.le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;
3.la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.
Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.
In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).
Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.
Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).
L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.
Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).
Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.
Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole
I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.
Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.
È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.
Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.
Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.
A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia
La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.
Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:
1.riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;
2.contenimento delle spinte secessionistiche;
3.uso “geopolitico” delle risorse energetiche;
4.politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;
5.costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;
6.tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;
7.costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.
La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.
Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.
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1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.
2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.
3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.
4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.
5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.
6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.
7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.
8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.
9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.
10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.
11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).
12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.

Scritto da Tiberio Graziani sulla Rivista geopolitica Eurasia, Editoriale 1/2010









lunedì 19 aprile 2010

CREDETECI NON È COLPA NOSTRA ! Firmato GOLDMAN SACHS

Da: Rinascita

di Roberto Marchesi - 15/04/2010

“Per me si va ne la città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente... Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”.

Perdonatemi questo richiamo riverente al Divino Poeta, ma l’approccio di Dante nel momento in cui si accingeva ad entrare nei gironi infernali del primo libro della sua Divina Commedia è molto simile a quello di questo articolo. Anch’io mi accingo a traghettare in una significativa esplorazione del tempio massimo della finanza mondiale, quello della Goldman Sachs, moderna versione degli Inferi.
Addentrandoci nei lugubri meandri delle sue spregiudicate operazioni finanziarie, incontreremo anche noi i demoni e i dannati, proprio come ha immaginato Dante nell’Inferno, e ci racconteranno come gli uni hanno potuto arricchirsi a dismisura, mediante le loro diaboliche strategie finanziarie, salassando i loro lamentosi e sprovveduti compagni d’avventura, tutti peraltro protagonisti, e talvolta artefici, di altrettanti misfatti a loro volta ispirati dagli stessi demoni.
Nell’intervista pubblicata nel corrente numero in edicola di BusinessWeek, il demone regnante, Lucifero Goldman, si proclama assolutamente innocente nel merito delle malversazioni borsistiche compiute nel periodo 2006 - 2008 (ma che proseguono tuttora), e tutti sappiamo ormai che in quel periodo, quelle spregiudicate operazioni finanziarie (sia pure svolte in compagnia di numerosi altri speculatori che la imitavano), hanno portato al quasi completo collasso della finanza mondiale.
Tanto per cominciare ad inquadrare la situazione, cominciamo col ricordare che Goldman Sachs ha ricevuto anche lei, nel novembre del 2008, un cospicuo aiuto statale (bailout) di 10 miliardi di dollari per evitare il fallimento. Tuttavia Goldman è stata la prima, tra le grandi banche, a restituire con tanto di interessi già nell’aprile dell’anno successivo l’intera somma (liberandosi così immediatamente, oltre che dell’ignominioso debito, anche dell’odioso vincolo posto al tetto delle retribuzioni dei suoi managers).
Si noti peraltro che Goldman, dopo aver incassato e usato al momento opportuno l’ingente aiuto statale, nega ora altezzosamente di averne avuto veramente bisogno, ed entrando un po’ più a fondo nell’analisi degli eventi di quel periodo, potrebbe anche essere vero (ma allora perché l’ha preso?).
Goldman nel 2008 infatti non incassava solo i miliardi elargiti dal governo Usa ma, al pari di una gigantesca sanguisuga, succhiava buona parte dei 62/mld. di dollari (12,9 per la precisione) che Aig (American International Group) incassava a sua volta dallo Stato per non fallire.
Ma perché Aig doveva pagare a Goldman tutti quei soldi?
Qui dobbiamo scendere di un cerchio nel girone infernale per capire le alchimie finanziarie che consentono ai demoni della finanza di guadagnare sempre, anche quando gli altri perdono tanto o tutto.
Aig doveva pagare tutti quei soldi a Goldman (e a migliaia di altri soggetti) perché aveva accettato di garantire con contratti Swap le spregiudicate operazioni speculative sui derivati finanziari (che come si ricorderà venivano emessi in gran quantità anche a fronte di mutui subprime).
Goldman aveva già riscontrato alla fine del 2006 che il mercato finanziario, in particolare quello legato ai mutui subprime, dava segni di sofferenza, quindi, pur mantenendo provvisoriamente una posizione “neutrale” nelle contrattazioni borsistiche (cioè non spingeva al rialzo, ma neppure al ribasso con operazioni “short”) si apprestava tuttavia a prendere posizioni di difesa nell’eventualità di un crollo del mercato. E questa posizione di difesa si configurava appunto in massicce operazioni Swap con Aig.
Come noto lo Swap è sostanzialmente un contratto di assicurazione del credito (ma con molti meno vincoli contrattuali) per i quali, pagando una commissione a volte modesta si assicura l’operazione da perdite che, come si e’ visto, possono diventare massicce.
Per un po’ Aig ha creduto di aver trovato il paese di Bengodi. Invece di fare il suo lavoro di assicuratore dei mutui, raccoglieva milioni di dollari in commissioni sui contratti Swap che solo in pochissimi casi, finché il mercato dei derivati “tirava”, generavano richieste di rimborso. Ma ben presto la musica è cambiata. Nell’estate del 2008 il mercato, dopo un breve periodo di stallo, ha cominciato a cedere sempre più vistosamente, e le richieste di rimborso si sono moltiplicate. Ma come al solito, quando il mercato smette di tirare, i demoni non si prendono un periodo di riposo, anzi, è proprio il momento migliore per loro, per scatenarsi con le operazioni “short”, cioè al ribasso.
E in questo tipo di operazioni Goldman non deve prendere lezioni proprio da nessuno. Per loro l’unico codice etico da osservare è quello insegnato da Gustav Levy (il suo mitico “guru” degli anni ‘70), che diceva: “Non date interviste, cercate di guadagnare il più possibile, ma senza dare nell’occhio”.
Naturalmente, dopo le continue richieste di rimborso sulle operazioni Swap, i rapporti tra Goldman e Aig si sono notevolmente “raffreddati”, tuttavia c’e qualcosa che nemmeno lo spregiudicato mondo dell’alta finanza tollera, ed è quando la finanziaria gioca al ribasso contro i suoi stessi clienti.
Poiché Goldman ha creato e venduto ai suoi clienti “tonnellate” di derivati finanziari, nel momento in cui essa ha cominciato ad eseguire le operazioni “short”, di fatto ha messo in corto circuito non solo il sistema in generale, ma i suoi stessi clienti. Che, per inciso, nel caso della Goldman, non sono esattamente gente qualunque. Per aprire un conto in Goldman bisogna partire da un minimo di dieci milioni di dollari. Ma ci sono anche investitori istituzionali, come diversi fondi pensione, e quando migliaia di individui sottoscrittori dei fondi si vedono decimati i loro risparmi proprio a causa della spregiudicatezza di chi dovrebbe invece consigliarli e proteggerli, non deve sorprendere se adesso Goldman Sachs è vista da tutti come il demonio.
Loro si difendono sostenendo che, attivando le operazioni “short” (sospese solo per un brevissimo periodo dal governo nell’autunno caldo del 2008), “avvisavano” i clienti che i titoli collegati ai mutui sarebbero scesi. Giustificazione più ipocrita non si potrebbe pensare, dato che tutti sanno che il normale risparmiatore non può far nulla, se non perdere carrettate di soldi, una volta che il mercato inverte la rotta. Se volevano avvertire i clienti dovevano avvisarli per tempo, non avviare operazioni “short” che provocano crolli a ripetizione delle quotazioni.
Critiche di questo tipo nemmeno scalfiscono la corazza imperforabile dei demoni della finanza, che respingono sdegnosi ogni critica sostenendo che non hanno fatto nulla di proibito.
Loro ritengono semplicemente di essere stati più bravi degli altri. Svalutando i titoli in portafoglio al valore di mercato (per la regola del “mark to market”) quando gli altri cercavano di evitarlo (tanto mettevano in conto ad Aig, controllata dal governo, le perdite!), e facendo operazioni al ribasso quando ancora qualche sprovveduto pensava che il mercato potesse riprendersi.
E “giustamente” quindi, dato che sono i più bravi, nell’anno che segna il record della disoccupazione in Usa, hanno fatto il record storico dei profitti a 13.4 miliardi di dollari.
Seguendo però la regola d’oro di Levy (non dare nell’occhio), hanno limitato la percentuale di tali profitti destinata alle proprie retribuzioni al 35.8% (era il 48% lo scorso anno!), che comunque consente a quasi duemila dipendenti di portare a casa più di un milione di dollari nel solo 2009.
Non tutti però in Goldman hanno digerito agevolmente il bel gesto della simbolica decurtazione. David A. Viniar per esempio, il Chief Financial Officer della Goldman (ovvero Lucifero in persona) ha dichiarato che questo taglio alla sua retribuzione è stata la più frustrante esperienza dei suoi 30 anni di carriera.
Se ci fosse ancora Levy lo avrebbe sicuramente ripreso. Forse gli avrebbe detto: “Nessuno ti impedisce di fare certe porcate, ma almeno stai zitto!”.


