martedì 22 settembre 2009

CRONACA DI UNA FITNAH ANNUNCIATA

Settembre 21, 2009 di ummusama
Assalamu ‘alaykum waRahmatullahi Ta’ala waBarakatuHu
Vi invito inshaAllah a leggere questo interessante articolo, una parola di verità mashaAllah… dal blog
La Luce di Allah:




بسم الله الرحمان الرحيم
Assalamu aleykum wa rahmatullahi wa barakatuhu




E dopo una giornata di festa, eccoci qui, ritornati alla realtà della Terra in cui viviamo, tra insulti, aggressioni, abusi di ogni sorta: l’ultima e forse più grottesca provocazione è stata la gazzarra messa in opera oggi da una seguace di Oriana Fallaci desiderosa di avvelenare ancor di più il clima già irrespirabile in cui vive la Comunità islamica in Italia.
Questa cristiana, di cui non mi interessa pronunciarne il nome per non fargli inutile pubblicità, ha ritenuto di recarsi indisturbata accompagnata dai suoi accoliti di fronte al luogo in cui si celebrava oggi la preghiera dell’Eid al Fitr a Milano, ufficialmente per protestare contro l’uso del “burqa” da parte delle sorelle musulmane, in realtà per altri motivi, che la Procura della Repubblica di Roma accerterà nella Sede appropriata.
Fin qui a parer mio nessuna novità, visto il crescendo di intimidazioni e aggressioni mediatiche cui è sottoposta da anni la nostra Comunità non ha fatto altro che spianare la strada alla sceneggiata di questa donna desiderosa di racimolare qualche voto nell’Italia xenofoba di oggi.
La vera notizia a parer mio è un altra;
nei medesimi istanti in cui la cristiana tentava di imporre forzosamente la sua visione libertina del comportamento esteriore ad altre donne di diversa Fede, presso il Palasport di Sesto S. Giovanni accadeva qualcosa di diametralmente opposto, che tuttavia è collegato in modo evidente.
Mentre migliaia di musulmani si accingevano ad iniziare la Preghiera dell’Eid al Fitr, i Responsabili della Moschea di Sesto S. Giovanni all’insaputa di molti, facevano posizionare di fronte ai fedeli un nutrito gruppo di cristiani tra cui preti e politici locali, i quali uno alla volta recitavano un piccolo sermone buonista incentrato sul solito cocktail del dialogo interreligioso e della convivenza pacifica delle due religioni, obbligando di fatto alla fine della loro comparsata tutti i fedeli musulmani, tranne pochi (con certezza almeno due) ad osservare un minuto di silenzio per i soldati italiani morti a Kabul il 17 Settembre. Alla fine del minuto di silenzio tutti i musulmani battevano le mani in segno di solidarietà con i soldati uccisi nella cosiddetta “missione di pace” in Afghanistan.
Ebbene, tra la due storie c’è un link che non si può né si deve sottovalutare: allorquando i musulmani, come nel caso di Sesto S. Giovanni si mostrano accondiscendenti con coloro che negano Allah (SWT) e il Suo Messaggero (saws) questi ultimi sono disposti ad accettarli mostrandosi docili e tolleranti, a condizione che l’Islam professato dai credenti sia moderato e compatibile con la Società italiana che secondo questa gente avrebbe ancora profonde radici cristiane;
quando invece i musulmani, in questo caso i fratelli di Viale Jenner, si mostrano attaccati al Nobile Corano e alla Sunnah di Muhammad (saws) scatta immediatamente nei cristiani un sentimento di ripulsa, di risentimento e odio viscerale, così forti da evocare in loro il desiderio dello scontro di civiltà, visto che secondo loro noi rappresentiamo una Comunità violenta e retrograda.
La risposta a questa situazione non è affatto difficile, se finalmente avremo il coraggio di ricorrere alla Parola veridica di Allah (SWT) che dice:
“O voi che credete, non sceglietevi confidenti al di fuori dei vostri, farebbero di tutto per farvi perdere. Desidererebbero la vostra rovina; l’odio esce dalle loro bocche, ma quel che i loro petti celano è ancora peggio. Ecco che vi manifestiamo i segni, se potete comprenderli. Voi li amate, mentre loro non vi amano affatto. Mentre voi credete a tutta la Scrittura loro, quando vi incontrano, dicono: “Crediamo”; ma quando son soli, si mordono le dita rabbiosi contro di voi. Di’: “Morite nella vostra rabbia!”. In verità Allah conosce bene quello che è celato nei cuori. Se vi giunge un bene, se ne affliggono. Se un male vi colpisce, gioiscono. Se però sarete pazienti e devoti, i loro intrighi non vi procureranno alcun male. Allah abbraccia tutto quello che fanno” (Corano- Âl ‘Imrân, 118/120)
Quello che è accaduto oggi a Milano non è che la cartina di tornasole della nostra debolezza: più saremo lontani dal vero Tawhid, divisi tra noi e accondiscendenti con coloro che ci odiano, più essi reclameranno dai musulmani obbedienza e sottomissione, isolando i più devoti tra i credenti per creare divisione e panico nelle file dei musulmani.
Dice Allah (SWT): “O voi che credete, se obbedirete ad alcuni di coloro che hanno ricevuto la Scrittura, vi riporteranno alla miscredenza, dopo che avevate creduto” (Corano- Âl ‘Imrân,100)
Questa strategia è chiaramente alla portata del nostro intelletto: dai minbar di molte nostre moschee si ha paura di pronunciare le Verità che i musulmani dovrebbero ascoltare, e rapidamente si sta facendo strada l’idea di un Islam europeo, che parli la lingua italiana nei sermoni, che sia propenso a professare una Religione fin quando essa sarà servile agli interessi economici dell’Italia produttiva: in caso contrario, entrano in azione le fiaccolate dei leghisti, le raccolte firme dei comitati di quartiere, le interpellanze islamofobiche dei politici, e perché no, le aggressioni squadriste dei fascisti.
Pertanto, convinto più che mai che il male che subiamo non proviene da altro che dalle nostre opere, resta una speranza flebile ma ancora viva che mi spinge a chiedere ai miei fratelli e alle mie sorelle: ma cosa stiamo a fare ancora qui in Italia?
Sono fermamente convinto che la permanenza dei musulmani in questa Terra sia deleteria per la nostra Fede e per le nostre vite, e sono altrettanto certo che dovremmo rinunciare ad una porzione di dunya per guadagnarne una ben più benefica nell’Aqirah: per questo invito coloro che ne hanno la possibilità e la forza, di fare ritorno per Allah nella Terra dell’Islam, dove certo troveranno povertà, ostacoli e oppressione, ma forse anche la forza di ritrovare il proprio Islam e la dignità di essere fieri della loro nazione islamica.
E ricordo a tutti, me stesso per primo, la Parola veridica di Allah (SWT) che dice:
“Gli angeli, quando faranno morire coloro che furono ingiusti nei loro stessi confronti, diranno: “Qual era la vostra condizione?”. Risponderanno: “Siamo stati oppressi sulla terra”. (Allora gli angeli) diranno: “La terra di Allah non era abbastanza vasta da permettervi di emigrare?”. Ecco coloro che avranno l’Inferno per dimora. Qual tristo rifugio. Eccezion fatta per gli oppressi, uomini, donne e bambini sprovvisti di ogni mezzo, che non hanno trovato via alcuna…” (Corano-An-Nisa’, 97-98)
Quindi fratelli e sorelle, riflettiamo secondo la nostra Fede in Allah (SWT), in l’obbedienza al Profeta (saws), e in rispetto degli insegnamenti dei Pii Predecessori: ma se domani ci troveremo aggrediti da un’altra cristiana o dal leghista di turno, per favore non lamentiamoci.
Insha’Allah, spero che il messaggio sia arrivato forte e chiaro: che Allah l’Unico Ci perdoni e Ci guidi.
Assalamu aleykum wa rahmatullahi wa barakatuhu

