sabato 24 ottobre 2009

Islam ed Ungheria

Tomba di Gül Baba in Budapest

L'Islam in Ungheria
articolo di Claudio Mutti
del 23.10.2009

Le notizie più antiche relative alla presenza dell’Islam in Ungheria risalgono al secolo X. La comunità islamica magiara doveva essere abbastanza consistente, se nella seconda metà del secolo XII essa disponeva di un proprio muftì, nella persona di Abdelhamid al-Gharnati. Il nome rivela un’origine spagnola (gharnati = granadino); e dalla Spagna provenivano anche i musulmani che costituivano, all’epoca, la guardia del corpo del Re d’Ungheria.
Come è noto, in seguito alla battaglia di Mohács (1526) l’Impero Ottomano aggiunse ai propri domini gran parte dei territori ungheresi, che conservò fino al 1686.
Due secoli dopo, nel 1878, si aprì una nuova pagina negli annali dei rapporti dell’Ungheria con l’Islam, allorché il Congresso di Berlino diede mandato a Budapest di occupare la Bosnia Erzegovina, che fino a quel momento era stata soggetta alla Sublime Porta. Il 6 ottobre 1908, procedendo all’annessione ufficiale della regione, l’Ungheria acquisiva una popolazione musulmana di 600.000 anime; fu così che negli anni successivi un mezzo migliaio di musulmani bosniaci andò ad insediarsi a Budapest e in altre zone dell’Ungheria storica. Oltre a questi nuovi sudditi di Francesco Giuseppe, si trovavano nella capitale magiara altri immigrati musulmani provenienti dai Balcani: due migliaia tra artigiani, operai e studenti, secondo una pubblicazione del dicembre 1914 che riproduceva un discorso di Rezsö Havass (membro del consiglio legislativo del municipio budapestino) intitolato Costruiamo una moschea a Budapest.
La proposta di Havass veniva avanzata nel momento storico più opportuno: il mese precedente il Califfo aveva proclamato il gihàd, impegnando i Turchi al fianco dell’Impero austro-ungarico e della Prussia nello scontro militare che si stava profilando. D’altronde, nel paese danubiano l’opinione pubblica era fortemente turcofila, ché sempre vivo era rimasto nella memoria nazionale il ricordo dell’asilo puntualmente concesso dalla Turchia a tutti i combattenti dell’indipendenza ungherese, in seguito alle rivolte antiabsburgiche dei secoli passati. Ancora nel corso della guerra russo-turca del 1877-’78, i patrioti magiari avevano auspicato una partecipazione austro-ungarica a fianco della Turchia. Era stato però necessario limitarsi a manifestazioni di solidarietà filoturca e all’invio di una delegazione ungherese alla corte del Sultano, il quale aveva ricambiato mandando a Budapest un gruppo di studenti. In quell’occasione si era deciso di procedere al restauro del più significativo e celebre monumento dell’Islam ungherese: il mausoleo (türbe) di Gül Baba (1). Un primo restauro ebbe luogo pochi mesi più tardi; una pia fondazione (waqf) ottomana e alcuni privati procurarono gli arredi interni.
Nel suo intervento, dunque, Rezsö Havass tornava a patrocinare la causa del ripristino di questo monumento. Per quanto atteneva al tema principale – la costruzione della moschea di Budapest – la proposta di Havass venne adottata dal consiglio municipale con una risoluzione del 4 aprile 1916.
In quel medesimo anno l’Assemblea Nazionale ungherese emanava la legge XVII, che recitava testualmente: “La religione islamica è dichiarata religione legalmente riconosciuta (…) L’esercizio della religione islamica, nonché le sue tesi, i suoi principi e le sue istituzioni religiose, nel quadro della legislazione hanno i diritti e la protezione giuridica delle religioni legalmente riconosciute”. E fu in quel periodo che una delle principali arterie di Budapest ricevette il nome del Sultano Mehmed.



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Alla fine della guerra, il passaggio della Bosnia al nuovo Regno Serbo-Croato-Sloveno privò l’Ungheria della sua popolazione musulmana. Tuttavia, con le migrazioni che accompagnarono la fine del conflitto, alcune centinaia di musulmani, soprattutto bosniaci, andarono a stabilirsi sul territorio del nuovo Stato ungherese.
Tra questi vi fu Huszein Hilmi Durics. Nato nel 1887 a Nosna Krupa, dove suo padre era un notabile del luogo, Huszein H. Durics aveva studiato a Sarajevo ed era stato funzionario dell’amministrazione imperial-regia. Rimasto ferito nel corso della guerra, era diventato insegnante di religione al Theresianum di Vienna. Sposatosi con la figlia di un colonnello della Guardia Regia e arrivato in Ungheria nel 1920, Durics si arruolò con alcuni ex commilitoni bosniaci nella “compagnia d’ufficiali” del colonnello Prónay, che si era costituita per combattere la cosiddetta “Repubblica dei Consigli” presieduta da Béla Kun e per impedire l’applicazione dei trattati di pace imposti dai vincitori.
Per i meriti di combattente acquisiti in questo periodo, nel 1926 Huszein H. Durics ricevette una decorazione e gli venne riconosciuta la nazionalità ungherese. In tal modo egli diventò, per la comunità musulmana d’Ungheria, una guida più rappresentativa e più idonea dell’imam turco Abdüllatif, che nel 1909 il governo ungherese aveva fatto venire a Budapest al fine di mantenere buoni rapporti con la Turchia in seguito all’annessione della Bosnia. “Più tardi, quando l’Ungheria perse la Bosnia e il califfato turco fu abolito e con questo cessò la base legale del soggiorno ungherese di Abdul-Latif” (2), quest’ultimo venne assunto all’università come lettore di turco. Il governo di Budapest, “per rispetto all’amicizia turca e al fatto che anni addietro esso stesso l’aveva chiamato in Ungheria, non voleva rimandarlo in Turchia” (3), dove il regime kemalista aveva reso dura la vita all’Islam e ai musulmani.
In piena conformità con la Sciarìa islamica e con la legge XVII del 1916, il cittadino ungherese Huszein H. Durics diventava dunque muftì d’Ungheria.
Il 20 agosto 1931, in occasione della Festa dei Sacrifici, il nuovo muftì pronunciò un pubblico discorso in cui si coniugavano pietà religiosa e spirito patriottico. “Anche noi musulmani d’Ungheria – disse tra l’altro Durics – la cui lingua madre è slava, ma i cui sentimenti sono ungheresi, siamo membri della comunità dei popoli turanici e iranici. Noi amiamo la nostra patria ungherese fino all’ultimo respiro e, se occorre, come abbiamo dimostrato nel corso della guerra mondiale la difenderemo con la vita e col sangue. Il Corano prescrive l’amore per Dio e per la patria, e noi eseguiamo gli ordini di Allah”.
Nel 1932, in seguito ai contatti di Durics con alcuni esponenti politici ungheresi (Durics stesso aderì al movimento crocefrecciato), nacque la Comunità Musulmana Gül Baba, che aveva tra i propri obiettivi non solo la costruzione della moschea budapestina, ma anche l’istituzione di un Collegium Islamiticum. Attraverso un’intensa campagna di stampa, Huszein H. Durics e i suoi amici cercarono di persuadere le autorità e l’opinione pubblica che, appoggiando i progetti della Comunità Musulmana, l’Ungheria avrebbe avuto la possibilità di svolgere un ruolo di primo piano nei confronti del mondo islamico.
Per patrocinare la causa della moschea di Budapest, Durics si recò al Cairo, a Damasco, a Gerusalemme, a Hayderabad, a Tirana; incontrò Haj Amin al-Huseyni, Zog d’Albania, Shekib Arslan e, sembra, anche Mussolini.
Nel 1936 l’architetto Löránd Lechner disegnò il progetto dell’edificio, che però non vide mai la luce. Huszein H. Durics morì nel 1940. In quell’anno veniva proiettata sugli schermi cinematografici ungheresi una pellicola intitolata Gül Baba, che celebrava le gesta del leggendario derviscio.



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(1) Assieme ad alcuni bagni turchi e altre tracce di minore importanza, il monumento funebre di Gül Baba, eretto tra il 1543 e il 1548 dal terzo pascià di Buda, è uno dei pochi esempi di architettura ottomana che siano rimasti nella capitale ungherese (le quaranta moschee della città furono distrutte dopo il 1686). Situato in un giardino sulla Collina delle Rose (Rózsadomb), il mausoleo in questione è un tipico edificio a pianta ottagonale, con la copertura a cupola sormontata da una mezzaluna e una porticina di accesso in legno pregiato. Il personaggio che ha legato il proprio nome alla türbe non è identificabile con totale certezza: un derviscio caduto nella conquista ottomana della città secondo alcuni, un governatore (vali beylerbeyi) di Budin secondo altri.

(2) Gyula Germanus, Sulle orme di Maometto, Milano 1938, vol. I, p. 93. Con questo titolo fu pubblicato da noi Allahu Akbar (Budapest 1936, Berlino 1938), il più noto dei numerosi libri di Gyula Germanus (1884-1979), un orientalista che entrò in Islam intorno ai vent’anni, assumendo il nome di Abd el-Karim. A Budapest, dove nacque e morì (dopo aver effettuato numerosi viaggi nel mondo musulmano e tre pellegrinaggi alla Mecca), lo ricorda una lapide sulla facciata della sua abitazione, sul Lungodanubio.

(3) Ibidem.





Inserita il 23/10/2009 alle 18:25:14





lunedì 19 ottobre 2009

La Carovana dell'Amore






La Saggezza dei Sufi
I Sufi sono i mistici dell’Islam.
Hassan Dyck

I loro cuori vengono sottoposti per anni, spesso per decenni, ad un intenso allenamento. La purezza di spirito per loro è tutto.
La musica Sufi trova origine nel cuore del Maestro per giungere a toccare le corde dei cuori delle persone e per risvegliare in loro un ardente desiderio dell’amore divino.
I Maestri Sufi si avvicinano “all’immaturità” dei loro ascoltatori con profonda sensibilità verso il loro grado spirituale e utilizzando una buona dose di umorismo. L’uso di storie è parte di questo processo, trattando sapientemente con gli aspetti individuali, sociali e culturali.
La musica Sufi e le storie dei Sufi sono artisticamente e psicologicamente multidimensionali: agiscono su molti livelli ed hanno potente effetto sull’anima andando a raggiungere lati nascosti della psiche dell’ascoltatore, penetrano nei suoi blocchi personali e lo invitano a un più elevato livello di consapevolezza e sviluppo delle sue forze creative.
Peter Hassan Dyck è un musicista, uno gnostico, un autentico esempio vivente del misticismo del Sufismo e della sua tradizione. Alla fine dei suoi studi musicali percorse in lunghi viaggi il mondo arabo e lì visse per diversi anni.
Peter Hassan Dyck è anche un eccellente “canta-storie” che invita l’ascoltatore ad un viaggio nel mondo magico delle storie e racconti del misticismo sufi. Il suo stile virtuoso in vari strumenti musicali ci presenta la bellezza e la magia dell’Oriente.
Dal 13 al 15 Novembre a Cattolica (Rn) a Dio piacendo si terrà un incontro di due giorni con Shaikh Hassan.
Sarà, con il permesso e le benedizioni di Dio, un’occasione per avvicinarsi alla via Naqshbandi,
per indicare il cammino a cuori stanchi di troppa mondanità
 anche per ricordare, a chi un pezzo di strada lo ha già percorso, il valore dello stare insieme.
Tariqatuna Sohbet wa Khayru fi’l Jamiya.