                                                                       

IO STO CON IL MULLAH !

IO STO CON IL MULLAH                                                

Durante “Porta a Porta” di lunedì, dedicato all’arresto dei tre operatori di Emergency, con la partecipazione del ministro Frattini, di Piero Fassino, di Fausto Biloslavo, il generale Carlo Jean, dell’esperto di cose militari Andrea Margelletti (uno che ha avuto il fegato di dire che i civili morti sotto i bombardamenti americani nella prima guerra del Golfo erano “qualche decina”, mentre sono stati 86164 uomini, 39612 donne e 32193 bambini – dati del Pentagono) e Gino Strada, si è parlato di tutto ma non si è nemmeno sfiorato il nocciolo della questione. Chi sono i legittimi abitanti dell'Afghanistan? Gli afghani, evidentemente. Cosa sono i 130 mila soldati stranieri che vi stazionano? Degli occupanti. Perché occupano? Che sia per fare la lotta al terrorismo è, dopo nove anni di guerra e di guerriglia, non solo insostenibile, è grottesco.
Del resto la stessa Cia ha calcolato che su circa 50 mila combattenti solo 386 non sono afghani. Ma si tratta di uzbeki, di ceceni, di turchi, quindi non di arabi votati alla jihad universale contro il mondo occidentale. E nessuno si perita di spiegare come sia possibile che un manipolo di guerriglieri “straccioni”, così li ha definiti lo stesso Strada, possa controllare il 70% del territorio, come hanno ammesso anche Margelletti e Jean, a petto del più potente, armato e sofisticato esercito del mondo. Perché, con tutta evidenza, ha l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Questo appoggio è andato man mano lievitando fino a diventare quasi plebiscitario per il massacro di civili perpetrato dalle truppe Nato.
Sfoglio i miei ritagli: “Spari sulla folla, è strage. Rivolta in piazza a Kabul” (30/5/2006); “Bombe sulle case, strage di civili in Afghanistan” (27/10/2006); “Afghanistan, nuove vittime civili” (28/10/2006); “Massacro di civli dopo l’imboscata agli Usa” (5/3/2007); “Afghanistan, raid Nato. Tra le vittime 45 civili” (2/7/2007); “Afghanistan, gli italiani sparano. Decapitata una bambina di 12 anni” (13/2/2008); “Strage in Afghanistan. Le scuse dell’America” (7/5/2009); “Afghanistan, attacco Nato. Strage di talebani e civili” (5/9/2009); “Afghanistan, colpiti bambini di 5 anni” (10/2/2010); “Afghanistan, nuova strage di civili” (13/4/2010); “Kandahar, la Nato spara su un bus di civili” (13/4/2010). E questo non è che un florilegio del materiale da me raccolto e un’infinitesima parte della mattanza che è quotidiana perché, in assenza di testimoni, le notizie non filtrano fino a noi.
Siamo lì, diciamo oggi, per “ricostruire un Paese”. E invece l’abbiamo distrutto, materialmente, economicamente, socialmente, moralmente.

1) Nei sei anni del governo talebano c’era sicurezza. Si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte. Bastava rispettare la legge. I talebani avevano cacciato i famigerati “signori della guerra” oltreconfine. Oggi alcuni di essi, e i peggiori, dei veri pendagli da forca, Dostum e Hekmatyar, sono nostri alleati.
2) Nell’Afghanistan talebano non c’era disoccupazione perché il Mullah Omar aveva mantenuto la tradizionale struttura economica e sociale del Paese. Oggi i disoccupati sono milioni.
3) In quell’Afghanistan non c’era corruzione per la semplice ragione che ai corrotti i talebani tagliavano le mani (soluzione impensabile in Italia perché avremmo un Parlamento di moncherini).