Muhammad Nur al Haqq

Deborah Muamera Callegari Hasanagic

Scritto da:
Luciano Abdel Nûr Cabrini


Deborah Muamera Hasanagic è una ragazza italiana nata a Trento, ora abita a Martignano sulle colline circostanti alla Città, educata cattolicamente ad un certo punto della sua vita inizia ad interessarsi dell'Islam ma solo quando conoscerà il bosniaco Hasanagic, un veterano della guerra serbo-bosniaca, si convertirà all'Islam! In modo intelligente dichiara che la sua conversione fu una vera e propria fuga verso l'Islam chiarendo così il suo rifiuto della vita moderna occidentale che per l'appunto la spinse a "rifugiarsi" con una fuga verso l'Islam presso il Cuore del Profeta(s.a.s.).Nella parte destra del suo Blog dove si presenta alla domanda "chi sono" essa scrive: "Un'italiana ritornata all'Islam" e questo non solo è vero, ma chiarisce anche che il livello di comprensione dell'Islam in questa Donna italiana è elevato! La Religione Primordiale, la Religione che Adamo, con la sua sola esistenza e prima che fosse indotto a peccare era l'Islam, la totale sottomissione al volere divino!Questo Amore verso l'Islam ha portato questa ragazza a partorire con estrema sofferenza due bimbi: Aisha e Nasrallah. Due parti eroici, come per l'appunto eroine erano ritenute presso gli Aztechi le madri che rischiavano e perdevano la Vita durante il parto!
Noi non possiamo far altro che consigliare la lettura del libretto della Sorella Muamera che ora oltre ad essere stato pubblicato in lingua italiana lo è anche in lingua bosniaca, avendone Muamera stessa curato la traduzione.
La sincerità del Cuore di questa ragazza italiana convertita ad una religione che non solo pretende una "ashadu", vale a dire una affermazione di fede nella Unicità di Allah e che Mohammed (s.a.s.) è il Suo Profeta, ma una "pratica" che muta il "ritmo" della nostra vita quotidiana sconvolgendo la "vita occidentale" ha spinto Muamera ad un attivismo tale da renderla guida trainante di una piccola comunità di Donne mussulmane e neomussalmane veramente pregevole.
Anche le TV hanno voluto conquistarsela anche se, a mio parere, senza un nascosto interesse politico cui vorrei che la Sorella del Trentino facesse attenzione.
Sostenete quindi questa Sorella, innanzi tutto acquistando e leggendo il suo libretto!
Editrice Nuovi Autori, 20123, Milano (MI),Via Gaudenzio Ferrari, n°14.
www.editricenuoviautori.it
È possibile direttamente dal Blog di Muamera prenotare il libro
htpp://muamera.blogspot.com

lunedì 21 settembre 2009

Sposa di un prigioniero fisabilillah

Giugno 24, 2009 di ummusama
بسم الله الرحمان الرحيم
Nel Nome di Allah, il sommamente Misericordioso, il Clementissimo


UNA SORELLA, MOGLIE DI UN FRATELLO RECLUSO, RACCONTA…

La lode appartiene ad Allàh e la pace e la benedizione sull’Inviato di Allàh .
Non so da dove iniziare: ad Allàh presento i miei lamenti, piango solo davanti ad Allàh -l’Unico- per la mia disgrazia e il mio dolore.Vorrei parlare con i musulmani perché facciano qualcosa…anche il duà’ per la liberazione dei nostri fratelli detenuti.Mio marito fu arrestato anni fa con l’accusa di essere musulmano e non seppimo nulla di lui finché ci giunse voce che si trovasse presso il carcere di Al-Wàdi Al-Jadìd: fummo contentissimi io ed il mio piccolo bimbo, nato dopo che suo padre fu rinchiuso in galera.Allora il mio bambino parlava e chiedeva di suo padre: «Dov’è andato?», gli rispondevo: «Tornerà domani, inshallah!»… e quando arriva questo ‘domani’ e cosa significa ‘domani’? Lo chiedeva sempre ed io ricacciavo le mie lacrime, così non chiedeva: «Perché piangi?», le trattenevo temendo le sue domande…Quante feste ed occasioni passarono ed il mio piccolo chiedeva di suo padre: «Torna con il vestito nuovo per la festa? – come gli dissi all’aid scorso – …, e arriva il prossimo aid con il mio giocattolo?»…«Perché non fa la rottura del digiuno con noi?»…domande senza risposta, tutti i giorni…ed il mio bambino non si stancava di chiedere ed io non mi infastidivo delle sue domande!!!Andammo a chiedere dove si trova Al-Wàdi Al-Jadìd e venimmo a sapere che è nel sud dell’Egitto.Ci preparammo al viaggio per visitarlo, portammo cibo e vestiti per mio marito, e prendemmo un taxi insieme con altri familiari e parenti di detenuti con mio marito per la stessa accusa.Portai il mio piccolo, perché vedesse suo padre.Arrivammo il giorno successivo, dopo un faticoso viaggio nel deserto, in un posto isolato dove si trova il triste carcere…Dormimmo per strada, poi, arrivati alla porta del carcere, ci chiesero di registrare i nostri nomi e ci fecero aspettare la risposta.Dopo una lunga attesa…alla fine, con la massima freddezza ed indifferenza, ci risposero: «Le visite fra due mesi».Ci presero tristezza e malinconia, addolorati per l’ingiustizia e l’ostentazione di forza…Trascorsero i due mesi, rifacemmo lo stesso viaggio verso lo stesso triste carcere: tre giorni tra l’andata ed il ritorno, in più quasi 300 sterline egiziane [circa 80 dollari] come spese di viaggio…Solo Allàh sa quante sorelle non possono permettersi, per la povertà nella quale vivono, una visita per poter vedere i mariti in prigione, accusati d’Islàm. Chi è così benestante fra queste famiglie da potersi permettere una tale cifra per ogni visita???Solo Allàh sa quanto abbiamo bisogno di questo denaro per pagare l’affitto, oltre alle spese per il cibo, quelle della vita, le medicine,…Grazie ad Allàh -l’Altissimo- che rese facile il nostro viaggio, malgrado le difficoltà…Partimmo nel giorno stabilito ed attendemmo a lungo…seduti per terra che ci permettessero di entrare.Nel frattempo, vedemmo ambulanze entrare nel carcere ed uscirne velocemente.Venimmo poi a sapere che più di 300 fratelli furono trasportati all’ospedale per le precarie condizioni di salute e la diffusione della tubercolosi.Su alcune di queste ambulanze i cadaveri dei fratelli, o fratelli in fin di vita: non sarebbero così morti in prigione [per non attirare alcuna attenzione].I nostri cuori tremavano e speravamo di entrare subito per tranquillizzarci sulla sorte di mio marito e dei suoi fratelli [nell'Islàm].Infine, ci chiamarono ed entrammo.Oh! Non avessi visto…Oh! Fossi morta prima di vedere mio marito castigato ed umiliato…Immaginate! Vidi mio marito entrare nella stanza delle visite piegato su quattro [zampe] come gli animali…Immaginate! La migliore gioventù musulmana condotta da uno spregevole informatore che ordina di camminare come gli animali.I parenti dei carcerati non si poterono trattenere: scoppiavano a piangere, urlavano e vidi, con i miei occhi, il fratello di un detenuto, arrivato da lontano, svenire vedendolo in quelle condizioni. Al ritorno, quest’uomo pianse tutto il tempo…Come si può immaginare la donna che vede il proprio marito arrivare da lei a piedi nudi, con i vestiti da recluso ed i segni delle torture sul suo corpo e non lo vede da anni?!!!E poi, potete immaginare i sentimenti del mio bambino al vedere suo padre in quello stato?!!!Che umiliazione! Cosa ci può essere, oltre a questo, di così offensivo per la dignità dell’uomo?!!!Malgrado tutto ciò, mio marito ed i suoi compagni si trattennero, mostrando il sorriso dello sgozzato: non si erano sottomessi a quei tiranni.Dopo cinque minuti di questa nefasta visita, sentimmo, come uno shaytàn, il suono della sirena avviata dall’informatore.All’improvviso, non vidi più né mio marito, né i suoi compagni di prigionia..perplessità tra i parenti dei detenuti…dov’erano spariti? Dov’erano andati? La terra li aveva inghiottiti?!!!Allungammo i nostri colli per vedere cosa succedeva, e così li vedemmo, mio marito e gli altri fratelli, piegati camminare come le bestie, rientrare, come ne erano usciti, nelle segrete: sentivamo le loro urla e le voci dei criminali che li insultavano nel modo più volgare, ben consapevoli che noi li sentivamo…Uscimmo, noi parenti dei prigionieri, tutti sconvolti…, tutti piangenti…, tutti guardavamo il cielo…Sentii l’anziano padre di un detenuto dire, piangendo: «O signore! Ci basti Tu per gli ingiusti, O Signore!», lo ripeté molte volte, ad alta voce e tutti gli altri [parenti], confusi, dissero: «Fino a quando? O nostro Signore. Fino a quando?».Mio marito e la migliore gioventù d’Egitto in galera per essere torturati ed uccisi…perché tutto questo terribile silenzio della Ummah musulmana? Magari sei morta?? O sei persa?!I vostri fratelli muoiono nelle carceri dei tiranni…CHI LI SALVA? CHI LI LIBERA?O Allàh! Sai che sono una donna debole, che il mio bambino soffre la mancanza di suo padre..O Allàh! Mio marito ed i suoi fratelli [musulmani] muoiono nelle galere di Husni Mubàrak…O Allàh! Gli uomini musulmani li hanno abbandonati…O Allàh! Non c’è forza né potenza se non in Te!O Allàh! Gli uomini musulmani non sono venuti a salvare i loro fratelli, né a liberarli…O Allàh! Facci vedere un Tuo segno per liberare mio marito ed i suoi fratelli!
Confidiamo in Allàh , Egli è il Miglior Garante.

Da: Majallat al-Minhàj, n.2Traduzione a cura di ISLÀMIQRA’

IslàmIqra’ è il sito gestito da Khadijah e Kassim Britel, leggete e diffondete la loro storia, sostenete la campagna per la liberazione del fratello, e soprattutto non dimenticate questa famiglia nei vostri du’a…

domenica 20 settembre 2009


MABRUK EID EL FITR

Pubblicato da Muamera su AN-NUR

'ÎD MUBÂRAK !!