Lasciamo noi stessi, lasciamo le nostre storie e i nostri problemi, con la chiara intenzione di abbandonare il nostro ego
e fare un piccolo passo verso la Presenza Divina, soluzione di tutti i problemi e origine di tutte le cause!
InshAllah sarà un incontro bellissimo per trascorrere insieme un momento importante per il nostro spirito
e ritrovare pace serenità con musica sufi, zikr e meditazione!
Non mancate! L’albergo sarà praticamente tutto per noi. Vista mare, bagno turco, gym.
L’incontro è gratuito, l’unico costo è la pensione completa (€ 47,50 a notte) a persona bevande incluse.
Supplemento singola € 14,00.
L’incontro inizia con la cena del venerdi per concludersi dopo il pranzo di domenica.
Vi chiederemo come sempre un contributo libero per le spese sostenute.

Come arrivarci



Hotel Waldorf
Via Gran Bretagna, 10
7841 Cattolica (RN)
Tel. 0541/951210
Fax. 0541/950628





giovedì 15 ottobre 2009

ASSOCIAZIONE SHAHRAZAD - 8 OTTOBRE 2009

Bismillah ar - Rahmani ar- Rahim


L'8 Ottobre 2009 è nata l'Associazione Shahrazad (shahrazad09@hotmail.it ) fondata da Muamera (Deborah) Callegari Hasanagic e da Hanifa Baroni.

"......non si può pretendere che le cose si cambino da sole, dobbiamo lottare (con le parole) per far si che i nostri diritti vengano rispettati e non permettere più che ci siano donne presuntuose che ci impediscano di essere noi stesse e soprattutto non è giustificabile che esse vogliano toglierci la nostra dignità, il nostro velo la nostra libertà… dobbiamo far in modo che si mettano ben in testa che la nostra sottomissione è solo per Allah l’altissimo l’eccelso il saggio Colui che ci ha permesso finalmente di poterci esprimere con questa associazione e non hai nostri uomini come ormai pensano le persone che si credono “superiori” solo perché espongono le loro “grazie” al miglior offerente tra l’altro ingannandoli offrendo loro solo silicone e non carne (^_^) !!!" .
Parole chiare quindi, ma anche idee chiare..."Studiando l’Islàm abbiamo con piacere scoperto che questo tipo di “attività” è raccomandata perché intesa come Jihad e quindi un bene per l’Islàm e per la Ummah che in Italia non è molto compatta!!! ". Uno dei loro fini se non il più importante è di incoraggiare le Donne che aderiranno alla Associazione ...."sulla Via di Allah per far si che l’Islàm venga riconosciuto come religione di pace qual è…".
Il nome Shahrazad dato all'Associazione significa essere "....il simbolo della forza dell'intelligenza, del fascino della parola, del potere di seduzione e in questo senso Shahrazàd rappresenta tutt'altro che il modello dell'odalisca sensuale e passiva, caro all'immaginario occidentale. In realtà essa è una donna attiva, abile, astuta, artefice della propria salvezza e di quella delle altre donne, capace di suscitare amore nel sovrano e di conservare vivo in lui questo amore. "
Speriamo inchAllah che tutto vada per il meglio tenuto conto degli insidiosi attacchi che vengono portati alla Donna mussulmana da parodie femminili come la Santanchè e la dubbiosa mussulmana..Souad Sbai......fagocitate da un Borghezio, ma anche,a mio parere, da dubbiosi "amici" del campo laico italiano, i "senza Dio"che hanno un lungo passato di ghigliottine e relegazione del divino nella sfera del privato!
Auguri quindi Muamera, da Janua Coeli e da me personalmente avrai (avrete) sempre un leale appoggio!




martedì 13 ottobre 2009

Dio, Religione, guerra, Naqshbandiya


Peggio dell'ignoranza sono le mezze verità
Posted on 12 Ottobre 2009 by Stefano
htpp://ilderviscio.wordpresse.com/

ARTICOLO APPARSO SU " IL DERVISCIO" E CHE RIPRODUCIAMO QUI SU JANUA COELI
COME LETTERA APERTA A GILLES MUNIER.
C’era un tempo in cui se non eri di “Avanguardia Operaia” eri “fascista”. Non importa se a proposito o a sproposito, ma queste erano le uniche alternative. Lo stesso valeva per “Lotta Continua”, o eri di LC o eri fascista, o eri di Potere Operaio o eri fascista, e cosí via. Ognuno consapevole di essere padrone della Veritá Rivoluzionaria Cosmica. O eri cosí o eri perso nel baratro.
Poi, notoriamente, la rivoluzione non ci fu e ognuno tornó a casa e, col passare del tempo, cominció a guardare oltre lo steccato del proprio orticello per scoprire che esiste un mondo anche al di lá del fiume.
Tutti?
No.
Non tutti.
Alcuni sono approdati ad altre sponde ma non hanno abbandonato l’idea della Veritá unica, esclusiva, per pochi eletti, al di lá della quale sei fascista, venduto, servo della CIA, cialtrone.
È l’idea che mi sono fatto leggendo un articolo alquanto ameno su Eurasia dell’Autore Gilles Mounier.


Intanto Gilles comincia con un preambolo che è giá la sintesi della confusione e delle mezze verità di cui si nutre. Ad esempio col chiamare “confraternita sufi” un gruppo combattente all’interno del partito Baath clandestino e che si fregia del nome di “Jaysh Rajal al-Tariqa al-Naqshbandiyya” (JRTN), dal nome del suo comandante, Abdurahman Naqshbandi, già ufficiale dell’esercito iracheno e rampollo di una famiglia nota per il suo nazionalismo e per la sua partecipazione, nel 1958, alla deposizione cruenta della monarchia.
Affermare che una “confraternita sufi” combatte all’interno del partito Baath, erede dell’omicidio della famiglia reale irachena, dovrebbe giá accendere tutte le luci d’allarme di chi ha un minimo di conoscenza del contesto di cui si parla. Non parliamo a sproposito di turuq! I turuq non sono uno strumento da inserire in contesti della politica piú corrotta con la speranza di poterli ridurre a complemento dei nostri sogni fantastici di rivoluzioni contro un mondo che stentiamo a comprendere.
“Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?”. (Gio. 18, 10-11)
Pietro era zelota, come Giuda.
“In Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei così detti sicari (Ekariots), che commettevano assassini in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili “ (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica II- 12).
Gli zeloti combattevano per liberare la Palestina dall’occupazione romana e cercarono il consenso del Profeta Isa-Gesú (la pace sia con Lui), il quale, interrogato a proposito del tributo, rispose di rendere a Cesare ció che è di Cesare e a Dio ció che è di Dio.
Ecco, sarebbe bene, quando si parla di Profeti, di Religione di Turuq, non confondere le acque.
Dio, i Profeti, le Religioni, i Turuq, non sono lí per collimare con i nostri sogni fantastici di lotta all’imperialismo americano e di improbabili rivolte contro il mondo moderno. Di fronte a Dio, ai Profeti, ai Santi ci dobbiamo solo inchinare e ascoltare con umiltá i loro insegnamenti. Ogni Tariqa è depositaria di un segreto di cui, se non sappiamo nulla, faremmo bene a tacere. Ci sono dervisci che compiono riti durante i quali i murid vengono trafitti con spade e pugnali e ció ha un senso in un contesto preciso. Se non sappiamo nulla al proposito, faremmo bene a tacere. Ci sono dervisci chiusi in grotte nel deserto che recitano preghiere interrompendo il loro servizio solo per espletare i bisogni fisiologici elementari e ció ha un senso in un contesto preciso. Se non sappiamo nulla al proposito, faremmo bene a tacere. Ci sono Sheick che agiscono nel mondo visibile e siedono a tavola coi potenti della terra e ció ha un senso in un contesto preciso. Se non sappiamo nulla al proposito, faremmo bene a tacere.
Quanto alle fantasie di Gilles, Sheick Nazim al-Haqqani non è di origini libanesi e il suo Gran Sheick Abdullah era Daghestano. Sarebbe bastata un’occhiata su Wikipedia. Sheick Hisham al-Kabbani è islamista di fama mondiale, ovvio che partecipi a congressi, riunioni e incontri di livello internazionale ai quali partecipano personaggi come quelli citati nel testo. Il Dalai Lama è capo spirituale di milioni di buddhisti e ció che fa scandalo è che molti dei potenti della terra abbiano dei problemi a sedere al suo tavolo, quindi dove sta il problema? E che Sheick Hisham dica e dichiari ció che ha detto e dichiarato mi sembra ovvio. O non era forse Saddam Hussein un delinquente comune, corrotto e socialista? O non sono forse i Talebani dei barbari ottusi? E non sono forse esseri indegni coloro che allacciano cinture di tritolo alla vita dei propri figli per mandarli ad esplodere nei bus e nelle pizzerie? E non sono forse combattenti senza onore coloro che sparano razzi kassam al riparo di abitazioni civili per colpire a caso coloni e civili dall’altra parte?
Del resto, contrariamente alle speranze di chi vorrebbe un Islam tutto teso verso la jihad contro il mondo occidentale, nella migliore tradizione musulmana i Santi e i Sapienti della nostra epoca sono tutti concordi nello sforzo verso un mondo di pace di comprensione e di tolleranza ed è una somma fortuna in questo periodo buio, poter ascoltare voci illuminanti come quelle di Sheick Nazim al-Haqqani, Sheick Hisham al-Kabbani o del Gran Muftí di Damasco Ahmad Badr Al-Din Hassoun, degno discepolo di Achmad Kuftaro (discepolo di Sheik Abdullah Daghestani).

Quindi non mescoliamo Dio, i Profeti e i Santi ai desideri della “guerra santa”, perché: “Non ci sarà una guerra Santa, perché non ci sono guerre sante; è la pace a essere Santa”

(Parlamento Europeo, Seduta solenne – Allocuzione di Ahmad Badr El Din El Hassoun, Gran Muftì della Siria 15.1.2008)



mercoledì 7 ottobre 2009

Il Santo Corano e la Donna di Seyed Tahzeeb-ul-Hassan.