Oggi la corruzione è dilagante. Ha detto Ahmad Ghani, il più occidentalizzante dei candidati alle elezioni-farsa di agosto e quindi insospettabile di simpatie talebane: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostra moralità. Questa alluvione di dollari ha distrutto la nostra integrità”. 4) Nel 2000 il Mullah Omar bloccò la coltivazione del papavero e la produzione di oppio crollò quasi a zero (si veda il diagramma del Corriere del 17/6/2006). Oggi l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale. Io sto col Mullah.
Massimo Fini
Fonte: Massimo Fini: Sito Ufficiale

martedì 13 aprile 2010

UNA CLASSE POLITICA IN VACANZA







Cari amici di Rinascita,

mentre la tv Rai e il gruppo Mediaset nei loro servizi pasquali dissertavano sul numero di italiani in vacanza, su Il Corriere della Sera leggevo un lungo articolo a firma di Massimo Mucchetti che spiegava ai suoi lettori come la Borsa italiana sia stata (s)venduta agli inglesi… Sì, perché ormai si opera nel “London Stock Exchange”. Fino a pochi giorni or sono avevamo un membro nel CdA (Massimo Captano), ora il suo successore Raffaele Ierusalmi non ne fa nemmeno parte. Il giornalista spiegava alcuni passaggi difficili da comprendere al pubblico dei non addetti ai lavori: Tre anni fa alcuni (chi?) non capirono che la fusione della Borsa di Milano in quella di Londra sarebbe stata una dispersione, per certi versi umiliante, di un patrimonio di Milano e del Paese a tutto vantaggio dei signori della City.
Mi domando: la Banca d’Italia, in quella situazione, si è mossa e come? Draghi viene dalla Goldman & Sachs: che ruolo ha avuto nell’operazione? La classe politica era tutta in vacanza?
Vorrei il vostro giudizio sull’affaire.

Il Vostro lettore
Alberto Mazzoneschi
Spoleto

Gentile Alberto Mazzoneschi.
Lei sa che siamo una fonte reietta dell’informazione. Pensi: di questo evento più che probabile agli inizi, scontato poi, ne ho trattato personalmente (non soltanto tre anni fa, ma più volte… in fondo fin dal 1993, quando questa testata aveva un’altra denominazione ed era comunque diretta da chi scrive, e poi…) alla vigilia degli scellerati accordi di Maastricht, e quindi nell’analizzare l’avanzante accorpamento delle borse europee sui canali di Londra e di Washington – tutte le borse sono da tempo controllate o controllande dagli atlantici… - poi, indirettamente, parlando delle acquisizioni dei titoli italiani sui mercati finanziari anglosassoni – una svendita totale, anche sui titoli del risparmio – o delle “liberalizzazioni”, o dell’Omc, o della mancanza di un Fondo monetario europeo regolarizzatore dei flussi finanziari e paletto contro i raid della finanza speculativi “alla Goldman & Sachs”, diretta in Europa da Mario Draghi (proprio nel periodo dell’acquisizione inglese della colonia milanese) e così via.
Per un attimo, un dicembre di qualche anno fa, avevamo addirittura sperato che la legge Tremonti sul risparmio fosse… “vera” (ma così non è e d’altra parte la dichiariamo “moritura” tutti i giorni in prima pagina), e – quasi quasi – tirato un sospiro di stupore e di sollievo immaginando un “doppio controllo” Consob-Bankitalia… La verità è che la vendita (o svendita) della borsa di Milano non è che un anello, anzi un anellino, della catena delle “liberalizzazioni” economiche globalizzatrici: è la ciliegina finale per rendere ancora più oliato e funzionale il sistema liberoscambista finanziario che affama il mondo e che distrugge le sovranità nazionali nei settori vitali della produzione, della finanza e dell’economia in generale. Tuttavia, certo, si trattava sempre di parlare di un argomento da “addetti ai lavori” alquanto ostico agli stessi piloti “politici” della barcaccia sfondata sulla quale navighiamo… e da noi stessi – forse gli unici residui critici del sistema capitalista-mondialista - considerato più che ostile agli interessi dei popoli della Terra. (In fondo che cosa rappresentano le borse? Delle multinazionali-slot-machines per speculare sul valore della produzione e dei servizi di una nazione e per creare profitti dal nulla, dal giro di moneta, cioè). Insomma, non mi faccia scrivere nulla su Draghi. Sono stato già condannato in Tribunale per aver “diffamato l’Istituzione”. Non hanno nemmeno consentito la testimonianza in mio favore del presidente Francesco Cossiga… Quello che fa il Draghi è il bene del Paese. Non scherziamo…
u.g.
brevissimo post scriptum
Un giorno sì e l’altro pure Rinascita cerca di spiegare cosa mai tramino i Signori del denaro a danno delle genti. E le genti sono composte da singoli cittadini. Alcuni di loro, blanditi dagli Operatori, accettano ogni soverchieria (fondi pensione, tfr, tagli allo stato sociale) e “investono” i loro risparmi di una vita sulle parmalat di turno. Speriamo che i nostri lettori siano avveduti.


Pubblicato su Rinascita, Rivista della SINISTRA NAZIONALE

mercoledì 7 aprile 2010

UN RISORGIMENTO DA "MEMORIA"

Senza verità, niente risorgimento



Per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, sta spendendo 800 milioni di euro di soldi nostri l’apposito Comitato celebrativo: presieduto dal venerabile presidente-emerito Carlo Azeglio Ciampi da Livorno, che probabilmente aggiungerà questa sua grassa ‘consulenza’ ai 702 mila e passa euro annui che ci estrae dal portafoglio. Quando si diventa ricchi con la patria, è facile celebrarla. Noi, del tutto gratuitamente – grazie ad una recente rilettura di ‘L’altro risorgimento’ della storica Angela Pellicciari, Piemme, 2000, sentiamo doveroso contribuire un poco a quelle auguste memorie.