Settembre 19, 2009 di ummusama
بسم الله الرحمن الرحيم
Assalamu ‘alaykum waRahmatullahi Ta’ala waBarakatuHu
Care sorelle e cari fratelli,
‘Ïd Mubârak a voi e alle vostre famiglie,
che Allah Ta’ala accetti il vostro digiuno, le vostre preghiere e tutti i vostri sforzi e vi ricompensi nel Jannah!
Non dimenticateci nei vostri du’a,
wasalam Umm Yahya e famiglia!!
Pubblicato in
ramadan e altri digiuni



Pubblichiamo uno dei tre Commenti!
Bismillah ir Rahman ir Rahim
Assalamu aleykum wa rahmatullahi wa barakatuhu
Al hamdulillah, siamo arrivati alla fine di questo benedetto Ramadan 1430, e chiediamo ad Allah (SWT) di accettare i nostri digiuni, le nostre suppliche, le nostre buone opere.Lo imploriamo di guidarci e di perdonarci e non c’è forza nè potenza se non in Allah.
E abbiamo il dovere di porgere i nostri migliori auguri per primo ai fratelli e alle sorelle che sono fisabilillah, ai prigioneri e agli oppressi colpevoli solo di credere in Allah l’Unico, agli afflitti e a coloro che nelle Prove immense restano saldi nella Fede e in attesa della misericordia e del soccorso di Allah (SWT).
E chiediamo ad Allah di proteggere e benedire la vostra famiglia, lo Shaykh, i vostri benedetti bambini, masha’Allah.E mi sembra opportuno concludere il mio augurio per l’Eid con una meravigliosa invocazione:
“Signore, non ci punire per le nostre dimenticanze e i nostri sbagli. Signore, non caricarci di un peso grave come quello che imponesti a coloro che furono prima di noi. Signore, non imporci ciò per cui non abbiamo la forza.Assolvici, perdonaci, abbi misericordia di noi. Tu sei il nostro patrono, dacci la vittoria sui miscredenti “. (Al Baqara, 286)
Assalamu aleykum wa rahmatullahi wa barakatuhu
Muhammad

domenica 13 settembre 2009

Leonid Mlecin,Perchè Stalin creò Israele,Sandro Teti,Roma 2008

Recensione di Claudio Mutti



Il 26 novembre 1947 il delegato sovietico all'ONU votava a favore della Risoluzione 181 dell'Assemblea Generale, che stabiliva la creazione di un'entità politica ebraica sul territorio palestinese, realizzando così il contenuto della Dichiarazione Balfour. Assieme all'URSS espressero voto favorevole i delegati di Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia. Se i delegati di questi cinque paesi avessero votato contro o si fossero astenuti, il risultato sarebbe stato di ventotto contro ventotto e la Risoluzione 181 sarebbe stata respinta.Il debito dell'entità sionista nei confronti del "campo socialista" fu ufficialmente riconosciuto da Ben Gurion, che dichiarò all'ambasciatore sovietico: "Il popolo di Israele è riconoscente all'Unione Sovietica per il sostegno morale che gli ha prestato all'ONU. (...) L'esercito ha ricevuto dalla Cecoslovacchia e dalla Jugoslavia una grande quantità di armi, inclusa l'artiglieria di cui eravamo del tutto privi all'inizio della guerra" (pp. 137-138). Anche Golda Meyerson, alias Golda Meir, rievocando la guerra del 1948, riconoscerà il peso determinante del sostegno sovietico: "Non sappiamo se avremmo potuto resistere senza le armi e le munizioni comprate in Cecoslovacchia e trasportate attraverso la Jugoslavia e i Balcani, in quel terribile inizio della guerra, prima che la situazione mutasse nel giugno del '48. Durante le prime sei settimane potemmo contare sulle mitragliatrici e le munizioni che l'Haganah era riuscita a comprare nell'Europa dell'Est, mentre perfino l'America aveva messo l'embargo sull'invio di armi in Medio Oriente. Nonostante in seguito l'URSS ci abbia duramente avversato, il riconoscimento di Israele da parte sovietica fu allora importantissimo per noi. Per la prima volta, dopo la Seconda guerra mondiale, le due maggiori potenze sostennero lo Stato ebraico di comune accordo" (p. 123). Ancora nel dicembre 1948, l'appoggio fornito dall'URSS era totale: "I russi - riferì a Tel Aviv il ministro degli Esteri sionista Shertok - al Consiglio di Sicurezza si comportano non solo come nostri alleati, ma addirittura come nostri emissari. Si assumono qualsiasi compito" (p. 145).Perché Stalin volle la nascita di un'entità politico-militare ebraica sul suolo della Palestina? Perché la diplomazia sovietica operò a sostegno dei sionisti? Perché fu proprio un paese soggetto a Mosca, la Cecoslovacchia, a rifornire di armi i sionisti, ad incaricarsi dell'addestramento dei loro piloti e ad agevolare i terroristi coinvolti nell'assassinio del mediatore dell'ONU? Secondo Leonid Mlecin, ex vicedirettore del quotidiano "Izvestija", l'intenzione dei dirigenti sovietici era di "usare lo Stato ebraico in funzione antioccidentale" (p. 101), impedendo che l'Inghilterra consegnasse la Palestina alla Transgiordania e vi installasse poi le proprie basi militari. Lo spiegò subito a Truman il teorico statunitense della dottrina del containment, George Kennan, non appena fu chiaro che Stalin cercava di sfruttare le esitazioni statunitensi al fine di creare un contrasto fra il movimento sionista e il suo naturale alleato americano. "Se il piano di spartizione dovrà essere applicato con la forza - scriveva Kennan nel gennaio 1948 - l'URSS avrà tutto da guadagnare, perché troverà, in tale situazione, il pretesto per poter partecipare al 'mantenimento dell'ordine' in Palestina. E se le truppe sovietiche entreranno in Palestina per consentire l'attuazione della spartizione, gli agenti comunisti troveranno una base eccellente per estendere le loro attività sovversive, svolgere la loro propaganda, tentare di abbattere gli attuali governi arabi e installare anche lì delle 'democrazie popolari'. Forze sovietiche in Palestina sarebbero una minaccia diretta per le nostre posizioni in Grecia, Turchia, Iran, una minaccia a lungo termine per tutto il Mediterraneo" (p. 11).Il cambiamento di rotta ebbe luogo nel novembre del 1948, quando Stalin firmò una risoluzione segreta della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ordinava lo scioglimento immediato del Comitato Antifascista Ebraico costituito nel 1941, il sequestro dei suoi documenti e la chiusura dei suoi organi di stampa. Già nel mese di marzo un rapporto del generale Viktor Abakumov, ministro della Sicurezza Statale, aveva denunciato la posizione filoamericana del Comitato: "Tra i nazionalisti ebrei arrestati di recente, il Ministero della Sicurezza Statale ha individuato molte spie americane e inglesi, ostili al regime sovietico e dedite ad attività sovversive" (p. 146). Il processo contro il Comitato Antifascista Ebraico si concluderà nel 1952 con la fucilazione degl'imputati.Il 7 febbraio del 1949 l'entità sionista ricevette la prima comunicazione formale del mutato orientamento del governo sovietico. Il viceministro Valerian Zorin ammonì ufficialmente Golda Meir protestando per le attività illegali della missione israeliana a Mosca, "del tutto incompatibili con un atteggiamento leale nei confronti dell'Unione Sovietica" (p. 149). I rapporti continuarono a peggiorare, finché nel 1953, in seguito all'affare dei medici avvelenatori ebrei e all'attentato terroristico ai danni della rappresentanza sovietica a Tel Aviv, l'URSS ruppe finalmente le relazioni diplomatiche con l'entità sionista.In che cosa quest'ultima aveva deluso le aspettative dell'URSS? Secondo Mlecin, "Stalin permise l'esodo degli ebrei dai paesi dell'Europa orientale verso Israele e li rifornì di armi, perché sperava che quegli esuli, provenienti da paesi diversi e che parlavano lingue diverse, si sarebbero uniti in nuove brigate internazionali e avrebbero ascoltato la voce di Mosca" (pp. 191-192). Ma la Palestina non era la Spagna, e non tanto per la risibile ragione dei "principi democratici sui quali lo Stato ebraico era stato edificato" (p. 192), quanto per il fatto che i sionisti la consideravano come un paese da espropriare e da colonizzare "in proprio".In ogni caso, Mlecin può dire che Stalin "in un certo senso avesse ottenuto ciò che voleva: l'Inghilterra, abbandonando la Palestina, aveva compromesso la propria posizione in Medio Oriente" (p. 191). Non solo, ma gli Stati Uniti non le erano subentrati nel controllo della regione, sicché all'URSS si presentavano nuove opportunità nel vuoto di potere che si era venuto a creare. Fu così che cominciò la manovra di avvicinamento dell'URSS ai paesi arabi.Oggi, dopo sessant'anni di occupazione del territorio palestinese, con tutto quello che ciò ha comportato in termini di ingiustizia, di oppressione, di terrorismo, di crimini, di ricatti, di minaccia perenne alla pace del Vicino Oriente e del mondo, il sostegno dato da Stalin alla nascita dell'entità sionista si rivela come la mossa peggiore di tutta la sua carriera. Anzi, se proprio si vuol continuare a parlare dei "crimini di Stalin", bisogna necessariamente concludere che questo è stato di gran lunga il peggiore di tutti.
Pubblicato da C.Mutti su http://www.claudiomutti.com/