Introduzione
Nel corso dei secoli, invece di essere una compagna di vita, la donna è stata considerata una merce di nessun valore, una proprietà dell’uomo. Considerata una merce, è sempre stata trattata di conseguenza, scambiata liberamente, come al mercato. In numerose parti del mondo, fu sepolta viva dal padre, immediatamente dopo la nascita. Considerata come la fonte di tutti i peccati, è stata bruciata viva, assieme alla pira funeraria del marito. Anche nella cosiddetta repubblica Greca, considerata il modello della democrazia e della libertà dall’occidente, i vari filosofi non potevano decidere se ella in effetti appartenesse alla razza umana o meno. Malgrado il suo aspetto fisico, essi pensavano che la donna poteva non essere della stessa specie dell’uomo. La sua apparenza fisica serviva giusto per far piacere ed intrattenere gli uomini. In occidente è stata considerata una merce di scambio,anche a livello legale non aveva nessun diritto, fino a poco più di un secolo fa. Ella porta ancora il marchio di essere responsabile del peccato originale, e per il quale è ancora perseguitata e considerata un elemento minoritario nelle società di stampo giudaico–cristiano. Ella è una vittima dell’ignoranza, della cupidigia e della lussuria dell’uomo. Il Santo Corano è stato rivelato per dissipare l’ignoranza e per addomesticare il lato animale della natura umana. Esso è un codice universale per tutte le nazioni, per tutti i tempi, e si occupa di ogni argomento. Esso guida l’umanità in ogni aspetto della vita. Per cui, prendiamo in considerazione ciò che questo Santo Libro ha rivelato circa la donna, 1400 anni orsono, quando quest’ultima non era nemmeno considerata un essere umano in tutto il mondo cosiddetto civilizzato.
Lo Status della Donna
Il Santo Corano dice: “Fa parte dei Suoi segni l'aver creato per voi, delle spose, affinché riposiate presso di loro, e ha stabilito tra voi amore e tenerezza. Ecco davvero dei segni per coloro che riflettono” (Santo Corano, 30:21).
Questo ayat (versetto) chiarisce due cose molto importanti:
1) La donna è una parte dell’umanità. Ella è importante come l’uomo, e non inferiore a quest’ultimo
2) Allah (SwT)[1] ha creato la razza umana in due sessi opposti, in modo che essi possano condividere pace e conforto reciproco, che sono il risultato naturale dell’amore e del rispetto che essi devono nutrire l’uno per l’altra.
Il Santo Corano protegge l’individualità della donna e le accorda lo stesso status e gli stessi diritti dell’uomo.
Ella infatti ha il diritto di acquisire conoscenza, di possedere delle proprietà, di migliorare economicamente. Ella ha diritto ad avere una parte dell’eredità paterna. E’ libera di proteggere il suo onore, castità e modestia. Ella ha diritto di decidere il suo compagno di vita. Dalle profondità della depravazione e della degradazione, il Santo Corano l’ha innalzata in una posizione di dignità ed onore. Effettivamente, ella ha raggiunto uno status ben più alto, secondo la nozione che “Il Paradiso sta sotto i piedi delle madri”.[2] Sebbene uomo e donna siano ugualmente importanti, essi sono stati creati per svolgere differenti ruoli nella procreazione e nella continuità della specie umana. Visto che i loro ruoli sono differenti, anche le loro responsabilità sono differenti. Il Santo Corano dice: “Il loro Signore risponde all'invocazione: "In verità non farò andare perduto nulla di quello che fate, uomini o donne che siate, ché gli uni vengono dagli altri. A coloro che sono emigrati, che sono stati scacciati dalle loro case, che sono stati perseguitati per la Mia causa, che hanno combattuto, che sono stati uccisi, perdonerò le loro colpe e li farò entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli, ricompensa questa da parte di Allah. Presso Allah c'è la migliore delle ricompense.”(Santo Corano, 3:195) Il messaggio è che l’uomo e la donna sono sullo stesso livello e che essi appartengono l’un all’altra. Le loro buone azioni hanno lo stesso valore per la società umana. Il Santo Corano dice: “E inclina con bontà, verso di loro, l'ala della tenerezza; e di': "O Signore, sii misericordioso nei loro confronti, come essi lo sono stati nei miei,allevandomi quando ero piccolo"(Santo Corano, 17:24). Ancora una volta il Santo Corano ci parla del valore del lavoro di entrambi i genitori. Il padre e la madre sono ugualmente importanti. Dovremmo essere buoni con entrambi. Dovremmo invocare la misericordia di Allah (SwT) su entrambi. Vita Matrimoniale “Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio” (Santo Corano, 2:228). Sia il marito che la moglie hanno diritti e doveri reciproci, a seconda delle loro naturali possibilità. Essendo l’uomo più forte fisicamente, ha la responsabilità di prendersi cura della donna e della famiglia. Questo gli da un piccolo margine sopra alla donna, ma non assoluta autorità, poiché ella non è in nessun modo privata della sua libertà. Anche questa limitata autorità, non è data senza una serie di doveri e responsabilità correlati, in quanto egli ha dovere di provvedere a tutto ciò che le necessita. Il Santo Corano dice: “Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni…” (Santo Corano, 4:34). L’uomo deve lavorare molto per mantenere la sua famiglia. La donna, d’altra parte, impiega le sue doti naturali per adempiere ai suoi obblighi. I sudati guadagni del marito le appartengono, e la sua femminilità gli appartiene. Egli volontariamente lavora duramente per assicurarle la miglior vita possibile, mentre ella gioisce della sicurezza della sua casa. Ciò che lui riceve in cambio del suo lavoro e delle sue tribolazioni quotidiane sono il suo amore, le sue cure e il suo fascino femminile. Infatti, per molti, si potrebbe porre la domanda: “Esiste una distribuzione delle responsabilità non equa, è un’ingiustizia verso l’uomo, in termini di obblighi e responsabilità?” Se ci pensiamo razionalmente, vedremo chiaramente che non è questo il caso. Il matrimonio non è soltanto un mero baratto tra il corpo della donna e il lavoro dell’uomo. Marito e moglie infatti appartengono l’uno all’altra. Per essi questo senso di appartenenza reciproco è l’aspetto più soddisfacente e rasserenante della loro relazione. Questa sensazione è assolutamente inestimabile paragonata al loro status, celebrità, ricchezza o lavoro. Il Santo Corano richiede all’uomo e alla donna di fare soltanto ciò che è conforme alla loro innata natura. Questa è soltanto una divisione di compiti basata sulle abilità naturale date da Allah (SwT). Un uomo vuole proteggere sua moglie dagli sguardi lussuriosi degli altri uomini, per cui le chiede di non uscire senza una ragione. Questo è ingiusto? No, questa è soltanto una richiesta ragionevole, fatta nell’interesse di entrambi i sessi. Alcune persone dal temperamento impulsivo potrebbero non essere capaci di dare sfogo a questi loro sentimenti al di fuori delle loro case, e le loro mogli potrebbero essere vittime della loro tirannia. Ma il Santo Corano non li giustifica affatto. Esso da solo due ragioni per il fatto che l’uomo sia delegato alla tutela della famiglia, e quindi anche della donna: abilità personali e la responsabilità di mantenere la famiglia. Ed è ovvio che nessuna di queste due ragioni condoni assoluta autorità o tirannia. I sentimenti da soli non possono sostenere la vita. Il senso di appartenenza da solo, senza che ci siano altri supporti pratici al rapporto, non riesce a tenere insieme una famiglia. Il Santo Corano dice alle coppie come comportarsi per cementare la loro unione: “Esse sono una veste per voi e voi siete una veste per loro…..” (Santo Corano, 2: 187) Gli abiti coprono le proprie parti private e proteggono contro caldo e freddo. Marito e moglie dovrebbero coprire le mancanze l’uno dell’altra, ed aiutarsi l’un l’altra nelle circostanze difficili. Altrimenti, la vita diventerebbe molto difficile. Il Santo Corano dice: “Le vostre spose per voi sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete, ma predisponetevi…..” (Santo Corano, 2:223) Questo versetto, indirizzandosi al marito, orienta molte questione sociali con conseguenze di vasta portata. La moglie è come un campo. Per avere il migliore raccolto dalla sua terra coltivata, il contadino tratta la sua terra in modo prudente e responsabile, a seconda delle esigenze del tempo e della stagione. I mariti dovrebbero avere le stesse cure e attenzioni per le loro mogli. La relazione matrimoniale è nata a causa di una necessità umana. Marito e moglie si sostengono a vicenda. Essi rispettano l’uno i sentimenti dell’altra, facendo tutto ciò che possono per essere felici insieme. Comunque, la vita non è sempre facile. Potrebbero nascere problemi fra di loro, dovuti ad incompatibilità o ad altri problemi. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per risolvere questi problemi. Se però essi sono insormontabili, e la coppia non può assolutamente vivere in pace ed onore, il matrimonio dovrebbe essere dissolto. Ma anche in questo caso, il limiti della decenza non dovrebbero essere oltrepassati. Il Santo Corano dice: “Quando divorziate dalle vostre spose, e sia trascorso il ritiro, riprendetele secondo le buone consuetudini o rimandatele secondo le buone consuetudini. Ma non trattenetele con la forza, sarebbe una trasgressione e chi lo facesse mancherebbe contro se stesso.”(Santo Corano, 2:231). Colui che commette atrocità nei confronti delle donne, in realtà fa torto a se stesso. Mentre la povera donna soffre in questo mondo, l’uomo dovrà rispondere dei suoi peccati nel Giorno del Giudizio. Le sofferenze terrene sono temporanee, ma le punizioni dell’Altro Mondo sono eterne, non avranno mai fine. Il Santo Corano dice: “O voi che credete, non vi è lecito ereditare delle mogli contro la loro volontà. Non trattatele con durezza nell'intento di riprendervi parte di quello che avevate donato , a meno che abbiano commesso una palese infamità. Comportatevi verso di loro convenientemente. Se provate avversione nei loro confronti, può darsi che abbiate avversione per qualcosa in cui Allah ha riposto un grande bene.” (Santo Corano, 4:19) In qualunque caso, una donna non deve mai essere oppressa. Ella deve essere trattata gentilmente e delicatamente. Cattiva Condotta sessuale Il Santo Corano non permette mai ne all’uomo ne alla donna di trasgredire le regole che ha posto al fine di soddisfare bisogni fisici. Per difendere il sistema familiare, la base della società, ha preso due importanti e forti approcci per rafforzarlo. Prima di tutto, enfatizza il bisogno e l’importanza dell’istituzione del matrimonio. Secondo, esso proibisce qualunque cosa che diminuisca o mini l’importanza di tale istituzione Il Santo Corano dice: “Non ti avvicinare alla fornicazione. E' davvero cosa turpe e un tristo sentiero” (Santo Corano, 17:32) Questo versetto mostra due gravi danni della condotta sessuale illecita. Essa è un’aperta indecenza e un modo peccaminoso di soddisfare i propri bisogni fisici. a) E’ ribelle ed irresponsabile avere rapporti sessuali al di fuori del vincolo matrimoniale con una persona che si potrebbe sposare. Questo distrugge le radici della società umana b) E’ un crimine ancor più odioso stabilire relazioni sessuali con qualcuno che appartiene ad una categoria che ci è proibito sposare (familiari stretti, come figli, genitori…). In questo modo uno calpesta la santità delle relazioni umane. Il Santo Corano dice: “In verità coloro che desiderano che si diffonda lo scandalo tra i credenti, avranno un doloroso castigo in questa vita e nell'altra. Allah sa e voi non sapete”( Santo Corano, 24:19) Esso non solo proibisce di commettere indecenze, ma aborre il fatto di dargli corda. La pubblicità macchia la reputazione delle persone coinvolte, diminuisce la serietà del crimine, e incoraggia innocenti a commettere tali peccati. Per cui, aiuta a spargere indecenza e crimine. La donna pre-coranica non aveva amici o simpatizzanti. I diritti datele dal Libro di Allah (SwT) hanno avuto effetti di vasta portata su tutta l’umanità. Quando una donna vive nella sicurezza della sua casa, ci sono poche possibilità che ella cada preda della lussuria di altri uomini. Non avendo altri doveri, ella dedica tutta la sua attenzione al marito ed ai figli. In questo modo i legami familiari sono rafforzati. I figli cresciuti in tali famiglie si sentono sicuri e felici. Essi saranno meno esposti allo sfruttamento per ragioni materiali. Per cui, essendo madre e moglie a tempo pieno, la donna forgia le future generazioni. Questo è un lavoro molto più soddisfacente e gratificante di essere capo di stato, condurre una impresa di successo, curare pazienti, amministrare la giustizia in una corte, o qualsiasi lavoro che ella potrebbe svolgere fuori casa. La visione Coranica della donna va contro gli interessi dei lussuriosi materialisti. Per contrastare questo impatto, essi hanno orchestrato il falso grido per la liberazione della donna. Vogliono che ella sia libera - di competere con gli uomini, di mostrare le sue bellezze mostrandosi liberamente in mezzo agli uomini, di andare con chiunque ella voglia, di avere tutte le relazioni fisiche che voglia, di permettere che foto seminude e nude appaiano su giornali, cartelli pubblicitari, e ovunque. Essi non si interessano alla donna come essere umano. Tutto questo inganno, dipinto come libertà, è stato orchestrato in modo da mantenerla vittima dei loro desideri carnali, in modo da indebolire e distruggere il sistema familiare e promuovere i loro interessi egoistici e materialistici, come risulta evidente nelle moderne società industrializzate. State attente!! State attente!!!!
Note:
[1] (SwT) abbreviazione di “Subĥana wa Ta°ala”, Lode a Colui che è privo di ogni imperfezione, l’Altissimo. [2] Najul Fasaha, n. 1328
Tratto da Shia Italia.