INTERVENTI UMANITARI – Quando Londra e Parigi (ossia Palmerston e Napoleone III) decisero di appoggiare i Savoia nella conquista dei principati italiani, i giornali europei si riempirono di resoconti raccapriccianti sul malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie: quei popoli «gemevano» nella miseria, nell’arretratezza, sotto una feroce repressione reazionaria di regimi stupidi e feroci. Talchè occorreva «un intervento internazionale» per mettere fine a governi «contrari agli interessi della popolazione». Come in Afghanistan un secolo dopo, occorreva liberare le donne dal chador.
La stampa massonica italiana riprese con delizia le truculente notizie dettate dall’estero. Il 19 marzo 1857 il Corriere Mercantile di Genova attestò che nelle carceri borboniche si usava «la cuffia del silenzio», un aggeggio di tortura applicato al volto dei carcerati per impedire loro di parlare. Inutile dire che questo oggetto era sconosciuto a Napoli. Invece – come raccontò Christophe Moreau, un esperto francese incaricato dal suo governo di studiare il sistema carcerario britannico – era in uso nelle prigioni inglesi: «... Uno strumento composto di varie bende di ferro che serrano la testa del colpevole, ed è terminato al disotto da una lingua di ferro ricurva che entra nella bocca fino al palato».

Si scrisse che il Vaticano condannava i colpevoli alla frusta. Effettivamente, c’erano circa cinque o sei frustati l’anno. In Gran Bretagna, il gatto a nove code era un sistema corrente di punizione applicato dai tribunali in 7-800 casi l’anno, e usato normalmente senza alcun processo contro i marinai delle navi da guerra.
Secondo i resoconti, nel Sud infuriavano le pene capitali senza controllo. In realtà, dopo la fallita «rivoluzione» del 1848, i tribunali napoletani comminarono ai rivoluzionari mazziniani e filo-francesi 42 condanne a morte. Re Ferdinando II le commutò tutte, non fu eseguita alcuna esecuzione.

Nel civile regno di Sardegna, modello dei giornali europei, il 26 marzo 1856, il deputato Brofferio della sinistra insorge contro l’eccessivo numero di esecuzioni capitali comminate da quando il governo piemontese è diventato «costituzionale e liberale»: 113 esecuzioni tra il 1851 e il 1855, mentre il governo assoluto precedente (1840-44) ne aveva eseguito solo 39. Il regno savoiardo costituzionale condannava a morte otto volte di più della Francia, lamentò Brofferio.

SERVI DI LONDRA – «Le nazioni (europee) riconoscevano all’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica (...)»: così il Bollettino del Grande Oriente Italiano nel 1865. Per compiacere il regime anglicano ed ottenerne l’appoggio Cavour soppresse gli ordini religiosi e confiscò i beni ecclesiastici in Piemonte (il Times inneggiò all’azione). La superpotenza dell’epoca – la regina Vittoria – forma una «coalition of the willing» nel 1854 per combattere lo Zar in Crimea, onde impedire alla Russia l’accesso al Bosforo: Cavour manda 15 mila soldati piemontesi in Crimea, onde ingraziarsi Vittoria. Moriranno 5 mila, un terzo degli effettivi, in quella guerra in cui il Piemonte non aveva alcun interesse. Per pagare questa guerra lontana, Cavour contrae un prestito con la finanza britannica, che il Regno d’Italia estinguerà soltanto nel 1902.
Cavour, scrive Angela Pellicciari, era del tutto consapevole che «l’Italia non si costruisce con l’appoggio della popolazione italiana, ma con il sostegno internazionale dei governi liberali, contrari alla fede (...) della grande maggioranza della popolazione».

IMMANE DEBITO PUBBLICO – Cavour ammette alla Camera subalpina il 1 luglio 1850: «So quant’altri che, continuando nella via che abbiamo seguito da due anni, noi andremo difilati al fallimento. E che continuando ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell’impossibilità di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare gli antichi».
Debiti nuovi per pagare debiti vecchi, è qui che comincia l’Italia che conosciamo. Nei 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848, nonostante i danni dell’occupazione francese, il Regno di Sardegna accumulò 134 milioni di debiti. Nei solo 12 anni del governo Cavour, dal 1848 al 1860, il debito pubblico aumenta oltre un miliardo (Stato della Chiesa e Regno di Napoli hanno lievi avanzi di bilancio) (1). Ovviamente, i contribuenti piemontesi furono schiacciati dalla tassazione più esosa d’Italia. Il Piemonte aveva accumulato un miliardo di lire di debito, pari a 200 miliardi di euro odierni. La bancarotta di Stato è imminente, al punto che solo la guerra all’Austria (e la conquista dei principati italiani) può dare una speranza di uscirne. Lo ammette Pier Carlo Boggio, deputato cavourriano nel 1859:
«Ogni anno il bilancio del Piemonte si chiude con un aumento del passivo... L’esercito da solo assorbe un terzo di tutta l’entrata... Il Piemonte accrebbe di 500 milioni il suo debito pubblico... il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo. Ecco adunque il bivio: o la guerra o la bancarotta. La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte, oppure improvvida, avventata o temeraria, secondochè avremo guerra o pace».

Vinsero, e solo nelle banche dei Borboni trovarono (e prelevarono) l’equivalente di 1.500 miliardi di euro.