Palestina, provincia d'Eurasia



Palestina: una questione tutta “occidentale”
Scritto da Tiberio Graziani su Eurasia 2/2009

Quella che la storiografia e la letteratura politologica contemporanee definiscono impropriamente come “questione palestinese” in riferimento alla tuttora irrisolta vicenda vicino orientale, che contrappone la popolazione palestinese allo stato ebraico, è in realtà un agglomerato di questioni politiche e geopolitiche, specificamente occidentali. È peculiare della pubblicistica politica e della letteratura accademica europee ed anglostatunitensi introdurre nel dibattito scientifico e politico concernente aree extraoccidentali definizioni fuorvianti, le quali, oltre ad esprimere una presunta superiorità occidentale, condizionano, pregiudicandole, anche l’analisi e la ricerca. Un caso esemplare di tale attitudine intellettualmente disonesta, giacché piega ai fini politici e di potere la valutazione di dati oggettivi e l’analisi della realtà, è fornito dalla cosiddetta Questione d’Oriente, di cui è parzialmente figlia quella “palestinese”.
In un arco temporale che va dalla guerra russo-turca del 1768-1774 fino ai primi anni del novecento, le Cancellerie europee, in particolare quella britannica, utilizzavano l’espressione “la Questione d’Oriente” per riferirsi alla politica che i rispettivi governi conducevano verso l’impero ottomano. Dietro il sintagma, apparentemente neutro, di una questione considerata in Occidente pregiudizialmente orientale, si veicolava l’idea che i problemi interni allo spazio geopolitico amministrato dalla Sublime Porta, ormai in declino, potessero essere risolti solo con il concorso ( e a beneficio) delle Potenze europee.
Il dibattito sulla “questione d’Oriente” e soprattutto le azioni volte a “risolverla” celavano un preciso disegno strategico: quello di estendere l’influenza del Vecchio Continente su alcuni territori ottomani. Le Potenze europee, con in testa la Gran Bretagna, miravano, infatti, a scardinare dal di dentro l’ecumene ottomana. Facendo leva sulle tensioni interne, vellicando e sostenendo, ad esempio, i particolarismi nazionali in Bulgaria, in Romania e nella penisola balcanica (Albania, Serbia, Montenegro, Grecia), vero “ventre molle” dell’impero, e perfino intervenendo nelle dispute tra Istanbul ed alcuni suoi governatori e viceré, come nel caso dell’Egitto di Mehmet Alì, le Potenze europee riuscirono, nel corso di quasi un secolo, a erodere gran parte dell’”estero vicino” dell’edificio geopolitico ottomano. La Questione d’Oriente venne risolta, come noto, solo al termine della Prima guerra mondiale. Con la dissoluzione dell’Impero e la sua spartizione tra le Potenze vincitrici, apparve chiaro che quella “d’Oriente” era in primo luogo una “questione dell’espansionismo inglese” nel Vicino e Medio Oriente; l’espressione indicava un vecchio progetto britannico: l’eliminazione dell’Impero ottomano.
Anche quella palestinese è una questione tutta occidentale. Essa comprende, ed occulta, almeno cinque “sottoquestioni” che possiamo, per comodità metodologica, suddividere in due gruppi, uno storico, databile dal 1881 al 1948, ed uno contemporaneo che va dall’autoproclamazione dello stato sionista, avvenuta il 14 maggio 1948, sino ai nostri giorni. Le due questioni storiche riguardano:
- una “questione ebraica” o del “sionismo pre-statale” (1), relativa alle prime immigrazioni ed ai primi insediamenti di Ebrei – provenienti dall’Europa – in Palestina (1881-1903);
- una “questione inglese”, relativa alla penetrazione economica, politica e militare della Gran Bretagna nel Vicino Oriente (1922-1948).
Mentre quelle contemporanee concernono:
- una “questione sionista” – fondata sul mito laico e religioso ad un tempo della Terra Promessa – che riguarda i seguenti tre ambiti: a) la politica demografica attuata (2) con le ricorrenti ondate immigratorie (1904-2009); b) la costruzione dell’apparato statale e del complesso militare e industriale israeliano (3); c) le relazioni dei vertici dello stato ebraico con le organizzazioni internazionali pro-israeliane presenti in Europa e in special modo negli USA (4).
- una “questione israeliana” relativa: a) alla costruzione dell’identità “nazionale” israeliana e di una “religione civile nazionale” imperniata sull’olocausto (5); b) al consolidamento dell’apparato culturale, statale e del complesso militare e industriale israeliano, c) alla “pulizia etnica” a danno della popolazione palestinese (6); d) all’espansionismo dello stato ebraico strategicamente volto a realizzare, secondo l’augurio di uno dei padri fondatori, Ben Gurion,
“il grande Israele, dal Nilo all’Eufrate”.- una “questione statunitense” concernente la penetrazione economica, politica e militare degli USA nel Mediterraneo e nel Vicino e Medio Oriente, imperniata sulla sua special relationship con Tel Aviv (7).
In termini geopolitici, l’espressione “questione palestinese” nasconde anch’essa, dunque, come quella d’Oriente, un progetto ben definito: quello dell’ eliminazione ed espulsione dei Palestinesi dalla loro terra, quale precondizione per l’esistenza e l’espansione dello stato ebraico.
Palestina provincia dell’Impero ottomanoPer un lungo periodo storico che copre sostanzialmente l’intera età moderna e parte di quella contemporanea, la Palestina non costituisce uno specifico caso geopolitico. Infatti, per la ragguardevole durata di circa quattro secoli, a far data dalla sua inclusione nell’Impero ottomano a danno dei Mamelucchi, cui viene sottratta nel 1517, fino alla Dichiarazione Balfour del 1917, la Palestina è una provincia la quale, grazie alla stabilità che Istanbul assicura a tutta l’ecumene imperiale, conosce un grande sviluppo economico, sociale e culturale.
In questo considerevole arco temporale, le uniche tensioni che la riguardano e degne di essere segnalate non durano neanche una decina di anni, esattamente dal 1831 al 1840, quando essa cade sotto il controllo egiziano, a causa di una controversia sorta tra il sultano Mahumud II e pascià Mehmet Alì d’Egitto. La disputa, relativa ai territori siriani (comprendenti Palestina, Transgiordania, Libano e Siria) che il futuro sovrano egiziano reclamava quale compenso per l’aiuto offerto alla Sublime Porta in occasione della guerra contro la Grecia (1821), viene ricomposta nel 1840, dopo la morte del sultano, per l’intermediazione di Prussia, Austria, Russia e Gran Bretagna con la Convenzione di Londra.
Immigrazione ebraicaSebbene sia giusto, per un corretta analisi geopolitica della Palestina contemporanea, partire dagli Accordi Sykes – Picot ( 16 maggio 1916) dalla Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) e dal Trattato di Sévres (10 agosto 1920), occorre però ricordare il fondamentale ruolo svolto dai flussi immigratori e dagli insediamenti ebraici di fine ottocento nel determinare le successive tensioni locali e parte della attuale prassi espansionista dello stato sionista.
Nel 1880 la comunità ebraica in Palestina è poco consistente, essa conta circa 24.000 individui. Ma a partire proprio da quell’anno un considerevole flusso di ebrei provenienti principalmente dall’Europa centrale e orientale (Germania e Russia) si dirige verso la Palestina. La crescente immigrazione ebraica, l’acquisto di terre ed edifici da parte di ebrei europei in uno specifico territorio dell’Impero ottomano preoccupano la Sublime Porta tanto da spingerla, nel novembre del 1881, ad emanare alcune misure restrittive relative ai nuovi insediamenti ebraici in Palestina. Le norme stabilivano che gli Ebrei immigrati avevano il diritto di istallarsi in tutto il territorio dell’impero, fuorché in Palestina, al fine di non stravolgere gli equilibri demografici locali e, soprattutto, di non costituire un potenziale elemento di tensione in una provincia ottomana, considerata delicata a ragione del suo significato simbolico e religioso per i credenti delle tre religioni monoteiste. Tuttavia, il sostegno di alcuni paesi europei all’immigrazione ebraica in Palestina e la crescente affermazione del sionismo come movimento internazionale organizzato, associandosi all’inefficienza dell’amministrazione ottomana nel controllare ed impedire i flussi immigratori, inficiano la politica di contrasto all’immigrazione ed all’insediamento ebraico. In meno di trenta anni, dal 1880 al 1908, la popolazione ebraica passa da 24.000 a circa 80.000 unità, cioè, come riporta lo storico Robert Mantran (8), dal 5% al 10% dell’intera popolazione presente in Palestina.
L’immigrazione ebraica in Palestina prosegue in modo sorprendente sotto il mandato inglese (1922–1948), intensificandosi dal 1948 fino ai nostri giorni. Attualmente la popolazione ebraica in Palestina è stimata essere tra i 5.500.000 e i 6.000.000.
Il temuto stravolgimento demografico paventato dalla Sublime Porta si è avverato con conseguenze catastrofiche per le popolazioni locali: i palestinesi autoctoni vengono progressivamente privati della loro terra e in gran parte espulsi dai territori del neostato ebraico.
Nel 1951, secondo fonti ONU (General Progress Report and Supplementary Report of the United Nations Conciliation Commission for Palestine) il numero di Palestinesi espulsi assommava a 711.000 unità; oggi la cifra dei palestinese con statuto di profughi (9) è pari a circa 4.600.000.
La Palestina nel sistema bipolareNegli ultimi anni del mandato britannico, nel nuovo quadro geopolitico venutosi a formare in seguito agli esiti della Seconda guerra mondiale, la Palestina diventa un obiettivo strategico sia degli USA che dell’URSS. Washington e Mosca (10), per motivi diversi ma finalità concorrenti, sostengono pertanto la creazione, il consolidamento e l’espansione del neostato sionista. I nuovi colossi mondiali intendono, infatti, tramite il “dispositivo” israeliano, estendere la propria influenza nel Vicino Oriente.
Stalin ritiene, in un primo tempo, all’incirca dal dicembre 1947 al settembre-ottobre dell’anno successivo, che uno stato ebraico virtualmente “socialista” e soprattutto antibritannico, impiantato nel Mediterraneo, sia utile agli scopi della rivoluzione mondiale in generale e dell’URSS in particolare. Di lì a breve, tuttavia, il Cremlino cambia repentinamente opinione. Il mutamento dell’URSS nei confronti del nuovo stato degli Ebrei si manifesta infatti già negli ultimi mesi del 1948, all’arrivo a Mosca del primo ambasciatore israeliano, Golda Meir. Il lavoro diplomatico della Meir e dei suoi successori, Mordechai Namir (Nemirovskji) e Shmuel Eliashiv, avevano reso palese la fitta rete di interessi tra i vertici dello stato ebraico, alcuni importanti dirigenti sovietici prosionisti, prevalentemente di origine ebraica, e i sionisti statunitensi artefici della special relationship instauratasi tra Tel Aviv e Washington. I rapporti tra Mosca e Tel Aviv si deteriorano ulteriormente negli anni successivi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel febbraio del 1953 (11).