LA CIALTRONA DI VIA BELLERIO



Pubblichiamo su Janua Coeli il seguente articolo già pubblicato dal Blog AN-NUR per condannare in modo categorico la politica islamofobica della Lega Nord e dei suoi simpatizzanti, la Civiltà Islamica non si lascia dipingere come un fenomeno di arretratezza culturale e morale oltre che religiosa,solo perchè i portatori del credo islamico appartengono al genere "immigrati"!L'odio anti islamico fomentato dalla politica europea dalle guerre sionistiche contro l'Impero Ottomano per preparare l'avvento di Israele (1911-1912 etc...) non conosce pace e la Lega Nord non è altro che un burattino nelle mani della politica occidentale.Così come condanniamo anche ogni tentativo di "santificare" Osama Bin Laden, il cui ruolo è ancora tutto da definire!Così come condanniamo il tentativo di insozzare la Nobile Tariqa della Nasqbandyia con accuse di "collusione" con il potere americano, tutti costoro non conoscono il potere distruttivo di Shaitan (sia esso maledetto e lapidato per l'Eternità) e non conoscono quindi lo Spirito che anima la Tariqa Nasqbandyia.
JANUA COELI - Luciano Abdel Nûr Cabrini.

La sig.a Stefania Atzori, vecchia conoscenza di questo blog, che non ha gradito la mia recensione al suo "libro", mi ha ringraziato pubblicando un "interessantissimo" e allucinantissimo articolo su La Padania, dove il sottoscritto viene tirato in ballo. Islam, via internet le condanne a morte Creato in Italia un gruppo per combattere ogni libertà d’espressione anti-islamica di Stefania Atzori "Quando la libertà d’espressione diventa un’eccezione che conferma la regola, significa che una civiltà, anziché evol- versi in direzione delle libertà individuali, retrocede ai periodi più bui della storia. Maometto ha fatto della censura un baluardo della religione islamica. Le ahadith riportano episodi riguardanti omicidi cruenti perpetrati dai musulmani nei confronti di chi si opponeva alla parola di Allah. La censura, quindi l’alienazione delle libertà individuali, era pratica abituale della quale Maometto si serviva per eliminare fisicamente coloro che rifiutavano la sua rivelazione attraverso canti, poesie, racconti. Asma bint Marwan, Kab bin al-Ashraf, Abu Afak, Uqba, sono solo alcuni degli artisti condannati a morte dal predicatore per aver espresso opinioni negative sul credo islamico e sulla sua persona. Oggi abbiamo preso coscienza di questo atteggiamento oscurantista perché un occidentale ha pagato con la propria vita il legittimo esercizio del diritto alla libertà di espressione sancito dalla Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani. Non sono bastate le fatawa contro Salman Rushdie e Taslima Nasrin o l’assassinio del traduttore giapponese de I Versetti Satanici e il ferimento di quello italiano per farci aprire gli occhi su questo aspetto nichilista del credo islamico. Basti leggere il commento di Hamza Piccardo, segretario dell’Ucoii, riguardo alla libertà di parola sancita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nell’Islam: «Art. 12 - Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica: “Se gli ipocriti, coloro che hanno un morbo nel cuore e coloro che spargono la sedizione non smettono, ti faremo scendere in guerra contro di loro e rimarranno ben poco nelle tue vicinanze. Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte” (Cor. 33, 60-61).».«Saranno presi e messi a morte» non solo nelle società islamiche ma anche nelle nostre. Magdi Allam, Oriana Fallaci, Ayaan Hirsi Ali e molti altri dissidenti, sono costretti a vivere in clandestinità protetti da una scorta a causa delle loro esternazioni sull’Islam. Più frequentemente vengono utilizzate le nostre stesse leggi per ottenere la censura su tematiche riguardanti la religione islamica, spacciando il diritto di opinione per odio razziale e religioso. Su tale linea di pensiero è stata istituita la Islamic Anti-defamation League (Iadl), il cui scopo è quello di “raccogliere, analizzare e disseminare le informazioni sull’attività di propaganda dell’odio e dell’estremismo, e quindi di monitorare, esporre e combattere i fenomeni, le organizzazioni ed i singoli promotori dell’anti-islamismo in Italia, qualunque sia il mezzo usato per la loro propaganda”, ovviamente secondo i criteri di libertà di espressione contemplati dall’Islam. La stessa “libertà” che condanna a morte coloro che criticano il Credo islamico o Maometto. In questi ultimi mesi, due membri della Iadl hanno condotto una campagna volta a inibire il libero pensiero su internet. Si tratta di un vero e proprio linciaggio psicologico. Millantando conoscenze altolocate con un certo “peso politico e sociale” intimidiscono, accusano, molestano coloro che muovono critiche al Credo islamico o semplicemente riportano notizie pubblicate sui quotidiani; stilano “black list” da inviare alla Iadl affinché la stessa prenda i provvedimenti adeguati: avvertire l’autore degli articoli “razzisti” e “anti-islamici” affinché si ravveda; chiedere al provider di apporre un disclaimer che “certifichi il sito come un sito che diffonde odio razziale dal quale loro stessi si “dissociano” ed infine, “adire la via del Tribunale”. Questi individui non hanno esitato a pubblicare e-mail private, IP e dati personali delle “vittime”, facendosi beffa della legge sulla privacy e della legalità. Il fatto che possano avvalersi di “una schiera di avvocati gratis” o che una di queste persone è una ex-deputato ed ex-poliziotta e l’altro un opinionista egiziano de Il Manifesto, come afferma lo stesso, ha reso il loro atteggiamento tracotante e minaccioso al punto tale da sfociare in esternazioni quali: «Sarà pur servito a qualcosa, sai, fare l’ex-principessa, l’ex-poliziotta, l’ex-deputato e la signora tra virgolette. Sai, tutti questi ex che voi sfottete allegramente, in poche parole, sono contatti, conoscenze, numeri telefonici, peso politico, peso sociale». E ancora: «L’“azione punitiva”, quindi, va portata fino in fondo. Anzi, io sarei dell’opinione di allargarla e fare piazza pulita, visto che ci siamo». Infine: «Perché vi staneremo. Perché l’era del musulmano che subisce zitto-zitto e “zi badrone”, è finita. Don’t mess with the Giants, baby» e «Insomma che cosa è successo, adesso? Che cosa è cambiato? Che abbiamo chiesto un po’ di informazioni sul tuo conto? Non ti vogliamo mica fare del male sai... Vogliamo solo sapere qualcosina su di te, come dire... per curiosità». I siti web e i blog di questi individui contengono materiale che dovrebbe destare preoccupazione o quantomeno un interessamento da parte delle autorità. Non possono credere di poter inibire la libertà di espressione quando loro stessi scrivono o pubblicano articoli sull’utilità dei terroristi suicidi palestinesi o affermano apertamente di aver preparato “inventando di sana pianta, decine, forse più di un centinaio, di richieste d’asilo politico”; si rallegrano della morte di Theo van Ghog e assimilano gli ebrei ai nazisti. Senza contare gli insulti, spesso volgari, rivolti a politici, giornalisti, magistrati e semplici cittadini. Tale comportamento assume connotati ancora più gravi dal momento che le intimidazioni e le offese provengono anche da una ex-europarlamentare. Sarebbe interessante sapere da chi viene finanziata questa associazione in grado di pagare una “schiera di avvocati”, a chi fa riferimento ma sopratutto in base a quale diritto questi suoi membri decidono cosa può essere detto o scritto sul credo islamico, minacciare denunce ad oltranza o accusare con tanta superficialità chi tratta di tali argomenti di “istigare al genocidio, all’odio razziale e religioso”. Tali insinuazioni non solo sono ingiuriose ma, come la vicenda di Theo van Gogh insegna, anche fatali. Sarebbe oltremodo opportuno che le istituzioni prendessero coscienza di tale pericolosa realtà sommersa e adottassero seri provvedimenti per arginare questo fenomeno intimidatorio. Non tutti possono permettersi la scorta, vantare conoscenze altolocate o beneficiare di “schiere di avvocati” al fin di esercitare un diritto sacrosanto sancito dalla nostra Costituzione. Le accuse di istigazione al genocidio, odio razziale e religioso devono essere supportate da prove concrete perché fino a prova contraria la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ Uomo nell’Islam, nella quale il diritto di opinione è regolato dai “limiti generali che la Legge islamica prevede”, nel nostro Paese non ha alcuna legittimità. Stefania Atzori.
Risposta: A me sembra che anche in altre occasioni abbia già spiegato alla cialtrona in questione che attribuire alla IADL linee "shariitiche", riferimenti coranici e - cosa più grave - condanne a morte fosse un gioco sporco e azzardato, visto che in tutte le dichiarazioni della IADL è specificato che la suddetta organizzazione si rifà alle leggi e alla costituzione italiana, che è un'associazione laica aperta anche alla difesa dei diritti di altre minoranze, anche se in questo momento quella più nel mirino risulta essere - come disse lo stesso Amos Luzzato - quella musulmana. E invece ora ci ritroviamo lo stesso con un titolo che afferma: "Islam, via internet le condanne a morte" e "ovviamente secondo i criteri di libertà di espressione contemplati dall’Islam". Il titolo è già di per sé passibile di denuncia per istigazione al razzismo: pregasi specificare in che cosa consiste questa generica "propaganda anti-islamica" che il quotidiano della Lega sta difendendo. Semmai la propaganda anti fondamentalismo islamico, ma lì non risulta essere scritto questo. Ovviamente, la sfortuna della sig.a Atzori consiste nel fatto che tutto ciò che riguarda questa questione, dall'inizio fino alla fine, è disponibile - giorno per giorno - sulle pagine di questo blog e che da questo materiale si evince quanto sia una "giornalista" cialtrona, passibile - lo ripeto - di denuncia, visto che non può riprodurre neanche una mezza parola che sostenga un titolo simile a quello dato al suo articolo, tanto per incominciare. Alcune delle frasi qui sopra riportate tra virgolette, sono mie e sono disponibili su questo blog. Ovviamente sono decontestualizzate: non si dice, per esempio, che sono state proferite nell'ambito di una civilissima campagna di protesta contro un individuo che apostrofava, nel peggiore dei modi, una persona per il colore della sua pelle dai computer di un'azienda pubblica, di fatto aizzando altri a minacciare l'incolumità dei suoi figli. Me ne frego se la persona è Dacia Valent, che scrive come scrive o parla come parla: in quel momento era vittima di uno schifoso razzismo. E rinconfermo quanto sopra affermato: queste persone vanno stanate tutte, strappate dall'anonimato che permette loro di agire indisturbati, e consegnate alla giustizia italiana per ricevere la punizione che si meritano. Riconfermo che gli immigrati non pressati dalla necessità di garantire la propria sopravvivenza hanno il dovere morale di difendere chi non può permettersi di rispondere a chi li dipinge ogni giorno sui media come terroristi, assassini, belve assetate di sangue e incapaci di integrarsi. Riconfermo che è finita l'epoca del musulmano che subisce supino le peggiori offese e criminializzazioni, e che appena apre bocca e protesta dichiarando che si rifarà all'unica cosa a cui può ricorrere - e cioè la legge di questo paese che punisce i reati di incitazione all'odio e alla discriminazione - viene additato da una cialtrona, nonostante il lavoro di integrazione portato avanti finora, come un terrorista che minaccia di fatwe e di morte "chi non la pensa come lui". Sono orgoglioso di non pensarla come la pensano questi signori che la cialtrona sta ora difendendo: sono orgoglioso di non chiedere che la moglie dell'altro Cialtrone di Carmagnola venga presa a calci in pancia mentre è incinta, solo perché moglie di un cialtrone di religione islamica. Sono orgoglioso di non chiamare "negretta repressa dal colore della merda che fa le pompe ad un musulmano puzzolente" una donna solo per via del colore della pelle. Si, sono orgoglioso di non pensarla come loro e di essere membro, seppur onorario, di un' associazione che si adopera per metterli davanti alla responsabilità legale delle proprie azioni: il disclaimer che ora campeggia sulla homepage di ThankyouOriana.it è la prova comprovante dell'utilità e della correttezza del suo operato. La cialtrona di Via Bellerio può continuare a scrivere i suoi articoli: prima o poi verrà messa davanti alla responsabilità dei suoi scritti, e dovrà dimostrare che quanto sopra riportato era una fatwa o non so quale altra diavoleria che giustifichi il procurato allarme che ha messo in atto dalle pagine del quotidiano delle bufale. Dovrà tirare fuori - dal mio blog personale - le pagine dove ci sono "insulti spesso volgari a politici e magistrati" o l'articolo dove mi attribuisce "l'utilità dei kamikaze". Dovrà dimostrare che la IADL in qualche suo comunicato o lettera ha parlato di legge coranica, di condanne a morte e via dicendo. Perché se non riuscirà a dimostrarlo, mi sa che lei e il suo quotidiano dovranno sborsare un bel risarcimento. Fino a prova contraria, infatti, è lei che mi diffama - anche se non mi menziona con nome e cognome ma permettendo perfettamente la mia identificazione - con accuse gravissime dalle pagine di un giornale, e non il contrario. Riderà bene chi riderà per ultimo. http://salamelik.blogspot.com/2005/09/la-cialtrona-di-via-bellerio.html
Pubblicato da muamera a 13.08