MILIARDARI DI STATO – Il conte Camillo Benso di Cavour impose il liberismo assoluto su modello inglese. Di suo, era il maggiore azionista della «Società Anonima Molini Anglo-Americani» (sic) di Collegno, il più grande ente privato granario della penisola. Nel 1853, col raccolto scarso e la fame che infuria fra gli strati popolari, mentre i principati «reazionari» vietano l’esportazione dei grani per nutrire le loro popolazioni, il Piemonte la consente, così che i produttori locali realizzano forti profitti dalle esportazioni del prodotto rincarato. Per questo avvengono disordini davanti all’abitazione di Cavour, stroncati dalla polizia e dalla truppa a fucilate.
Angelo Brofferio, il già citato Angelo Brofferio, deputato della sinistra, accusa: «Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, gli speculatori, mentre geme e soffre l’universalità dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte». Il deputato fa notare il conflitto d’interesse: «Il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina...».
Cavour possedeva anche una tenuta a Leri: 900 ettari appartenuti all’abbazia di Lucedio, acquistati da suo padre Michele per due lire durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, ossia sotto l’occupazione napoleonica (2).
ANGELO  BROFFERIO
LA CASTA«Liberata» la Toscana con «spontanea insurrezione», i massoni locali in attesa delle truppe savoiarde instaurano un governo provvisorio, una dittatura «popolare». La presiede il barone Bettino Ricasoli fiorentino. Cavour stesso dirà di lui al re Vittorio Emanuele: Ricasoli «governava la Toscana come un pascià turco, non badando nè a leggi nè a legalità.» Brofferio precisa: «I conti del governo toscano (appena abbattuto) prevedevano per il 1859 un avanzo di 85 mila. Nelle casse c’erano 6 milioni in contanti. Il nuovo governo chiudeva il 1859 con un disavanzo di 14 milioni e 168 mila». In meno di un anno, dilapidato oltre il doppio di quel che il dittatore trovò in cassa. Come?           
Ancora Brofferio: «Il pubblico erario era dilapidato per saziare l’ingordigia dei nuovi favoriti; lussi di sbirri e di spie all’infinito; espulsioni, arresti, perquisizioni; la guardia nazionale ordinata a servizio di polizia e non a difesa nazionale. Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa; ogni associazione vietata; uomini senza fede e senza carattere onorati...».
CARLO  FARINI
Erano già i raccomandati.                                                                  
Carlo Farini SERVIZI DEVIATI – Una infinità di piazze e strade d’Italia sono dedicate a Ricasoli, Cavour, Carlo Farini, Mazzini, Daniele Manin («dittatore» provvisorio di Venezia, alla Ricasoli), a Niccolò Tommaseo, e ad altri terroristi. In questa lista di venerati padri del Risorgimento manca vistosamente un attivissimo eroe: Filippo Curletti, funzionario di polizia politica (la futura Digos), protetto di Cavour e suo strumento. Su suo incarico, Curletti organizzò infaticabilmente spontanee sollevazioni popolari nei principati italiani, onde Vittorio Emanuele potesse dire di «non essere insensibile al grido di dolore» che si levava dagli italiani oppressi dall’oscurantismo, e giustificasse l’intervento dell’armata piemontese. Curletti organizzò sollevazioni ad Ancona, Perugia, Fano, Senigallia, arruolando per la bisogna delinquenti comuni ed evasi.
Come ci riusciva? Lo si scoprì dopo la morte di Cavour, quando Curletti perse il suo protettore e fu processato. Origine del processo fu un pentito – il primo pentito della storia italiana – Vincenzo Cibolla, capo della «banda della Cocca», una gang di delinquenti che terrorizzò Torino negli anni ‘50. Catturato, Cibolla rivela che il primo informatore della banda, nonchè socio nella spartizione del bottino di furti e rapine, era il funzionario di polizia Curletti. La banda della Cocca era il prototipo della Banda della Magliana o delle cosche mafiose che, spesso, hanno dato una mano con attentati e omicidi ai servizi deviati (cosiddetti) nella strategia della tensione.
Condannato a vent’anni in contumacia (era riparato in Svizzera) Curletti pubblica un suo memoriale esplosivo. Raccontando come il Farini, allora dittatore provvisorio di Parma, gli chiese di organizzare l’eccidio del colonnello Anviti (l’ex capo della Polizia di Maria Luigia), come linciaggio «popolare».
«Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori – disse Farini a Curletti – Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso». Curletti chiosa: «Io partii, e si sa quel che avvenne».
Il colonnello Anviti, riconosciuto dal «popolo», fu trascinato, fra botte e coltellate e canti patriotticci, «al Caffè degli Svizzeri» di Parma, dove «fu collocato sopra un tavolo e gli fu tagliata la testa mentre non era ancor tutto spento». «Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè, le si è posto un sigaro in bocca e in questo modo fu portato sulla colonna che sorge sui uno dei quadrati della nostra piazza grande», scrisse il giornale «La Civiltà Cattolica». Il cadavere scempiato fu trascinato nelle strade per quattro ore (3).
Chi erano i patrioti che compirono quest’atto di giustizia popolare? «Un migliaio di precauzionali invecchiati nel vizio e organizzati al delitto», che il dittatore Farini (padre della patria) «fu sollecito a scarcerare dal forte di Castelfranco».

MAZZETTE E TANGENTI – Curletti è uno dei pagatori che – sotto il comando dell’ammiraglio Persano – corrompono con denaro gli alti ufficiali dell’esercito borbonico, onde preparare il successo dei «Mille». Carlo Persano è un pessimo comandante navale (si farà sconfiggere a Lissa, nel 1860, dalla inferiore flotta austriaca), ma un ottimo sovversivo. Nell’agosto 1860 scrive a Cavour «Ho dovuto, eccellenza, somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, quattromila al comitato...». In compenso, dice, «possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della Regia Marina napoletana».
Difatti. Ottocento «straccioni» (dice Ippolito Nievo, che era uno di loro) occupano Palermo senza colpo ferire. E penetrano nel regno di Napoli come coltelli nel burro. Massimo D’Azeglio scrive a un nipote il 29 settembre 1860: «Quando si vede un’armata di 100 mila uomini vinta colla perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuol capire, capisca».
Garibaldi stesso dice chi sono i suoi patriottici guerrieri in camicia rossa: «tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra... con radici nel letamaio della violenza e del delitto».
Infatti, il governo garibaldino che soppianta il re di Napoli è così descritto da Boggio: «Lo sperpero del denaro pubblico è incredibile... somme favolose scompaiono colla rapidità con cui furono agguantate dalle casse borboniche... Si sciupano milioni, mentre ai soldati vostri (scrive Boggio a Garibaldi) si nega persino il pane. I soldati, lasciati privi del necessario, sono costretti a procurarselo come possono, d’onde i soprusi, gli sperperi, le violenze che irritano le popolazioni».
SONO COSTRETTI – Anche il capo della Digos Curletti, spedito a Napoli liberata, attesta: «Trovai Napoli nel più incredibile disordine. L’esercito rigurgitava di donne: milady White e l’ammiraglia Emilia ne erano le eroine. Le notti scorrevano nell’orgia. Garibaldi non era più riconoscibile; quando non soddisfava la sua smania di popolarità facendosi acclamare nelle strade, passava il tempo fra milady e Alessandro Dumas...».
Già allora, veline e puttane, nani e ballerine. Nel governo garibaldino, il ministro Franceso Crispo minaccia il ministro Cordova puntandogli una pistala al petto. E così via.
Garibaldi si monta la testa, e sogna di formare una repubblica mazziniana, tradendo il Piemonte monarchico. Il già citato Boggio lo invita a meditare: da chi ebbe «i cannoni e le munizioni da guerra? E le somme ingenti di denaro? Perchè, Generale, entraste in Napoli senza colpo ferire?».
E gli ricorda che non è lui ad aver fatto in modo che «i capi delle truppe» disperdessero «le loro truppe».
E Pietro Borreli, massone, scriverà sulla Deutsche Rundschau nell’ottobre 1882: Garibaldi?:
G. GARIBALDI
«Una nullità intellettuale. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti».                                                                    
Lo stesso apparato che propagandò Garibaldi come il purissimo eroe dei due mondi, lo derideva come nullità e incapace, e diffondeva la voce che, se il biondo eroe s’era lasciato crescere la bionda chioma a coprirsi le orecchie, era perchè gliele avevano tagliate in Sudamerica per un furto di cavalli.
CAPITALISTI SENZA CAPITALE – L’Eroe capì l’antifona, e pronununciò il suo «obbedisco». Se ne andò a Caprera, lasciando il Sud a Vittorio Emanuele. Ma non senza prima aver ceduto l’appalto delle Ferrovie Meridionali a Pier Augusto Adami e ad Adriano Lemmi, entrambi finanzieri ebrei di Livorno, nonchè cognati, che avevano pagato parte dei conti del Biondo Nizzardo. Una concessione in cui lo Stato avrebbe dovuto accollarsi tutte le perdite di gestione.
Il deputato Poerio disse in parlamento: tale contratto «vincola per lunghi anni l’avvenire di quelle provincie (meridionali), le sottopone all’onere immenso di 650 milioni di lire, ed assicura inoltre alla casa concessionaria l’utile netto del 17% senza sborsare un obolo del proprio».
Come poi faranno gli Agnelli, i Pirelli, i Bastogi, capitalisti mantenuti col capitale di Mediobanca. Adriano Lemmi diverrà poi Gran Maestro della Massoneria, nonchè padrone del monopolio dei tabacchi.