Per Stalin, dunque, il rafforzamento dello stato ebraico in Palestina a danno degli Arabi, si configurava effettivamente per quello che era: un tassello della strategia del containement ed un rafforzamento dell’influenza statunitense nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente.
Anche gli USA ritengono la Palestina, a motivo della sua posizione geografica, una importante base strategica destinata a controllare, insieme alla Grecia ed alla Turchia, che aderiscono alla NATO nel 1952, la parte orientale del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. Per tale principale motivo, oltre che per le pressioni esercitate dalla Israel lobby sul Dipartimento di stato e sul Congresso, Washington sostiene Israele, ritenendolo l’alleato più fedele dell’intera regione. Il sostegno statunitense allo stato ebraico, a causa delle perturbazioni che la presenza di quest’ultimo suscita nelle masse arabe, ha anche il cinico fine di mantenere, con evidenti scopi ricattatori, in uno stato di tensione permanente alcuni Paesi arabi, principalmente l’Egitto, la Siria e la Giordania; uno stato di tensione che verrà, come vedremo in seguito, machiavellicamente sfruttato, ai fini della colonizzazione israeliana di ulteriori territori, nel giugno del 1967, quando le discussioni diplomatiche tra arabi e israeliani cedettero la mano alle armi.
Sebbene Israele sia un alleato ufficiale di Washington sin dal 1950, all’inizio della guerra di Corea, è con la crisi di Suez del 1956, e la partecipazione alla guerra contro Nasser, che lo stato israeliano si consacra, a dispetto delle intese intercorse tra Tel Aviv, Londra e Parigi, come partner insostituibile degli USA nel Vicino Oriente. Da quel momento in poi, le questioni geopolitiche palestinesi assumono un ruolo sempre più rilevante nell’ambito della politica estera statunitense e nelle dottrine geopolitiche che la determinano. Gli USA appoggiano il progetto espansionista e neocolonialista dello stato ebraico e di conseguenza anche la politica di espulsione degli abitanti non ebrei che i vertici israeliani perseguono con costanza e determinazione fin dal 1948. Al termine degli anni cinquanta, “Israele è integrata segretamente in un’alleanza geopolitica proamericana che comprende la Turchia, l’Iran e l’Etiopia” (12). Una chiara manifestazione del sostegno americano a Tel Aviv ebbe luogo nel 1967, in occasione della guerra dei sei giorni, quando israeliani e arabi si fronteggiarono militarmente.
Per il politologo Jean-François Legrain “la guerra arabo-israeliana detta dei ‘sei giorni’ (5-6 giugno 1967) si inserisce nel (…) progetto di espansione/espulsione. Una volta ancora, – nota lo stesso autore – la storiografia classica aveva sottolineato il carattere fondamentalmente difensivo di questa guerra. Alcune testimonianze rese pubbliche trenta anni dopo, tra cui quella dell’ ‘eroe’ israeliano, il generale Moshe Dayan (1915-1981), annullano questa versione ed evocano una politica israeliana deliberata di provocazione che aveva lo scopo di gettare gli Stati arabi in una guerra persa in anticipo che avrebbe permesso l’occupazione dei territori “ (13).
“Dopo il 1967”, sottolinea Aymeric Chauprade, a proposito dei rapporti tra Israele e Stati Uniti, “gli Americani possono legittimamente considerare Israele come un atout di grande qualità nella guerra fredda. Il piccolo stato ebraico è diventato una vera potenza regionale che, per di più, ha dimostrato la capacità di colpire due alleati di Mosca (l’Egitto e la Siria) e di chiudere la rotta del canale di Suez, bloccando l’approvvigionamento sovietico a Hanoi” (14).
La stretta relazione che lega Washington e Tel Aviv si rafforza per tutto il periodo della Guerra fredda. In questo arco temporale la resistenza dei Palestinesi, rappresentati principalmente dalla Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), attraversa fasi alterne che non conducono a soluzioni definitive. Il cosiddetto “processo di pace” sponsorizzato degli USA si rivela una beffa per i palestinesi, le cui condizioni peggiorano sempre di più.
La Palestina nell’istante unipolareCon il crollo del Muro di Berlino ed il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, ormai unica potenza incontrastata a livello planetario, impongono un nuovo ordine globale che prevede, in primo luogo, la organizzazione del Vicino e Medio Oriente. Le tappe principali del riordino statunitense sono: la Guerra del Golfo (1990-1991), l’occupazione dell’Afghanistan (2002) e l’aggressione all’Iraq (2003). Successivamente, nel 2004, gli strateghi neocon di Washington inseriscono il Vicino e Medio Oriente nell’ambito di un progetto ben più ambizioso denominato Grande Medio Oriente. Questo progetto, che ripropone alcune linee strategiche manifestatesi intorno al 1975, nell’ambito degli Accordi di Helsinki, prevede la “balcanizzazione” di una vasta area che va dal Marocco fino alle repubbliche centroasiatiche, vale a dire la sua riorganizzazione lungo frontiere etnico-confessionali. Con tale progetto geopolitico, Washington intende contenere la nuova Russia di Putin, accaparrarsi le risorse energetiche in Asia centrale e mantenere in uno stato di tensione e ricatto permanenti – nel quadro della dottrina dello scontro di civiltà – gran parte delle popolazioni eurasiatiche. In questo quadro di riferimento, per la Palestina è prevista la soluzione detta dei “due stati”, uno israeliano, che occuperebbe la quasi totalità del territorio palestinese ed uno – a sovranità limitata e privato delle risorse idriche – guidato dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Tale soluzione, qualora si realizzasse, renderebbe formalmente ufficiale il processo di “bantustanizzazione” già in atto dal lontano 1948, con la conseguenza di acuire ulteriormente, col passar del tempo, le tensioni tra la popolazione palestinese e lo stato colonialista ebraico.
In realtà il disegno strategico di Tel Aviv sembra mirare piuttosto all’espulsione totale delle popolazioni non ebraiche residenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. I Palestinesi espulsi, secondo tale progetto, dovrebbero far parte di una Confederazione giordano-palestinese (15).
L’era multipolare: Palestina provincia d’EurasiaNel nuovo sistema multipolare, escludendo l’ipotesi di un’azione militare condotta da Israele e dagli USA contro l’Iran, difficilmente i progetti israeliani di espulsione e di ampliamento della sovranità di Tel Aviv sulla Cisgiordania e sulla striscia di Gaza potranno realizzarsi; giacché, oltre gli attori principali dell’area in questione, Turchia, Giordania, Siria, Egitto, ed Iran, occorre considerare anche quelli globali, cioè la Russia e la Cina. Mosca e Beijing hanno tutto l’interesse a contenere l’espansione di Israele e ad impedire il suo radicamento nel Vicino Oriente. Un Israele militarmente ed economicamente forte costituirebbe, per le due potenze eurasiatiche, nel medio periodo, una reale minaccia strategica, stante la stretta relazione che lega Tel Aviv a Washington e l’influenza della Israel lobby nella conduzione della politica estera statunitense. Israele, infatti, oltre a costituire un punto nodale del progetto denominato Nuovo Grande Medio Oriente, teso ad assicurare il predominio nordamericano nell’intera area, ambisce a diventare l’unica potenza regionale. Per tale principale ragione, lo stato ebraico ostacola e perturba le relazioni che pazientemente la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese, in una prospettiva di integrazione eurasiatica, intessono e sviluppano con gli altri attori regionali, in particolare con la Turchia di Erdogan, l’Iran di Ahmadinejad e la Siria di Bashar al-Asad. Il consolidamento e l’ulteriore sviluppo di tali relazioni, segnatamente sul versante della difesa e della sicurezza regionali, costituirebbero un realistico e promettente inizio per la soluzione delle questioni sorte con la creazione dello stato ebraico, cioè per il ritorno della Palestina, quale provincia d’Eurasia, nell’alveo di un contesto geopolitico unitario.
Note
1. Eli Barnavi, Storia d’Israele, Bompiani, Milano 2005, p. 138.
2. Fréderic Encel, François Thual, Géopolitique d’Israël, Édition du Seuil, Paris, 2006, pp. 23-25.
3. Diana Carminati, Alfredo Tradardi (a cura di), Boicottare Israele, Derive Approdi, Roma 2005.
4. John J. Mearsheimer, Stephen M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007.
5. Secondo Bruno Guigue, la ”resurrezione dell’olocausto”, manifestatasi nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, costituì un avvenimento culturale di primaria importanza per rafforzare i già stretti legami tra Washington e Tel Aviv ed influenzare ulteriormente l’opinione pubblica statunitense a favore di Israele, Aux origines du conflit israélo-arabe. L’invisible remords de l’Occident, L’Harmattan, Paris 2008, p. 135-139. Per Norman Finkelstein, controverso autore de L’ industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Rizzoli, Milano 2004, invece, il tema dell’olocausto divenne uno strumento di pressione e propaganda a sostegno di Israele subito dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967.
6. Ilan Pappe, La pulizia etnica dei palestinesi, Fazi Editore, Roma 2008.
7. Per l’orientalista francese di origine ebraica, Maxime Rodinson (1915-2004), l’insediamento della colonia ebraico-sionista e la formazione dello stato di Israele nel 1948 sono il risultato “di un processo che si inserisce perfettamente nel grande movimento dell’espansione europeo-americana dei secoli XIX e XX per popolare o dominare economicamente e politicamente gli altri popoli”, citazione tratta da Serge Cordellier (a cura di), Le dictionnaire historique et géopolitique du 20e siécle, La Découverte, Paris 2007, p. 574. Per un approfondimento del pensiero di M. Rodinson riguardo alla questione israeliana vedere il suo Israele e il rifiuto arabo, Einaudi, Milano 1969.
8. Robert Mantran, Storia dell’impero ottomano, Argo, Lecce 2000, p. 588.
9. Dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, UNRWA, consultabili presso il sito internet ufficiale: http://www.un.org/unrwa.
10. Gli USA riconoscono Israele de facto, appena “dieci minuti dopo la proclamazione dello Stato, quando a Washington era passata la mezzanotte”, (cfr. Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti editore, Roma 2008, p. 128) , il riconoscimento de jure avverrà nel gennaio del 1949. Mosca riconosce lo stato sionista il 18 maggio, quattro giorni dopo l’autoproclamazione della nuova entità statale.
11. Sui complessi rapporti tra Stalin, il movimento sionista e Israele si rimanda a Leonid Mlecin, op.cit.
12. Aymeric Chauprade, Chronique du choc des civilisations, Éditions Chronique-Dargaud s.a., Pèrigueux 2009, p. 143.
13. J.-F. L. (Jean François Legrain), Question palestinienne, in Serge Cordellier (a cura di), op.cit., p. 575.
14. Aymeric Chauprade, op. cit., p. 143.
15. Benny Morris, Due popoli, una terra, Rizzoli, Milano 2009, pp. 190-197.