sabato 3 ottobre 2009

KHWAJA KHADIR E LA FONTE DELLA VITA; NELLA TRADIZIONE DELL'ARTE PERSIANA E MOGHUL


Scritto di Ananda K. Coomaraswamy
In India, il profeta, santo o divinità conosciuto con i nomi di Khwāja Khizr (Khadir), Pir Badar o Rāja Kidār, è oggetto di un culto popolare che ancora sopravvive, e che è comune sia fra i Musulmani sia fra gli Indù . Il suo santuario più importante si trova sul fiume Indo, presso Bakhar, dove è venerato dai devoti di entrambe le tradizioni; ma questo culto è anche diffuso nel Bihar e nel Bengala, anche se in misura leggermente inferiore. Il Khwāja è venerato nel culto indù con l’accensione di luci ed offrendo cibo ai bramani presso un pozzo, ed anche, sia nella pratica mussulmana sia in quella indù, facendo galleggiare in uno stagno o in un fiume una piccola imbarcazione recante una lampada accesa. Nell'iconografia, Khwāja Khirz è rappresentato come un uomo anziano dall’aspetto d'un faqīr, vestito interamente di verde[1] che si muove sulle acque sopra un pesce che gli fa da veicolo. La natura di Khwāja Khizr può essere compresa attraverso la sua iconografia, come sopra accennato, ed anche dalle leggende indiane. Nella ballata di Niwal Daī, il cui scenario è la località di Safidam[2], nel Panjab, la protagonista è la figlia di Vāsuki, il re dei Serpenti. Rājā Parikshit. Il pāndava[3] ario, ha affrontato Vāsuki e lo ha costretto a promettergli in sposa la figlia, anche se questo, dal punto di vista di Vāsuki, è un disonorevole matrimonio tra ineguali. Vāsuki è poi colpito dalla lebbra per effetto della maledizione scagliata dal sacerdote Sīgī[4], le cui mucche erano state morse dai Serpenti. Per guarire il padre, Niwal Daī parte alla ricerca dell'Acqua della Vita (amrta), posta in un pozzo chiuso che ella sola può aprire ma che si trova nei possedimenti di Rājā Parikshit[5]. Raggiunto il pozzo, rimuove le pesanti pietre che lo coprono servendosi del suo potere magico; ma le acque si abbassano subitamente fuori dalla sua portata: a trattenerle è Khwāja Khizr, che ne è il signore e che le rilascerà solo quando Niwal Daī, che nessuno fino ad allora ha mai visto, se non suo padre Vasuki e sua madre la regina Padma, acconsentirà a mostrarsi. Dopo che Niwal Daī si è lasciata vedere, Khwāja Khizr « libera le acque che risalgono ribollendo ». Rājā Parikshit, destato dal rumore, parte al galoppo verso il pozzo e, benché Niwal Daī si nasconda nella sua forma serpentina, la costringere a riprendere il suo aspetto umano; dopo una lunga discussione presso la fonte, la convince di essere legata dalla promessa di matrimonio fatta da suo padre e a tempo debito la sposa[6]. La scena presso il pozzo può essere stata il tema originale della composizione rappresentata in numerosi dipinti moghul[7] del XVII e XVIII secolo raffiguranti un principe a cavallo presso una sorgente da cui una dama ha attinto dell’acqua.[8] Il motivo d’una dinastia traente origine dall’unione d'un re umano con una nāginī è molto diffuso in India e in ultima analisi esso può essere sempre messo in relazione con il ratto di Vāch, l'apsaras o Vergine delle Acque sorta dalle potenze dell'oscurità e che il Padre creatore non ha « visto » prima della trasformazione, in principio, dell'oscurità in luce; a questo proposito è degno di nota che, nella ballata, Niwal Daī non ha mai visto il Sole e la Luna, essendo stata tenuta nascosta in un gorgo (bhaunrī) fino a che non viene fuori per scoprire il Pozzo in Capo al Mondo [che è la Sorgente ai Confini del Mondo (R.S.T.)], dove sono le Acque della Vita[9]. L’assunzione della forma umana da parte di Niwal Daī costituisce la sua « manifestazione ». Naturalmente si comprenderà come non sempre il redattore possa aver pienamente inteso il significato del materiale mitico trattato, e ciò vale sia per i racconti popolari europei di tematica affine, in cui una sirena, o la figlia di un mago, sposa un eroe umano, sia anche per altri racconti popolari e poemi indù più recenti. Khwaja Khizr appare ancora in un altro racconto popolare di tipo molto arcaico, la storia del principe Mahbūb[10]. Il re di Persia ha da una concubina un figlio che, in mancanza di un figlio legittimo, diventa l'erede presunto. In seguito la vera regina rimane incinta. Il principe, temendo di perdere i propri diritti, invade il reame, uccide il padre ed usurpa il trono. Nel frattempo la vera regina fugge ed è accolta da un contadino, poi da alla luce un figlio che viene chiamato Mahbūb, il «Tesoro del Mondo». Questi, divenuto adulto, si reca solo a corte dove vince alcune competizioni atletiche, in particolare quelle di tiro con l’arco. Il popolo nota la sua stretta rassomiglianza con il defunto re. Al suo ritorno a casa la madre gli rivela la sua vera origine ed insieme si mettono in viaggio per evitare il sospetto dell'usurpatore. Madre e figlio arrivano in una terra deserta e lì, in una moschea ai piedi d'una montagna, incontrano un faqīr; costui dà loro un pane e un'acqua inesauribili e due pezzi di legno: uno di cui ci si può servire come di una torcia, l'altro che ha la virtù di rendere guadabile il mare più profondo, riducendo la sua profondità sotto il cubito per un raggio di quattordici braccia dal punto dove esso è tenuto. Mentre madre e figlio stanno guadando così l'oceano, la cui acqua arriva loro al ginocchio, incontrano una corrente che trasporta dei rubini. Attraversato l’oceano e giunti in India, vi vendono uno dei rubini ad un prezzo elevatissimo. Il rubino finisce nelle mani del re del paese il quale, scopertane l'origine, ricerca l’eroe, che nel frattempo s'è costruito un nuovo e grande palazzo sulla riva del mare. Mahbūb si impegna a procurare al re altri rubini della stessa qualità. Egli parte solo, accende la torcia (ciò sta ad indicare che s'appresta a penetrare in un mondo di oscurità) e, servendosi dell'altro pezzo di legno, s'inoltra nel mare fino a raggiungere la corrente di rubini. Mahbūb la risale fino a trovare la sua origine, un gorgo nel quale si tuffa cadendo in un profondo e oscuro camino d’acqua, giunto al fondo del quale scopre che la corrente fluisce da una cancello di ferro che da accesso ad un condotto. Inoltratovisi, si ritrova in un meraviglioso giardino, al cui centro è un palazzo. In questo palazzo trova una stanza in cui giace una testa mozzata da poco, dalla quale gocce di sangue cadono in un bacino e sono trascinate via, sotto forma di rubini, dalla corrente nel condotto sottomarino, poi finiscono nel gorgo fino a giungere nel mare. Allora appaiono dodici pāris[11] che, presa la testa, ne portano il tronco e ricompongono il corpo decapitato; impugnando candele accese, eseguono intorno al giaciglio funebre una danza talmente rapida che Mahbūb può vedere solo un cerchio di luce. Poi, chinandosi sul letto, esse si lamentano: «Per quanto tempo, oh Signore, per quanto tempo?... Quando il sole della speranza si leverà sull'oscurità della nostra disperazione? Sorgi, oh Re, sorgi! Per quanto tempo ancora rimarrai in questa incoscienza simile alla morte ?»[12]. È allora che dal pavimento del palazzo sorge la forma del faqīr già incontrato, ora ammantato in una veste di luce. Le pāris gli si inchinano e gli domandano: « Khwāja Khizr, è giunta l’ora »? Il faqīr, che non è altri che l'immortale Khwāja Khizr, spiega a Mahbūb che il corpo è quello di suo padre, assassinato dall'usurpatore Kassāb; gli antenati di Mahbūb furono tutti dei magi[13]; tutti furono sepolti nel palazzo sottomarino, ma il padre di Mahbūb è rimasto senza sepoltura perché privato dei riti funerari che, come figlio, Mahbūb deve ora compiere. Questi prega Allah per l'anima del padre: immediatamente la testa si riattacca al corpo ed il re, ritornato in vita, si leva in piedi[14]. Khizr sparisce e Mahbub fa ritorno in India col padre, che si riunisce alla regina vedova. Quando il re dell'India viene a chiedere i rubini, Mahbūb si punge un dito e le gocce di sangue, cadendo in una coppa d’acqua, diventano le gemme richieste, poiché, come sa ora Mahbūb, ogni goccia del sangue che scorre nelle vene dei re della Persia è più preziosa dei rubini. Mahbub sposa quindi la figlia del re dell'India. Una spedizione militare in Persia detronizza l'usurpatore Kassab, la cui testa mozzata è appesa nel palazzo sotterraneo, ma ogni goccia