BROGLI ELETTORALI – Nonostante le rivolte che scoppiano dovunque, le fucilazioni e le repressioni ferocissime (4), i «popoli del Sud» (e della Chiesa) votano in massa per l’annessione ai Savoia nei plebisciti che vengono indetti nei territori appena conquistati, nel 1860. A votare sono quasi 3 milioni di persone, e il 98% si pronuncia per Vittorio Emanuele. E’ un risultato di quelli che oggi si chiamano bulgari, anzichè savoiardi. Un pochino strano se si pensa che l’anno dopo, nelle prime elezioni politiche dell’Italia unita del 1861, dove il diritto di voto è basato sul censo e possono votare solo il 2 % dei sudditi (ossia 419.938 maschi), va effettivamente alle urne solo il 57% degli aventi diritto, ossia 242 mila individui.
Il miracolo lo spiega ancora nel suo memoriale il capo della paleo-Digos Curletti, vero misconosciuto eroe del Risorgimento: «Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede (...) Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte; ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti (...) Chiamavamo ciò completare la votazione (..). Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poichè tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. Le cose non avvennero diversamente a Parma e a Firenze».
Non essendoci scrutatori dell’opposizione (quale? Ogni opposizione era fuorilegge), essendo i chiamati a votare per lo più analfabeti e ignari del metodo elettorale e quindi astensionisti in massa, la cosa potè passare con facilità. I giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia, come oggi per le votazioni in Afghanistan ed Iraq.
ELEZIONI INVALIDATE – Del resto, già nel Piemonte del 1857 Cavour aveva mostrato come rispettasse le urne. Votarono allora, col sistema censitario, solo 69.470 cittadini; il 67% degli aventi diritto, che erano il 2,4% della popolazione. Nonostante ciò, a causa delle esazioni fiscali, della miseria e insicurezza (criminalità altissima) e dei debiti pubblici enormi, in quel voto addomesticato di soli benestanti, l’opposizione (cattolica) passò dal 20,4% al 40,2%. Il governo Cavour rischia di trovarsi di fronte una vera opposizione, e persino di cadere.
La soluzione è presto trovata: il capo del governo Camillo Benso invalida l’elezione di 22 deputati dell’opposizione. La votazione, afferma il 23 dicembre 1857, è il segno che «il partito clericale sta agendo nell’ombra... per far tornare indietro la società, per impedire il regolare sviluppo della civiltà moderna». Colpa dei preti, che nei confessionali hanno indotto a votare contro la Patria. Cavour: «Si denuncia l’uso dei mezzi spirituali nella lotta elettorale». Questa è la motivazione per cui le elezioni sono invalidate: abuso di mezzi spirituali.
IN ATTESA DI GIUDIZIO – Nell’inverno 1862-63 Lord Henry Lennox, un ammiratore del Risorgimento, visitò le prigioni di Napoli sotto il governo piemontese, strapiene di ribelli al regime. Ne riferì alla Camera dei Comuni. Sulla prigione di Santa Maria:
«... pensavo che i prigionieri fossero stati processati, prima di essere condannati; mi spiace dirlo, non era così. Un ungherese di nome Blumenthal, in fluente francese, mi disse che si trovava da 18 mesi in cella senza essere stato nè processato nè interrogato (...). Quando lasciai la sua cella, altri prigionieri si affollarono attorno a me e al mio accompagnatore chiedendoci in italiano: ‘Perchè siamo in prigione?Perchè non ci processano? (...). Il direttore mi rispose che non sapeva cosa dire: aveva sotto la sua sorveglianza 83 persone mai processate, delle quali circa la metà non erano nemmeno state sottoposte a interrogatorio. Erano detenuti senza sapere di quale delitto fossero accusati (...). Molti di loro erano uomini dall’aspetto misero, balbettanti, i capelli bianchi, appoggiati a grucce, poveri disgraziati desiderosi solo di finire i propri giorni in un ospizio».
Visita alla prigione La Concordia:
«...C’erano un vescovo cattolico romano e due preti, tirati giù dal letto un mese prima, e destinati a trascorrere i propri giorni in compagnia di criminali incalliti (...). C’era un uomo in prigione da due anni, un vecchio vicino ai settant’anni, curvo per l’età e costretto ai pasti carcerari: uno al giorno e solo acqua da bere».
Una prigione a Salerno:
«... Il direttore fu estremamente cortese e, saputo il motivo della mia visita, si augurò che potesse recare qualche positiva conseguenza. Soggiunse che era costretto in quel momento a tenere 1.359 prigionieri in un carcere che poteva ospitarne 650: tale affollamento aveva provocato un’epidemia di tifo che aveva ucciso anche un medico e una guardia».
Visita alla prigione della Vicaria:
«… Dei 1000 prigionieri, 800 erano confinati in cinque stanze non divise da porte, ma da sbarre di ferro, cosicchè gli effluvii emanati da quegli 800 uomini circolavano liberamente da un capo all’altro (...). Ma torniamo al cortile della prigione. Per fortuna non capita spesso di vedere quello che ho visto, uno spettacolo che non dimenticherò mai... Non appena mi videro, i detenuti si precipitarono verso di me con grida pietose e reiterate, con gli occhi iniettati di sangue e le braccia protese, implorando non la libertà, ma il processo; non la clemenza, ma una sentenza (...). Ho conversato con detenuti in attesa di giudizio che mi dicevano: ‘Se almeno potessimo avere qualche indizio della sentenza che ci attende, la nostra disperazione non sarebbe così nera. Alla fine di ogni cammino, per quanto duro, è possibile scorgere una scintilla di speranza; ora invece c’è solo disperazione».
HOLODMOR MERIDIONALE – Il francese Charles Garnier raccolse un buon numero di proclami emessi dai comandanti piemontesi durante la guerra al brigantaggio, ed affissi nei paesi. Generale Galatieri, dal suo quartier generale di Teramo, giugno 1861: «Vengo a difendere l’umanità e il diritto di proprietà, e sterminare il brigantaggio. Chiunque ospiti un brigante sarà fucilato senza distinzione di sesso, età, condizione; le spie faranno la stessa fine. Chiunque, essendo interrogato, non collabori con la forza pubblica per scoprire le posizioni e i movimenti dei briganti, vedrà la sua casa saccheggiata e bruciata».
Proclama del maggiore Fumel, febbaio 1862:
«... Coloro che diano asilo o qualsiasi altro mezzo di sussitenza ai briganti, o li vedano o sappiano dove han rovato rifugio e non informino le autorità civili e militari, saranno immediatamente fucilati. Tutti gli animali dovranno essere condotti nei depositi centrali con scorta adeguata.
Tutte le capanne (usate dai pastori, ndr) dovranno essere bruciate. Le torri e le case di campagna disabitate dovranno essere scoperchiate, e le entrate murate nel termine di tre giorni; dopo lo spirare di tale termine, esse saranno bruciate senza fallo e gli animali privi di custodia appropriata saranno uccisi.
E’ proibito portare pane o altro genere di provviste fuori dell’abitato del comune; i trasgressori saranno considerati complici dei briganti. La caccia viene temporaneamente proibita.
Il sottoscritto non intende riconoscere, date le circostanze, più di due schieramenti: pro o contro i briganti! Pertanto classificherà tra i primi gli indifferenti e contro di loro adotterà misure energiche, perchè in tempo di emergenza la neutralità è un crimine.
I soldati sbandati che non si presentassero entro quattro giorni, saranno considerati briganti».
Il colonnello Fantoni, nel proclama emesso da Lucera il 9 febbraio 1862, nel primo articolo, vietava l’accesso, anche a piedi, a tredici foreste, fra cui quella del Gargano.
«Ogni proprietario terriero, fattore o mezzadro sarà obbligato, subito dopo la pubblicazione di questo avviso, a ritirare da dette foreste tutti i lavoratori, pastori, pecorai, eccetera, e con loro le greggi; dette persone saranno obbligate a distruggere tutte le stalle e le capanne erette in questi luoghi.
D’ora in avanti nessuno può portar fuori dai distretti circonvicini alcuna provvista per i contadini, e a questi ultimi non sarà permesso portare più cibo di quanto sia necessario per un singolo giorno ad ogni persona della loro famiglia.
Coloro che non obbediranno a questo ordine, che entrerà in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza eccezione alcuna di tempo, di luogo e persona, fucilati».
Prefetto De Ferrari, di Foggia e Capitanata, 1863: «... Tutti gli animali del territorio saranno immediatamente radunati in poche località a fine di essere meglio custoditi. Tutte le piccole fattorie saranno abbandonate, cibo e foraggio rimossi e gli edifici murati. Nessuno potrà andare nei campi senza autorizzazione scritta del sindaco e scorta sufficiente».
L’8 luglio, il prefetto Ferrari aggiunge un altro divieto: «I cavalli possono essere ferrati solo in pubblico e in officine autorizzate; nessun maniscalco o produttore di ferri e chiodi poteva allontanarsi dal proprio distretto senza un documento, che indicasse la via che avrebbe percorso, l’ora della partenza e l’ora del ritorno. Chiunque possedesse ferri e chiodi per la ferratura doveva farne denuncia alle autorità».
Non erano vane minacce. Il 29 aprile 1862 il deputato Giuseppe Ferrari disse alla Camera: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle provincie, degli uomini assolti dai giudici, che restano in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato... Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Fu la rovina della sussistenza economica, la messa alla fame; decine i paesi incendiati, innumerevoli le atrocità, di cui per lo più è stata soppressa la memoria, che ricordano da vicino lo sterminio dei contadini in Ucraina, operato da Stalin e Kaganovich.
Di una atrocità si sa, perchè ne discusse la Camera dei Comuni britannica: a Pontelandolfo in Molise, trenta donne che si erano rifugiate intorno alla croce eretta nella piazza del mercato, sperando di trovarvi scampo dagli oltraggi, furono tutte uccise a colpi di baionetta. Persino Napoleone II, che aveva dato il suo potente appoggio armato a Cavour per la conquista dell’Italia, il 21 luglio 1863 scriveva al suo generale Fleury:
«Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più indegni sono considerati normali espedienti: un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro dei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili – Napoleone».
Dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così. In fondo, può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio.
Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anzichè essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale (4), viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di «integralismo cattolico», «revisionismo» vietato, reazione; e censurato dai media – come il volume della storica Angela Pellicciari da cui abbiamo tratto queste informazioni.
La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, per cui sta spendendo 800 milioni di euro il Comitato celebrativo: presieduto da un livornese come lo erano i banchieri Adami e Lemmi.
Giornalisti a ciò addetti, e ben istruiti, già si sono portati avanti. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo già vagano nei luoghi santi della retorica massonica, Calatafimi, Teano, eccetera, per sgridare «noi italiani senza memoria». Noi abitanti di un Paese «che sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del ‘Risorgimento’. Il grande romanzo culturale, militare e sociale».
Si domanda Stella: «E’ questa l’‘Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione’ che immaginava Mazzini?».
Stella e Rizzo ci scriveranno un libro di successo assicurato: noi italiani senza memoria, appunto.
Senza memoria? L’avete voluto voi: rivendichiamo la memoria censurata. Lo facciamo proprio in quanto italiani: quella menzogna sanguinosa che cova nel cuore italiano è precisamente la frattura interna che rende l’Italia corrotta, moralmente malata, incapace di reggersi nel mondo con dignità, senza spezzarsi ai primi scontri con la storia.
Il tradimento originale è sempre pronto a riemergere in nuovi tradimenti, intelligenze col nemico, diserzioni sul campo e particolarismi delinquenziali – proprio perchè la ferita non è sanata, ma coperta con cataplasmi di menzogna e retorica, che la fanno marcire all’infinito.
Il 150enario da cui Ciampi guadagna e fa guadagnare i suoi compari, facciamolo diventare una rivendicazione di verità: verità sul Risorgimento! Perchè senza verità non ci sarà alcun risorgimento possibile. La verità sola, e intera, può essere l’inizio della riconciliazione.