Pubblicato su Eurasia n°2 del 2009.

lunedì 7 settembre 2009

EBREI,NON SEMITI

Fasi espansive del Regno dei Cazari

"Ciò sembra indicare (...) che durante il Medioevo la maggioranza di coloro che professavano la fede ebraica erano cazari. Gran parte di questa maggioranza emigrò in Polonia, Lituania, Ungheria e nei Balcani, dove fondò quella comunità ebraica orientale che a sua volta divenne la maggioranza predominante dell'ebraismo mondiale"
(Arthur Koestler, La tredicesima tribù, Torino 2003, p. 119)



Nell'ultimo anno del governo nazionalcomunista romeno, in seguito alla costruzione di una diga di sbarramento sul fiume Küsmöd il villaggio transilvano di Bözödújfalu rimase sommerso e i suoi abitanti vennero dispersi. Gli antenati della popolazione di quel villaggio, cristiani unitari (ovvero "antitrinitari") fin verso la fine del XVI secolo, avevano adottato elementi d'origine giudaica e avevano assunto il nome di sabbatariani; nel 1869 si erano ufficialmente convertiti al giudaismo rabbinico e avevano costruito una sinagoga (1). Se gli Ebrei di Bözödújfalu erano stati il prodotto della lenta conversione di un'esigua minoranza di Székely (popolazione ungarofona di origine turcica insediatasi sui Carpazi orientali verso gl'inizi del sec. XI), gli Ebrei di un'altra cittadina transilvana, Sfântu Gheorghe (ungh. Sepsiszentgyörgy), affermano di discendere da mercanti turchi giudaizzati, i quali, trasferitisi in quel luogo per sottrarsi alla conquista russa, vi sarebbero rimasti anche dopo il 1360, quando Luigi I d'Ungheria ordinò l'espulsione degli Ebrei dai suoi territori (2). Sempre in Transilvania, tra i fiumi Mureş e Someş, la toponomastica ungherese annovera Kozárd e Kozárvár, due insediamenti che dovrebbero essere di fondazione cazara; ma toponimi del tipo Kozár e Kazár si trovano anche in diverse zone dell'Ungheria (3). Questi ed altri indizi hanno indotto molti studiosi a ritenere che l'elemento cazaro abbia rappresentato un importante ingrediente di quel miscuglio etnico che è la popolazione ebraica dell'Ungheria e della Transilvania: "tra gli Ebrei, quelli in cui è più forte la componente cazara [the most strongly Khazar] sono indubbiamente gli Ebrei ungheresi, discendenti degli ultimi Cazari che fuggirono in Ungheria tra il 1200 e il 1300, dove furono accolti dai loro antichi vassalli, i re ungheresi" (4).
Questo cenno ad un'antica condizione vassallatica dei progenitori degli Ungheresi si chiarisce alla luce delle vicende che precedettero l' "occupazione della patria" (honfoglalás), cioè l'insediamento dell'orda guidata da Árpád nel bacino carpato-danubiano. Gli antenati degli Ungari si erano allontanati dai territori dell'impero cazaro, compresi tra il Caspio, il Caucaso e il Mar Nero; aggirata la Palude Meotide (l'odierno Mar d'Azov), erano passati nella regione detta Lebedia, tra il Don e il Dnestr; poi, a causa della pressione esercitata su di loro da parte dei Peceneghi (un altro popolo turcico), si erano spostati verso sud-ovest prendendo stanza nella "Terra tra i fiumi" (Etelköz), cioè tra il Dnepr e il Basso Danubio. Attaccato da Peceneghi e Bulgari, nell'896 il popolo di Árpád dilagò nella pianura solcata dal Tibisco e dal Danubio.
I nuovi arrivati erano organizzati in una confederazione tribale chiamata On-Ogur ("Dieci Frecce"): oltre alle sette tribù ugriche, tra le quali primeggiava quella magyar di Árpád, la compagine comprendeva anche tre tribù turciche chiamate kabar. Sembra che l'etnonimo kabar significhi "ribelli", in quanto queste tribù si erano presumibilmente ribellate ai Cazari: "alcuni studiosi ipotizzano che la rivolta dei Cabari contro i Cazari fosse stata motivata dal filogiudaismo del re Obadia, ma non esiste nessuna prova definitiva che confermi questa opinione" (5). Altri ancora sostengono che una delle tribù cabare stanziatesi fra il Danubio e il Tibisco professasse il giudaismo (6).
Come in Ungheria e in Transilvania, così anche in Ucraina e in Polonia la toponomastica rivela antichi insediamenti cazari. "In Ucraina e in Polonia - scrive Koestler - esistono parecchi nomi di antiche località, che derivano da 'cazaro' o da 'zhid' (ebreo): Zydowo, Kozarzewek, Kozara, Kozarzow, Zhydowska Vola, Zydaticze ecc. Può darsi che questi fossero un tempo dei villaggi, o anche solo degli accampamenti temporaneamente occupati da comunità cazaro-ebraiche nel loro lungo cammino verso l'occidente. Nomi di località analoghi si possono anche trovare nei monti Carpazi e Tatra e nelle province orientali dell'Austria. Si ritiene che persino gli antichi cimiteri ebraici di Cracovia e di Sandomierz, chiamati entrambi 'Kaviory', possano essere di origine kabaro-cazara" (7).
Per quanto concerne in particolare l'Ucraina, ai dati della toponomastica si possono aggiungere quelli antroponimici: a Kiev e a Odessa è attestato il cognome ebraico Kazarinsky. La presenza dei Cazari in Ucraina risale all'VIII secolo, quando il khanato cazaro portò i suoi confini occidentali alla valle del Dnepr; fin dagli inizi del X secolo una consistente comunità di ebrei cazari si installò a Kiev. "Già dal tempo di Igor, - scrive Solzhenitsyn - la città bassa si chiamava Kozary; Igor vi ha trasferito nel 933 i prigionieri ebrei da Kertch, nel 965 sono venuti prigionieri ebrei dalla Crimea, nel 969 cazari da Itil e Semender, nel 989 da Chersoneso, nel 1017 da Tmutarakan. Studiosi più recenti confermano l'origine cazara dell' 'elemento ebreo' a Kiev nell'XI secolo" (8). Sempre a Kiev, non più tardi del 930, cioè quando la città si trovava ancora sotto il dominio dei Cazari, fu scritta in ebraico la Lettera kievana, che è il più antico documento cazaro di cui attualmente si disponga (9).
Più che legittima appare perciò la conclusione che da questi e da altri dati trae Kevin Alan Brook: "è altamente probabile che i moderni Ebrei dell'Ucraina (ed altri Ebrei aschenaziti) siano in una qualche misura i discendenti [have at least some ancestry] degli Ebrei originari della Rus' kievana, Cazari inclusi (...) Tradizioni orali del secolo XIX fanno ritenere che discendenti dei Cazari abbiano continuato a vivere in Ucraina fino a tempi recenti" (10).
D'altronde già Avrakham Garkavi aveva sostenuto, nell'Enciclopedia Giudaica pubblicata a San Pietroburgo negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione d'Ottobre, che l'ebraismo russo è stato formato da "ebrei provenienti dalle rive del Mar Nero e dal Caucaso", i quali adottarono lo yiddish solo nel XVII secolo.
Una posizione analoga è quella espressa da Peter Golden in relazione all'origine cazara degli Ebrei della Lituania e della Russia Bianca: "E' molto probabile che elementi cazari giudaizzati, specialmente quelli che si erano acculturati nelle città, abbiano contribuito alla formazione delle comunità ebraiche slavofone della Russia kievana, le quali vennero definitivamente assorbite da Ebrei di lingua yiddish che dalla Polonia e dall'Europa centrale entrarono in Ucraina e in Bielorussia" (11).