del sangue che cola da essa si trasforma in un rospo. La vera natura di Khwāja Khizr è gia chiaramente mostrata sia nei due racconti innanzi riassunti sia nell’iconografia. Khizr è a suo agio nei due mondi, quello della luce e quello dell’oscurità, ma soprattutto è il signore del Fiume della Vita, che scorre nella Terra delle Tenebre: egli è ad un tempo il genio e il guardiano della vegetazione e dell'Acqua della Vita e corrisponde a Soma e a Gandharva nella mitologia vedica, ma anche, in molti particolari, allo stesso Varuna, benché sia evidente che egli non può essere apertamente identificato alla divinità suprema né dal punto di vista islamico né da quello dell'Induismo più recente. Noi troveremo queste conclusioni generali ampiamente confermate dall’ulteriore esame delle fonti delle leggende islamiche di al-Khadir. Nel Qur'ān (sūra XVIII, 59-81) si trova la leggenda di Mūsā (Mosé) alla ricerca del Ma’jma'al-Bah­rain (la confluenza dei due mari)[15], espressione da intendersi probabilmente come un «luogo » dell'estremo-occidente sito all’incontro di due oceani; Mūsā è guidato da un « servo di Dio », che i commentatori identificano con al-Khadir, la cui dimora si dice sia posta in un'isola, o su un tappeto verde in mezzo al mare. Questo racconto può essere rintracciato in altre tre fonti più antiche: l'epopea di Gilgamesh, il Romanzo di Alessandro e la leggenda ebraica d'Elijah e di Rabbi Joshua ben Levi[16]. Nell'epopea di Gilgamesh, l'eroe parte alla ricerca del suo immortale « antenato » Utnapishtim, che abita alla foce dei fiumi (ina pi narati), come Varuna, la cui dimora è « alla sorgente dei fiumi », sindhūnām upodaye (Rig-Veda, VIII, 41, 2); suo scopo è di essere istruito sulla « pianta della vita », prototipo dell'haoma avestico e del soma vedico[17], con la quale l'uomo può evitare la morte. Nel Romanzo d'Alessandro, Alessandro intraprende la ricerca della Fontana della Vita, che egli scopre per caso, significativamente « nella Terra delle Tenebre », ma che poi non potrà essere ritrovata. Una versione della leggenda compare nello Shāh Nāmah, dove Alessandro parte alla ricerca della Fontana della Vita sita nella Terra delle Tenebre, oltre il punto in cui il Sole tramonta tuffandosi nelle acque dell'occidente; Alessandro ha come guida Khizr, ma quando arrivano ad una biforcazione ciascuno segue un sentiero diverso e solo Khizr porta a termine la ricerca. I compagni di Alessandro, che tornano recando con loro pietre della Terra delle Tene­bre, scoprono al ritorno che queste si sono mutate in pietre preziose[18]. La medesima storia è raccontata con più particolari nell’ Iskandar Nāmah di Nizāmī (LXVIII-LXIX); ivi si narra che Alessandro apprende da un vecchio (probabilmente Khizr stesso in forma umana) che « di tutti i paesi, il migliore è la Terra dell'Oscurità, in cui si trova un'Acqua che da la vita » e che la sorgente di questo Fiume della Vita è a Settentrione, sotto la Stella Polare[19]. Lungo la strada verso la Terra dell’Oscurità, in ogni regione arida che attraversano, cade la pioggia e l'erba germoglia: « Tu diresti che lungo questa strada vi sono i segni del passaggio di Khizr: in verità Khizr in persona la percorse con il re »[20]. I viaggiatori raggiungono il limite settentrionale del mondo: il sole cessa di levarsi ed ecco che la Terra delle Tenebre sta davanti a loro. Alessandro si affida alla guida del profeta Khizr e questi, « avanzando nel verde »[21], indica la strada, e presto scopre la fontana, da cui beve divenendo immortale. Mentre attende che Alessandro lo raggiunga egli tiene lo sguardo fisso sulla sorgente; ma questa diventa invisibile e lo stesso Khizr scompare, comprendendo che Alessandro fallirà nella sua ricerca. Nizāmī riporta pure un'altra versione, conforme a un « racconto degli antichi di Roma », secondo cui la ricerca è intrapresa da Ilyās (Elia)[22] e Khizr. I due si siedono presso una fonte per consumare il loro pasto, che consiste in un pesce essiccato. Il pesce, dopo essere caduto nell'acqua, ritorna in vita, e così i due ricercatori comprendono d'aver trovato la Fontana della Vita, da cui entrambi bevono. Nizāmī passa quindi a considerare la versione coranica e interpreta la Fontana come fonte di Grazia la cui Acqua « vivente » è la cono­scenza di Dio -un'interpretazione analoga di questo antico tema si trova nel Nuovo Testamento (Giovanni, IV)-. Nizāmī attribuisce l'insuccesso di Iskandar (Alessandro) alla sua brama; nel caso di Khizr, invece, « l'Acqua della Vita è raggiunta senza essere stata cercata », infatti essa è rivelata indirettamente dal suo effetto sul pesce, quando Khizr non sospetta di esserci arrivato. La scoperta della fontana da parte di Khizr e Ilyas ricorre nell’arte persiana come soggetto di alcune miniature illustranti l'Iskan­dar Nāma[23]. Una di queste, tratta da un manoscritto del tardo XVI secolo di proprietà di A. Sakisian, è riprodotta a colori nella copertina del suo libro La Miniature persane, 1929, e in monocromia nel volume Persian Painting di L. Binyon, 1933, ill. LXI a; in questa illustrazione, i due profeti appaiono seduti presso la Fonte, in un paesaggio verdeggiante; in un grande piatto si vedono due pesci, ed un terzo, manifestamente vivo, è nella mano di Khizr; appare chiaro che questi indica a Ilyās il significato del miracolo. Ilyās è vestito di turchino, Khizr indossa un vestito verde ed un mantello marrone. In una composizione del XVII secolo, appartenente alla Freer Gallery di Washington e riprodotta in Ars Islamica, volume I, II parte, pag. 179, la raffigurazione è analoga, ma nel piatto vi è un pesce solo. Una terza miniatura, risalente alla fine del XV secolo, è conservata nel Museum of Fine Arts di Boston ed è stata riprodotta in Ars Asiatica, XVII, tav. VII, n. 15; Ilyās e Khizr appaiono in primo piano, presso un ruscello, nell'oscurità; Alessandro ed il suo seguito sono nello sfondo, come nella raffigurazione della Freer Gallery, nella quale la disposizione delle ombre e delle luci è tuttavia invertita. La raffigurazione della Freer Gallery sembra sotto questo aspetto essere la più corretta poiché, anche se l’intera ricerca ha luogo nella Terra delle Tenebre, le vicinanze immediate della Fontana della Vita appaiono come illuminate dallo splendore delle sue acque correnti. Inoltre, i due Scopritori della Sorgente recano entrambi sul capo un'aureola fiammeggiante. Nel testo siriano Il Poema d'Alessandro e nella versione del Qur'an, il pesce sfugge e, secondo quest’ultima, esso raggiunge il mare. Si può rilevare una relazione con il racconto di Manu e del « pesce », nel mito di Manu (Shatapatha­ Brāhmana, I, 8, I); in esso il pesce (jhasha) è vivo fin dall’inizio, ma è molto piccolo ed si trova in una situazione difficile, poiché finisce nelle mani di Manu mentre questi si lava, e gli chiede di prendersi cura di lui. Manu gli procura l’acqua e, quando il pesce è diventato grande, lo libera nel mare; quando sopraggiunge Diluvio, è il pesce che guida l'Arca attraverso le Acque per mezzo d'una fune attaccata al suo corno. Una variante degna di nota della leggenda di Manu, con un più stretto parallelismo con le versioni del Poema di Alessandro e del Qur'an rispetto alla disseccazione del pesce, si ritrova nel Jaiminīya-Brāhmana (III, 193) e nel Panchavimsha-Brāhmana (XIV, 5, 15). Ivi si narra di Sharkara, il marsovino (shishumāra), il quale, essendosi rifiutato di lodare Indra, viene gettato su una spiaggia da Parjanya, il dio della pioggia, che poi lo essicca mediante il vento del settentrione (la causa dell'essiccazione del pesce è così indicata). Sharkara compone allora un cantico di lode in onore di Indra; Parjanya lo restituisce all'oceano (come fa Khizr, benché non intenzionalmente, nella versione coranica) e, grazie a questo stesso canto, Sharkara giunge al Cielo e diventa una costellazione. Si tratta indubbiamente della costellazione del Capricorno, in sanscrito makara, makarashi. Così makara, jhasha e shishu­māra sono sinonimi[24]; questo Leviatano indiano corrisponde chiaramente al pesce Kar, « la piu grande delle creature di Ahuramazda », che nuota nel Vurukasha custodendo l'albero di vita Haoma nell'oceano primordiale (Bundahish XVIII; Yasna, XLII, 4); corrisponde pure al pesce-caprone dei Sumeri, simbolo e talvolta « veicolo » di Ea, il dio delle Acque (Langdon, Semitic Mythology, pagg. 105-106). Non deve sorprenderci che, nell'iconografia indù più recente, il «veicolo » di Khizr è inequivocabilmente un pesce e non il makara, la cui forma ricorda quella del coccodrillo, poiché si potrebbero citare dalle fonti iconografiche indiane altri esempi attestanti l’utilizzo alternativo del makara e del ‘pesce’; in qualche antico dipinto, ad esempio, la dea fluviale Ganga ha quale supporto un makara, mentre nelle raffigurazioni più recenti ha come veicolo un pesce[25]. Nella versione della leggenda di Alessandro, detta dello Pseudo-Callisthenes (C), Alessandro è accompagnato dal suo cuoco Andreas. Dopo un luogo viaggio attraverso la Terra delle Tenebre, essi pervengono in un luogo ricco di acque zampillanti e si siedono per mangiare; Andreas inumidisce il pesce disseccato e, vedendo che questo risuscita, beve di quell’acqua senza dire nulla a Alessandro. In seguito Andreas seduce Kalé, la figlia di Alessandro, e le fa bere l'Acqua di Vita (un po’ della quale egli aveva portato con sé ); così ella diventa una dea immortale chiamata Nereis, mentre il cuoco è gettato in mare e si trasforma in un dio; diventano così entrambi abitanti dell'altro mondo. Senza dubbio, Andreas è qui l'Idris del Qur'an (sura XIX, 57 e seg., e sura XXI, 85), che la tradizione islamica identifica a Enoch, Ilyās, e al-Khadir. Secondo quanto riporta su Idris Ibn al-Qifti, nel suo Tārikh al-Hukamā’a (composto nell'anno 1200), questi appare assumere il ruolo di un eroe solare ed è immortale. Al-Khadir presenta anche alcuni punti di somiglianza con San Giorgio, ed è in connessione a ciò, ed anche a una sua funzione di patrono dei viaggiatori, che incontriamo una figura, che è probabilmente quella di Al-Khadir, in un bassorilievo del XIII secolo posto al di sopra del cancello d'un caravanserraglio, sulla strada da Sinjar a Mossul; la figura reca un’aureola e affonda una lancia nella bocca d'un drago coperto di scaglie[26]. Un'altra opera, di apparente tematica indù, rappresentante un uomo seduto su di un pesce, si trova nel bastione del forte di Raichur, nel Dekkan; si è affermato che rechi una corona di cappucci di serpente fluviale: il personaggio è stato perciò denominato « re dei serpenti »; ma nella riproduzione pubblicata questi cappucci di serpente non sono chiaramente riconoscibili[27]. Del resto l'arte indiana del periodo medioevale offre numerose rappresentazioni di Varuna seduto su di un makara[28] . Si possono citare brevemente dei corrispondenti europei similmente derivati, in ultima analisi, da fonti sumeriche. Khadir corrisponde a Glaukos, il dio marino dei Greci (Friedländer, op. cit. pagg. I08 e seg., 242, 253, ecc.; Bernett, op. cit., pag. 715 ). Khadir appartiene anche alla tipologia dell’Ebreo Errante. Sono degni di nota i parallelismi fra tra Glaukos ed il Gandharva vedico. Nell'Avesta, Gandharva è appellato zairipashna, « quello dai talloni verdi », e questo suggerisce un legame tra Gandharva e Khadir. Come ha osservato Barnett, è possibile che Ghandharva corrisponda a Kandarpa, cioè a Kāmadeva (il dio indù dell'amore); a questo proposito, si può notare che la tematica erotica, comune a Glaukos ed a Gandharva-Kāmadeva, appare anche in connessione con Khizr nella ballata di Niwal Daī, dove Khizr non libererà le acque se non potrà vedere la principessa; come ci si potrebbe aspettare se consideriamo Khizr come Gandharva e Niwal Daī come l'Apsara o la Vergine (yoshā) delle Acque, oppure se mettiamo in relazione Khizr con Varuna; nel Rig-Veda (VII, 33, 10-11) Mitra e Varuna sono sedotti dalla vista di Urvashī, come si può leggere nella Sarvānukramanī (I, 166: urvashim apsarasam drishtvā... reto apatat), e Sayana (retash caskanda), evidentemente seguendo Nirukta, v. 13. La stessa situazione, è sottintesa nel Rig-Veda (VII, 87, 6) in riguardo al solo Varuna che discende come una goccia bianca (drapsa) e che viene chiamato « l'attraversatore dello spazio » (rajasah-vimānah) e « il dominatore della profondità » (gambhīra-shamsah), attributi questi che potrebbero ben applicarsi a Khizr. Resta da osservare che, nell'iconografia cristiana, la figura del dio fluviale Giordano[29], che si ritrova comunemente nelle rappresentazioni del Battesimo di Gesù, presenta una certa rassomiglianza con i personaggi di Glaukos e di Khizr. In alcuni casi il battesimo era immaginato aver luogo alla confluenza di due fiumi, Jor e Danus [il che ricorda la confluenza dei due mari del Qur'an (R.S.T.)] . Talvolta si trova un dio fluviale maschio ed una figura femminile rappresentante il mare; entrambi cavalcano delfini come, nell'iconografia indiana, i numerosi tipi di Yakshas nani cavalcano il makara. In ultima analisi, tutti questi motivi iconografici possono essere riportati a prototipi dei quali la concezione più antica, a nostra conoscenza, è quella sumerica del dio Ea, figlio e immagine di Enki, il cui nome essenziale (Enki) significa « Signore della Profondità Acquea ». Ea era il reggitore dei corsi d’acqua che hanno la loro origine nel Mondo Sotterraneo, e da lì scorrono a fertilizzare la terra, ed egli è anche il Signore delle pietre preziose. Nella rappresentazione iconografica, Ea ha come simbolo il pesce-caprone ed ha fra le mani il vaso dal quale si riversa dell'acqua, la sorgente del « pane e dell'acqua della vita immortale ». Dei sette figli di Ea, Marduk eredita la saggezza del padre ed uccide il drago Tiamat; un altro figlio è Dumuziabzu, il « Fedele figlio delle Acque Pure », ed anche il « Pastore », la forma semitica del cui nome è Tammuz, ben conosciuto come il « dio morente » della vegetazione; egli è per certi aspetti paragonabile a Soma e, quale « Signore del Regno di Morti », a Yama. Gli altri aspetti corrispondenti con le divinità sumere sono troppo numerosi e riposti per poter essere trattati adeguatamente in questo studio[30]. È sufficiente aver dimostrato l’ampia diffusione e l’origine antica della figura di Khwaja Khizr, come essa ricorre nelle iconografie persiane ed indù. In riferimento all’arte moghul, possiamo citare un'osservazione di H. Goetz che, discutendo le origini del’arte moghul, nota che essa presenta « in parte un'identità assoluta e in parte una stretta parentela con le fonti delle culture dell’ oriente antico e precisamente, in misura considerevole, con quelle del periodo sumerico classico »[31]. Che la figura di Khizr acquisisca una certa indipendenza ed una certa predominanza proprio nell'arte moghul del XVIII secolo – tutte le opere indiane da me esaminate sono in « stile Lucknow » – sembra indicare che una certa rinascita del suo culto si sia prodotta a quell'epoca ed in quella regione, soprattutto se si considera l'adozione del pesce come emblema regale da parte dei principi di Oudh. [Abbiamo qui preso in considerazione uno degli aspetti di al-Khadir, anche se ne esistono altri; di questi importante è senza dubbio quello relativo alla sua funzione iniziatica. Tutti questi altri aspetti sono, beninteso, in perfetta armonia con il primo; ma il loro esame darebbe luogo a considerazioni che non rientrano nei limiti di questo nostro studio. (R.S.T.)] Zul-Qarnain e al-Khadir Il testo è la traduzione dell'articolo Khwāja Khadir and the Fountain of Life, in the tradition of persian and mughal Art, da A.K.Coomaraswamy, What is Civilization and other essays, Golgonooza Press, 1989. L'articolo era già apparso in traduzione italiana nel n. 21-24 della Rivista di Studi Tradizionali, 1966. Il testo pubblicato dalla R.S.T., che non appare essere una traduzione diretta dall'originale inglese, ma da una traduzione in francese effettuata da André Préau e apparsa nel n. 38 della rivista francese Études Traditionelles, si discosta in vari punti dall'articolo pubblicato nella raccolta di saggi citata, il che ci ha indotti a intraprendere una nuova traduzione dall'originale in lingua inglese. Abbiamo tuttavia tenuto presente la traduzione della R.S.T., riportandone note aggiuntive e integrazioni che non compaiono nell'originale in lingua inglese, quando queste apparivano significative.
Si può trovare l'articolo in lingua originale nel sito Web http://www.khidr.org/khwaja-khadir.htm --------------------------------------------------------------------------------