Quindi, lancio un appello ai lettori. Andate sul sito ufficiale del Comitato Celebrativo di fratel Ciampi (http://www.italia150.it/); non perdete tempo a leggere le ridicole menzogne che già lo affollano («150 anni e non li dimostra», per esempio); andate in alto a destra, dove c’è la voce «contatti». E alluvionate quei «contatti» di mail, lettere e fax con un solo messaggio:

Verità sul Risorgimento!

Ricordate le Marzabotto del Sud, a cominciare dalle donne di Pontelandolfo! Non più silenzio sui lager piemontesi per i soldati delle Due Sicilie! Fatevi tornare la memoria!
Si potrebbe anche ricorrere al sarcasmo. Per esempio, fare una petizione per un monumento a Curletti, il capo della polizia politica di Cavour e insieme della banda della Cocca, grande suscitatore di spontanee manifestazioni popolari e prezioso completatore di votazioni.
Proponete l’iscrizione: «Filippo Curletti, patriota e poliziotto, pregiudicato contumace».
Oppure, fate una petizione popolare per intitolare una piazza ad Adami e Lemmi, «profittatori e cognati».
Ma forse è meglio di no, non hanno il senso dell’umorismo. Ciampi potrebbe anche farlo.

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1) Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era la più lieve d’Europa (-30% di quella inglese, meno 20% di quella francese). La tassa ammontava, nel 1859, a 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il regime italiano, erano salite a 28 franchi a testa. Fu più che raddoppiata la tassa sul macinato (che colpiva i poveri) «ed estesa a tutte le granaglie, persino alle castagne»; fu estesa al resto dell’Italia la minuziosa tassazione savoiarda, come la tassa sulle finestre, «la gabella sulla macellazione del maiale» e «il dazio sul minimo consumo» (che colpiva chi comprava un litro di vino per volta, ma non chi ne comprava 25 litri). Non solo il Regno di Napoli fu il primo a mettere in esercizio la prima ferrovia in Italia, ma anche il primo telegrafo, il primo ponte sospeso, i primi fari diottrici moderni furono costruiti e installati nel regno dei Borboni, da una classe tecnica evidentemente competente e moderna. Il primo battello a vapore varato da un arsenale italiano fu costruito a Napoli. Il giornalista francese Charles Garnier fornì prove certe del fatto che, nei primi sei anni dell’unità italiana, alcune delle più prospere manifatture napoletane furono deliberatamente distrutte per favorire quelle del Nord (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana», Ares, 2000, pagina 374).

2) La confisca dei beni ecclesiastici provocò la sparizione di quel poco di previdenza e assistenza sociale vigente, che era tutta e solo caritativa e cattolica; ne risultò un tragico peggioramento della miseria delle classi povere, con un conseguente aumento esponenziale della criminalità.

3) A Venezia e a Roma avvennero episodi simili nel 1848. A Roma Pellegrino Rossi, ministro del Pontefice, fu circondato dalla folla e accoltellato alla gola sotto gli occhi della Guardia Civica rivoluzionaria, poi lasciato agonizzare nel palazzo stesso dov’era il parlamento rivoluzionario. A Venezia, istigata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, una folla feroce s’impossessò del comandante dell’Arsenale, colonnello Marinovich, «impopolare presso gli operai per la rigida disciplina a cui li sottoponeva». Gli operai afferrarono lo sventurato, lo trascinarono giù per le scale, lo percossero spietatamente, lo trafissero ripetutamente con la sua stessa spada e con coltelli. Il poveretto implorò un prete, ma gli venne negato; fu linciato e fatto a pezzi da centinaia di individui. Il governo repubblicano definì l’evento un giudizio di Dio. E’ evidente che queste orrende macellerie furono atti deliberati, con lo scopo di spargere il terrore tra i legittimisti e dissuaderli da ogni resistenza. Resta la constatazione che gli italiani brava gente, periodicamente, si producono in vili scempi di cadaveri. Da noi sono ricorrenti i Piazzali Loreto, atti tipici di vili impotenti. Nel 1814 gli animosi milanesi avevano già massacrato nello stesso modo Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d’Italia napoleonico: con le punte degli ombrelli, per quattro ore, fino a renderne il corpo irriconoscibile. La folla era guidata dal patriota Federico Confalonieri. Si veda Patrick K. O’Clery, citato, Ares, 2000, pagina 142.

4) Il solo Nino Bixio eseguì oltre 700 condanne a morte senza processo. Da un giornale dell’epoca, L’Unione: «Bixio ammazza a rompicollo, all’impazzata... fa moschettare tutti i (soldati e ufficiali) prigionieri stranieri che gli capitano tra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano far motto di disapprovazione». Esecuzioni per stroncare una possibile classe dirigente legittimista: purghe staliniane ante litteram.



Per esempio ci si dovrebbe chiedere se le burocrazie pubbliche inadempienti e disoneste che gravano sulla società non abbiamo ereditato lo spirito di corpo della burocrazia piemontese: immediatamente estesa all’Italia appena conquistata, essa non si visse ovviamente come a servizio della popolazione, ma con la missione di taglieggiarla e controllarla come corpo ostile, ponendo quanti più ostacoli alla sua iniziativa libera, ritenuta pericolosa. Ancor oggi l’apparato burocratico (la Casta) si comporta rispetto alla società come un nemico occupante. La stessa riflessione va fatta per le istituzioni in generale. I Savoia non crearono un sistema giuridico italiano; si limitarono ad estendere al resto dell’Italia - appunto come occupanti - il «diritto» piemontese, tanto che a Napoli si faticò a tradurre le nuove leggi, scritte in italiano approssimativo, infarcito di francesismi e termini dialettali subalpini.

Scritto da Maurizio Blondet, su EFFEDIEFFE

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