1. Raphael Patai, The Jews of Hungary: History, Culture, Psychology, Wayne State University Press, Detroit, 1996, pp. 157 e 159-160.
2. Kevin Alan Brook, The Jews of Khazaria, Rowman & Littlefield Publ., Lanham-Oxford, 2006, p. 169.
3. Hansgerd Göckenjan, Hilfsvölker und Grenzwächter im mittelalterlichen Ungarn, Franz Steiner, Wiesbaden, 1972, pp. 40-41.
4. Monroe Rosenthal - Isaac Mozeson, Wars of the Jews: A Military History from Biblical to Modern Times, Hippocrene Books, New York, 1990, p. 224.
5. K. A. Brook, The Jews of Khazaria, cit., p. 164.
6. István Herényi, A magyar törzsszövetség törzsei és törzsföi [Le tribù e i capi tribali dell'alleanza tribale magiara], "Századok", 116, 1 (1982), pp. 68-70.
7. Arthur Koestler, La tredicesima tribù. Storia dei cazari dal Medioevo all'Olocausto ebraico, UTET, Torino, 2003, p. 115. Cfr. K. A. Brook, The Jews of Khazaria, cit., p. 172.
8. Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme. Ebrei e Russi prima della rivoluzione, Controcorrente, Napoli, 2007, vol. I, p. 15.
9. Norman Golb - Omeljan Pritsak, Khazarian Hebrew Documents of the Tenth Century, Cornell University Press, Ithaca, 1982.
10. K. A. Brook, The Jews of Khazaria, cit., p. 177.
11. Peter B. Golden, An Introduction to the History of the Turkic Peoples, Otto Harassowitz, Wiesbaden, 1992, pp. 243-244.


Scritto da Claudio Mutti il 18.07.2009.

sabato 5 settembre 2009

L'equivoco del semitismo e dell'antisemitismo






"In una capra dal viso semita"
(Umberto Saba, Ho parlato a una capra)






Pare sia stato lo storico tedesco August Ludwig von Schlözer (1735-1809) a coniare per la prima volta, nel 1781, l'aggettivo semitisch, per indicare il gruppo delle lingue (siriaco, aramaico, arabo, ebraico, fenicio) parlate da quelle popolazioni che un passo biblico (Gen. 10, 21-31) fa discendere da Sem figlio di Noè. Il neologismo venne accolto dalla comunità dei linguisti, tant'è vero che lo troviamo nel 1890 nelle Lectures on the comparative Grammar of the Semitic Languages di W. Wright (1830-1889), nel 1898 nella Vergleichende Grammatik der semitischen Sprachen di Heinrich Zimmern (1862-1931), fra il 1908 e il 1913 nel Grundriss der vergleichenden Grammatik der semitischen Sprachen di Carl Brockelmann (1868-1956).L'aggettivo "semitico" si riferisce perciò propriamente ai Semiti, ossia ad una famiglia di popoli che si è diffusa nella zona compresa fra il Mediterraneo, i monti d'Armenia, il Tigri e l'Arabia meridionale, per poi estendersi anche all'Etiopia ed al Nordafrica; come aggettivo sostantivato ("il semitico"), esso indica il gruppo linguistico corrispondente, il quale si articola in tre sottogruppi: quello orientale o accadico (che nel II millennio si divise a sua volta in babilonese e assiro), quello nordoccidentale (cananeo, fenicio, ebraico, aramaico biblico, siriaco) e quello sudoccidentale (arabo ed etiopico).Del tutto improprio è dunque l'uso dei termini "semita" e "semitico" come sinonimi di "ebreo" e di "ebraico", esattamente come sarebbe improprio dire "ariano" o "indoeuropeo" in luogo di "italiano", "tedesco", "russo" o "persiano". Ne consegue che altrettanto errato è l'uso di "antisemita", allorché con tale termine si vuole designare chi è "reo di antisemitismo" (1), cioè di quel "reato" che un autorevole vocabolario definisce nei termini seguenti: "avversione nei confronti del popolo ebraico, maturatasi di volta in volta in forme di persecuzione o addirittura di mania collettiva di sterminio, da una base essenzialmente propagandistica, dovuta a degenerazione di pseudoconcetti storico-religiosi, o a ricerca di un capro espiatorio da parte di politici e classi politiche impotenti" (2). Se usato correttamente, infatti, il vocabolo "antisemitismo" - coniato nel 1879 dal giornalista viennese Wilhelm Marr (3) - dovrebbe indicare l'ostilità nei confronti dell'intera famiglia semitica, la quale ha oggi la sua componente più numerosa nelle popolazioni di lingua araba, sicché la qualifica di "antisemita" risulterebbe più adatta a designare chi nutre avversione nei confronti degli Arabi, piuttosto che i "rei" di ostilità antiebraica. Ma l'inconsistenza della suddetta sinonimia ("semita" = "ebreo") risulta ancora più evidente qualora si rifletta sul fatto che gli Ebrei odierni non possono essere qualificati come "semiti", e ancor meno come "popolo semitico". Infatti, se l'appartenenza di un gruppo umano ad una più vasta famiglia deve essere stabilita in base alla lingua parlata dal gruppo in questione, allora un popolo potrà essere considerato semitico soltanto nel caso in cui esso parli una delle lingue semitiche enumerate più sopra, col risultato che oggi avranno il diritto di essere definiti semiti a pieno titolo gli Arabi e gli Etiopi, ma non gli Ebrei. È vero che dal 1948 l'ebraico (il neoebraico) è diventato lingua ufficiale della colonia sionista insediatasi in Palestina ed è compreso dalla maggior parte degli Ebrei che attualmente vi risiedono, ma si tratta di una lingua che era morta da oltre venti secoli e che solo nel Novecento è stata artificiosamente richiamata in vita. Gli Ebrei della diaspora, oggi come in passato, parlano le lingue dei popoli in mezzo ai quali si trovano a vivere, lingue che sono per lo più indoeuropee (inglese, spagnolo, francese, italiano, russo, farsi ecc.). Lo stesso yiddish, che si formò nel XIII secolo nei paesi dell'Europa centrale sulla base di un dialetto medio-tedesco e diventò una sorta di lingua internazionale in seguito alle migrazioni ebraiche, era pur sempre un idioma tedesco (4), anche se, oltre ad un vocabolario di base tedesco e slavo, conteneva un tasso elevato di elementi lessicali ebraici e veniva scritto in caratteri ebraici. È dunque evidente che gli Ebrei non costituiscono affatto un gruppo che, sulla base dell'appartenenza linguistica, possa esser definito come semitico. Possiamo allora considerarli semiti sotto il profilo etnico? Per rispondere affermativamente, bisognerebbe essere in grado di ricostruire la genealogia degli Ebrei e di ricondurla fino a Sem figlio di Noè. Cosa praticamente impossibile.Un fatto è certo: all'etnogenesi ebraica hanno contribuito elementi razziali di varia provenienza, acquisiti attraverso il proselitismo e quei matrimoni misti ("i matrimoni con le figlie di un dio straniero") contro i quali tuonavano inutilmente i profeti d'Israele. "A partire dalle testimonianze e dalle tradizioni bibliche, - scrive uno studioso ebreo - si deduce che perfino agli esordi della formazione delle tribù d'Israele queste erano già composte di elementi razziali diversi (...). A quell'epoca troviamo in Asia Minore, in Siria e in Palestina molte razze: gli Amorrei, che erano biondi, dolicocefali e di alta statura; gli Ittiti, una razza di carnagione scura, probabilmente di tipo mongoloide; i Cusciti, una razza negroide; e parecchie altre ancora. Gli antichi Ebrei contrassero matrimoni con tutte queste stirpi, come si vede bene in molti passi della Bibbia" (5).Secondo un autorevole geografo ed etnologo italiano, Renato Biasutti (1878-1965), "la questione della posizione antropologica o composizione razziale degli Ebrei non è infatti meno complessa e oscura" (6) di tante altre. "Una delle cause di ciò - egli spiega - sta nella difficoltà di raccogliere informazioni adeguate sui caratteri somatici di un gruppo etnico tanto disperso" (7). Occorre poi distinguere tra i gruppi ebraici dell'Asia e quelli dell'Europa e dell'Africa e, in particolare, tra i Sefarditi (il ramo meridionale della diaspora) e gli Aschenaziti (il ramo orientale). Se i Sefarditi si sono diffusi dal Nordafrica e dall'Europa mediterranea fino all'Olanda e all'Inghilterra, gli Aschenaziti hanno popolato vaste aree della Russia meridionale, della Polonia, della Germania e dei Balcani ed hanno fornito il contingente più numeroso al movimento colonialistico che ha dato nascita all'entità politico-militare sionista.Se per gran parte dei Sefarditi si può ipotizzare un'origine parzialmente semitica, benché non necessariamente ebraica (8), per quanto riguarda gli Ebrei aschenaziti, che rappresentano i nove decimi dell'ebraismo mondiale, le cose stanno in tutt'altra maniera, poiché la maggioranza di coloro che in età medioevale professavano il giudaismo erano cazari e "gran parte di questa maggioranza emigrò in Polonia, Lituania, Ungheria e nei Balcani, dove fondò quella comunità ebraica orientale che a sua volta divenne la maggioranza predominante dell'ebraismo mondiale" (9).L'affermazione di questa verità storica ha conseguenze devastanti sul mito sionista del "ritorno" ebraico in Palestina. È evidente infatti che, se la maggioranza degli Ebrei attuali trae origine dai Cazari, la pretesa sionista viene destituita del suo fondamento, poiché i discendenti slavizzati di un popolo turcico originario dell'Asia centrale non possono certamente vantare alcun "diritto storico" su una regione del Vicino Oriente.


1. Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader's Digest, Milano 1967, vol. I, p. 146. E' interessante notare che, mentre l'antisemita è "reo", ossia "colpevole di un reato", secondo lo stesso Devoto-Oli non sono affatto rei coloro che nutrono avversione nei confronti di altri gruppi umani. "Anticristiano" infatti significa semplicemente "ostile ai cristiani o alle loro dottrine" (op. cit., vol. I, p. 142); "antitedesco", chi è "storicamente o politicamente avverso ai tedeschi" (op. cit., vol. I, p. 147); perfino "antidemocratico" è agg. e s. m. che designa, senza esprimere giudizio di condanna, ogni "persona, atteggiamento o movimento che ostacola la democrazia, i suoi principi sociali e politici" (op. cit., vol. I, p. 142).
2. G. Devoto - G. C. Oli, op. cit., p. 146.
3. P. G. J. Pulzer, The rise of political anti-Semitism in Germany and Austria, Wiley, New York 1964, pp. 49-52.
4. Va detto però che alcuni studiosi contestano la matrice tedesca dello yiddish, ipotizzandone l'origine dalla rilessificazione di un dialetto sorabo parlato dai discendenti di nuclei balcanici (e probabilmente anche caucasici e slavo-avari) che si erano convertiti al giudaismo. "I do not accept - dichiara uno di loro - the common view that Yiddish is a form of German. I believe that Yiddish arose approximately between the 9th and 12th centuries when Jews in the mixed Germano-(Upper) Sorbian lands of present-day Germany 'relexified' their native Sorbian, a West slavic language" (Paul Wexler, Yiddish evidence for the Khazar component in the Ashkenazic ethnogenesis, in: The World of the Khazars. New Perspectives. Selected Papers from the Jerusalem 1999 International Khazar Colloquium hosted by the Ben Zvi Institute, edited by Peter B. Golden, Haggai Ben-Shammai and Andras Rona-Tas, Brill, Leiden-Boston, 2007, p. 388). A parere di Wexler, lo yiddish costituirebbe un'ulteriore conferma della presenza di una fondamentale componente cazara nell'etnogenesi aschenazita. Cfr. P. Wexler, The Ashkenazic Jews. A Slavo-Turkic people in search of a Jewish identity, Columbus, Ohio, 1993; Idem, Two-tiered relexification in Yiddish: the Jews, the Sorbs, the Khazars and the Kiev-Polessian dialect, Berlin-New York, 2002.
5. M. Fishberg, The Jews: A Study of Race and Environment, The Walter Scott Publ. Co., London-New York, 1911, p. 181.
6. Renato Biasutti, Le razze e i popoli della terra, vol. II (Europa - Asia), UTET, Torino, 1967, p. 563.
7. Ibidem.
8. Paul Wexler, The non-Jewish origins of the Sephardic Jews, Albany, 1996.
9. Arthur Koestler, La tredicesima tribù, UTET, Torino 2003, p. 119. Circa il contributo determinante dato dall’elemento cazaro all’etnogenesi del “popolo ebraico”, cfr. C. Mutti, Chi sono gli antenati degli Ebrei?, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitica”, a. VI, n. 2, maggio-agosto 2009.
Articolo scritto da Claudio Mutti su: claudiomutti.com
il 8.07.2009

venerdì 4 settembre 2009

Vergognoso silenzio della stampa europea






Stupisce come tutta la stampa europea, pronta a riempirsi di titoloni per le traversie del Dalai Lama (che vorrebbe tornare a fare il feudatario del Tibet aguzzino dei contadini tibetani e delle loro mogli e dei loro figli) o per gli arresti domiciliari alla ineffabile agente della Cia in Birmania signora Aung che ha avuto la tracotanza di ricevere nella sua abitazione un nuotatore "americano" portatore di un messaggio onirico inviatogli dagli Dei di oltre atlantico ...) non dica una sola parola, non esprima una opinione, si limiti al massimo a registrare con caratteri piccini piccini la polemica tra Svezia e Israele.Naturalmente fa eccezione il glorioso giornale svedese, alfiere di libertà nella libera Svezia educata alla civiltà ed alla umanità da oltre un secolo di socialismo che ha inciso profondamente nella coscienza del popolo facendone una nazione veramente civile
E se la rottamazione dei palestinesi e la loro riduzione in organi da espiantare e vendere fosse vera come gridano inutilmente, nel silenzio assordante del mondo, le madri palestinesi?
La stampa occidentale ha la bocca tappata. Se qualcuno sgarra viene subito etichettato come antisemita e, se è giornalista, viene lasciato morire di fame con la sua famiglia dal momento che nessun giornale dal Corriere della Sera al Figarò di Parigi vorrebbe nella sua redazione un "antisemita" ...Lo stesso silenzio assordante circonda le mille bombe nucleari di Israele mentre viene contestato al pacifico Iran che non ha MAI aggredito nessuno (a differenza di Israele) il proposito di dotarsi di energia e forse di bombe nucleari ...




di Pietro Ancona: pubblicsto su mondoarabo.it

giovedì 3 settembre 2009

Parc du Chateau - Karim Ramadan


lunedì, 24 agosto 2009

E`iniziato alla grande il nostro Ramadan quest`anno, con una meravigliosa sfacchinata lassù, sul Parc du Chateau, il parco più vicino a casa - ehm, si fa per dire "vicino"- tanto che il giorno dopo non ci siamo mosse di casa e sembrava un`impresa anche andare a telefonare al taxi phone appena sotto. L`acqua dell`iftar di sabato sera è stata la cosa più buona che abbia mai bevuto!Insomma sì, siamo arrivate. E abbiamo già piantato le tende, anche. Finalmente libera di rotolarmi per la strada con un jilbeb improvvisato, contenta e impacciata come mai, incredula di scoprire che l`Islam delle nuvole non sta più lassù, lontano, ideale, sognato e irraggiungibile, ma sta qui, dentro la mia vita vera, qui sulla terra, sulla terra ferma, nonostante tutto e tutti e nonostante me. Mashallah! Davvero molto "karim", questo ramadan!
Foto presa da qui.



postato da: ksakinah alle ore 23:31 su Arabeschi. Splinder
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