[1] Conformemente al significato del suo nome, “al-Khadir”, l’Uomo Verde
[2]Safidam, probabilmente la corruzione di sarpa-damana, la « dama del serpente » . Riguardo alla leggenda di Niwal Dai, cfr. Temple, Legends of the Panjab, I, pp..414, 418-419.
[3] Cioè un discendente di Pandu, un antenato dei celebri eroi del Mahabharata (nota R.S.T.)
[4] Generalmente chiamato Sanja (forse dal sanscrito samijna). Questo sacerdote (brahmana), che è al servizio di Vasuki ma che agisce contro di lui, fa pensare a Vishwarupa, il purohita (sacerdote familiare) degli Angeli (Taittiriya samhitha, II, 5, I), ed a Ushanas Kavya, il purohita dei Titani (Panchavimsha-brāhmana, VII, 5, 20), che, conquistato dal partito degli Angeli, passa dalla loro parte.
[5] È difficile ammettere che la localizzazione del Pozzo nei domini dell’umano Parikshit sia «corretta» (in realtà, essa si trova alla frontiera dei due mondi, in una foresta ugualmente accessibile a Vasuki e a Parikshit), e dobbiamo pure fare notare che le acque non sono solamente protette da uno spesso lastrone di pietra, ma anche dal potere di Khizr, e che esse non sono acque «correnti». Numerosi sono gli equivalenti vedici della «pesante pietra» che impedisce l'accesso alle acque, ad esempio, nel Rig-Veda: apihitāni ashnā (IV, 28, 5), adrim achyutam (VI, 17, 5), apah adrim (IV, 16, 8), drdhram ubdham adrim (IV. 18.6), paridhim adrim (IV, 16); quando la pietra viene spezzata, « le acque sgorgano dalla roccia fecondata » (srnvantnv apah . . . babrhanasya adreh, Rig-Veda, V, 41, 12), Cfr. Shatapatha-brāhmana, IX, 1, 2, 4, in connessione con la consacrazione dell'altare del fuoco, la quale ha inizio «dalla roccia», poiché è dalla roccia che scaturiscono le acque (ashmano hy apah prabhavanti). Nella ballata, Vasuki corrisponde ad Ahi (Vritra) che, colpito da Indra, continua tuttavia a «crescere in un’oscurità senza sole» (Rig.Veda, V, 32, 6).
[6] Nel racconto qui riassunto è facile riconoscere il tema della lotta tra gli Angeli ed i Titani (deva e asura), tra Indra e Ahi-Vritra, tema che appartiene al « mito della creazione ». Il rapimento di Niwal Dai corrisponde a quello di Vāch (la parola) (cfr. Rig-Veda, I, 130; dove Indra rapisce la Parola » , vācam mushāyati); Khwaja Khizr, il signore delle acque (i « fiumi della vita » vedici) corrisponde a Varuna.
[7] Moghul: « mongola ». È l'arte, talvolta impropriamente chiamata « indo-persiana », che fiorì in India alla corte dei principi mongoli musulmani durante il XVI, XVII e XVIII secolo. (nota R.S.T.)
[8] E. G. Blochet, Peintures hindoues de la Bibliotheque Nationale, Paris, 1926, pl. V e XXIII.
[9] Il mondo sottomarino, la dimora della razza dei Serpenti (ahi, nāga), I'« origine acquatica di Varuna (yonim apyam, Rig-Veda, II, 38, 8), si trovano nelle « tenebre dell'occidente » (apachine tamasi, ibid., IV, 6, 4); questa regione non è illuminata dal sole, essa è “al di là del Falcone” (Jaiminiya Brahmana, III, 268) ma lo splendore delle Acque è eterno (ahar ahar yāti aktur apām, Rig-Veda, II, 30, I),
[10] Vedi: Shaykh Chilli, Folk tales of Hindustan, Allahabad, 1913, pag. 130 e seg., con Ia riproduzione d'una immagine moderna di Khwāja Khizr, rappresentato come un vecchio nell'atto di benedire Mahbūb (tay. XXXIII). La storia del principe Mahbūb è essenzialmente una versione della « Cerca del Graal » condotta a buon fine da un eroe solare, figlio di una vedova ed allevato lontano dal mondo e nell'innocente ignoranza del suo vero stato, proprio come nella leggenda di Parsifal. Mahbūb corrisponde ai vedici Agni e Sūrya; Kassāb (I'usurpatore) a Indra.
[11] O Apsaras, le vergini del Graal.
[12] Le « donne che si lamentano » e l' « incoscienza simile alla morte » del Re Pescatore sono elementi essenziali del mito del Graal.
[13] È l'equivalente del sanscrito mayin, « mago », termine applicabile soprattutto ai titani e, secondariamente, agli angeli principali , particolarmente ad Agni. Gli « antenati » rappresentano gli eroi solari dei cicli precedenti.
[14] Così la « Cerca del Graal » è portata a termine. [ non si può fare a meno di cogliere le strette corrispondenze che la parte finale della storia di Mahbub, un “Figlio della Vedova” (vedi nota 10), ha con il mito di Hiram del rituale massonico del grado di maestro, in particolare nel punto della resurrezione del re assassinato che conclude la ricerca dell’eroe (N.d.T).]
[15] Il Bahrain, un’isola del golfo persico, è stata identificata da molti studiosi con il Dilmun sumerico, dove dimorava il giardiniere Tagtut dopo il diluvio: cfr. Delitztsch, Wo lag das Paradies, pag. 178 e Langdon, Sumerian Epic, pag. 8 e seg.
[16] per la leggenda islamica, altri parallelismi ed ulteriori riferimenti cfr. Encyclopedia of Islam, alle voci Idris, al-Khadir e Khwaja Khidr; Warner, Shah Nama of Firdausi, VI,pagg. 74-78 e 159-162; Hopkins, « The Fountain of Youth », JAOS, XXVI; Barnett, « Yama, Gandharva and Glaucus », Bull. School. Oriental. Studies, IV; Grierson, Bihar Peasant Life, pagg, 40-43; Garcin de Tassy, Mémoire sur des particularités de la religion musulmane dans l'Inde, pagg. 85-89; Wunsche, Die Sagen vom Lebensbaum und Lebenswasser, Leipzig, 1905; Friedländer, Die Chadhirlegende und der Alexander-Roman, Leipzig, 1913.
[17] Cfr. Barnett, op. cit., pagg. 708-710.
[18] Cfr. Rig-Veda, VII, 6, 4 e 7, in cui si parla di Agni che conduce le Vergini (i fiumi della vita) verso oriente dalle « tenebre dell'occidente » (apāchine tamasi) e porta con sé i « tesori della terra » (budhnyā vasūni) «quando si leva il Sole », (uditā sūryasya).
[19] Il reame di al-Khadir, conosciuto sotto il nome di Yūh (che è anche un nome del Sole), dove al-Khadir regna sui santi e gli angeli, si trova nell'Estremo Settentrione; è un «Paradiso terrestre », una parte del mondo umano che è rimasta indenne dalla maledizione conseguente alla Caduta di Adamo (cfr. Nicholson, Studies in Islamic Mysticism, pagg. 82, 124).
[20] Secondo ’Umārah, Khizr è « verde » perché la terra diventa verde al contatto dei suoi piedi.
[21] Khazra, « vegetazione » o «cielo ».
[22] Il profeta Elia con il quale Khizr è spesso identificato.
[23] Cfr. Iskāndar Nāmah, LXIX, 57: «la vegetazione cresce più rigogliosa presso la fontana ; ibid. 22, la sorgente e descritta come una « fontana di luce », il che ha una corrispondenza nel Vendidād, Fargad XXI, dove la luce e l'acqua originano da una fonte comune; cfr. anche il soma vedico, che è insieme luce e vita, una pianta ed un fluido (amrita,l'Acqua della Vita, cfr. Barnett, op. cit., pag. 705, nota I).
[24] Nella Bhagavad-Gitā (X. 31, Krishna è chiamato « il makara dei Jhashās; il makara è perciò considerato come il più importante dei jhashas o mostri delle profondità. La parola makara s'incontra per la prima volta nella Vājasaneyi-samhitā, XXIV, 3, shishumāra nel Rig-Veda, I, 116,18. Per uno studio più completo sul makara nell'iconografia indù (ed in particolare come veicolo di Varuna ed emblema di Kāmadeva) si veda il mio articolo Yakshas, 1931, II, pag. 47 e seg. e le citazioni ivi presenti. Il fatto che per « veicolo » la divinità considerata abbia un « pesce », implica che essa non è sottoposta alle condizioni del movimento locale nell'Oceano illimitato della possibilità universale, così come le ali denotano una indipendenza degli angeli dal movimento locale nel mondo manifestato. [Nella traduzione della R.S.T. la nota reca in aggiunta: “Abbiamo esaminato in particolare il significato di Sharkara (alla lettera: «la pietra »), termine molto importante per la sua connessione con la Porta solare dei mondi, in uno studio dal titolo Svayamatrnna; Janua Coeli, che sarà pubblicato nella nuova rivista rumena Xalmoxis.”]
[25] Su questo argomento vedere anche: René Guénon, Quelques aspects du symbolisme du poisson in Etudes Traditionnelles, fascicolo del febbraio 1936 [riprodotto nel cap. XXII della raccolta po­stuma Simboli della Scienza sacra]. (nota R.S.T.)
[26] Sarre e Herzfeld, Archäologische reise im Euphrat und Tigris gebiet, vol. I, pagg. 13 e 37-38, Berlin, 1911.
[27] Annual Report, Archaelogical Department, Nizam's Domi­nions, 1929-30 (1933), pag. 17 e tav. 11 b. [28] Vedere anche il mio studio Yakshas, II
[29] Ad esempio, nel battistero di Ravenna (Berchem e Clouzot, tay. III e 220); ivi Giordano regge un vaso dal quale si riversano le acque.
[30] A proposito delle divinità sumeriche, si veda S. H. Langdon, Semitic Mythology, cap.II; per il vaso dal quale si riversano le acque ecc., Van Buren, The Flowing Vase and the God with Streams,Berlin, 1933, e per quel che concerne l'India, il mio studio Yakshas, II. Circa i rapporti iconografici tra le rappresentazioni asiatiche del vaso colmo e quelle cristiane della coppa del Graal, cfr. Gosse, Recherches sur quelques représentations du Vase Eucharistique, Ginevra, 1894.
[31] Bilderatlas zur Kulturgeschichte Indiens in der Grossmoghulzeit, 1930, pag. 71 (“teils absolute Identität teils engste Verwandschaft mit solchen der grossen altorientalischen Kulturen, und zwar zu gut Teilen schon der klassischen sumerischen Zeit”).
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